CASTRA (Messer Osmano)
Di un fiorentino di nome Castra fa cenno Dante nel De vulgari eloquentia (I, xi, 3), ricordandolo come autore di una delle molte "cantiones" che si scrivevano "in improperium" delle parlate dialettali romana, anconetana e spoletana: "inter quas unam vidimus recte atque perfecte ligatam, quam quidam Florentinus... posuerat". Più precisamente, la composizione del C. si può presumere scritta a scherno del volgare marchigiano.
Nulla veramente sappiamo di questo poeta, ignoto del resto allo stesso Dante, che lo ricorda soltanto come "quidam Florentinus". Il nome o cognome Castra (non si pensa più ormai a un possibile soprannome derivato da una presunta professione di norcino o beccaio o castratore di bestiame) è attestato per la Toscana da documenti del sec. XIII: il cosiddetto Libro di Montaperti (a cura di G. Paoli, Firenze 1889, p. 146), un breve di Urbano IV del 9 febbr. 1262 (pubblicato in Bullarium Ordinis FF. Praedicatorum...,a cura di F. Th. Ripoll, I, Roma 1729, p. 417), il Registro Grosso dell'Archivio di Stato di Bologna (cfr. G. Zaccagnini, in Giornale dantesco, XXVIII[1925], p. 170 n.). All'identificazione del C. dantesco con quello che è menzionato nel Libro di Montaperti ("Iacobus qui Castra vocatur f. quondam Bartoli populi Sancte Trinitatis") pensò il Torraca (Studi su la lirica italiana del Duecento, Bologna 1902, p. 156). Ma non esistono elementi sicuri né per questa identificazione né per sostenere l'identità del C. dantesco o col Castra Gualfredi, civis florentinus, menzionato nel breve pontificio, o col Castra dell'elenco bolognese di consiglieri del Comune di Firenze del 1215.
Non si hanno però neppure elementi per negare al C. dantesco la paternità del componimento, come vorrebbe, appoggiandosi ad una supposizione dello stesso Torraca (Nel periodo delle origini, in Studi marchigiani, I-II[1905-1906], p. 63), uno dei più attenti studiosi della cantio, il Crocioni. A favore di tale ipotesi starebbe il fatto che nel codice Vat. lat. 3793 (che è l'unico a tramandare il componimento, a f. 25r) la "canzone" sembra attribuita a un messer Osmano, che appunto è il nome che si legge in fronte ai versi, proprio là dove il codice suole registrare i nomi degli autori. Sono state avanzate varie ipotesi al fine di conciliare l'attribuzione dantesca con quella del codice, quando non si è preferito non tenere in nessun conto quest'ultimo, giurando sull'autorità dell'Alighieri. Mentre qualcuno, come il Grion e N. Caix (Ciullo d'Alcamo..., in Nuova Antologia, nov. 1875 p. 483), senza altra dimostrazione ritenne che C. e Osmano fossero la stessa persona, altri, come A. Borgognoni (in Studi d'erudizione e d'arte, II, Bologna 1878, pp. 191-96), sostenne che autore dei versi fosse veramente il C., che li avrebbe messi in circolazione attribuendoli a un messer Osmano, che in realtà sarebbe stato l'oggetto dello scherno, del dantesco improperium, e che potrebbe essere riconosciuto nell'orvietano messer Ormanno Monaldeschi, podestà di Firenze nel 1266. Più cautamente, il Monaci e il Camilli supposero l'uno che Osmano "poté esser uno pseudonimo dell'autore... e poté anche essere il nome o il soprannome di una persona cui il C. diresse questa poesia", l'altro (1915,p. 86) che si trattasse d'un soprannome dello stesso C., "dato a lui dai suoi concittadini di Firenze per aver egli soggiornato qualche tempo in Osimo",mentre F. D'Ovidio pensò a "un Osimano, di fatto o di nome, preso di mira da quel C., con la sua contraffazione" e che aveva finito col passare per il vero autore (Sultrattato "De vulgari eloquentia" di Dante Alighieri, in Versificazione romanza. Poetica e poesia medioevale, II, Napoli 1932, p. 305 n.) e il De Bartholomaeis da parte sua, negando la realtà personale di un messer Osmano, opinò trattarsi del nome fittizio dell'"eroe" protagonista del componimento "in persona del quale il fiorentino C. mandò attorno la storiella". Non ha dubbi invece sull'attribuzione della cantio a un vero e storico messer Osmano il Crocioni che, dimostrata l'esistenza nelle Marche nel XII secolo di più di una famiglia dal cognome "Osimani",crede, pur con qualche riserva, di poter riconoscere l'Osmano del codice vaticano in un tale "Montes Auximanus",notaio e lettore, per un anno, nell'Archiginnasio di Bologna. Mentre nessuno dei Castra ricordati nei documenti appare, secondo il Crocioni, uomo di cultura tale da poter comporre i versi ricordati da Dante, il notaio Osmano si presenterebbe invece, da questo punto di vista, del tutto pari al compito. Alla spiegazione del De Bartholomaeis si rifà ora sostanzialmente il Contini (seguito dal Pasquini), secondo cui l'intitolazione del codice indica "il fittizio personaggio di Osimo che narra la sua campestre avventura galante".
Le difficoltà di intendimento della lettera del testo, dovute alla scarsa documentazione del dialetto in cui è scritta la cantio, ilmarchigiano, hanno determinato la direzione prevalente dell'esegesi critica, che si è esercitata soprattutto sul piano interpretativo. Segnalata per la prima volta da F. Trucchi (nel discorso premesso alla Raccolta di poesie italiane inedite, I, Prato 1846, p. 671, la "canzone" fu data alle stampe, successivamente, dal Grion, dal D'Ancona e dal Comparetti, dal Monaci, dall'Egidi, dal Camilli, ancora dall'Egidi, dal Crocioni, dal De Bartholomaeis, dal Camilli per due volte ancora e ultimamente dal Contini e dal Pasquini. I più importanti tentativi di spiegazione di singoli vocaboli si devono al Monaci, al Torraca, all'Egidi, al Camilli, al Vitaletti, al Bertoni, al Crocioni e al Contini. Il Camilli, l'Egidi, il Crocioni e il Contini ne hanno anche proposto interpretazioni complessive di notevole interesse, seppure in qualche caso con eccesso di confidenza congetturale. Il senso di qualche vocabolo, come di qualche specifico luogo, rimane tuttavia incerto.
Il tempo di composizione della cantio sembra delimitabile tra il 1260 e il 1280 o anche più su, dato che il codice che la riporta è della fine del sec. XIII e che il suo trascrittore è il primo dei quattordici compilatori del codice stesso: inoltre, il nome Castra è attestato prevalentemente tra gli inizi e la metà del Duecento. Il fondo linguistico, cancellando la toscanizzazione sovrapposta forse dallo stesso autore, e certamente dai compilatori del codice, è riconoscibile, soprattutto a livello di lessico, non solo come marchigiano, ma precisamente, secondo che si voglia consentire col Crocioni o col Camilli, proprio del territorio tra il Tenna e il Chienti oppure della zona di Osimo. È anche vero che si tratta di una dialettalità preziosisticamente accentuata, come dimostra la ricercata rarità di certi termini.
Il componimento rappresenta un "contrasto" tra un intraprendente corteggiatore e una servetta di campagna, incontratisi per caso in aperta campagna in quel di Fermo e ambedue marchigiani, l'uno che richiede crudamente dietro offerta di modesti doni l'amore della donna, lei rusticamente ritrosa dapprima poi accondiscendente e alla fine pienamente soddisfatta, secondo uno schema chiaramente derivato da quello delle "pastorelle". La vicenda è tutta riferita in prima persona da un narratore, lo stesso protagonista, che riporta il dialogo e interviene con un discorso narrativo (in ciò è la massima differenza rispetto al Contrasto di Cielo) all'inizio a metà e alla fine del componimento. Il vario movimento dialogico, come nota il Crocioni, suggerisce esso stesso ulteriori elementi drammatici. In questa varietà di strutture e di suggestioni risiede il pregio di questi versi, dato dalla vivacità e rapidità di successione delle situazioni e dello spicco dei due personaggi, vividamente inseriti in uno spazio storico e sociale che li costituisce come individui artisticamente tipici. Rispetto alla "pastorella" e anche ai "contrasti" in volgare italiano appaiono però varianti di gran conto. Il protagonista è ancora di condizione sociale superiore a quella della donna, ma partecipa della stessa cultura e mentalità: qualcosa come un agiato ma rozzo campagnolo. La donna stessa non è più un'ingenua fanciulla, ma ha esperienza di cose d'amore; è cambiata la stagione dell'avventura villereccia, non più la primavera ma l'autunno; soprattutto, sono cambiati il tono e il clima, spostati a un livello crudamente e sensualmente rusticale. Appunto perciò, accogliendo l'indicazione dantesca, ma anche in altro senso, si è parlato di "parodia" (Crocioni, Camilli, Lazzeri, Contini, Segre, Pasquini). Parodia di una parlata dialettale sentita, in ambito fiorentino, come tramite di una cultural nferiore. Per tal via però si infiltra un diverso e più significativo genere di parodia, quella sociale, che traduce la sufficienza e il disprezzo cittadineschi nei confronti del mondo rurale. Anche se, per una frequente contraddizione, la partecipazione realistica, pari almeno all'accademismo vernacolare, controbilancia l'intenzione e tende a dare respiro autonomo alle due figure protagoniste e al loro mondo.
Il giudizio di Dante ("recte atque perfecte ligatam"), contestualmente interpretato (cfr. De vulgari eloquentia, II, ix, 2), non può riferirsi ad altro che alla struttura metrica delle stanze che la compongono, costruite con fronte (AB, AB, AB) e sirima (CD, CD). I versi sono in maggioranza decasillabi, a ritmo anapestico, mentre gli ipermetri endecasillabi si avvalgono quasi tutti dell'anacrusi. Non mancano però altri elementi formali tali da dimostrare perizia tecnica e impegno espressionistico nell'autore: dalle allitterazioni all'iperbato, alla variatio sinonimica, alla metafora, dalle rime equivoche ai latinismi e ai francesismi. È stato anche messo in evidenza un tipico gusto di corrispondenze e simmetrie, riscontrabili, le più importanti, sia nella distribuzione delle parti narrative e di quelle dialogate e delle varie battute di dialogo tra l'uomo e la donna, sia nelle duplicate serie ternarie di offerte di doni da parte del maschio e di insulti da parte della donna.
Le principali edizioni della cantio del C. sono state pubblicate da G. Grion, Il pozzo di san Patrizio, in Il Propugnatore, III (1870), pp. 89-92; A. D'Ancona-D. Comparetti, Le antiche rime volgari, I, Bologna 1875, pp. 484-88; E. Monaci, Crestomazia ital. deiprimi secoli, Città di Castello 1889-1912, pp. 492-94; F. Egidi, Il "Libro de varie romanze volgari",Roma 1908, p. 82; V. De Bartholomaeis, Rime giullaresche e popolari d'Italia, Bologna 1926, p. 23; G. Contini, Poeti del Duecento, I, Milano-Napoli 1960, pp. 913-18.
Bibl.: A. Camilli, La canzone marchigiana del C.,in Rassegna bibl. della letteratura ital.,XXIII(1915), pp. 86-109; F. Egidi, La canzone marchigiana del C.,in Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le Marche, s. 3, I (1916), pp. 178-87; A. Camilli, Ancora intorno alla canzone marchigiana del C., ibid., II (1918) , pp. 245 s.; G. Vitaletti, La canzone del C., in Archivum romanicum, V (1921), pp. 55-70 (con annotazioni di G. Bertoni); G. Crocioni, Una canzone marchigiana ricordata da Dante, in Giorn. stor. d. lett. ital., suppl., XIX-XXI(1922), pp. 265-362; A. Camilli, La canzone marchigiana del "De vulgari eloquentia",in Giornale dantesco, XXV(1922), pp. 137-43; C. Previtera, La poesia giocosa e l'umorismo, Milano 1939, pp. 134 s.; A. Camilli, La canzone marchig. del "De vulgari eloquentia", in Studi di filol. ital., VII(1944), pp. 79-96 (con bibl.); G. Lazzeri, in F. De Sanctis, St. della lett. ital. dai primi sec. agli albori del Trecento…, Milano 1950, pp. 388 s.; V. De Bartholomaeis, Orig. dellapoesia dramm. ital.,Torino 1956, pp. 33 s.; C. Segre, Polemica linguistica ed espressionismo dialettale nella letteratura ital.,in Lingua stile e società, Milano 1963, pp. 385 s.; E. Pasquini, IlDuecento dalle origini a Dante, in La letter. italiana. Storia e testi, a cura di C. Muscetta, I, 2, Bari 1970, pp. 171-74.