Carlo VIII
A Carlo di Valois (Amboise 1470 ivi 1498), re a 13 anni e morto a 28, toccò uno strano e ambiguo destino: educato lontano dalla corte di Francia, a lungo poco presente nel governo del Regno (per motivi ovvi di età, ma anche perché sua sorella Anna fu una reggente di polso fino al 1491), è famoso soprattutto per gli ultimi quattro anni della sua vita, segnati dall’avvio delle avventure della monarchia francese nella penisola italiana con l’inizio delle «horrende guerre d’Italia», mentre per la Francia furono più durature le conseguenze delle prime guerre del suo Regno contro il ducato di Bretagna, tra il 1487 e il 1491, che portarono a un rafforzamento dell’unità del Regno, con la sconfitta definitiva del duca d’Orléans e l’integrazione di quel ducato nel territorio francese (grazie anche al matrimonio di C. con la duchessa Anna di Bretagna).
Tuttavia, alla fine dell’estate del 1494, la partenza del re alla testa dell’esercito per il «voyage de Naples», come allora si diceva, non era scontata: dalla metà del 13° sec. nessun re francese aveva lasciato il proprio regno per una conquista militare. C. ispirò – ma si direbbe meglio promosse – una serie di testi nei quali, con accenti profetici, egli era presentato come l’imperatore degli ultimi tempi, in nome della ripresa dell’eredità lontana di un altro Carlo, Carlomagno, il quale aveva preteso a sua volta di essere un ‘liberatore’ dell’Italia e della Chiesa dai ‘tiranni’. Da parte degli italiani, invece, la raffigurazione di C., pur essendo diffusa in tutte le fonti coeve, da Marin Sanudo a Francesco Guicciardini, presenta delle costanti negative nel sottolinearne la bruttezza del viso, la mancanza di carisma, la propensione ad ascoltare troppo i suoi consiglieri e la volubilità giovanile. Il ritratto poco lusinghiero del sovrano francese nei testi italiani, che suscitò l’ira degli storici e dei giuristi francesi nel secondo Cinquecento, non intaccò mai, però, il riconoscimento della svolta epocale che la campagna militare del 1494-95 cagionò nella storia della penisola: tale riconoscimento appare chiaramente, tra gli altri, in Guicciardini, che alla morte del sovrano traccia un consuntivo sul suo ruolo concludendo che «aveva con maggiore impeto che virtù turbato il mondo» (Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, 1971, p. 333). Una considerazione analoga è presente anche in vari passi delle opere maggiori di M., in cui la calata di C. è individuata come un discrimine netto tra un ‘prima’ e un ‘dopo’ – «Avanti che Carlo re di Francia passassi in Italia, era questa provincia sotto lo imperio del papa, Viniziani, re di Napoli, duca di Milano e Fiorentini» (Principe xi 6) – o un evento fatale, addirittura preannunziato da prodigi:
E per non mi discostare da casa nel provare questo, sa ciascuno quanto da frate Girolamo Savonerola fosse predetta innanzi la venuta del re Carlo VIII di Francia in Italia; e come, oltre a di questo, per tutta Toscana si disse essere sentite in aria e vedute genti d’armi, sopra Arezzo, che si azzuffavano insieme (Discorsi I lvi 3; cfr. anche Arte della guerra VII 237).
La campagna italiana del giovane C. venne accuratamente preparata con una serie di trattati di pace (con la Spagna, l’Inghilterra e l’imperatore Massimiliano) che lasciava al re le mani libere per un intervento mirante a conquistare il Regno di Napoli, in nome dell’eredità angioina e della preparazione di una futura crociata per riconquistare Gerusalemme (giustificazione molto presente nella pubblicistica francese di quegli anni, ma derisa dalla maggior parte delle fonti italiane). Le divisioni tra gli Stati italiani, ma anche la politica solitaria di Lodovico il Moro, agevolarono non poco la spedizione di C., come verrà segnalato da tutti gli storici contemporanei. Anche nel Principe si criticano a questo proposito «i peccati» dei principi:
Onde che a Carlo re di Francia fu lecito pigliare la Italia col gesso; e chi diceva come e’ n’erano cagione e’ peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quegli ch’e’ credeva, ma questi che io ho narrati; e perché gli erano peccati di principi, ne hanno patito le pene ancora loro (Principe xii 9).
Fulminea, la progressione dell’imponente esercito francese (il quale contava probabilmente poco meno di 30.000 soldati) non incontrò grande resistenza: a metà novembre, dopo che i Medici erano stati cacciati, il re entrava in Firenze in assetto di guerra; a fine dicembre il suo esercito attraversava Roma e alla fine di febbraio del 1495 avveniva l’ingresso trionfale a Napoli. A proposito di questa campagna, il detto di Alessandro VI, ripreso da Philippe de Commynes, secondo il quale la conquista dell’Italia avvenne «col gesso», viene riproposto – come abbiamo visto – anche da M. nel Principe, intendendo con ciò il gesto con il quale venivano segnate con croci bianche le porte delle case requisite come residenze per i capitani dell’esercito.
Ma non è privo di significato il fatto che M. si soffermi ben poco sul ruolo della campagna francese nella ribellione di Pisa, nonostante essa sia stata una spina nel fianco della Repubblica fiorentina e abbia occupato buona parte dell’attività politica del Segretario tra il 1498 e il 1509. Vi allude infatti soltanto di sfuggita quando ricorda i «tempi della guerra che fu tra i Fiorentini e quella città, per la sua ribellione dopo la passata di Carlo re di Francia in Italia» (Discorsi II xvi 30). E non si sofferma neanche sul ruolo di quella guerra nella cacciata dei Medici e nelle nuove istituzioni repubblicane. L’unica eccezione si trova nel primo Decennale, là dove lamenta il fatto che «così tutta Toscana si scompiglia; / così perdesti Pisa e quelli stati / che dette lor la Medica famiglia» (vv. 22-24).
Alla fine del mese di marzo 1495 venne stretta una lega fra tutti gli Stati italiani con esclusione della Firenze savonaroliana, che rimase fedele all’alleanza francese. Di conseguenza cambiò l’equilibrio delle forze, e C. venne costretto a tornare in Francia, per non essere bloccato in fondo alla penisola. Lasciando poche truppe nel Regno di Napoli, C. risalì velocemente la penisola fino al Nord della Toscana, dove l’aspettava un potente esercito ‘italiano’ per bloccargli il passo. La battaglia di Fornovo (6 luglio 1495), lungo il fiume Taro, è stata la prima vera battaglia delle guerre d’Italia, e la prima combattuta direttamente da re Carlo. L’esito è stato spesso discusso: l’esercito della lega, guidato dal marchese di Mantova Francesco Gonzaga, rimase padrone del terreno e di una buona parte dei bagagli dell’esercito francese (il marchese, per celebrare l’evento, commissionò ad Andrea Mantegna la Madonna della vittoria, conservata oggi al museo del Louvre), ma C., nonostante la sua schiacciante inferiorità numerica (meno di 10.000 soldati contro i 26.000 della lega), riuscì quel giorno ad aprirsi la via verso la Francia. Ciononostante, M. non diede molto spazio nei suoi scritti a questa battaglia (a differenza, per es., di quella di Ravenna). Ancora una volta l’eccezione è il primo Decennale:
E però, giunto con sue genti a Siena / sendo cacciato da più caso urgente, / n’andò per quella via ch’a Pisa il mena; / dove già di Gonzaga il furor sente, / e come ad incontrarlo sopra ’l Taro / avea condotto la Marchesca gente. / Ma quei robusti e furiosi urtaro / con tal virtù l’italico drappello, / che sopra ’l ventre suo oltre passaro. / Di sangue il fiume pareva, a vedello, / ripien d’uomini e d’arme e di cavagli / caduti sotto al gallico coltello. / Così l’italian lasciaro andagli / e lor senza temer gente avversara / giunson in Asti e sanza altri travagli (vv. 79-93).
Risulta chiaro, in questo passo di uno dei primi scritti di M., che Fornovo è considerata da lui come una vittoria francese nella misura in cui C. riuscì in ciò che voleva fare, ossia aprirsi una strada verso la Francia. Di ritorno in patria, il re non rinunciò mai a una nuova calata in Italia, ma la morte lo colse il 7 aprile 1498, in quello stesso castello dov’era nato.
La consapevolezza del tempo tutto sommato ristretto della permanenza del giovane re in Italia (cfr. Principe iii 31) porta a non fare di C. un esempio centrale nella riflessione di Machiavelli. Contò senz’altro per questa scelta il fatto che la morte del re avvenne prima che M. entrasse davvero in politica. A spiegare questo relativo offuscamento di C. ebbero pure un ruolo i «portamenti di re Carlo», come viene sottolineato nel confronto con Luigi XII, il quale, appunto per questi «portamenti» del predecessore non aveva «in questa provincia amici» e vedevasi «serrate tutte le porte» (Principe iii 33). La propensione dell’esercito francese a scatenare inedite violenze belliche, in un’esplicita strategia di massacri per dare l’esempio e affinché venisse tolta alle città ancora da conquistare qualsiasi velleità di resistenza, aveva colpito i contemporanei. M. ne trasse le conseguenze dal punto di vista strategico, non da quello morale: C. aveva tolto «reputazione» al regno di Francia non tanto per le stragi, quanto piuttosto per la durata effimera del suo dominio, sfumato immediatamente dopo il ritorno in patria; quella reputazione che, invece, Luigi XII riuscì a ristabilire (Principe iii 34: «Acquistata, adunque, el re la Lombardia, si riguadagnò subito quella reputazione che li aveva tolta Carlo»). Ora, la reputazione del sovrano era appunto una delle virtù che assicurava la coesione e la forza della compagine statale. Infine, uno dei motivi dell’ostilità machiavelliana nei confronti di C. fu anche senz’altro il fatto che all’inizio della guerra di Pisa «quel re mostrò la poca fede, e l’assai avarizia sua»: «ognuno sa quante volte si dette danari a re Carlo, ed elli prometteva rendere le fortezze di Pisa, e non mai le rendé» (Discorsi III xliii 7-8). Sarà invece un altro Carlo, il VII re con questo nome, nonno di C., a essere lodato da M. per la sua invenzione di «armi proprie» alla francese:
il regno di Francia sarebbe insuperabile, se l’ordine di Carlo era accresciuto o preservato; ma la poca prudenza delli uomini comincia una cosa, che, per sapere allora di buono, non si accorge del veleno che vi è sotto, come io dissi, di sopra delle febbre etiche (Principe xiii 23).
Lamentando il poco interesse dei re di Francia suoi contemporanei per una fanteria propria, M. notava già nel Ritratto di Francia che: «se le fanterie fussino della bontà che sono le gente d’arme franzese, non è dubio che li basteria l’animo a defendersi da tutti e’ principi» (§ 21).
Quanto alla seconda spedizione italiana dei re di Francia, fu il successore di C. ad attuarla, molto rapidamente, fin dal 1499. Il duca d’Orléans, appartenente a un ramo cadetto dei Valois e che prese il nome di Luigi XII, si guadagnò in questo modo un ruolo di protagonista indiscusso nella riflessione del Principe, mentre di C. furono considerati solo, nel giudizio di M., i poco efficaci «portamenti» e l’operato storicamente poco incisivo. Nondimeno, viene ribadito con insistenza il fatto che il giovane re inaugurò una nuova epoca per la penisola e per l’Europa, essendo ricordato per lo più a questo titolo nelle opere maggiori di M. (Principe xi 6; Discorsi I lvi 3, II xvi 30; Arte della guerra VII 232), che lo cita anche sia nella prima scena della Mandragola,
E perché in capo di dieci cominciorono, per la passata del re Carlo, le guerre in Italia, le quali ruinorono quella provincia, deliberai di vivermi a Parigi e non mi ripatriare mai, giudicando potere in quel luogo vivere più sicuro che qui,
sia all’inizio della Clizia. In entrambi i casi i riferimenti a C. fungono più che altro da indizio cronologico per segnare l’inizio di un nuovo periodo storico. Niente disse M. delle pretese imperiali e dei nuovi sogni di crociata del giovane re francese (cfr. Haran 2001 e Le Fur 2006). Carlo VIII rimase quindi per M. una specie di pietra miliare della storia più che un suo protagonista.
Bibliografia: Lettres, éd. P. Pélicier, 5 voll., Paris 1898-1905. Si vedano inoltre: M. Sanudo, La spedizione di Carlo VIII in Italia, a cura di R. Fulin, Venezia 1873; F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Torino 1971; Ph. de Commynes, Mémoires, éd. J. Blanchard, Genève 2007.
Per gli studi critici si vedano: H.F. Delaborde, L’expédition de Charles VIII en Italie. Histoire diplomatique et militaire, Paris 1888; G. Cadoni, Machiavelli, Regno di Francia e «principato civile», Roma 1974; Y. Labande-Mailfert, Charles VIII et son milieu. La jeunesse au pouvoir, Paris 1975; A. Denis, Charles VIII et les Italiens, Genève 1979; C. De Frede, «Più simile a mostro che a uomo»: la bruttezza e l’incultura di Carlo VIII nella rappresentazione degli italiani nel Rinascimento, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1982, 44, pp. 545-85; A.Y. Haran, Le lys et le globe. Messianisme dynastique et rêve impérial en France aux XVIe et XVIIe siècles, Seyssel 2001; D. Le Fur, Charles VIII, Paris 2006.