CARTAGINE (fenicio Qart Ḥadasht; gr. Καρχηϑών; lat. Carthāgo)
La più famosa e potente tra le colonie fenicie dell'Africa settentrionale.
Cartagine punica.
Storia. - Le origini e le prime lotte coi Greci. - La colonia fondata dai Tirî sul golfo che si apre nella costa settentrionale dell'Africa tra i capi Ermeo e Bello (golfo di Tunisi) non fu tra le prime colonie fenicie dell'Africa. Certo fu più antica Utica; ed è possibile, sebbene non sicuro, che in relazione appunto con Utica le fosse dato il nome di "Città nuova". Meno verosimile è infatti che Tiro, fra le tante sue colonie, desse specificamente questo nome a una di esse che nel momento della fondazione non appariva fra le più importanti.
La fondazione risale, secondo l'erudito storico siciliano Timeo di Tauromenio all'814 a. C., e tale data, che ha anche una conferma da altra fonte (Menandro di Tiro), può ritenersi approssimativamente esatta.
I Greci, i quali ignoravano il significato del nome, non mancarono di labbricarne l'eponimo e a Carchedone e ad Azoro (l'eponimo di Ṣōr: Tiro) attribuirono la fondazione della città. Ma questa leggenda non poteva naturalmente essere accolta dagl'indigeni. Ebbe invece più larga diffusione la leggenda indigena di Elissa, probabilmente un'ipostasi della dea Tanit, che avrebbe fondato Cartagine fuggendo da Tiro dopo che il re Pigmalione fratello di lei ne aveva ucciso il marito Sicherba (Sicheo). Elissa avrebbe ottenuto dagl'indigeni tanto terreno quanto potesse coprirsene con una pelle di bue, e tagliando la pelle in pezzi sottilissimi avrebbe acquistato tutto quel luogo che col nome di Byrsa ("luogo fortificato") costituì la rocca della città. Quest'ultima è una leggenda etimologica greca dovuta a una falsa etimologia di quel nome, che in greco significa appunto pelle (βυρσα). D'origine probabilmente indigena e sacrale è il rimanente della leggenda, secondo cui Elissa perì sul rogo volontariamente per evitare le nozze del re libico Iarba. Sembra che soltanto nell'età delle guerre puniche Elissa fosse anacronisticamente associata con Enea, reduce da Troia, dal poeta romano Nevio. Il nome di Didone, che compare a preferenza di quello di Elissa nella leggenda romana, sembra anch'esso antico e fenicio.
Cartagine sorgeva nella penisoletta triangolare tra il mare e il lago di Tunisi, collegata al retroterra da un istmio collinoso. La sua postura estremamente favorevole, che le dava piena sicurezza dagl'indigeni e ne favoriva il commercio con tutto il bacino del Mediterraneo fece che a poco a poco s'ingrandisse e si popolasse e oscurasse tutte le colonie fenicie d'occidente. Ma ciò avvenne assai lentamente. Dal lato di terra Cartagine fino al secolo V non ebbe che un territorio assai ristretto e per assicurarselo dovette pagar tributo agl'indigeni. Dalla parte del mare la sua espansione, come quella di Venezia, cominciò parecchio prima che nella terra ferma. Il primo documento che ne abbiamo è nella colonizzazione di Ebuso (Iviza), che spetta al 654. Frattanto, declinando la potenza di Tiro, che aveva soggiogato alle monarchie degli Assiri e dei Caldei prima e poi dei Persiani, le colonie fenicie d'occidente non riuscivano, l'una isolata dall'altra, a difendersi contro l'espansione greca, vigorosissima nel Mediterraneo occidentale tra il sec. VIII e il VI. Esse si strinsero in lega l'una dopo l'altra con Cartagine, divenuta la più florida, e sorse così nel sec. VI l'impero cartaginese. Il cartaginese Malco, circa la metà del sec. VI combatté con fortuna in Libia e in Sicilia e meno felicemente in Sardegna. Quando Malco perì, accusato di aspirare alla tirannide, gli succedette nel comando Magone, riguardato come fondatore dell'impero, al quale, probabilmente dal sec. VI, apparteneva nella Spagna Gades (Cadice), antichissima colonia fenicia; e, sopraffatta la focese Menace, i Cartaginesi, fondata Malaca (Malaga), assicurarono il predominio fenicio nella Spagna meridionale e impedirono ai Greci di navigare oltre le colonne d'Ercole (stretto di Gibilterra), riservando a sé il monopolio del commercio tartessio. Si spinsero poi i Cartaginesi sulle sponde dell'Atlantico con la spedizione di Imilcone verso il nord e con quella di Magone verso il sud, che servì a esplorare le coste del Marocco e a fondarvi una serie di stazioni commerciali. Già prima sulle sponde della Sardegna essi si erano assicurati le stazioni di Nora (Nuoro), Sulci, Olbia e Tharros e dominavano su buona parte delle tribù indigene del mezzogiorno dell'isola. In Sicilia ad essi facevano capo le colonie di Mozia, Panormo e Solunto; nell'Africa le colonie che diedero il nome alla Tripolitania, Sabratha, Oca e Leptis Magna, la maggiore tra esse, erano entrate in lega con Cartagine; inoltre Leptis Minore, Adrumeto, Utica e le due Ippone (Biserta e Bona), col gruppo di colonie fenicie o cartaginesi più a occidente, che i Greci conoscevano col nome di città metagonitiche, e, sulla costa marocchina, Lixus, a 120 km. a sud-ovest di Ceuta.
Mediante l'adesione di queste città alla loro lega i Cartaginesi si trovarono in grado di resistere efficacemente ai Greci. Così frustrarono il tentativo di Pentatlo per stabilirsi nell'occidente della Sicilia. E poi circa il 540, con l'aiuto degli Etruschi, impegnarono battaglia contro l'armata navale dei Focesi che nella Corsica avevano fondato Alalia (Aleria). La vittoria fu dei Focesi, ma fu pagata a tale prezzo da indurli a ripiegare nell'Italia meridionale, dove fondarono Velia, lasciando indisturbati gli Etruschi nella Corsica e i Cartaginesi nella Sardegna. Dopodiché i Cartaginesi, collegati con gli Elimi, riuscirono a rendere vano il tentativo dello spartano Dorieo per stabilirsi nell'estremo occidente della Sicilia. Quando poi Gelone di Siracusa tentò di costituire nella Sicilia greca uno stato unitario, i Cartaginesi, con l'aiuto di quei Greci che mal soffrivano l'egemonia siracusana, e in particolare di Anassilao signore di Reggio e Messina, e di Terillo tiranno di Imera discacciato da Terone signore di Agrigento e alleato di Gelone, mossero guerra a Gelone e lo affrontarono in battaglia campale presso Imera ricevendo una terribile sconfitta (480 circa).
Dalla battaglia d'Imeri alla prima guerra punica. - Da allora per lunghi anni i Cartaginesi, pur conservando le loro tre colonie nella Sícilia occidentale, non intervennero più nelle cose di Sicilia. Intanto estesero la loro autorità nella terraferma africana, riducendo sotto la loro diretta signoria un territorio di circa 50.000 kmq. e liberandosi da ogni dipendenza verso gli indigeni. Col territorio delle colonie fenicie di Africa, l'impero africano dei Cartaginesi si estendeva per circa 70.000 kmq. e aveva 3-4 milioni di abitanti, di cui non più di un quarto o un quinto di origine fenicia e il resto indigeni. Questo periodo di raccoglimento ebbe termine dopo la grande spedizione ateniese di Sicilia (415-413 a. C.). Allora gl'indigeni dell'estremo occidente dell'isola, gli Elimi, che avevano sempre tenuto testa ai Sicelioti e che contro di essi avevano chiamato gli Ateniesi, si rivolsero per aiuto a Cartagine, e Cartagine credette necessario d'intervenire per difendere offensivamente quei possessi che le rimanevano in Sicilia. La grande spedizione del 409 portò alla distruzione di Selinunte e di Imera. Con la successiva spedizione del 406 i Cartaginesi distrussero Agrigento, Gela e Camarina, e costrinsero Dionisio, il quale, col favore della contingenze, appunto per organizzare la difesa dell'elemento greco, aveva assunto in Siracusa la tirannide, a una pace che abbandonava ad essi tutta la Sicilia greca, salvo le sponde orientali dell'isola (405).
Ma questa pace non era per Dionisio che una tregua. Egli considerava come sua missione e giustificazione della sua tirannide la lotta per l'indipendenza contro i semiti. E nel 398, chiamati alla riscossa î Greci, iniziò la guerra con Cartagine. Per un momento parve che egli fosse sul punto di ridurre a unità tutta la Sicilia, compresa la parte cartaginese in cui espugnò e distrusse la colonia di Mozia. Ma poi i Cartaginesi, presa e distrutta Messana, vinto Dionisio in una grande battaglia navale presso Catania, lo assediarono in Siracusa (397). L'assedio, in cui Siracusa ebbe soccorsi da Sparta, terminò, come l'assedio ateniese, con la distruzione dell'esercito assediante (396). Ma questa distruzione non ebbe gli effetti che ebbe per Atene il disastro di Nicia. Cartagine iniziò un'altra spedizione, e la guerra finì nel 392 con un compromesso, che lasciò ai Cartaginesi le città fenicie ed elime dell'estrenno occidente dell'isola; alla distrutta Mozia fu sostituita Lilibeo (Marsala), che fu poi la più valida fortezza cartaginese di Sicilia. A Dionisio i Cartaginesi avevano dovuto abbandonare la loro colonia di Terme (Termini Imerese) sostituita alla distrutta Imera.
Ma anche questa pace non era per Dionisio che una tregua, ed egli riprese nel 383 la guerra per cacciare i Cartaiinesi dall'isola. Questa volta i Cartaginesi trovarono alleati in taluni dei Greci d'Italia che non volevano soggiacere all'egemonia siracusana; e di questi anni è il loro primo intervento nella nostra penisola, ove ricostruirono la colonia greca di Ipponio (379). In Sicilia la guerra si combatté con varia fortuna, e dopo una vittoria presso Cabala il tiranno fu disfatto a Cronito e dovette acconciarsi (274) a una pace che assegnata alla provincia cartaginese tutto il territorio a occidente dell'Alico (Platani). Con indomita tenacia pochi anni dopo il tiranno iniziò la sua quarta guerra contro Cartagine (367), ma la morte lo colse poco dopo (366), e il successore Dionisio il Giovane si affrettò a far pace con i Cartaginesi, lasciandoli indisturbati nella loro provincia siciliana. Questo abbandono della causa nazionale ellenica contribuì al successo dell'impresa di Dione per la restaurazione della libertà in Sicilia (257). Ma l'effetto della impresa di Dione fu una totale anarchia, della quale profittarono i Cartaginesi per allargare nuovamente il loro dominio nell'isola. Le cose mutarono quando il corinzio Timoleone intervenne in Sicilia (344) sforzandosi di restaurarvi ordine e libertà. Impauriti dal buon successo del tentativo di Timoleone, i Cartaginesi inviarono nell'isola un esercito considerevolissimo, ma Timoleone riuscì a batterli nella battaglia del Crimiso (341), una delle più terribili sconfitte che i Cartaginesi avessero sofferto fino allora. E tuttavia il rinnovarsi subito dopo delle dissensioni tra i Greci di Sicilia impedì a Timoleone di raccogliere appieno il frutto della sua vittoria; e la pace che seguì lasciò i Cartaginesi nel tranquillo possesso della loro provincia oltre l'Alico (339).
La lotta dei Greci contro i Cartaginesi riarse non appena un audace avventuriero, Agatocle, rovesciando il governo repubblicano si fu impadronito del potere in Siracusa (317). La grande guerra s'iniziò quando il tiranno mosse contro Agrigento, cercando d'impadronirsene (312-11). Sconfitto nella battaglia campale dell'Ecnomo e assediato in Siracusa Agatocle con un'audacissima diversione portò la guerra in Africa (310) e, chiamando a ribellione i sudditi cartaginesi, mise in pericolo la stessa Cartagine; poi tornò in Sicilia per restaurarvi le sue sorti, lasciato in Africa l'esercito greco al comando del figlio Arcagato. Ma i Cartaginesi profittarono della sua assenza per ridurre i Greci in gravissime distrette, talché non potè più salvarli neppure lo stesm Agatocle tornato rapidamente in Africa. Tuttavia frattanto î Cartaginesi che assediavano Siracusa erano stati sbaragliati, sicché invece di profittare della vittoria ottenuta in Africa per fiaccare l'ellenismo siciliano, essi preferirono venire a patti con Agatocle (306), assicurandosi nuovamente il possesso della loro antica provincia siciliana. Anche Agatocle, come Dionisio, spese la sua vita preparando la guerra di riscossa; ma anch'egli morì (289-88), prima di averla potuta effettuare. Con la sua morte la Sicilia piombò nell'anarchia, aggravata dallo stabilirsi in Messina dei mercenarî italici d'Agatocle detti Mamertini. Di quest'anarchia profittarono i Cartaginesi per tentare di conquistare l'intera isola e mossero contro Siracusa, dove Tenone e Sosistrato si contendevano il potere.
Parve questa volta che l'isola intera stesse per cadere sotto il dominio punico; ma in quel momento era in Italia con un agguerrito esercito di Epiroti il re Pirro, che aveva vinto i Romani in due battaglie difendendo contro di essi i Tarentini. Chiamato al soccorso dai Greci di Sicilia, si preparò a intervenire mercé un accordo con Roma. Ma indusse i Romani a rompere ogni trattativa con lui l'ammiraglio cartaginese Magone che si presentò con una armata alle foci del Tevere e offerse ai Romani l'alleanza di Cartagine. L'alleanza romano-cartaginese non valse però a trattenere in ltalia Pirro il quale, ingannando la squadra cartaginese, che sorvegliava lo stretto di Messina, sbarcò a Tauromenio (278) e, chiamando alla riscossa i Greci di Sicilia contro lo straniero, riportò successi notevolissimi (277) e riuscì a strappare ai Cartaginesi tutti i loro possessi tranne Lilibeo. Il re si preparava a portare la guerra in Africa, come Agatocle, quando il malcontento dei Greci di Sicilia contro di lui per le leve e le esazioni scoppiò così vivo che abbandonò senz'altro l'isola (276). I Cartaginesi riguadagnarono terreno; ma avevano perduto l'ultima occasione di dominare su tutta l'isola.
Per più di due secoli pertanto Cartaginesi e Greci avevano accanitamente combattuto e consumate le loro forze per il possesso della Sicilia. Anzi, la storia cartaginese di questo periodo può dirsi che si riduca per noi alla storia di siffatte guerre con i Sicelioti, sia perché effettivamente Cartagine v'impegnò le sue maggiori energie, sia perché noi conosciamo la storia cartaginese da fonti greche, cioè da scrittori ai quali poco interessavano, in confronto delle guerre in Sicilia, le lotte con gl'indigeni d'Africa e di Spagna. D'altronde queste guerre tra Arî e Semiti per il possesso della Sicilia hanno nella storia della civiltà antica un'importanza non lieve. Con smisurati sacrifizî e con indomabile energia i Greci hanno salvato dal dominio orientale l'isola, serbandola a prezioso avamposto della civiltà occidentale. E quando, esauriti e sopraffatti essi stessi dall'impari lotta contro un nemico assai superiore per numero e assai più saldamente organizzato, erano sul punto di cedere, sopravvenne a prendere il loro posto un altro popolo ario, il romano. Non può d'altra parte non riconoscersi che anche Cartagine ha profuso instancabilmente per il possesso della Sicilia le sue energie e ha ottenuto nella lotta risultati durevoli, per quanto negativi, nella storia della civiltà. Agrigento per esempio, uno dei centri più floridi della civiltà ellenica, non è mai più risorta all'antica grandezza dopo l'assedio del 405. Nella lunga lotta i Cartaginesi molto hanno imparato dai loro avversarî quanto a ordini militari; e di tali ammaestramenti si sono poi valsi nelle guerre contro Roma; ma, a differenza di quello dei Romani, il loro spirito, nonostante i contatti molteplici, è rimasto impervio alle maggiori conquiste della civiltà greca. La resistenza opposta dai Greci a un nemico per tanti rispetti assai più forte di loro appare quasi miracolosa. Essa è dovuta in gran parte alla superiorità dei loro ordinamenti militari, quella stessa superiorità che ai Greci d'oriente ha finito col dare piena vittoria sull'impero persiano. Questa superiorità dei Greci sui Persiani è rimasta identica dai tempi di Serse a quelli di Alessandro Magno per l'incapacità dei Persiani ad adottare ordinamenti germogliati nel clima spirituale della polis. Invece la superiorità militare dei Greci di Sicilia sui Cartaginesi è diminuita a grado a grado perché i Cartaginesi, entro certi limiti occidentalizzandosi, erano divenuti capaci di strappare a poco a poco ai Greci il segreto della loro superiorità tattica.
Le notizie che per questo periodo abbiamo su ribellioni di Libi o su altre vicende africane sono troppo scarse per costruirne un racconto storico. Dobbiamo però credere che, malgrado le ribellioni, Cartagine in Africa andasse acquistando terreno; non moltissimo, perché Teveste a sud fu conquistata soltanto durante la prima guerra punica. Sembra d'altra parte che, troppo assorbita dalla difesa del proprio territorio e delle colonie di Sicilia, Cartagine lasciasse decadere le Colonie sulla sponda atlantica del Marocco e ridursi in limiti sempre più ristretti il suo dominio spagnolo. Delle sue relazioni commerciali nel Mediterraneo occidentale in questo periodo ci fanno testimonianza i due suoi primi trattati con Roma, che precedettero il terzo, quello concluso al temp0 di Pirro; del primo di questi trattati la data è estremamente controversa, da alcuni, a cominciare da Polibio, venendo esso riferito a quello che secondo la tradizione fu il primo anno della repubblica, il 509; da altri, a cominciare da Livio, al 348. Questa seconda opinione sembra per molte ragioni preferibile, la connessione col consolato di Bruto essendo evidentemente artificiosa. Il primo trattato, che non differisce sostanzialmente dal secondo concluso sullo scorcio del sec. IV, ci mostra come i Cartaginesi si ascrivessero il predominio del Mediterraneo occidentale e in parte delle coste di esso pretendessero addirittura un monopolio commerciale, riconosciuto dai Romani, che non avevano ancora una forte marina da guerra.
Le guerre con Roma. - L'intervento romano in Sicilia fu determinato dalla lotta tra il nuovo signore di Siracusa Gerone e i Mamertini. Disfattili presso il fiume Longano, egli minacciò la stessa Messina. I Mamertini si rivolsero per aiuto ai Cartaginesi, che inviarono un presidio a Messina. Ma una parte dei Mamertini chiese anche l'aiuto di Roma, la quale, unificata la penisola italiana, non volendo che sullo stretto si stabilissero né i Cartaginesi né i Siracusani, accettò di buon grado l'alleanza mamertina. A un ufficiale romano riuscì di occupare Messina e di farne uscire il presidio cartaginese (264). Da ciò ebbe inizio la prima guerra romano-cartaginese, conosciuta col nome di prima punica, perché i Cartaginesi e Gerone, impensieriti per l'intervento romano nell'isola, deposta la vecchia inimicizia, si strinsero in lega contro Roma e assediarono Messina per terra e per mare. Ai Romani riuscì d'introdurre forze sufficienti in Messina e con queste di stancare e forse anche vincere in campo gli assedianti. Ad ogni modo i Cartaginesi e Gerone, anche per discordie insorte tra loro, lasciarono l'assedio, credendo forse con ciò finita la guerra. Ińvece i Romani procedettero subito offensivamente contro Gerone e lo costrinsero a una pace vantaggiosa per Roma (263); poi attaccarono col massimo vigore i Cartaginesi e i loro alleati Greci. La federazione italica capeggiata dai Romani era tanto superiore, per numero di popolazione cittadina e alleata atta alle armi e per saldezza di compagine, all'impero cartaginese, quanto a un dipresso l'impero cartaginese era superiore alle colonie greche di Sicilia, sicché non deve far meraviglia la vittoria finale di Roma, bensì piuttosto che i Cartaginesi siano riusciti a ritardarla così a lungo. Questo si deve alla tenacia dei Cartaginesi, ai loro ordinamenti militari, imitati da quelli greci, al genio dei Barcidi che li guidarono nelle lotte a partire dagli ultimi anni della prima punica, e alla ricchezza dei mezzi finanziarî, per i tributi degli alleati e dei sudditi, ricchezza ignota allora ai Romani. Sul principio i Cartaginesi ebbero un altro elemento di successo, cioè la superiorità marittima, perduta però quasi subito, perché la popolazione marinaresca delle coste italiane e le larghe risorse della penisola permisero ai Romani di apprestare rapidamente un'armata superiore a quella cartaginese. Già nel 260 i Romani riportarono la loro prima vittoria navale a Mile (Milazzo). Seguirono in pochi anni le vittorie di Sulci (258), di Tindaride (257), dell'Ecnomo (256), del Capo Ermeo (255). Tre disastri navali dovuti a naufragio (255, 253, 249) e una battaglia navale perduta presso Drepana (Trapani, 249) non bastarono a ristabilire la superiorità marittima dei Cartaginesi. Quella invece dei Romani fu rassodata e resa definitiva con la battaglia delle Egadi (241). Anche per terra i Romani riportarono una serie di vittorie, principali quella di Agrigento (262) e quella di Panormo (250). Senza importanza fu invece la rotta che toccarono a Terme (259). Importanza ebbe peraltro la disfatta che subì nel 255 in Africa il console Gaio Attilio Regolo dopo un pieno successo conseguito presso Adys (v.). Questa disfatta segnò il termine dell'audace tentativo, che i Romani avevano fatto, di rinnovare la gesta di Agatocle, portando la guerra in Africa, e chiamando a ribellione i sudditi cartaginesi, ed ebbe per effetto che per circa mezzo secolo quel tentativo non fu più ripetuto; ma non alterò le sorti della guerra in Sicilia; né potè cambiarle Amilcare Barca negli ultimi anni con la difesa tenacissima che fece degli estremi lembi del territorio cartaginese, appostandosi prima sul monte Eirkte (monte Pellegrino presso Palermo), poi sul monte di Erice (S. Giuliano), donde cercava di soccorrere i difensori di Drepana e di Lilibeo (Marsala) assediate dai Romani. La rotta delle Egadi indusse Amilcare a venire a patti con il vittorioso comandante romano Gaio Lutazio Catulo (v.). Nella pace, le cui condizioni furono aggravate dai legati mandati appositamente dal Senato, i Cartaginesi si obbligarono a cedere intera ai Romani la Sicilia, che tanto essi avevano contrastata ai Greci, con le isole Lipari ed Egadi e a pagare 3200 talenti euboici (circa 20 milioni di lire oro).
L'impressione della disfatta, le distrette finanziarie in cui la guerra ridusse i Cartaginesi, il malcontento dei sudditi e dei mercenarî e le imprudenze con cui il governo cartaginese lo aggravò diedero occasione a una rivolta delle truppe mercenarie tornate dalla Sicilia, alla quale si associarono in gran numero i sudditi libici. Nonostante la tenacia della resistenza e il valore dei due generali, che Cartagine adoperò contro i ribelli, Amilcare Barca e Annone il Grande, la ribellione parve per un momento mettere in pericolo l'esistenza della stessa Cartagine. Tuttavia la felice posizione della città, che le permise di salvaguardarsi facilmente dagli assalti per parte di terra e di mantenersi libere le comunicazioni marittime, le diede il respiro necessario per riorganizzare i suoi eserciti e preparare la vittotia finale. I ribelli furono interamente distrutti; il territorio libico risottomesso fino a Teveste, che Annone aveva già occupata durante la prima guerra punica. Durante la guerra dei mercenarî si era ribellato anche il presidio cartaginese della Sardegna e aveva fatto causa comune con le tribù indigene insofferenti del giogo punico. Terminata la guerra in Africa, i Cartaginesi si accinsero a riconquistare la Sardegna; ma qui s'incontrarono col veto romano. Come ai Romani il successo riportato liberando Messina e la debolezza dimostrata in questa occasione dai Cartaginesi erano stati incentivo a proporsi la conquista della Sicilia, così le condizioni disastrose in cui parve ridotta Cartagine dalla guerra dei mercenarî furono incentivo a proporsi la conquista dell'altra grande isola italiana, che del resto avevano già tentato durante la guerra di Sicilia, abbandonandone poi il proposito per evitare la soverchia dispersione delle forze. Ora, protestando che i Cartaginesi avevano violato la pace con l'affondare le navi italiche, che recavano contrabbando di guerra ai ribelli d'Africa, imposero la cessione della Sardegna e il pagamento di una nuova indennità, minacciando in caso contrario di rinnovare la guerra. Cartagine dovette rassegnarsi, ma di qui ebbe principio la preparazione della sua guerra di riscossa contro Roma, la seconda punica.
Al consolidamento e all'espansione della sua potenza imperiale Cartagine, priva della Sicilia e della Sardegna, avrebbe potuto provvedere ampiamente in Africa, prevenendo la grande opera di civiltà che compì Roma nella Numidia e nella Mauritania. E questo pare fosse il proposito del conquistatore di Teveste, Annone il Grande. Ma Amilcare Barca indirizzò l'imperialismo cartaginese per un'altra via, per la quale pareva meglio potersi apprestare la difesa e l'offesa contro Roma: iniziò cioè la conquista della Spagna, dove il dominio cartaginese era ridotto a Cadice e a pochi altri punti sulle coste meridionali. Amilcare guerreggiò in Spagna con notevole successo dal 237 al 229. Gli succedette nel comando il genero Asdrubale, che tenne il governo dal 225 al 223. Risultato delle loro lotte con gl'indigeni fu che una buona parte della Spagna a sud dell'Ebro cadde sotto il dominio cartaginese e che in particolare fu assicurato a Cartagine il dominio delle allora ricehissime miniere argentifere del sud-est della penisola. Sulla costa orientale, i Cartaginesi fondarono in posizione assai opportuna Carthago nove (Cartagena) destinata a essere la capitale del loro impero spagnolo. Probabilmente Amilcare, il quale odiava profondamente i Romani e desiderava di vendicare lo smacco della perdita della Sicilia e della Sardegna, pensava fino d'allora a preparare l'invasione della penisola italiana attraverso i Pirenei e alle Alpi con l'aiuto degl'Iberi e dei Galli. I Romani alla loro volta vedevano non senza gelosia l'estendersi dell'impero cartaginese in Spagna e l'abbondanza di mezzi e di uomini che ciò procacciava alla loro rivale, e pensarono di assicurarsi dal pericolo concludendo con Asdrubale un trattato che fissava l'Ebro come limite all'espansione cartaginese (225). Asdrubale accettò il trattato con l'intenzione di compiere la sottomissione del paese a sud di quel fiume. I Romani profittarono della sicurezza che quel trattato garentiva loro, per soggiogare la maggior parte dei Galli della regione padana ed estendere in Italia il loro dominio fino alle Alpi. Ma quando credettero di non correr più pericolo per parte dei Galli e videro che Annibale figlio di Amilcare, succcdute ad Asdrubale, procedeva con la massima energia a soggiogare le tribù iberiche che rimanevano indipendenti a sud dell'Ebro, credendo ormai pericolosa ogni ulteriore espansione eartaginese e vantaggioso per essi l'intervenire in questo momento per impedirla, intimarono ad Annibale di non assaltare Sagunto, città iberica a sud dell'Ebro, con cui strinsero allora o rinnovarono la loro alleanza. Annibale alla sua volta, ritenendo che questo intervento romano fosse in eontrasto con i patti conclusi con Asdrubale e che d'altra parte, dovendosi combattere contro Roma, giovasse combattere prima che i Romani si fossero consolidati nella valle del Po, rispose all'intimazione assediando e distruggendo Sagunto. Seguì nella primavera del 218 a. C. la dichiarazione di guerra dei Romani con cui si iniziò una delle più terribili guerre dell'antichità, la seconda punica.
Di essa sono narrate altrove le vicende (v. romani: Storia). Qui basterà dire che il piano genialissimo di Annibale di portare la guerra nella penisola attraverso le Alpi trovò i Romani affatto impreparati alla difesa. Dopo un'avvisaglia di cavalleria presso il Ticino essi gli abbandonarono la Traspadana e dietro il Po e la Trebbia concentrarono presso Piacenza 4 legioni, credendo di sopraffarlo. Ma Annibale vinse i Romani alla Trebbia; ciò che costrinse gli avversarî a evacuare l'Italia settentrionale, salvo le due colonie di Piacenza e di Cremona. Poi l'anno seguente 217, passato l'Appennino, distrusse nella battaglia del Trasimeno le due legioni del console Flaminio e poi, dopo avere saccheggiato liberamente l'Italia centrale e presi i quartieri d'inverno in Puglia, distrusse ancora nel 216 presso Canne sull'Ofanto un esercito di 50 mila uomini con cui i Romani lo avevano affrontato. Queste vittorie erano dovute all'eccellenza degli ordini tattici e al singolarissimo genio strategico del duce. Ma la salda compagine dello stato romano resistette mirabilmente e solo dopo Canne se ne staccarono, passando ad Annibale, Capua, Arpi, i Lucani, i Caudini e gl'Irpini e, parte subito, parte più tardi, varie popolazioni apule e greche. Questi insuccessi e queste defezioni non menomarono l'immensa superiorità delle forze romane contro Annibale, specialmente per mare, di modo che ai Cartaginesi non potevano giungere che aiuti scarsi e saltuarî. Contrapposero dunque i Romani ad Annibale in Italia, non volendogli più dare occasione di vittoria campale e temendo la sua superiorità tattica e strategica, la strategia del logoramento per opera soprattutto di Quinto Fabio Massimo, detto perciò Temporeggiatore, e attaccarono invece energicamente, valendosi appunto del dominio del mare, per cui potevano trasportare eserciti dove meglio loro piacesse, l'impero cartaginese di Spagna e i Greci di Siracusa, che poco dopo Canne si erano ribellati ai Romani, facendo causa comune con Annibale. Così dalla Spagna non poté pervenire nessun aiuto efficace all'esercito cartaginese d'Italia; e Siracusa stretta d'assedio, dopo disperata resistenza, cadde in mano del valoroso generale Marcello nel 212.
In Oriente Filippo V di Macedonia, riconosciuta la gravità della lotta che si combatteva tra Cartagine e Roma, e l'interesse che egli aveva a intervenirvi, strinse alleanza con Annibale; ma riluttante a una spedizione in Italia fu presto assorbito nel conflitto contro i suoi avversarî Greci, che i Romani gli aizzavano contro, e senza aver dato ai Cartaginesi nessun atto effettivo, si lasciò indurre alla pace separata di Fenice (205). Profittando dell'isolamento in cui Annibale si trovava ridotto in Italia, i Romani poterono attuarvi in pieno la strategia di Fabio il Temporeggiatore e così sgretolare a poco a poco la federazione che Annibale aveva costituito attorno a sé nell'Italia meridionale. Nel 211 cadde la sua maggiore alleata, Capua, che Annibale aveva cercato invano di salvare con un'audacissima, ma inutile marcia dimostrativa contro Roma. Poco dopo cadde anche Taranto, sicché Annibale si trovò ridotto quasi senza alleati, circondato da forze romane assai superiori nell'estremo Mezzogiorno della Penisola. Solo allora gli giunse quel soccorso che egli aveva invano atteso per tanto tempo.
In Spagna, dopo varie vicende sfortunate, i Cartaginesi, raccogliendo forze preponderanti, avevano finito col sopraffare i due fratelli Scipioni, Publio e Gneo, che ivi comandavano le forze romane. Non seppero tuttavia approfittare della vittoria per cacciare i Romani dalla penisola e mandare truppe al soccorso di Annibale. E i Romani, movendo dalla regione a nord dell'Ebro rimasta in loro mani, potendo ormai, dopo la caduta di Capua, disporre di forze sufficienti per la guerra di Spagna, vi ripresero l'offensiva sotto la guida del giovane Publio Scipione, poi detto Africano, occuparono di sorpresa la capitale nemica Cartagena (210) e vinsero in battaglia (v. becula, battaglia di) Asdrubale fratello di Annibale (209). Dopo di che Asdrubale, ritenendo che i Cartaginesi dovessero in Spagna limitarsi a difendere quel che loro rimaneva, condusse tutte le forze che erano disponibili per un'offensiva attraverso i Pirenei occidentali nell'Aquitania e di qui in Italia. Il suo tentativo terminò con la disfatta presso il Metauro prima che egli potesse congiungersi con il fratello, che, con la cautela impostagli dalle contingenze, muoveva lentamente verso il Settentrione. Così la guerra era in sostanza perduta, e solo Annibale cercò di mantenersi il più possibile in Italia per danneggiare l'avversario e impedirgli di passare in Africa. Ma sopraffatte le ultime resistenze cartaginesi in Spagna con tanto maggiore facilità in quanto la colonia fenicia di Gades passò senz'altro ai Romani, Scipione ottenne dal Senato le forze necessarie per uno sbarco in Africa. Ivi in una prima battaglia distrusse l'esercito cartaginese comandato da Asdrubale figlio di Gisgone e quello di Siface. Poi presso i Campi Magni (v.) sconfisse nuovamente Asdrubale e Siface che tornavano alla riscossa. Siface, inseguito, cadde prigioniero. Dopo di che i Cartaginesi chiesero pace e accettarono di rinunziare a tutti i loro possessi trasmarini e di abbandonare la Numidia al regolo Massinissa alleato romano. Ma nello stesso tempo richiamarono Annibale dall'Italia e, quando Annibale ebbe concentrato il suo esercito e tutto ciò che rimaneva delle forze cartaginesi in Adrumeto, ruppero l'armistizio e respinsero le già accettate condizioni di pace volendo tentare ancora una volta la fortuna delle armi. Il tentativo terminò con la disfatta di Annibale a Naraggara, detta comunemente disfatta di Zama. I Cartaginesi furono allora costretti ad accettare le condizioni imposte dal vincitore, il quale non cercò possessi territoriali in Africa, ma volle ridurre Cartagine ad assoluta impotenza e per questo la obbligò a distruggere la sua flotta da guerra, salvo 10 navi, a non far guerra senza il beneplacito di Roma e, oltre alla rinunzia ai possessi trasmarini e alla Numidia, a cedere anche quegli altri territorî su cui potessero avere dominato gli avi di Massinissa. Quest'ultima clausola metteva veramente Cartagine alla mercé di Roma poiché, città coloniale, non possedeva un palmo di territorio su cui gl'indigeni non vantassero diritti. Ma probabilmente nel pensiero di quelli che la inserirono nel trattato, doveva servire non alle applicazioni che poi se ne fecero, ma a tenere Cartagine in stato di perenne umiliazione, costringendola a riconoscere di non vivere se non per grazia di Roma.
E sul principio, nonostante la perdita dell'impero, la vita di Cartagine parve svolgersi in condizioni assai tollerabili. Annibale, chiamato dall'unanime consenso dei cittadini al governo, risanò le finanze sì che Cartagine poté in breve tempo offrire a Roma il completo pagamento della gravosissima indennità di guerra. E trapiantando in Africa le istituzioni di cui aveva visto la solidità in Italia diede, sembra, alla popolazione libica del territorio rimasto a Cartagine i diritti di cittadinanza. In tali condizioni i Cartaginesi, pur dopo che Annibale aveva dovuto prendere la fuga per sottrarsi alle minacce romane, vissero circa trent'anni tranquillamente e abbastanza prosperamente. Andarono perdute le città fenicie della sponda africana a ovest di Utica e di Biserta, che Massinissa incorporò al suo regno e che, come Cadice, trovarono il loro vantaggio nel separarsi a tempo da Cartagine. Più grave fu la pretesa che poi Massinissa affacciò sulle prospere colonie degli Emporî, l'odierna Tripolitania. Il senato romano riconobbe la legittimità di tale pretesa e i Cartaginesi dovettero abbandonargli la regione da cui ricavavano un considerevole tributo.
Da allora Massinissa continuò ad affacciare sempre nuove pretese e a carpire nuovi distretti al territorio cartaginese, mentre i Cartaginesi ricorrevano invano alla mediazione del Senato e non potevano difendersi da sé stessi, perché il trattato del 201 vietava di far guerra senza il permesso di Roma. Il cambiamento della politica romana verso Cartagine si collega con lo sviluppo dell'imperialismo dopo la vittoria di Pidna. I Romani cominciavano a voler trarre politicamente ed economicamente il pieno frutto delle loro vittorie, e dal predomino politico-militare a cui aveva mirato Scipione, sia nella guerra con Cartagine sia nella guerra di Siria, si avviavano al dominio effettivo delle regioni mediterranee. Il vecchio Catone, il quale era stato in Africa per un tentativo, riuscito vano, di mediazione tra Cartagine e Massinissa, si formò la convinzione della necessità di distruggere Cartagine: delenda Carthago. I pericoli a cui egli accennava veramente non sussistevano. Priva di armata da guerra, insidiata da un vicino potente come Massinissa, abbandonata da quasi tutte le colonie fenicie d'occidente, essa non poteva costituire per Roma nessun serio pericolo. Nonostante la vicinanza, che Catone, secondo il noto aneddoto, avrebbe documentata traendo in Senato alcuni fichi íreschi africani dalla sua toga, essa non aveva alcun modo di mandare un esercito in Italia e men che mai di rifornirlo, e le mancava persino quella che era stata l'arma píù efficace di Annibale, la cavalleria numidica. I timori dunque erano vani; ma non altrettanto vana la speranza di liberare i mercanti italici dalla concorrenza cartaginese e di aprire ai contadini italici assetati di terre lo sbocco della Tunisia. Di contro poco potevano valere le argomentazioni di Publio Cornelio Scipione Nasica, che patrocinava la conservazione di Cartagine, additando i vantaggi che si potevano ricavare dallo stesso pericolo cartaginese. Questo pericolo è parso, come di fatto era, agli storici moderni così vano che essi hanno ascritto il cambiamento di politica dei Romani e la terza guerra punica al timore che Cartagine si accordasse con Massinissa e finisse per divenire la capitale del suo impero. Vi era infatti in Cartagine un valido partito filo-numidico il quale sperava nell'unione con Massinissa la restaurazione della potenza cartaginese. Ma i Romani avevano un modo facilissimo per controbatterlo, tenendo desta la gelosia tra i due vicini e impedendo a Massinissa di farsi troppo potente a spese dei Cartaginesi.
Comunque, nel 151, avendo Massinissa invaso un distretto cartaginese su cui affacciava pretese e posto l'assedio alla città di Onobala, i Cartaginesi, perduta la pazienza e non confidando più nella mediazione del Senato, gli mandarono contro un esercito comandato dal capo del partito nazionale, Asdrubale. Seguì un'accanitissima battaglia d'esito indeciso, dopo la quale i Cartaginesi non osarono più uscire dal loro campo e vi furono assediati da Massinissa. Ridotti alle ultime distrette dovettero capitolare a condizioni gravissime: ciò che non valse a salvarli, perché furono assaliti e quasi distrutti a tradimento dai Numidi, mentre tornavano inermi a Cartagine. Il generale sconfitto fu condannato a morte e si salvò con la fuga.
Ma allora il Senato romano dichiarò violata dai Cartaginesi la pace del 201 e apprestò la guerra. I Cartaginesi offersero ogni specie di soddisfazione e da ultimo la dedizione stessa della loro città. Questa fu accettata; ma non impedì che i due consoli del 149 sbarcassero in Africa con 4 legioni (40-50.000 uomini). Solo dopo lo sbarco i Cartaginesi seppero a quali condizioni i Romani accettavano la dedizione. Le condizioni erano la rovina di Cartagine e la costruzione di una nuova città a 10 miglia dal mare. I Cartaginesi rispossero chiudendo le porte, massacrando gl'Italici che erano in Cartagine e apprestando le difese: ciò che non era facile, poiché all'atto della dedizione avevano dovuto consegnare, insieme con gli ostaggi, le armi. Richiamato Asdrubale dall'esilio, s'iniziò quella memoranda resistenza, che è nota col nome di terza guerra punica. Di essa le vicende sono narrate altrove (v. romani: Storia). Qui basti il dire che dopo sforzi inauditi e dopo ogni sorta di patimenti i Cartaginesi soggiacquero all'assalto generale della città ordinato nel marzo-aprile del 146 da Publio Cornelio Scipione Emiliano. Dopo una battaglia accanitissima per le vie della città a cui partecipò l'intera popolazione, gli ultimi difensori, in numero di 50.000, concentratisi nella rocca, si arresero ai Romani a patto di aver salva la vita. Esclusi da questo patto i disertori italici, essi si raccolsero nel tempio di Eshmūn e lo incendiarono morendo tra le fiamme insieme con la moglie di Asdrubale, mentre Asdrubale stesso si arrendeva ai Romani.
La distruzione di Cartagine costrinse i Romani all'occupazione dell'Africa cartaginese, che fu il principio della loro espansione coloniale nell'Africa del nord e della grandiosa opera di civiltà che essi vi compirono. La civiltà punica non perì con Cartagine, anzi, mentre quella città declinava, si abbarbicò saldamente nell'Africa, per opera soprattutto di Massinissa, che la diffuse largamente nella Numidia e fece del punico la sua lingua ufficiale.
Ordinamenti cartaginesi. - Le colonie fenicie d'occidente ebbero tutte fim dall'inizio ordinamenti cittadini, cioè ciascuna di esse godette fin dal principio una relativa autonomia e in ciascuna di esse la popolazione libera abitò di regola in un centro fortificato. Dipendenti da Tiro o da Sidone, esse non ebbero una propria monarchia appunto per ragione di tale dipendenza. E perciò la loro costituzione fu praticamente repubblicana e divenne in tutto e per tutto tale senza alcuna rivoluzione né soluzione di continuità, quando si rilassò il legame che le stringeva alla madrepatria per effetto specialmente dell'estendersi nella Fenicia delle grandi monarchie orientali. Rimasero da allora legami puramente sacrali che furono fedelmente mantenuti fino in età assai tarda. Per la stessa distanza delle colonie della Fenicia, è chiaro come le colonie dovessero per proprio conto provvedere alla giurisdizione sui cittadini e sui sudditi. Così i giudici o suffeti, che i coloni elessero a somiglianza probabilmente di quello che si faceva nella madre-patria, finirono con divenirne i magistrati supremi e in mancanza dei re ne divennero anche gli eponimi. Il numero di due, che è testimoniato dalle fonti classiche per Cartagine, è confermato dai documenti epigralici, che dànno tale numero per altre città di origine fenicia o di istituzioni modellate sulle puniche. Non sappiamo se questo numero fosse dappertutto originario e quimli risalisse a istituzioni fenicie ovvero se sia dovuto a imitazione per parte delle città fenicie d'occidente d'istituzioni cartaginesi o a imitazime per parte di Cartagine d'istituzioni sorte in colonie fenicie più antiche, come Utica.
Ai suffeti spettava dunque il supremo potere giudiziario e solo eccezionalmente l'uno o l'altro di essi era incaricato del comando degli eserciti. Sembra infatti che non vi fosse in Cartagine una magistratura militare ordinaria come in Atene e in Roma, ma che al comando delle truppe si provvedesse designando straordinariamente, quando occorreva e per limiti di tempo variabili, generali con larghezza di poteri superiore a quella di cui in massima disponeva il magistrato militare greco, i quali perciò dai Romani furono detti praetores o dictatores. I suffeti essendo annui, la continuità di governo era rappresentata da un consiglio supremo vitalizio di 30 membri, detto ordinariamente dagli scrittori classici gerusia, accanto al quale si convocava per le faccende di grande momento un altro maggiore consiglio di forse 300 membri, anch'esso vitalizio. L'uno e l'altro consiglio, come pure i suffeti, si reclutavano nella classe più elevata della cittadinanza. Un'aristocrazia del sangue a Cartagine, come città coloniale, mancava; ma vi sorse rapidamente un'oligarchia di ricchi mercanti e proprietarî terrieri, la quale tenne senza gravi contrasti il potere almeno fino al termine della seconda guerra punica. L'assemblea popolare veniva convocata per le elezioni dei magistrati e dei membri dei due consigli, per le deliberazioni sulla pace e sulla guerra e per deliberare intorno alle leggi nel caso in cui ci fosse dissenso tra i suffeti e i due consigli. Tutti i cittadini erano quindi in possesso del diritto elettorale attivo; solo la classe più elevata era in possesso di quello passivo; ma essa non era una casta chiusa e si rinsanguava con quelli che raggiungevano un determinato censo a noi ignoto. Aristotele nella Politica si pone il problema perché il demo si accontentasse in Cartagine di questa posizione subordinata e non facesse nessun serio tentativo per rovesciare l'oligarchia dominante. La ragione intravveduta dallo stesso Aristotele è che il possesso dell'impero lasciava ai Cartaginesi un così largo margine di profitti che il demo poteva averne parte sufficiente, in modo che gli mancavano ragioni economiche per abbattere un ordinamento nel quale trovava il suo vantaggio. D'altronde da questa condizione subordinata ciascuno poteva uscire arricchendo e acquistando così l'eleggibilità ai posti che si rendevano via via vacanti nei consigli vitalizî. Un terzo consiglio annuo, conosciuto col nome di consiglio dei centumviri era composto, pare, di 104 membri e si occupava soprattutto dei rendiconti dei magistrati. Ma poiché era composto in gran parte di magistrati o ex-magistrati, tutti appartenenti alla classe oligarchica, e poiché l'uso della rielezione aveva fatto che l'annuità dei centumviri si riducesse a una finzione legale, questo Lonsiglio aveva finito col rendersi complice delle malversazioni delle consorterie oligarchiche e con l'impedire qualsiasi effettivo controllo della finanza cartaginese. A ciò provvide Annibale, quando, dopo la seconda guerra punica restaurò la pubblica finanza, rendendo effettivamente i nnua la nomina con l'impedire la rielezione e vietando che vi sedessero magistrati che non avessero ancora prestato il loro rendiconto. Giovò assai alla vitalità dell'oligarchia l'assoluta esclusione del demo dal potere giudiziario, del cui ordinamento del resto non siamo informati che in modo assai confuso. Sappiamo soltanto che vi erano magistrature dette dai Greci pentarchie, le quali, insieme coi suffeti, ne avevano il carico.
Tali gli ordinamenti della città. Le colonie fenicie, che in momenti diversi avevano stretto alleanza con Cartagine, erano in condizioni diverse, delle quali non siamo esattamente informati. Sembra però che a differenza degli alleati romani, gli alleati cartaginesi fossero tutti o quasi obbligati, oltre che a fornire a Cartagine contingenti di truppe, a pagare tributo. Questi tributi, che salivano talora a somme ragguardevoli (ci vien detto che gli Emporî della Tripolitania pagavano 360 talenti euboici all'anno), costituivano uno dei principali cespiti d'entrata del tesoro cartaginese. E la loro necessità scendeva, come per la lega delio-attica, dalla necessità di tenere in permanenza una considerevole armata navale per provvedere alla difesa e all'espansione dell'impero. Può darsi che dal tributo fosse esente qualche città a cui i Cartaginesi avevano concessn condizioni particolarmente favorevoli come Utica, di cui esse registravano a titolo d'onore il nome nei trattati che essi concludevano con altre potenze. I Libî-Fenici, cioè Fenici d'Africa, menzionati dalle fonti, debbono ritenersi appunto i cittadini delle colonie fenicie africane alleate di Cartagine; e probabilmente i Blastofenici, di cui pure occorre qualche menzione, non sono che i Fenici delle colonie della Spagna meridionale (Bastetania). Quali condizioni si facessero alle colonie fondate dalla stessa Cartagine, come Terme o Lilibeo non sappiamo, ma è lecito ritenere che siano state analoghe a quelle delle altre città fenicie e tali saranno state pure a un dipresso le condizioni delle città greche o elime assoggettate al dominio di Cartagine. In condizioni assai inferiori erano invece i sudditi Libî del territorio cartaginese. Essi erano obbligati a versare ai Cartaginesi il quarto del prodotto del suolo o in caso di bisogno anche la metà. Fuori dei confini erano poi tribù in relazione varia di dipendenza o di alleanza, alle quali talora persino i Cartaginesi, per assicurarsene l'aiuto in guerra, non esitavano a pagare sotto forma di donativi un vero tributo.
Bibl.: Oltre alle storie greche, romane e dell'antica Sicilia: F. Movers, Die Phönizier, I, Berlino 1841-56; O. Meltzer, Geschichte der Karthager, I-II, Berlino 1879-1896; III, di U. Kahrstedt, Berlino 1913; S. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du nord, specie nei tomi I-IV, Parigi 1913-20 (con bibliografia); V. Ehrenberg, Karthago, Lipsia 1927; A. Holm, Storia della Sicilia nell'antichità, trad. ital., III, ii, Torino 1908, p. 133 segg.
La cultura cartaginese. - Difficile è non soltanto un giudiziti sul valore della cultura cartaginese, ma anche una conoscenza esatta della natura di essa. Alla mancanza di una superstite tradizione indigena, alla scarsezza del materiale archeologico ed epigrafico si aggiunge la cattiva fama che, quasi unanime, la tradizione greca e romana ha diffuso intorno al carattere dei Cartaginesi. Alle accuse di crudeltà e di malafede non è da dar troppo peso (esse sono il fatale retaggio dei vinti); ma non vi è dubbio che nel rimprovero frequentemente rivolto ai Cartaginesi, di mancare di ϕιλανϑρωπία (ossia del sentimento dell'umanità inteso nella sua più larga accezione), è riposto il profondo motivo che differenzia la civiltà orientale da quella classica. Nella forma spirituale punica, e specialmente nel suo mondo religioso, il sentimento della debolezza umana e della trascendenza divina soffoca ouell'alacre e gioconda fiducia nelle proprie forze, quel largo senso di simpatia umana, da cui lo spirito greco ha tratto lo stimolo alle sue più alte manifestazioni.
Non che la stessa metropoli punica non abbia risentito, e in misura notevole, l'influsso ellenico. Sappiamo che la lingua e i costumi greci erano largamente diffusi nelle classi più elevate, specialmente nel periodo ellenistico; l'arte greca si intruse, fin da tempi molto remoti, nello stile composito di carattere orientalizzante che i Cartaginesi dovettero recare dalla madre patria fenicia. L'intensità dei rapporti tra Cartagine e il mondo ellenistico è attestata, tra l'altro, dal fatto che lo stesso Annibale fu autore di scritti di strategia in lingua greca, e che la costituzione cartaginese è fatta oggetto di studio e di raffronto con quella delle città greche da Aristotele e dalla sua scuola. Tuttavia, queste manifestazioni di ellenismo non devono, come pur è stato fatto da alcuni, essere sopravvalutate: non vi è dubbio che, tanto nel suo aspetto esterno quanto nella sua vita spirituale, Cartagine conservò il suo aspetto fenicio, modificato, se mai, da infiltrazioni di costumi africani. La lingua e la scrittura mantennero quasi inalterati i loro caratteri (v. Fenici); le vesti lunghe, la barba a punta, l'uso dell'anello nasale rivelano un'impronta schiettamente orientale.
A Cartagine dovette fiorire una ricca letteratura, come si ritrae dalla famosa notizia di Plinio (Nat. Hist., XVIII, 22) intorno alle biblioteche trovatevi dai Romani nel 146 a. C., nonché dalla menzione di opere storiche, geografiche e scientifiche puniche a cui attinsero Timeo e i re di Mauretania Iempsale (che scrisse egli stesso in fenicio) e Giuba II; di due almeno ci è rimasta qualche traccia: i 28 libri di agricoltura di Magone, che influirono notevolmente sulle dottrine agronomiche greco-romane, e il periplo dell'Africa occidentale di Annone (v.), il quale, benché si presenti come traduzione di un documento epigrafico, rivela una compiuta redazione letteraria. Le stesse iscrizioni indigene, del resto, per quanto quelle di qualche lunghezza siano scarsissime, dimostrano che ortografia, lingua e stile erano disciplinati da una tradizione stabilita. E non è da escludersi che altre forme letterarie, di carattere religioso e poetico, possano essere esistite e siano perite.
La distruzione totale della città nel 146 a. C. non consente di giudicare intorno al carattere dell'architettura cartaginese. Ma qualche accenno di scrittori, le sepolture ipogee scampate alla rovina, le sopravvivenze stilistiche rivelate da monumenti sorti posteriormente nell'Africa settentrionale sono sufficienti a mostrare che le influenze greche furono soltanto superficiali, e che lo stile fenicio (con possibili interferenze africane) continuò a dominare per l'intero periodo dell'indipendenza cartaginese. Nei prodotti minori (specialmeme nella stipe sepolcrale e nelle innumerevoli stele votive a Tanit) troviamo la caratteristica giustapposizione di elementi fenici e greci.
Non meno tipicamente fenicia è la religione (per maggiori particolari, v. fenici), che conosciamo nei nomi degli dei, nell'organizzazione del sacerdozio e in alcuni particolari rituali da un'immensa congerie di notizie sparse, ma che ci rimane ignorata nel suo signifiiato preciso e intimo. Sembra che le divinità supreme fossero costituite dalla coppia Tanit PnēBacal e Bacal Hammon, differenziazioni locali della Astarte e del Baal fenicio, che l'Africa romanizzata identificò più tardi con Caelestis (Iuno) e Saturno. Di altre divinità ricordate nelle iscrizioni, le più frequenti sono Melqart (il cui culto probabilmente era di originale tiria) ed Eshmūn, identificato con Asclepio; delle rimanenti poco o nulla si conosce oltre il nome. Dal famoso elenco di divinità nel trattato di Annibale con Filippo di Macedonia presso Polibio si è inferita da taluni l'esistenza a Cartagine di triadi divine. Il sacerdozio era appannaggio di poche famiglie dell'aristocrazia, e sembra fosse ereditario. È ricordato un sommo sacerdote (Rab Kohanim) e si ha menzione di sacerdotesse, di uffici minori e di collegi sacrali (nirzaḥ). Particolari preziosi, per quanto poco chiari, dànno sui riti sacrificali le cosiddette tariffe, dalle quali risultano strette analogie con alcune leggi sacrali ebraiche. Tristamente famoso è il rito (anch'esso comune ai Fenici e ad altre popolazioni cananee) del sacrificio di bambini, sul quale tuttavia le notizie degli autori classici non sono scevre di esagerazioni.
I costumi funerarî sono noti abbastanza bene dai numerosi sepolcreti scoperti a Cartagine, in gran parte ipogei, talvolta a grotta. L'inumazione (talvolta, a quanto pare, con imbalsamazione) e l'incinerazione si alternano; e accanto al sarcofago (non di rado di fattura greca) si trovano l'urna cineraria, di pietra e di argilla, e, per i cadaveri di bambini, la giara. Caratteristico è l'uso di maschere funerarie, uno dei rarissimi esempî di plastica non influenzata da modelli greci.
Topografia. - La città di Cartagine occupava la penisoletta circoscritta dal lago di Tunisi, detto dagli antichi Stagnum, e dal mare fino al golfo, oggi insabbiato, di Utica. Un breve istmo collinoso, e opportunamente sbarrato dall'ultimo tratto del fiume Bagradas, collegava la penisola alla terraferma. La topografia della città punica, per difetto di sicure . estigia archeologiche, travolte dalla distruzione romana del 146, ha dato luogo a molte e diverse ipotesi, ed è quanto mai incerta, tanto più che le notizie tramandateci dagli scrittori non sono sempre chiare. Nella collina oggi detta di S. Luigi, che domina tutta la penisola, è con ogni verosimiglianza da riconoscere il nucleo primitivo della città, cui si riferirebbe il nome di Byrsa, che ben si adatta alle caratteristiche del sito. Tale opinione è da preferire a quella che vorrebbe vedere il primitivo nucleo cittadino verso il mare; è tuttavia assai probabile che i coloni si siano stanziati anche qui, e più precisamente sulla spiaggia orientale, stabilendovi un quartiere marittimo e commerciale. Intorno al nucleo primitivo la città crebbe gradualmente. Gli scrittori antichi ci hanno tramandato notizia di una parte della città, che a ovest non era lontana dall'istmo, e dalla parte del mare confinava con un'alta spiaggia rocciosa; essa era denominata Magara, come presumibilmente va restituito il nome, dalle diverse trascrizioni che se ne trovano. Le discussioni per rintracciare il sito di Magara sono state molte e confuse. I dati relativi alla sua vicinanza all'istmo e alla costa rocciosa, la notizia conservataci da Appiano che era piena di giardini, e un'importante testimonianza di Cornelio Nepote (nel commento di Servio all'Eneide, III, 368), in cui questo nome di Magara è riferito al suburbio, in contrapposto alla città (Byrsa) permettono di non trovare discordanze effettive fra le varie fonti, e inducono a credere che la denominazione di Magare - divenuta nome proprio, da nome comune - si debba riferire a tutte le case, sparse alla maniera orientale fra orti e giardini, che si affollavano dalle mura della cittadella fino ai margini della penisoletta. È anzi verosimile che alla stessa Magara, o in ogni caso a un gruppo più folto delle due abitazioni si ricolleghi quel nome di Neapoli, che si trova riferito a un quartiere di Cartagine nel sec. IV a. C.
Più che i varî e troppo malsicuri avanzi archeologici, è l'andamento del terreno che consente di delineare, in modo del tutto ipotetico, il percorso delle fortificazioni della città vecchia e della nuora. ambedue descritteci come assai munite. Si pensa che dalla collina di S. Luigi, passando per la piattaforma dell'Odeon, il muro della Byrsa raggiungesse a NE. la costa di Bordj-el-Djedid, e dall'altro lato la sponda del lago. Il giro delle mura con questo andamento corrisponderebbe circa ai 2000 passi indicati dalle fonti. Quando la città crebbe e fu fortificata tutta la penisola, queste mura rimasero. Le nuove e più ampie seguirono invece certamente la costa, sicché dovevano avere quel percorso di 22 miglia, che è indicato da Tito Livio. Semplice lungo le coste, il muro diveniva triplice dalla parte di terra, meno difesa naturalmente, cioè sull'istmo. Quivi dicono gli scrittori che esso avesse un'altezza di circa 13 metri, oltre i merli, e uno spessore di 9. Questa doveva essere la profondità complessiva della lortificazione, la quale si ritiene comunemente che fosse detta triplice perché composta di vari elementi, e a quanto si ricava dalle vaghe descrizioni delle fonti - mancando ogni avanzo monumentale - era ispirata alla lortificazione siracusana dell'Eurialo, che fu modello dell'architettura militare antica. L'area immensa - tutta la penisola - racchiusa nelle mura di eartagine, trova riscontro nella complessa fortificazione del campo trincerato, che Dionigi costruì intorno ai quartieri di Siracusa, comprendendovi tutta la terrazza dell'Epipoli e lo sperone dell'Eurialo, con larghi spazî interni pressoché disabitati. Lo sbarramento dell'istmo, è facile immaginare che si trovasse nel punto di minore larghezza, strategicamente più opportuno. Ignoriamo se la notizia dell'assedio del ribelle Malchus (circa la metà del sec. VI a. C.) si riferisca già alla cinta maggiore o, come sembra più probabile, alla sola Byrsa.
Degli edifizî della città punica non sappiamo quasi nulla. Dalle fonti conosciamo l'esistenza del foro, della curia, dei templi di Apollo ed Eshmūn, ecc.; le congetture sul sito di questi edifizî sono del tutto prive di fondamento. Soltanto un gran numero di stele votive, scoperte in molti luoghi tra la collina di S. Luigi e il mare, e indicanti la deposizione di avanzi di sacrifici, segnala l'esistenza di santuarî, o di luoghi di culto di Tranit e Hammon. Il più importante santuario è quello di Tanit, scoperto di recente presso la località di Salammbò, che conteneva deposizioni di resti di bambini sacrificati. Tali deposizioni erano contenute in vasi di terracotta e segnate da stele, in parte figurate e iscritte; esse si distribuivano sugli strati sovrapposti che vanno dal sec. VI a. C. fino all'età romana. A Dermesh, sopra la necropoli dei secoli VII e VI a. C. (v. sotto), Si sono anche trovate vestigia di torni e officine di vasai. Piccole sorgenti, pozzi, cisterne, rendevano il sito di Cartagine uno dei più ricchi d'acqua dell'Africa settentrionale.
Un calcolo, necessariamente approssimativo, riduce a circa 250 ettari la parte della penisola, che, compresa entro le fortificazioni, doveva essere coperta dai pubblici edifizî, abitazioni e giardini dei quartieri di Byrsa e di Magara. Molta della superficie entro le mura era invece occupata dalle estese necropoli. Queste sono state largamente esplorate, benché in modo non del tutto rispondente alle necessità scientifiche, negli scavi condotti dagli archeologi francesi, principalmente il padre Delattre e il Gauckler. Le tombe, a deposizione singola quando si tratta di cremati, in caratteristiche cellette sotterranee nel caso dell'inumazione, sono databili attraverso i materiali ceramici di origrine greca ed etrusca, che si rinvengono fra la suppellettile.
Ci riconducono al sec. VII a. C. e al seguente, quelle che occupano il fianco SO. della collina di S. Luigi e la cosiddetta collina di Giunone dal lato del mare, nonché quelle a Douimes Dermesh, ove peraltro si riscontra anche qualche seppellimento posteriore. Le tombe di Bordj-el-Djedid, sono del sec. VI; scarsissimi ancora i rinvenimenti riferibili al sec. V, che sono locahzmti nel terrazzo dell'Odeon e di Ard-el-Morali. Sulle alture a nord di Douimes e di Dermesh si stende la necropoli dei secoli lV e III. Conremporanea è la grande necropoli di S. Monica o dei Rab, a N. NE. di Bordj-el-Djedid; che data dalla fine del sec. IV, e nella quale sono stati rinvenuti alcuni celebri sarcofagi antropoidi.
Cartagine, nel momento della sua massima potenza navale, s'era dotata d'un porto, parzialmente artificiale, del quale ci parlano largamente le fontii mentre la regione ne custodisce le tracce, su cui hanno molto discusso gli studiosi. La disposizione di questo porto era tale che, da un imbocco a mare largo una ventina di metri, che si sbarrava con catene di ferro, s'entrava in un primo porto, mercantile; il secondo. militare, aveva nel mezzo, avanti l'entrata, un'alta isoletta sede dell'ammiragliato. Questo porto era chiamato Cothon ("porto artificiale"). La laguna oblunga verso SE., è da identificare col porto commerciale; quella rotonda, attigua, con quello militare. Questi porti erano tutto intorno circondati di bacini e panchine.
Il cordone di sabbia che divideva il lago di Tunisi dal mare, detto dagli antichi ligula o ταινία sembra fosse più stretto che non attualmente.
Bibl.: Riassunti della topografia di Cartagine si trovano in varî libri di divulgazione; ma vedi quello, strettamente scientifico, di St. Gsell, Hist. ancienne de l'Afrique du Nord, II, Parigi 1921, pp. 1-92; cfr. anche U. de Nunzio, Su la top. di Cartagine punica, Roma 1907; id., Tanit, la divinità, il tempio ecc. a Cartagine, in Diss. della pont. accad. di Archeologia, 1905, p. 169 segg.; G. Pinza, Ricerche su la topografia di Cartagine punica, in Monumenti antichi dei Lincei, XXX; B. Pace, Le fortificazioni di Cartagine, in Atti del II Congresso di Studi Romani, Roma 1930. Per la bibliografia archeologica, particolari riferimenti sono in B. Pace e R. Lantier, Carta archeologica di Cartagine, in Monum. ant. dei Lincei, XXX.
Monetazione. - Molto si è discusso, nei tempi andati, se Cartagine abbia avuto una propria zecca. L'Eckhel, il Combe, il Pinder, il Mommsen classificarono le monete cartaginesi nella serie delle siciliane. Ulteriori studî e l'accertato rinvenimento di monete puniche, non solo nel territorio di Cartagine, ma anche in altri territorî, dove la potenza cartaginese si affermò, hanno condotto al convincimento che Cartagine abbia avuto una vera e propria zecca.
Le monete puniche più antiche sono quelle che costituiscono la serie punico-sicula, la quale per ragioni stilistiche, tipologiche e metrologiche si ritiene che sia stata coniata nella Sicilia a partire dagli ultimi anni del sec. V a. C. Le mire ambiziose di conquista, che in detto secolo originarono le varie spedizioni di Cartagine contro la Sicilia, e l'esistenza di un dominio cartaginese nell'occidente dell'isola, confermano questa tesi. Le monete punico-sicule, che sono quasi tutte d'argento (poche di bronzo), seguono il sistema monetale attico, basato sullo statere di gr. 8,40, e hanno tipi simili a quelli di monete contemporanee delle città greche di Sicilia. In questa serie monetale possiamo con grande verosimiglianza distinguere le emissioni più antiche da quelle più tarde, basandoci sulla successione cronologica dei tetradrammi siracusani, i cui conî furono lavorati da famosi incisori. E infatti questa interessante serie si apre con esemplari riproducenti la testa di decadrammi di Cimone e di tetradrammi della fine del sec. V a. C. non firmati. Segue la numerosa serie con la testa di Perseone, imitata dai decadrammi di Eveneto e da altri originali siracusani del sec. IV a. C. Alle ultime emissioni ascriveremo i tetradrammi con testa barbata, derivante, come pare, dai tetradrammi di Filippo II di Macedonia, e quelli molto più numerosi con testa di Eracle, copiata dai tetradrammi di Alessandro il Grande. Può ritenersi che, durante il regno di Agatocle, sia terminata la coniazione delle monete punico-sicule, le quali da qualche decennio avevano perduto quelle doti d'arte, per cui taluni esemplari delle prime emissioni possono competere con i migliori prodotti numismatici della Sicilia. Tra i conî più fini va annoverato il tetradramma con testa femminile coperta da berretto frigio o da tiara. I pezzi più frequenti sono i tetradrammi che imitano la testa di Persefone, alla quale corrisponde sul rovescio o la quadriga o una testa di cavallo. La leggenda è sempre in caratteri punici, che talvolta esprimono il nome della città, dove l'emissione fu fatta (Resh Melqart-Cephaloedium, Motya, Eryx, Kaphara-Solus, Ziz-Panormos), talaltra formano le parole Machanat (il Campo), o Am Machanat (il Popolo del Campo), o Mechasbim (I Questori), le quali non si prestano a una sicura determinazione topografica. La massima parte delle monete punico-sicule rientra nei limiti del sec. IV a. C. e la loro emissione fu richiesta da necessità di guerra nel lungo periodo, in cui Cartagine si vide contestato il possesso della parte occidentale dell'isola da Dionisio, da Timoleonte e da Agatocle.
Fin dal tempo di Timoleonte (circa 340 a. C.), l'attività della zecca di Cartagine s'era iniziata con l'emissione delle tipiche monete di elettro e di oro (queste in minor numero), che si rinvengono periodicamente nel sottosuolo della Sicilia anche in ripostigli abbondanti. Sono monete anonime dal tipo costante della testa di Persefone (il cui culto fu introdotto al Cartagine nel 396 a. C., come afferma Diodoro, XIV, 63 e 77) e del cavallo; battute sul sistema monetale fenicio della dramma di gr. 3,823, accanto alla quale troviamo pezzi da una dramma e mezza, da due dramme e da due e mezza. La durata di questa coniazione si estende fino all'anno della distruzione di Cartagine (146 a. C.) e la classificazione di essa può esser fatta solo tenendo conto dello stile dell'arte, mancando ogni altro elemento epigrafico o tipologico, su cui possa fondarsi una classificazione. Le ultime emissioni sono di arte molto scadente.
Accanto alle monete d'oro e di elettro comparvero quelle di argento, allorché Cartagine nel 241 a. L'entrò in possesso delle miniere argentifere della Spagna. Quasi sempre di huona lega, nel periodo più tardo questo metallo fu molto alterato. ll tipo costante è quello della testa di Persefone, col quale vediamo quasi sempre associato il cavallo in varie posizioni, o la testa di cavallo o l'albero di palma con numerosi tipi accessorî (astro, circolo radiato, mezzaluna con disco, caduceo, doppia spiga, insegna, corona, simbolo di Tanit). Il cavallo è tipo prettamente cartaginese ed è in rapporto con la leggenda della fondazione della prima città di Cartagine (Virg., Aen., I, 442 segg.). Sull'elettro e sull'argento in varî esemplari si legge la parola B'rtsth, che è stata interpretata per Byrsa. la cittadella di Cartagine. L'argento fu spezzato anch'esso sulla dramma fenicia; furono coniati pezzi da 2,3, 4, 6, 8, 10, 12 dramme e pezzi da 11/4, 11/2, 21/2 dramme. Sono pure abbondanti le frazioni di dramma.
Le monete di bronzo cartaginesi si rinvengono in grande numero nella Sicilia. La loro emissione, incominciata nella seconda metà del sec. IV, durò fino al 146 a. C., conservando sempre tipi identici a quelli delle monete d'argento. La loro classificazione offre non minori difficoltà che quella di queste ultime. Per le une e le altre riesce in molti casi assai difficile determinare il luogo di emissione, poiché non è da escludersi, che Cartagine abbia istituito zecche secondarie a Carthago Nova, in Sardegna e a Malta.
Si conoscono monete di bronzo d'epoca romana coniate a Cartagine dopo lo stabilimento della colonia nel 44 a. C. Queste monete non vanno più in là dell'impero di Tiberio, durante il quale cessarono le emissioni di monete di bronzo fin allora consentite dal governo di Roma alle città nell'Africa e della Sicilia.
Bibl.: G. Ugdulena, Sulle monete punico-sicule, Palermo 1857; L. Müller, Numismatique de l'ancienne Afrique, Copenaghen 1860-63, II, p. 74 segg., supplemento, 1874; A. Holm, Geschichte des sicilischen Münzwesens (vol. III della Gesch. Siciliens), Lipsia 1898; G. F. Hill, Coins of ancient Sicily, Westminster 1903; B. V. Head, Historia Numorum, 2ª ed., Oxford 1911; A. H. Lloyd, The legend "Ziz" on Siculo-Punic coins, in Numism. Chronicle, 1925, p. 129 segg.; E. Gàbrici, La monetazione del bronzo nella Sicilia antica, in Atti della R. Accad. di scienze, lettere e belle arti di Palermo, XIV (1927).
Cartagine romana.
Storia. - Non erano trascorsi venticinque anni dalla distruzione di Scipione che, nonostante i divieti sanciti con giuramento al momento di essa, nel 122 a. C., un tentativo era fatto, da parte di C. Gracco e del partito democratico, di far rivivere Cartagine, deducendovi una colonia, chiamata, dal nome dell'antica dea protettrice Caelestis (Giunone), Colonia Iunonia: il tentativo fallì. Ma era fatale che la città risorgesse, soprattutto il giorno in cui Roma avesse intrapreso con tenacia di propositi la colonizzazione dell'Africa.
Ciò avvenne con Cesare l'anno 44 a. C.: il dittatore doveva aver già tutto predisposto per la fondazione della colonia, ma, forse ancora in parte per scrupoli religiosi, egli non aveva dato corso al suo disegno, quando fu ucciso: il disegno fu ripreso subito dopo e mandato a effetto. Tuttavia la colonia attraversò ancora, soprattutto a opera di Lepido durante il secondo triumvirato, dei momenti difficili; la fondazione di Cesare venne invece rinnovata e rinforzata con l'apporto di nuovi coloni, non veterani, ma togati cives, da Augusto nell'anno 29. Da allora veramente, pur contando la città la sua era dal 44, si può dire s'inizî la vita rapidamente ascensionale di Cartagine, chiamata dal nome del primo fondatore Colonia Iulia Concordia Carthago, e iscritta alla tribù Arnensis. Tale vigorosa ascensione sospingevano insieme la giacitura geografica, che aveva già fatta prospera la Cartagine dei Fenici, e il fervido ritmo di progresso economico e civile che Roma imprimeva da allora alle regioni africane venute in suo dominio: ché di quelle regioni Cartagine era lo sbocco naturale. Strabone parla già di Cartagine come di una delle città più popolose dell'Africa; la prosperità della provincia, da Traiano ai Severi, si riflette nella ricchezza della capitale che, dopo Roma, e con Antiochia ed Alessandria, è tra le maggiori città dell'impero. I principi fanno a gara nel dimostrare a lei la loro benevolenza: Adriano, che la visita due volte, vuole ribattezzarla col suo nome, Hadrianopolis, e la sua dota di un acquedotto; Antonino Pio le ripara i danni di un incendio che aveva distrutto i quartieri intorno al foro; Commodo ripete il gesto di Adriano e dà alla città il nome di Alexandria Commodiana togata; Settimio Severo le conferisce il ius italicum (Dig., L, 50, 15); Caracalla aggiunge all'epiteto di Iulia quelli di Aurelia Antoniniana. Gli scrittori, Apuleio (De deo Socratis, XXII, 171) e Erodiano (VII, 6,1), esaltano la bellezza esteriore della città e gli agi della sua vita.
Con i torbidi per l'elezione di Gordiano, alla metà del sec. III, s'inizia, sia pur lentamente, la sua decadenza, accelerata via via dal disordine che recano alla vita della provincia e della città le lotte degli usurpatori dell'impero, le discordie religiose, le ribellioni delle popolazioni indigene.
Nella prima metà del sec. V, alla vigilia dell'invasione dei Vandali, Cartagine è tuttavia ancora una città che Ausonio (Ordo urbium nob., II, 9 segg.) può magnificare come la più bella dopo Roma, e che Salviano, nella sua fiera avversione al paganesimo, può dipingere (De gubernat. Dei, VII, 13 segg.) come sentina di vizî. Genserico se ne impadronisce nel 439, per tradimento sembra, certo senza dura lotta, e ne fa la capitale del suo regno. L'impero di Bisanzio ne tenta inutilmente una prima volta la riconquista nel 468 per mezzo di Basilisco, la riprende nel 533, a opera di Belisario inviato da Giustiniano. Questi ebbe per la città, che volle chiamare anche dal suo nome hstiniana, gran cura; riparò i guasti dei Vandali, restaurò e costrui edifici, ma l'apparato esteriore non poteva compensare Cartagine dei dannì più gravi e profondi che a essa recavano le lotte fra i generali, le guerre contro gl'indigeni, le pestilenze. Le prime invasioni arabe nell'Africa non giunsero fino a Cartagine; forse un tentalivo contro di essa di ‛Oqbah ibn Nāfi‛, il fondatore di Qairawān, andò fallito. L'assalì invece nel 695 Ḥassān ibn an-Nu‛mān al-Ghassānī, e dopo breve lotta se ne impadronì; ma il patrizio Giovanni, inviato dall'imperatore Leonzio, riuscì a liberarla; ma per poco, ché nel 698 Cartagine ritornava e per sempre nelle mani degli Arabi.
Secondo gli storici di questi, essa fu allora completamente distrutta: è a credere invece che, sebbene ridotta in condizioni miserevoli e abbandonata sia dagli abitanti, fuggiti in Sicilia e in Spagna, sia dagli Arabi stessi, che preferirono stabilirsi al riparo del grande lago di Tunisi, e ingrandire questa a danno di Cartagine, la città continuasse ancora a vivere.
Topografia e monumenti. - Agli effetti della conservazione, gli edifici di Cartagine romana non sono stati molto più fortunati di quelli di Cartagine punica, distrutta da Scipione. Lo sviluppo edilizio di Tunisi, e, in tempi più vicini, il nuovo popolarsi dei dintorni della città antica e il sorgere proprio nel centro di essa della cattedrale di S. Luigi e dei vasti istituti dei Padri Bianchi, per altro lato così benemeriti del rifiorimento religioso e civile dell'Africa, hanno portato una così dolorosa dispersione delle memorie monumentali cartaginesi, che oggi ne resta ben poca cosa.
La città romana sorse e si sviluppò nel sito stesso della città fenicia (Plin., Nat. Hist., V, 24; Liv., Epit., LX): ma è probabile ciò avvenisse soltanto dopo la seconda deduzione di Augusto: ché Cesare, forse ancora per scrupoli religiosi, pare avesse stabilito la sua colonia vicino, ma non proprio dentro l'area della Cartagine di Didone (Appian.. Pun., 2 e 136): e alla città di Cesare lo Gsell erede debbano avere appartenuto le vaste cisterne della Malga, presso alle quali furono rinvenute due lastre marmoree, probabilmente parte di un altare dedicato al culto della gente Giulia.
Il centro della città nell'impero fu ancora sulla collina nella quale deve riconoscersi con ogni probabilità la Byrsa punica. I fianchi di essa, piuttosto ripidi, dovettero essere guarniti, almeno su tre lati, da forti costruzioni di cui restano avanzi sicuri sia nel muro detto delle anfore, costruito interamente a strati di anfore piene di terra, messe orizzontalmente, sia in camere absidate appoggiate alla collina. In alcune di queste camere, decorate con una certa sontuosità, il Beulé volle riconoscere, senza dati tuttavia sicuri, il palazzo del proconsole. Sull'alto della collina, dove furono trovati pochi avanzi di costruzioni, frammenti architettonici ed epigrafici e due grandi figure dccorative, una Vittoria e una Fortuna, è probabile sorgesse il tempio delle divinità capitoline, e forse con questo tempio stesso dovevano essere connessi sia un tempio o sacello della Concordia, sia forse anche un santuario di Esculapio, modesta continuazione del tempio punico di Eshmūn, dei quali l'esistenza sembra avvalorata da alcune memorie epigrafiche.
Edifici di minore importanza, case private, tempietti, ecc., dovevano distendersi intorno e alla base della collina; fra essi merita di essere ricordato il tempio della gens Augusta, da cui proviene un bell'altare di marmo con figurazioni allegoriche di Roma e di Augusto.
Poche e di carattere secondario appaiono le costruzioni tornate in luce sulla collina minore, a nord-est della prima, la cosiddetta collina di Giunone, dove alcuni hanno pensato, senza alcuna sicura base di verità, fosse il tempio di Giunone, trasformazione umana della grande dea punica Cæelestis. Sulle colline che proseguono ancora nella stessa direzione, avvicinandosi al mare, sono il teatro e l'odeon: il primo fu costruito probabilmente sotto Adriano, e ha restituito un notevole numero di statue decorative, oggi nel Museo del Bardo; il secondo sappiamo con precisione da Tertulliano (Scorp., 6) che fu innalzato al suo tempo, in seguito alla connessione alla città dei giuochi pitici.
Nella piana che si stende fra i piedi delle colline e il mare dovevano trovar posto soprattutto edifici pubblici. Nella parte più meridionale di essa erano i due bacini dei porti (v. sopra): il vecchio porto militare doveva essere stato trasformato anch'esso in porto commerciale. Ancora in età bizantina, quando si dava loro il nome particolare di Mandrakium, essi erano capaci di contenere flotte numerose; altri ancoraggi e bacini di approdo offrivano le insenature e i laghi che circondano il sito di Cartagine.
Nulla sappiamo con precisione né dell'ubicazione né della disposizione del foro, ma varî indizî inducono a credere che esso dovesse essere in vicinanza dei porti.
Andando verso nord, nella regione oggi detta di Doumes, l'unico grande edificio di cui si notino gli avanzi è un edificio termale, che un'iscrizione (Corp. Inscr. Lat., VIII, 12513) ci dice costruito, o per lo meno restaurato, da Antonino Pio. Non lontano da esso, proprio ai piedi della collina di Bordj-el-Djedid, è infine l'altro vasto, grandioso sistema di cisterne, oggi rimesso in efficienza per uso della regione, il quale poteva contenere fino a circa 30.000 mc. d'acqua. Forse giungeva in esso l'acqua dei monti di Zaguan, portata in città da Adriano su un acquedotto, di cui oggi restano notevoli avanzi nelle vicinanze di Tunisi.
Alla periferia della città verso occidente erano il circo e l'anfiteatro. Da questa stessa parte era una delle necropoli più importanti della Cartagine romana; e cioè il cimitero degli officiales del proconsole, in prevalenza schiavi e liberti imperiali.
La Cartagine romana, sorta in un periodo e in una regione pienamente pacificata, non ebbe bisogno di difese; fu soltanto nel 425 che Teodosio II ritenne opportuno circondarla di mura, più tardi restaurate da Belisario; se ne può seguire il corso nel tratto settentrionale; dal ridosso della collina di Bordj-el-Diedid fin presso l'anfiteatro e il circo, che erano compresi dentro di esse.
Il trionfo del cristianesimo arricchì la città di numerose basiliche: ne furono alzate in memoria di Cipriano, dove questi aveva subito il martirio, e dove egli era stato sepolto, in onore di S. Monica e delle sante martiri Perpetua e Felicita.
Quest'ultima, detta anche basilica maiorum, sembra debba identificarsi con quella di cui sono visibilili resti fuori della città, a sud-ovest della collina di Sidi bou Said: ché in essa fu rinvenuta un'iscrizione frammentata ricordante il luogo di deposizione delle due martiri e dei loro compagni.
Incerta invece è l'identificazione delle altre chiese ricordate dalle fonti con le rovine di basiliche oggi riconosciute; e incerto è altresì qual nome si debba dare al più insigne complesso monumentale cristiano di Cartagine, quello di Damous-el-Karita. È questo un vasto edificio, più volte restaurato e modificato anche nel suo orientamento, costituito dalla chiesa vera e propria a nove navate, da un atrio semicircolare, terminato da una cella tricora, e da una seconda chiesa annessa, racchiudente il battistero.
Attiguo ad essa era un cimitero: altri cimiteri, tutti, anche quelli dei tempi anteriori alla pace costantiniana, in aree scoperte, e non sotterranei, furono rinvenuti in altri punti prossimi alla città, o presso alle basiliche.
Bibl.: A. Audollent, Carthage romaine, Parigi 1901; S. Gsell, Les premiers temps de la Carthage romaine, in Revue hist., CLVI (1927); L. Poinssot, L'autel de la Gens Augusta à Carthage, in Notes et doc. de la Dir. des antiq. de la Tunisie, X, Tunisi e Parigi 1929.
Il vescovato di Cartagine. - Leggende tardive fanno primo vescovo di Cartagine S. Crescente che sarebbe stato consacrato da San Pietro; come altre notizie non attendibili considerano vescovo di Cartagine Sperato, uno dei martiri di Scilli. In realtà il primo vescovo storico è Agrippino, contemporaneo di Tertulliano, che è il primo testimone importante intorno alla comunità cristiana di Cartagine. Agrippino convocò un sinodo, e taluno anche per ciò attribuisce a lui anziché a un vescovo di Roma l'editto dell'episcopus episcoporum contro cui Tertulliano si scaglia nel De pudicitia. Lo stesso autore dimostra che al suo tempo non v'era fra tutti i cristiani la rigida purità di costumi da lui invocata; ma, montanista, egli attesta che l'eresia dei Frigi trovò in Africa dei seguaci (quei "tertullianisti" ricordati da Sant'Agostino, De haeres., 86) e che a Cartagine affluivano predicatori d'ogni genere; particolarmente pericololi, per l'ortodossia, i marcioniti. A Tertulliano, come redattore finale, ci riconduce anche la Passio delle due celebri martiri Perpetua e Felicita; infine a lui dobbiamo notizie sulle controversie tra cristiani e giudei e sull'accusa di onolatria (v. asino) da questi rivolta ai primi.
Il più eminente personaggio della chiesa cartaginese è S. Cipriano (v.), nel cui epistolario riecheggiano gli episodî della persecuzione di Decio e Valeriano e dei dissenso interni ed esterni che lacerarono la chiesa di Cartagine al suo tempo; dei suoi successori, Luciano, Carpoforo e Ciro (menzionato nel titolo di un sermone di Sant'Agostino nell'Indiculus di Possidio) è incerta la cronologia nel 303 era vescovo Mensurio, la successione del quale aprì la crisi che condusse alla separazione dei donatisti (v). E dalla vittoria di Costantino in poi troviamo a Cartagine, come in tutta l'Africa, due vescovi, il cattolico e il donatista. Dei primi, Ceciliano, che partecipò al concilio di Nicea, fu precisamente quegli la cui nomina diede origine allo scisma e a una serie di concilî, nel corso dei quali, ad Arles (v.), la chiesa africana accolse definitivamente la disciplina romana del battesimo; Grato prese parte al concilio di Sardica (343) e Restituto a quello di Rimini (359) ch'egli presiedette, cedendo infine alle pressioni dell'imperatore Costanzo in favore dell'arianesimo. Ma il più grande dei vescovi di Cartagine, dopo Cipriano, fu certamente Aurelio, il contemporaneo e amico di Agostino. A lui, che trovò in Sant'Agostino un potente alleato e un ispiratore nel campo dottrinale, si deve quasi certamente la ripresa vigorosa dell'offensiva cattolica contro il donatismo, combattuto in una serie di concilî, da quello d'Ippona del 393 fino alla celebre conferenza del 411; a lui il sinodo del 412 che condannò Celestio, e quelli del 416 e del 418 che ottennero la condanna del pelagianesimo (v.) da parte d'Innocenzo I e di Zosimo; a lui la resistenza all'azione esplicata dalla chiesa romana per affermare il suo primato nella questione di Apiario di Sicca, e a lui la raccolta dei canoni dei concilî (Codex canorum ecclesiae africanae), da cui ricaviamo l'ordinamento disciplinare della chiesa africana. Le varie provincie hanno ciascuna il proprio primate, che è il vescovo più anziano; a questo vanno rivolti gli appelli, da questo i vescovi che si recano alla corte (contro i viaggi oltremare s'introdussero varie limitazioni) devono ricevere le litterae formatae di presentazione. I primati mandano delegati ai concilî di Cartagine. Ma il vescovo di Cartagine è il solo fra essi che sia tale a cagione della sede che occupa, a lui spetta risolvere le controversie relative alla scelta dei primati provinciali, e fissare la data della celebrazione della Pasqua; a lui si possono rivolgere direttamente gli appelli. Il diritto di appello a Roma fu contestato, nel caso del prete Apiario (419 e 426), dagli Africani, che ignoravano ancora i canoni del concilio di Sardica, invocati da papa Zosimo (v.), ma come niceni.
La controversia fu inasprita dall'infelice modo di agire del papa e del suo delegato Faustino, vescovo di Potenza Picena.
Il successore di Aurelio, Capreolo, vide l'invasione dei Vandali, perciò non poté partecipare al concilio di Efeso. Con i Vandali ariani cominciano le persecuzioni: Quodvultdeus, eletto circa il 437, morì in esilio, a Napoli; Deogratias, eletto nel 454 su istanza di Valentiniano III, dovette prestare assistenza ai Romani tratti prigionieri fa Genserico. Poi solo nel 481 veniva eletto Eugenio, esiliato nel 484, richiamato nel 487, e nel 495 fuggito, per morire ad Albi nel 505. Il re Ilderico permetteva che si eleggesse ancora Bonifacio che, nel 525, poté convocare un sinodo.
Con la dominazione bizantina non cessarono le traversie della chiesa di Cartagine e africana in genere. Se il culto e la disciplina vennero ristabiliti, e al clero si concedettero onori e privilegi, la controversia dei Tre Capitoli fu causa dell'esilio del vescovo Reparato, che aveva osato resistere a Giustiniano. Questi gli sostituì (552) Primoso, al quale succedettero Publiano e, alla fine del secolo, Domenico, che fu in rapporti con Gregorio Magno e riunì un concilio. Nel 646, il vescovo Vittore, succeduto a Fortunito, comunicava poi al papa Teodoro la vittoria degli ortodossi nella controversia col monotelita Pirro, ex-patriarca di Costantinopoli.
Poi, viene l'invasione araba; le notizie sul cristianesimo in Cartagine si fanno sempre più rade. Cartagine figura, è vero, tra le sedi suffraganee di Alessandria; ma la notizia, già strana per sé stessa, va sottoposta a stretta critica. Nel 1053 Leone IX ribadisce l'autorità del vescovo Tommaso sui suoi suffraganei; nel 1073 Gregorio VII si preoccupa delle ordinazioni; nel 1192 la chiesa di Cartagine è registrata ancora nel Liber censuum, ma si tratta probabilmente solo di un ricordo. Il vescovato di Cartagine fu però ristabilito da Leone XIII, affidandolo all'arcivescovo, poi cardinale, Lavigerie, che dedicò una magnifica cattedrale a S. Luigi IX re di Francia. Il vescovato fu poi ampliato, e il Lavigerie ha merito di aver patrocinato l'esplorazione archeologica della regione, e istituito, nel modesto villaggio sorto sul luogo, un centro di vita cristiana; dove nel 1930, centenario della morte di S. Agostino, fu celebrato il Congresso eucaristico internazionale.
Bibl.: H. Leclercq, in Cabrol, Dictionnaire d'archéol. chrét., s. v., Carthage, II, ii, col. 2190 segg.; J. Mesnage, L'Afrique chrétienne, évêchès et ruines antiques, Parigi 1912, p. i segg.; Hefele e Leclercq, Histoire des conciles, Parigi 1907 segg., passim; E. Buonaiuti, Il cristianesimo nell'Africa romana, Bari 1927; i canoni in I. D. Mansi, Sacror. Concilior. nova et ampliss. collectio, III, Firenze 1759, col. 699 segg.; A. Pincherle, S. Agostino, Bari 1930. V. anche Africa, p. 788 segg.
V. tavv. LXI e LXII.