CAVALLERIA e CAVALIERI
Duplice è il significato di questi due termini, che da una parte hanno indicato e indicano semplicemente una suddivisione delle forze armate di un paese, e dall'altra, più largamente, ordini e classi sociali e politiche, che in origine costituiscono insieme un'aristocrazia e cavalleria nel senso militare della parola, ma si vennero poi variamente sviluppando anche indipendentemente da quel loro primo aspetto. La distinzione è ben mantenuta nelle lingue francese, tedesca e inglese, che usano rispettivamente per il primo senso cavalerie e cavalier, Reiterei e Reiter, cavalry e horseman, e per il secondo chevalerie e chevalier, Ritterschaft e Ritter, chivalry e knight; mentre lo spagnolo, come l'italiano, usa la stessa parola, caballeria e caballero, per entrambi i sensi. Si tratterà quindi prima della storia militare, dall'antichità ai giorni nostri, della cavalleria propriamente detta; poi dei più importanti ordini e classi sociali e politici che in vario modo, nel corso della storia europea, ne hanno tratto il nome.
La cavalleria come arma combattente.
Nel mondo antico. - Oriente. - La diffusione del cavallo fra i popoli civili dell'Asia anteriore e dell'Egitto per opera delle popolazioni indoeuropee provenienti dalle steppe dell'Asia centrale e dell'Europa orientale, nei primi secoli del II millennio a. C., fu un avvenimento di capitale importanza, come la scoperta della polvere da sparo o del vapore nei tempi moderni, e portò una rivoluzione nell'arte della guerra e nelle relazioni fra i popoli, consentendo agli eserciti una rapidità e un'ampiezza di movimenti ignote all'epoca precedente, che usava traini con buoi e asini, e moltiplicando sui teatri di guerra il potere offensivo degli eserciti e sui campi di battaglia la forza d'urto delle schiere montate. Il cavallo fu però da principio usato per tirare carri da guerra e da caccia; la vera e propria cavalleria fu preceduta dai cocchi da guerra (v. carro), e nell'Egitto faraonico il cavalcare non entrò mai nell'uso. Sui monumenti egiziani sono rappresentati alle volte guerrieri hittiti a cavallo: non sappiamo però se l'uso del cavallo come cavalcatura fosse normale accanto all'uso del cocchio, o si adottasse solo in casi speciali (fuga più rapida?). La cavalleria compare negli eserciti babilonesi al tempo del re Nabucodonosor I (seconda metà del sec. XII a. C.), ma si trattava probabilmente di mercenarî provenienti da paesi che già usavano la cavalleria. Anche presso gli Assiri la cavalleria compare soltanto negli eserciti del nuovo impero, con Assurnasirpal II (883-859 a. C.); ma diviene sempre più numerosa, fino a superare per massa e importanza i carri. Essa è fornita specialmente dagli alleati, come più tardi nell'esercito romano. La cavalleria assira è spesso rappresentata sui monumenti ed è perciò la prima cavalleria della storia della quale possiamo formarci un'idea esatta. Il cavaliere assiro cavalcava diritto, coi ginocchi in su e le coscie serrate ai fianchi del cavallo, senza staffe; non aveva sella, ma, al più, una coperta tenuta a posto da una cinghia. L'armamento, nel periodo più antico, sotto Assurnasirpal II e Salmanassar III, constava di un arco più corto di quello della fanteria come arma offensiva principale, di una spada corta e di elmo, lorica e gambiere; talvolta il cavaliere portava anche un piccolo scudo. Il cavaliere è poi accompagnato da un aiutante o scudiero, pure montato, armato di uno scudo concavo e spesso di una corta lancia, il quale, standogli a sinistra, protegge il cavaliere arciere e tiene la briglia del cavallo mentre quegli scocca la freccia. Col progresso dell'equitazione, al tempo di Assurbanipal, lo scudiero scompare, il cavallo è protetto da una grande gualdrappa e il cavaliere da una corazza. L'arma offensiva principale rimane sempre l'arco, ma sono frequenti anche i lancieri. Dapprima timida e formante quasi scorta ai carri da guerra, la cavalleria assira acquistò col tempo grande indipendenza e perizia e confidenza in sé; l'audacia e la mobilità sembra fossero le sue caratteristiche principali e i monumenti ce la mostrano mentre cavalca e combatte per pianure e per montagne, fra le selve e nelle paludi, e nel deserto alla caccia degli Arabi montati su cammelli. Essa fu certo la prima grande cavalleria nella storia del mondo, e strumento efficacissimo dell'impetuosa strategia degli Assiri.
A occidente dell'impero assiro, nell'Anatolia, l'impiego della cavalleria si andò sempre più estendendo dagli ultimi secoli del II millennio a. C. in seguito alle rinnovate invasioni dei popoli indoeuropei. Il regno lidio dei Mermnadi del VII e VI secolo, che succede nel primato sull'Anatolia ai Frigi, era una monarchia feudale, con una valorosa nobiltà guerriera che combatteva a cavallo in squadroni serrati, armata di lunghe aste; la fanteria dei Lidî aveva un'importanza secondaria. Cavalieri sono rappresentati sui monumenti arcaici della Licia e sono numerosi sui monumenti più recenti, pur sotto l'influenza ionica. Con le vittorie dei Medi e dei Persiani su tutti i popoli dell'Oriente classico, si può dire che la cavalleria dominò per un certo periodo il mondo. Essa era, accanto alla guardia a piedi persiana dei 10.000 immortali, l'elemento più importante degli eserciti persiani ed era armata, come la fanteria, di grandi archi, che erano l'arma nazionale e principale, e inoltre di lancie di sei piedi circa di lunghezza, di pugnale portato alla cintola e talvolta di un piccolo e leggiero scudo. I grandi successi dei Persiani furono dovuti alla pioggia di dardi che fanteria e cavalleria scagliavano sul nemico, alla mobilità della loro cavalleria nello stormeggiare, e all'impeto da essa spiegato nell'attacco e nell'inseguimento. La lancia serviva per l'urto decisivo nel caso che il nemico non avesse già ceduto sotto il tiro dei dardi. Come arcieri, nella maggior parte i Persiani non avevano panoplia, ma portavano lunghe brache e lunghe tuniche con larghe maniche e in capo un berretto (la tiara). Solo i cavalieri più nobili portavano una corazza di maglie metalliche, insufficiente però per la lotta a corpo a corpo; perciò i Persiani soccombettero dinnanzi all'attacco degli opliti greci protetti da panoplia. I Saci e i Medi brandivano anche ascie (σάγαρις).
Le tradizioni della cavalleria persiana furono riprese dai Parti e dalla nuova Persia dei Sassanidi. La forza degli eserciti dei Parti, popolazione di origine nomade, consisteva nei cavalieri corazzati, più abili nella lotta a distanza con arco e frecce che in quella corpo a corpo; ogni signore era seguito da un gran numero di servi a cavallo, addestrati per la guerra. La loro tattica, ben nota, consisteva nello stormeggiare intorno al nemico e nel far cadere su di lui una pioggia di frecce. Se il nemico li serrava da presso, essi fuggivano rapidamente disperdendosi, e quando il nemico, nel tentativo d'inseguirli, confondeva la sua ordinanza, essi ritornavano celermente all'attacco. Le legioni romane sperimentarono quanto fosse difficile resistere a tali nemici, specie nelle regioni pianeggianti. Però l'umidità dell'inverno faceva rallentare i loro archi e allora essi erano impotenti a combattere. Anche gli eserciti sassanidi erano formati di arcieri a cavallo e di cavalleria pesante armata di lancie.
Prima ancora che Medi e Persiani scendessero dall'Irān sull'Asia anteriore, altre orde di cavalieri ariani, Cimmerî e Sciti, la percorrevano scendendo da nord. L'Asia Minore fu devastata nel sec. VII a. C. dai Cimmerî, coi quali gli opliti greci delle città della Ionia combatterono lotte che non furono per lungo tempo dimenticate. Gli Sciti razziarono l'Asia più a est, fino all'Egitto e alla Media. Più tardi troviamo le stesse tribù scite, principale quella degli Sciti nomadi o Reali, a contatto prima coi Greci, poi coi Romana nella Balcania settentrionale e sulle coste del Ponto. Il compagno preferito di queste popolazioni, sempre pronte a cavalcare verso il sud, era il cavallo. Il loro costume era aderente al corpo, breve e stretta tunica, brache e berretto; non conoscevano staffe. La loro arma principale era l'arco composito, che portavano in una faretra (γωρυτός); avevano inoltre una corta spada-pugnale e a volte l'ascia e scudi rotondi od ovali. Più tardi essi appresero dai Greci a portare elmi e altre armi difensive metalliche. La loro tattica era simile a quella degli affini popoli dell'Iran; o l'attacco a stormi saettanti o la difesa elastica, con alternative di fughe e di contrattacchi, che riusciva loro specialmente se potevano attirare il nemico nella steppa, che i loro veloci squadroni percorrevano a loro agio. In Grecia gli Sciti furono importati dalle coste del Ponto per servire come arcieri o come scudieri a piedi o a cavallo. Una nuova ondata di cavalieri iranici portò nella Russia i Sarmati, che occuparono nel I e II sec. a. C. il paese già tenuto dagli Sciti. Essi avevano però una tattica e un armamento diverso da quello degli Sciti. Coperti, uomini e cavalli, di pesantissime armature di cuoio e di metallo (v. catafratti) e brandendo lunghe lancie (conti), essi attaccavano in massa, vera falange montata; nei corpo a corpo impugnavano a due mani lunghe spade. L'arco aveva invece per i Sarmati importanza secondaria. I Romani del sec. I d. C. sostennero con loro lunghe lotte sul Danubio e in Asia e ne imitarono l'armamento per la propria cavalleria, nella quale reparti di catafratti compaiono già ai tempi di Adriano; in seguito si arruolarono anche corpi di Sarmati corazzati.
Grecia. - Anche in Grecia il cavallo è usato nell'età micenea e in Omero per tirare i carri da guerra, ai quali subentrò poi la cavalleria, che i Greci dovettero conoscere per tempo nell'Asia Minore, specialmente la lidia e l'assira. Ma la cavalleria non si sviluppò in Grecia in modo uniforme. Nelle regioni in cui il terreno si prestava al suo impiego e in cui la nobiltà mantenne più a lungo la sua supremazia politica (i due fatti sono di solito in stretta relazione), la cavalleria fiorì; così in Macedonia, Tessaglia, Beozia, Eubea, parecchie città greche dell'Asia Minore, Cirene, Cipro, Creta, Sicilia. Invece nelle regioni montuose o a precoce sviluppo democratico, la borghese fanteria degli opliti ebbe la prevalenza e la cavalleria o fu presto soppressa o ebbe scarsa importanza. Così, mentre in Tessaglia la proporzione fra cavalieri e fanti stava come 1 a 2 (v. Aristot., fr. 498 Rose; Xenoph., Hell., VI, I, 8), a Sparta invece nell'VIII o VII secolo la stessa guardia a cavallo del re fu appiedata, conservando il titolo di ἱππεῖς a ricordo della sua antica condizione; ma l'esercito cittadino spartano era formato di soli opliti. In Atene la cavalleria, che esisteva ancora al tempo dei Pisistratidi, che ricorsero però spesso all'eccellente cavalleria dei Tessali, loro alleati, fu abolita pare da Clistene, e a Maratona e a Platea gli Ateniesi non avevano cavalleria, pur continuando i cittadini della classe più elevata a chiamarsi ἱππεῖς.
I cavalieri greci anteriori al sec. V ci sono noti specialmente dalle pitture vascolari. Essi hanno spesso due cavalli, uno dei quali o è vuoto o è montato da un servo disarmato o armato come nella cavalleria assira più antica; e l'uso pare si sia conservato più a lungo nelle colonie d'Italia, dalle quali cavalieri ἅμιπποι venivano assoldati ancora negli eserciti ellenistici e detti Ταραντῖνοι. Quanto alla tattica di questi cavalieri, W. Helbig riteneva che i cavalli servissero solo come mezzo di trasporto; giunto sul campo di battaglia il guerriero armato di panoplia balzava a terra e combatteva a piedi. Questa teoria è però giusta solo per quegli stati, in cui a un certo momento tutti i guerrieri si serravano nella falange compatta degli opliti, e quindi anche quelli che avevano il cavallo lo lasciavano per combattere a piedi; ma prima che si arrivasse alla falange, e in molti stati sempre, i nobili combattevano a cavallo e balzavano a terra per combattere con la spada solo dopo aver scagliato l'asta o se il cavallo era ferito.
Al principio del sec. V a. C. le esigenze militari persuasero gli Ateniesi a ricostituire la loro cavalleria, e fu organizzato (pare fra il 478 e il 472) un corpo di 300 cavalieri cittadini, portato poco dopo a 1000 e al quale furono aggiunti 200 arcieri cìttadini a cavallo; si avevano quindi 1200 cavalli accanto a 13.000 opliti, cioè all'incirca nel rapporto di 1 a 10. Questa cavalleria formò in seguito l'orgoglio di Atene, e la si vede nel fregio fidiaco della cella del Partenone, mentre sfila nella processione panatenaica. I cavalieri provenivano dalle famiglie più ricche ed erano tenuti a mantenere i cavalli da guerra; essi erano di sentimenti aristocratici e contrarî quindi al governo della democrazia; ciò che aveva ripercussioni gravi sulla disciplina dell'arma. Il ruolo (πίναξ, κατάλογος) dei 1000 cavalieri doveva esser tenuto sempre al completo anche in tempo di pace, e in frequenti rassegne (δοκιμασίαι) si controllavano l'istruzione e l'attitudine dei militi e lo stato dei cavalli. I cavalieri ateniesi erano armati di solito di due giavellotti, uno da lanciare e uno da tenere come asta, alle volte di un'asta (δόρυ) e di una spada corta; non avevano ordinariamente scudo. Sulle pitture vascolari portano di solito una clamide e un petaso o altro copricapo (berretto scita o tracio); ma sappiamo che portavano anche corazza pesante e manopole (χεῖρες), stivali di cuoio e alle volte schinieri; anche il cavallo era protetto da frontali e pettorali. Non usavano né sella né staffe, ma solo una coperta sulla schiena del cavallo.
Sparta solo nel 424 a. C., per la necessità della difesa delle coste contro sbarchi nemici, creò un corpo di cavalleria e di arcieri di circa 400 uomini, portati nel 394 a 600. Ma si trattava di una mediocrissima cavalleria; basta pensare che i cavalli venivano assegnati agli uomini più deboli, che entravano in campagna senza alcun allenamento. Miglior cavalleria ebbero gli Spartani quando cominciarono a formarla con mercenarî. Di molto superiore alle cavallerie ateniese e spartana erano le cavallerie beozia e tessala (questa seconda famosa), reclutate fra le nobiltà dei due paesi. Una particolarità della cavalleria beotica, che si era distinta a Platea (Herod., IX, 69), è che essa combatteva insieme con la fanteria leggiera degli ἅμιπποι: ogni cavaliere ne portava uno in groppa. La cavalleria costituiva il nerbo dell'esercito della lega tessalica e la sua forza nominale era nel sec. IV computata a 6000 cavalli, cifra che non veniva in pratica mai raggiunta; tuttavia i corpi di 1000, 1500, 2000 cavalieri tessali che incontriamo nella storia rappresentano le maggiori masse di cavalleria che gli stati greci abbiano potuto mettere in campo prima dell'età ellenistica. Al tempo di Giasone di Fere (sec. IV) la cavalleria tessalica era armata di robusta asta e di spada; armi difensive: elmo di metallo con paranaso e paraguance, corazza metallica e alti sandali. Numerosa cavalleria armarono i Greci delle colonie d'Occidente, specialmente Siracusa, ove i gamoroi, i ricchi proprietarî terrieri, fornivano i cavalieri. Gelone ebbe a disposizione 2000 cavalli, Dionisio il vecchio 3000. Nella prima battaglia contro gli Ateniesi, i Siracusani avevano 1500 cavalli.
La cavalleria greca dell'età classica ebbe dunque valore assai ineguale. Ma anche le migliori cavallerie non potevano dare un grande rendimento. Poiché l'uso dell'arco non si generalizzò mai in Grecia. la tattica della cavalleria avrebbe dovuto culminare nell'urto in massa; viceversa l'accennata mancanza di staffe e di sella costringeva il cavaliere ad adoperare per l'urto con l'asta la sola forza del braccio (il lanciere moderno, ben saldo in sella, tiene invece col braccio la lancia stretta al fianco e imprime ad essa tutta la forza del proprio corpo e del cavallo). Perciò molti antichi, p. es. Senofonte, erano contrarî alla grande lancia da urto e preferivano le due lance leggiere che si potevano lanciare o usare per la lotta corpo a corpo. A questi inconvenienti i Greci dell'età classica non rimediarono, come altri popoli antichi, con un allenamento più intenso, individuale e collettivo, dell'uomo e del cavallo, e preferirono invece la lotta irregolare e individuale. Quindi l'opinione dominante che la cavalleria non poteva sfondare un'ordinanza compatta di opliti; e la sua funzione perciò si limitava al servizio di esplorazione e di sicurezza, alla lotta contro la cavalleria avversaria, a proteggere ritirate e ad inseguire la fanteria nemica con una successione di piccoli attacchi con lancio di giavellotti.
Epaminonda affidò alla cavalleria beotica la protezione del fianco dell'ala difensiva indebolita per rafforzare l'ala offensiva, e quindi con lui la cavalleria divenne un elemento importante di una concezione tattica organica. Ma spettava ai Macedoni, e specialmente a Filippo, educato alla scuola di Epaminonda, e ad Alessandro aprire nuovi orizzonti all'impiego della cavalleria e farne in un certo senso l'arma regina della battaglia. Mentre i contadini macedoni furono organizzati da Filippo nella falange, l'aristocrazia macedone formava la guardia a cavallo e le 7 ἴλαι della cavalleria pesante, i cui componenti portavano il titolo di ἑταῖροι, compagni del re. Si aveva poi la cavalleria leggera dei σαρισσοϕόροι, forse macedoni, dei Traci (Odrisî) e dei Peoni, alla quale era affidato di solito il servizio di avanscoperta; perciò erano detti πρόδρομοι. La Tessaglia forniva poi al re macedone un contingente di 1800 cavalieri (secondo alcuni invece 1200). L'esercito di Alessandro contava inoltre 600 cavalieri alleati greci. Nel complesso l'esercito che iniziò la conquista dell'Asia contava un po' più di 30.000 fanti e di 5000 cavalli; la cavalleria stava perciò alla fanteria come 1 a 6 circa, proporzione molto più alta che nell'età precedente. Essa era divisa in pesante per l'urto (ἑταῖροι, Tessali, alleati greci) e in leggiera per l'esplorazione e per la lotta in ordine sparso. Come armamento, la cavalleria macedone non presenta novità notevoli. La cavalleria pesante combatte specialmente con l'asta da urto, manovrata sempre con la sola forza del braccio, e secondariamente con la spada. Ma essa superava la cavalleria greca dell'età precedente per l'eccellenza dell'organizzazione e dell'addestramento. Le varie specie di cavalleria hanno nella battaglia ciascuna la loro missione, corrispondente all'armamento e al sistema di lotta a loro abituale; e la cavalleria non è più nella battaglia un elemento secondario, fiancheggiante, sia pure in stretto collegamento, l'azione della fanteria, come ancora nell'esercito di Epaminonda, ma sostiene una parte essenziale, a volte anzi preminente. Ciò è molto bene espresso dal fatto che il re in persona, date le disposizioni generali per la battaglia, carica alla testa della cavalleria degli ἑταῖροι dell'ala offensiva, che al Granico, ad Isso e a Gaugamela è l'ala destra. Questa cavalleria agiva in formazioni serrate e a scaglioni e cercava la decisione mediante la violenza dell'urto, protetta sul suo fianco esterno da reparti di cavalleria e fanteria leggiera; e la carica era diretta contro un punto essenziale della linea avversaria per romperla e attaccarne quindi i monconi di fianco e alle spalle, mentre la falange la premeva di fronte. La cavalleria tessalica e parte delle truppe leggiere stavano invece di solito all'ala sinistra, l'ala difensiva, con la mansione di proteggere il fianco sinistro della falange e di trattenere con azione temporeggiante il nemico. Nelle campagne iraniche di Alessandro aumenta l'importanza della cavalleria leggiera, che fu molto accresciuta con elementi orientali. Notevole è la battaglia sull'Idaspe, che nella prima fase è sostenuta da Alessandro con la sola cavalleria.
Nella composizione degli eserciti dell'età ellenistica la cavalleria ebbe in genere la stessa importanza che aveva avuta con Alessandro, e in alcuni casi anche maggiore. Contingenti più modesti ma più omogenei di cavalleria avevano in genere gli eserciti europei dei re di Macedonia; molto più forti e composti di elementi svariati gli eserciti formati nell'Asia, che offriva molte popolazioni con antiche tradizioni cavalleresche e larghe possibilità di rimonta: nelle battaglie fra Eumene ed Antigono nell'Iran la cavalleria costituisce il 30 e il 40% dell'esercito di Antigono, il 17% di quello di Eumene, e a Gaza il 38% di quello di Tolomeo. Degli stati della Grecia propria avevano una cavalleria ragguardevole gli Etoli e la Lega achea. Quanto all'armamento, la cavalleria di linea dell'età ellenistica è protetta da corazze pesanti, e si introduce l'uso di corazzare anche i cavalli (v. catafratti); inoltre in molti eserciti si adotta anche per la cavalleria un piccolo scudo, di solito di legno rivestito di metallo. L'arma offensiva principale è la lancia da urto che è in uso anche presso alcune cavallerie semileggiere (Medi) e leggiere (sarissofori), che dovevano esser quindi simili ai moderni cosacchi; altri reparti di cavalleria leggiera conservarono invece il giavellotto da lancio. Frequenti erano i corpi di arcieri a cavallo, e si ricordano anche meharisti su cammelli. La profondità della cavalleria schierata in battaglia era normalmente di otto cavalli.
L'impiego della cavalleria nella battaglia avviene secondo i principî fondamentali fissati da Alessandro; ma poiché non si è più legati all'antico schema che l'ala offensiva è la destra, lo scontro avviene alle volte direttamente fra le due masse principali avversarie di cavalleria. Se il grosso della cavalleria di una delle due parti annienta il grosso dell'altra, la cavalleria vincitrice attacca allora sul fianco o alle spalle la fanteria nemica; se la cavalleria nemica è respinta, ma non annientata, la cavalleria vincitrice doveva inseguirla; spesso però si allontanava dal campo di battaglia perdendo il contatto con il resto dell'esercito. Alla cavalleria leggiera spettava in genere la protezione del fianco della cavalleria attaccante e la difesa elastica all'ala difensiva.
Cartagine, Galli, Italici. - Grande importanza nella storia militare dell'antichità ebbe la cavalleria cartaginese, specialmente con Annibale. Poiché gli eserciti cartaginesi dal principio del sec. V vennero sempre più largamente formati con mercenarî di svariata provenienza, la cavalleria cartaginese risultava di elementi diversi per nazionalità, per armamento e tattica. I Numidi, longe primum equitum in Africa... genus (Liv., IX, 34, 5), ne formavano il grosso. Montati su piccoli e resistenti cavalli indigeni (alle volte tenevano un cavallo dì ricambio), i Numidi, agilissimi, armati di un piccolo scudo di cuoio e di giavellotto, caricavano al galoppo il nemico gridando e scagliando le loro armi; e ripetevano l'attacco se al primo impeto non riuscivano. Grande era la loro abilità nelle scorrerie e nelle esplorazioni; erano terribili nell'inseguimento di una truppa battuta. Dopo la conquista della Spagna, si ebbero anche importanti contingenti di cavalleria spagnola, composti di mercenarî e di sudditi. Cavalieri mercenarî i Cartaginesi reclutarono anche fra i Galli, i Campani d'Italia e altre popolazioni. La cavalleria cartaginese era necessariamente divisa per nazioni, ciò che equivaleva ad una divisione per qualità; p. es. Numidi, Spagnoli, Galli, ecc. L'ufficialità inferiore apparteneva alla stessa nazione della truppa, e talvolta principi alleati comandavano l'intero loro contingente: ma i gradi elevati erano in genere affidati a Cartaginesi, specialmente quello di comandante l'intera cavalleria. Nelle guerre contro i Romani, i Cartaginesi furono in genere superiori nella cavalleria (contro Regolo, in Africa, 16.000 fanti e 2000 cavalli, Annibale 11.000 cavalli alla Trebbia e 10.000 a Canne contro i 4000 e 6000 dei Romani: il rapporto inverso invece a Zama, ove i Numidi erano dalla parte di Scipione), e avevano inoltre migliorato l'armamento di parte della loro cavalleria, facendone una cavalleria di linea. Nelle battaglie annibaliche, la cavalleria, schierata alle ali, ha per obiettivo di spazzar via la cavalleria e avviluppare quindi la fanteria nemica: esempio classico la battaglia di Canne.
Popolo eminentemente cavaliere furono nell'Occidente i Galli. La nobiltà gallica combatteva volontieri anche a piedi, ma aveva grande passione per i cavalli. Ogni nobile cavaliere era accompagnato da due servi a cavallo, pronti a fornirgli, al bisogno, un altro cavallo, o, se egli veniva ferito, a prendere il suo posto nello squadrone che si manteneva così sempre compatto. L'armamento consisteva nella spada gallica a due tagli, lunga e, nel sec. III, senza punta; frequente è lo scudo, rari l'elmo e la corazza: portati più per ornamento; i Galli vestivano di solito solo le loro larghe brache e il mantello, quando non preferivano combattere a torso nudo. La tattica della cavalleria consisteva in una carica impetuosa, accompagnata da grida feroci e dal suono degli strumenti guerreschi. Molti popoli piegarono atterriti dinnanzi alla furia della cavalleria gallica, ma Greci e Romani, riavutisi presto dai terrori dei primi incontri, ne ebbero facilmente ragione per la superiorità del loro armamento. La cavalleria gallica fu però largamente assoldata dai re ellenistici e più tardi, specie dopo l'età di Cesare, diede numerosi squadroni agli eserciti romani.
Anche presso le popolazioni dell'Italia antica, ai cocchi si aggiunse e poi subentrò completamente la cavalleria. Notizie sulla storia dell'arma abbiamo solo per Roma; i monumenti ci dànno però un'idea abbastanza chiara dell'armamento e del modo di combattere dei cavalieri italici, specialmente degli Etruschi e delle popolazioni sabelliche dell'Italia meridionale, la cui cavalleria è celebrata anche dalle fonti letterarie, specialmente la sannita e la campana. I cavalieri dell'Italia meridionale portano elmo, spesso con cresta e penne o corna, corazza e alle volte anche un grande scudo, e sono armati di una o due lance; per poter vibrare con maggior violenza il colpo o per altre circostanze particolari, smontavano talvolta da cavallo e combattevano a piedi.
Roma. - L'antichissimo esercito romano era schematicamente composto di tre centurie di cavalieri (celeres) e di tre migliaia di fanti; il rapporto fra cavalleria e fanteria era quindi di regola da 1 a 10, proporzione che si mantenne quando l'esercito fu raddoppiato, ancora al tempo dei re, e portato a sei centurie di cavalieri e a sei migliaia di fanti; ma l'unità militare centuria equestre fu presto disciolta e per la guerra la cavalleria fu invece formata in turmae di trenta cavalieri. Quanto all'armamento e alla tattica degli antichissimi cavalieri romani, non abbiamo che scarse e frammentarie notizie.
I monumenti mostrano che anch'essi seguirono la generale tendenza delle cavallerie di tutti i popoli d'Italia ad adottare l'armamento greco: conservarono però l'ascia e imbracciarono lo scudo rotondo di bronzo (parma). È attestato anche per Roma l'uso dei due cavalli, pares equi, uno per il guerriero e l'altro per lo scudiero; e forse dagli scudieri degli equites si era a un certo momento sviluppata quella cavalleria leggiera dei ferentarii, armati di iacula, giavellotti, ricordati dalle fonti, ma scomparsi dall'esercito romano almeno prima dell'età di Polibio, forse già nel secolo III. L'opinione del Helbig, che gli antichissimi equites non fossero che una fanteria pesante montata, che si giovava dei cavalli per spostarsi più rapidamente e più agevolmente, è, se formulata troppo rigidamente, eccessiva.
Da epoca remota, probabilmente dal tempo dell'introduzione dell'ordinamento timocratico, la cavalleria romana è permanente, nel senso che lo stato assicura il reclutamento della cavalleria corrispondendo a un numero fisso di cittadini (nell'epeca storica 1800) un'indennità per l'acquisto di uno o due cavalli (aes equestre) e per il foraggio (aes hordiarium); si riconoscono cioè le speciali esigenze di addestramento e di allenamento che richiede il servizio a cavallo. La scelta dei cavalieri era fatta dai magistrati supremi, re e consoli, nel tempo più antico, dai censori dopo l'istituzione di questa carica; e alle stesse persone spettava la rassegna periodica della cavalleria per accertarsi delle attitudini militari dei cavalieri e della tenuta delle cavalcature e delle armi (v. censore). Lo stato si riservò tuttavia il diritto, almeno da una certa epoca, d'imporre il servizio a cavallo anche a coloro che, pur non godendo l'assegno equestre, possedevano però un determinato patrimonio, che li metteva in grado di provvedersi con mezzi proprî di cavalli da guerra. Così si fissò per tempo il cosiddetto censo equestre e a questi cavalieri si ricorreva quando non erano sufficienti gli equites equo publico.
Nell'epoca classica, la cavalleria romana è attribuita alle legioni (ciò non escludeva però che sul campo di battaglia essa venisse riunita in una o due masse sulle ali) e secondo la proporzione tradizionale di 1 a 10, cioè 300 cavalieri ai 3000 fanti di linea della legione. L'armamento dei cavalieri, pesante nell'epoca regia, s'era venuto prima alleggerendo, e Polibio (VI, 25, 3 seg.; passo molto discusso) dice che la cavalleria romana più antica (III sec.?) non portava corazza ma un cinturone, due aste leggiere e senza σαυρωτήρ (punta al calcio della lancia) che servivano poco e si spezzavano facilmente, scudo leggero ovale e concavo di pelle di bue che si guastava con la pioggia e non assicurava una sufficiente protezione. Perciò la cavalleria romana all'età di Polibio aveva da tempo adottato un armamento regolamentare di tipo greco, che consisteva nell'elmo (cassis), di solito di tipo italico, corazza corta con gonnellino, di cuoio solo o con sopra una cotta di maglia metallica o a squame (lorica) o di maglia e squame combinate in varia forma, e scudo leggiero ovale di legno, cuoio e metallo (scutum equestre); armi offensive: una sola lancia con sauroter (hasta, tragula) e la spada che fu poi la iberica, portata a sinistra. I cavalieri ricevevano triplo soldo del fante, cioè un denaro al giorno, e tripla razione, ed erano dispensati dai lavori dell'accampamento, nel quale avevano invece per turno l'ispezione ai posti di guardia. Ma la cavalleria cittadina romana cominciò molto per tempo (già dalla fine del sec. III) a decadere come arma combattente. Molti degli equites prestavano servizio come magistrati o come ufficiali superiori e gli altri provavano una crescente riluttanza a servire nella truppa degli squadroni; gli equites si trasformarono così in una classe che, quando prestava servizio, esigeva di prestarlo come ufficiale. Il governo romano non tentò rimedî a questa trasformazione della cavalleria cittadina, che aveva cause profonde d'ordine politico e sociale, e provvide alla cavalleria degli eserciti ricorrendo sempre più largamente agli alleati e agli ausiliarî stranieri. Al tempo di Polibio, mentre il contingente di fanteria degli alleati era all'incirca pari o di poco superiore alla fanteria della legioni romane, quello della cavalleria era il triplo (Polib., VI, 26, 7); cioè per un esercito di due legioni sei alae di 300 cavalli comandate da ufficiali romani. Gli auxilia a cavallo erano formati di Numidi, che ebbero gran parte nella vittoria di Zama e più tardi nella guerra numantina; e si aggiunsero poi cavalieri spagnoli e, dopo Cesare, Galli, Germani, ecc. Formati per nazionalità e spesso comandati direttamente dai loro capi indigeni, conservavano di solito l'armamento nazionale; però alcuni corpi vennero anche equipaggiati e disciplinati alla romana, e organizzati in alae e turmae. L'ultimo tentativo di far rinascere la cavalleria cittadina fu fatto da Pompeo nella guerra contro Cesare, ma è nota la cattiva prova fatta da tale cavalleria a Farsalo. Gli auxilia ne presero per intero il posto e non ci fu più cavalleria legionaria. Cesare al principio della guerra gallica aveva 4000 cavalieri tutti Galli (Bell. Gall., 1, 15), e quando ebbe bisogno di una scorta a cavallo fidata, fece smontare i Galli e salire sui loro cavalli dei legionarî (ibid., 42). Da quest'epoca i contingenti gallici ebbero importanza sempre maggiore nella cavalleria romana e influirono fortemente sul suo armamento e sulla tattica. Verso la fine della guerra gallica, Cesare arruolò anche cavalieri germanici, che fecero ottima prova contro Vercingetorige e poi a Farsalo; e in seguito i corpi di cavalleria germanica divennero sempre più numerosi nell'esercito romano. L'armamento nazionale, almeno dei Germani dell'ovest, era la lancia corta (framea), raramente la spada, e lo scudo di solito esagonale (Tac., Germ., 6, 6); altre armi difensive erano rare (ib., 6, 10). Molte tribù germaniche davano eccellente cavalleria; quella di Ariovisto era sostenuta da fanteria leggiera scelta, abituata a combattere frammista ai cavalieri (Caes., Bell. Gall., I, 48). La cavalleria ha gran parte negli eserciti germanici dal tempo delle invasioni: gli Alemanni sono detti gentem populosam ex equo mirifice pugnantem (Aur., Vict., De Caes., 21, 2); i Vandali sarebbero stati tutti cavalieti armati di lancia (Procop., Bell. Vandal., I, 8) e la forza degli Ostrogoti stava nella loro cavalleria corazzata di lancieri.
La cavalleria romana repubblicana fu in complesso una mediocre cavalleria e il suo uso nel campo strategico e tattico non presenta, prima di Cesare, nulla di particolare. Fino agli ultimi tempi della repubblica, essa non veniva di solito usata per il servizio di avanscoperta, ma marciava con il grosso dell'esercito, ciò che spiega come al Trasimeno l'esercito romano si sia cacciato in colonna nella stretta fra il lago e i monti sfilando a breve distanza dal cartaginese, e come per parecchi giorni a Cinoscefale i Romani abbiano marciato a distanza di pochi chilometri dai Macedoni senza saperlo: l'uso su grande scala della cavalleria in avanscoperta fu inaugurato da Cesare o almeno nell'età cesariana, nella quale infatti il grosso della cavalleria marciava all'avanguardia. Nella battaglia la cavalleria romana ebbe sempre una parte secondaria; le battaglie romane furono essenzialmente battaglie di fanteria e nella fanteria era il nerbo dell'esercito, anche quando erano in campo notevoli contingenti di cavalleria (p. es. a Filippi). Secondo lo schema abituale, la cavalleria romana si schierava alle due ali dell'esercito, la cittadina a destra, l'alleata a sinistra, con lo scopo di spazzar via la cavalleria e cadere quindi sui fianchi o alle spalle della fanteria nemica. Se le forze non le permettevano di raggiungere questo risultato, la cavalleria cercava d'impegnare la cavalleria avversaria, trascinandola lontano dal campo di battaglia. L'attacco avveniva o in ordine chiuso (confertis equis) o in ordine rado, senza intervallo fra gli squadroni (confertis turmis) o con gli squadroni distanziati (distractis turmis). Per la carica si toglievano alle volte i morsi ai cavalli (effrenatis equis). La carica in ordine chiuso contro fanteria in ordinanza, con lo scopo di rovesciare con l'urto il nemico, è ricordata più di frequente per i tempi più antichi (sec. V-IV), in racconti di battaglie che hanno un valore storico assai discutibile; ma nei tempi più recenti era un'eccezione anche contro fanteria mediocre. L'attacco invece o si risolveva in una lotta corpo a corpo (stantibus equis) o più spesso in un combattimento a stormi, con alternative di attacchi e di ritirate (more equestris proelii sumptis tergis atque redditis; Sallustio, Hist. fr. inc., 21 M.). Sovente la cavalleria appiedava per combattere. Con lo sparire della cavalleria italica uniformemente armata e istruita, la cavalleria degli eserciti romani, costituita da auxilia con armamento e tattica nazionale, e quindi assai diversi da un contingente all'altro, non viene di regola usata più in massa sul campo di battaglia, ove la superiorità della fanteria era universalmente riconosciuta (Bellum ispaniense, 15, 1). Gli scopi della cavalleria sono piuttosto di molestare il nemico in marcia, rendergli difficile l'approvvigionamento, costringerlo a fermarsi e ad accettare battaglia e infine inseguirlo dopo la battaglia. L'opposta azione delle cavallerie conduceva spesso a grossi combattimenti di cavalleria, sostenuta non di rado da reparti leggieri a piedi: anzi l'uso di mescolare reparti di fanteria leggiera alla cavalleria diviene quasi generale. Il miglior generale di cavalleria dell'epoca cesariana fu M. Antonio il triumviro, il Murat romano.
In seguito alla riorganizzazione dell'esercito fatta da Augusto, la legione romana tornò ad avere un esiguo reparto di cavalleria; ma il grosso della cavalleria dell'esercito imperiale continuò invece a essere costituito dalle alae ausiliarie, quinquagenariae (di 500 cavalli) e milliariae (di 1000 cavalli), reclutate nelle provincie, e dai numeri di cavalleria forniti dalle popolazioni da poco assoggettate o estranee all'impero. Le alae potevano essere aggregate alle varie legioni e acquartierate nel loro stesso campo. Inoltre un certo numero di coorti ausiliarie di fanteria, dette equitatae, comprendevano un contingente di cavalleria (v. coorte). La guardia imperiale dei pretoriani aveva la sua cavalleria, pare una turma per ognuna delle sei centurie di una coorte pretoria, ed erano montati, almeno in parte, i Batavi custodes corporis, la guardia del corpo germanica degl'imperatori della casa Giulia, disciolta da Galba e sostituita poi all'epoca dei Flavî o di Adriano dallo squadrone degli equites singulares, guardie del corpo dell'imperatore, reclutate in genere fra gli abitanti delle provincie settentrionali e che durarono fino al sec. III. L'armamento variava da reparto a reparto. Sui monumenti in genere i cavalieri sono armati di robusta lancia e di giavellotto con grande punta a losanga; gli scrittori distinguono il contus, grande lancia di origine sarmatica, e la lancea spagnola. Hanno inoltre la spada lunga (fino a 80 cent.) e alle volte, dal sec. II d. C., la mazza, lo scudo di legno con guarnizioni metalliche, ovale o esagonale, piatto e piuttosto piccolo, elmo di tipo attico-romano o italo-celtico o frigio (quest'ultimo forse spesso di stoffa) e corazza di cuoio semplice o con guarnizioni di squame metalliche e placche, o cotta di maglia metallica semplice o rinforzata, o corazza di cuoio e maglia, l'una sopra l'altra, o la corazza di scaglie; più tardi anche la corazza articolata (lorica segmentata). Reparti speciali erano invece armati di archi.
In campagna, la cavalleria usata secondo i criterî che si erano formati durante gli ultimi tempi della repubblica. Nella marcia in vicinanza del nemico, reparti di cavalleria sono all'avanguardia, e ad cssi spetta, con le truppe leggiere, il servizio di avanscoperta e di sicurezza. Nella marcia in agmen quadratum in vista del combattimento, la cavalleria marcia ai fianchi e in coda della formazione. Nella battaglia la cavalleria si dispone di solito parte alle ali, parte dietro il centro, in riserva; alle volte anche in prima linea con le milizie ausiliarie. Un prezioso documento sull'istruzione della cavalleria romana è il testo del gran rapporto tenuto il 1° luglio 128 d. C. dall'imperatore Adriano, dopo che le truppe del campo di Lambaesis in Numidia (Legio III Augusta) avevano eseguito dinnanzi a lui delle manovre, rapporto che il comando del campo fece incidere sul marmo (v. Corp. Inscr. Lat., VIII, 2532; 18042; Dessau, Inscriptiones selectae, 2487, 9133, 9134).
Con l'imperatore Gallieno (253-268) la cavalleria fu aumentata e le legioni private dei loro contingenti a cavallo, che furono riuniti in grossi corpi, in modo che la cavalleria potesse essere adoperata a masse e come elemento tattico di prima importanza sul campo di battaglia. Pochi anni dopo, però, Diocleziano ridiede i reparti di cavalleria almeno a un certo numero di legioni; la legione dioclezianea di Vegezio contava 6100 fanti e 726 cavalli. Da Costantino la forza armata dell'impero fu divisa in due categorie: l'esercito di campagna o di manovra e l'esercito presidiario ai confini. La cavalleria di quest'ultimo mantenne in genere la formazione tradizionale in ali; quella dell'esercito di campagna, molto accresciuta, fu invece formata in vexillationes di 500 cavalli. La cavalleria è agli ordini d'un ispettore generale (magister equitum praesentalis o in praesenti) e, dopo la divisione dell'Impero, di parecchi. L'aumento della cavalleria è uno dei fatti caratteristici dell'evoluzione degli ordinamenti romani del basso impero, ed è una conseguenza della necessità di fronteggiare gli eserciti di cavalleria delle popolazioni dell'Asia e dell'Europa nord-orientale, mentre la fanteria, qualitativamente assai scaduta, perde la sua supremazia che era tradizionale negli eserciti romani e finisce quasi con lo sparire dall'esercito bizantino, nel quale il vero guerriero è il soldato a cavallo, che combatte, se le circostanze lo richiedono, anche a piedi. L'esercito di campagna di Costantino, diviso in due grandi sezioni, una per l'Oriente, l'altra per l'Occidente, avrebbe contato 52.000 cavalieri e 143.000 fanti, e la proporzione si mantenne, con un leggiero vantaggio per la fanteria in Oriente, sino al tempo della Notitia dignitatum. La cavalleria ha rango superiore alla fanteria, e i suoi reparti vengono sempre enumerati per primi nella Notitia. Anche per le truppe confinarie il contingente di cavalleria sarebbe stato assai forte: secondo un calcolo recente (Nischer) 139.500 cavalli di fronte a 392.500 fanti. Ma questi calcoli sono molto incerti. L'armamento romano del basso Impero è in decadenza; gli elementi barbari che sempre più numerosi entravano nell'esercito tendevano naturalmente a sostituire le armi nazionali alle armi classiche romane. L'arma offensiva più diffusa è la lancia, specialmente il pesante contus, specie di sarissa, ma un po' più corta, donde il nome di contati o contarii dato a reparti armati di contus. La sua pesantezza obbligava il cavaliere a impugnarla con le due mani, e a rinunciare quindi allo scudo. Cosi si spiega la distinzione fra cavalieri dorifori (contarii) e thyreofori (scutarii); questi dovevano portare una lancia molto meno pesante. Con Diocleziano si accrescono molto i reparti a piedi e a cavallo armati per la lotta lontana. La Notitia dignitatum enumera molti corpi di sagittarii a cavallo; ve n'erano anche di corazzati e nell'esercito bizantino l'imperatore Leone considerava ogni cavaliere come un arciere; solo le reclute inesperte dell'arco lanciavano giavellotti: segno evidente dell'influsso degli archi dei Persiani. La lunga spatha gallo-germanica ha sostituito ormai interamente il gladius romano. Alcuni reparti si servono anche della mazza e dell'ascia, il cui uso si diffonderà molto negli eserciti bizantini. Lo scudo è ovale e piatto e non molto grande; ma compaiono anche scudi rotondi, cetrati e triangolari d'origine barbarica. La cavalleria continuò a portare l'elmo, di solito di tipo attico-corinzio, anche dopo la fine del sec. IV; ma si trattava ormai di elmi scadenti. Inoltre anche i cavalieri cominciano a proteggere il capo con un cappuccio di maglia metallica, che formava tutt'uno con la cotta metallica. Quanto alla corazza, a volte dei cavalieri appaiono rivestiti della corazza di cuoio, ma la cavalleria di linea di molti corpi (specie dell'esercito di manovra) è corazzata di metallo, donde il nome di cataphracti, cataphractarii o clibanarii portato da molti reparti a cavallo (v. catafratti), ed erano sovente protetti anche i cavalli. Pezzi metallici proteggevano le braccia e le gambe, e il complesso doveva essere simile a quello dei cavalieri medievali. Più leggiera era la cotta di maglia metallica scendente fino al ginocchio e al gomito.
La cavalleria è adoperata nelle marce per il servizio di avanscoperta e di sicurezza. Sul campo di battaglia la cavalleria acquista sempre più il predominio per l'accrescimento della sua massa e per la decadenza della fanteria. Essa si schiera sulle due ali della fanteria; ma sovente una parte della cavalleria è tenuta in riserva a disposizione del comandante. La sua azione è decisiva; l'attacco della cavalleria gotica fece vincere ai barbari la battaglia di Adrianopoli nel 378; la battaglia di Tricamaron contro i Vandali in Africa fu una battaglia di cavalleria. Comincia così il periodo del predominio della cavalleria.
Fonti: Senofonte, ‛Ιππαρχικός (λόγος) e Περὶ ἰππικῆς. Gli scrittori di tattica greci, in H. Köchly e W. Rüstow, Griechische Kriegsschriftsteller, parte 2ª, Lipsia 1855. Molte notizie ricaviamo poi dagli scrittori greci, specialmente da Tucidide, Senofonte, Polibio e Arriano. Non abbiamo invece scritti latini speciali sulla cavalleria e le nostre notizie derivano in genere dagli storici, specialmente da Polibio, Cesare e Livio. Preziose e copiose notizie sulla cavalleria imperiale romana e sulla sua organizzazione ci dànno le iscrizioni. Una storia della cavalleria antica non satebbe possibile senza lo studio dei monumenti figurati.
Bibl.: Per la diffusione del cavallo nell'Asia Anteriore, v. l'art. cavallo e E. Meyer, Geschichte des Altertums, I, 5ª ed., Stoccarda 1926, § 445 e II, i, 2ª ed., 1928, p. 44. Per la Babilonia e l'Assiria, G. Rawlinson, The five great Monarchies of the ancient World, II, Londra 1864, p. 20 seg.; G. Maspero, Histoire ancienne des peuples de l'Orient classique, III, Parigi 1899, p. 8 seg.; A. Billerbeck e F. Delitzsch, Die Palasttore Salmanassars II von Balawat, in Beiträge zur Assyriologie, VI, i, Lipsia 1908, p. 91; B. Meissner, Babylonien und Assyrien, I, Heidelberg 1920, p. 93 seg.; in Persia, E. Meyer, op. cit., III, 1901, p. 76 seg., e Encyclopaedia Britannica, 14ª ed., 1929, s. v. Persia (History). Sulla cavalleria dei popoli classici, H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, I, 3ª ed., Berlino 1920; II, 3ª ed., ivi 1921, passim (cfr. anche Antike Kavallerie, in Klio, X [1910], p. 335); A. Martin e R. Cagnat, s. v. Equites, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiq., II, Parigi 1892, p. 752 seg.; E. Lammert, art. Ιππεῖς, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VIII, col. 1689 segg.; id., art. Reiterei, ibid. n. s., I, col. 519 segg.; B. Kübler, art. Equites Romani, ibid., VI, col. 272 segg.; J. Kromayer e G. Veith, Heerwesen und Kriegführung der Griechen und Römer, in I. Müller e W. Otto, Handbuch der Altertumswiss., IV, 5, 2 (l'epoca imperiale è trattata da E. Nischer), Monaco 1928, passim (cfr. degli stessi autori anche l'opera Die Antike Schlachtfelder, I-IV, Berlino 1903-1926, e Schlachten-Atlas zur antiken Kriegsgeschichte, Lipsia 1922 segg., con molte notizie e discussioni sulla cavalleria antica); W. Rüstow e H. Köchly, Geschichte des Griechischen Kriegswesens von der ältesten Zeit bis auf Pyrrhos, Aarau 1852, passim. I manuali di antichità greche e romane dànno trattazioni sulle istituzioni militari e quindi anche sulla cavalleria; v. specialmente: H. Droysen, Die griechischen Kriegsalterthümer, passim, nel vol. II, parte 2ª della ed. del Lehrbuch der griech. Antiquitäten di C. F. Hermann curata da H. Blümner e W. Dittemberg, Friburgo in B. 1888; J. Marquardt e A. Domaszewski, in Mommsen e Marquardt, Handbuch der Röm. Altertümer, V, 2ª ed., Lipsia 1884, trad. franc. Manuel des antiquités romaines, XI: De l'organisation militaire chez les Romains, Parigi 1891. Sull'armamento della cavalleria romana vedi specialmente P. Couissin, Les armes romaines, Parigi 1926. Le varie fasi dell'evoluzione della cavalleria antica sono accennate anche nelle grandi storie di E. Meyer (tutta l'antichità fino al sec. IV), G. Beloch (Grecia), G. De Sanctis (Roma) e di altri. Della vasta letteratura speciale, che si troverà indicata specialmente nell'opera di Kromayer e Veith, basterà citare: W. Helbig, Les ἱππεῖς athéniens, in Mémoires de l'Académie des inscriptions et belles-lettres, XXXVII (1902); Zur Gesch. des römischen equitatus. A. Die Equites als berittene Hopliten, in Abhandl. d. Bayer. Akad. d. Wissensch. I Kl., XXIII, 2, Monaco 1905; sulla cavalleria di Alessandro, H. Berve, Das Alexanderreich auf prosopographischer Grundlage, Monaco 1926, I, p. 103 seg.; E. Meyer, Das Römische Manipularheer, in Kleine Schriften, II, Halle 1924, p. 195 esg.; R. Grosse, Römische Militargeschichte von Gallienus bis zum Beginn der byzantinischen Themenverfassung, Berlino 1920; E. Nischer, The army reforms of Diocletian and Costantine, in The Journal of Roman Studies, XIII (1923), p. 1 seg. Sulla cavalleria cartaginese, S. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du nord, II, Parigi 1918, p. 331 seg.; sull'iberica, A. Schulten, Numantia, I, Monaco 1914, p. 200 seg., e in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VIII, col. 2015; sulla gallica, C. Jullian, Histoire de la Gaule, I, 2ª ed., Parigi 1909, p. 348 seg.; sulla germanica, Delbrück, op. cit., II, p. 432.
Medioevo. - Se nell'impero bizantino la necessità di fronteggiare gl'invasori dall'Asia e dall'Europa orientale, provetti cavalieri, conduceva a una sempre maggiore prevalenza della cavalleria sulla fanteria, presso i Germani l'assoluta superiorità della cavalleria dipendeva in gran parte dall'incapacità di costituire corpi tattici fortemente inquadrati e ben disciplinati, che soltanto avrebbero potuto dar valore all'uomo combattente a piedi. Mancando simili ordinamenti, e divenendo fattore determinante del successo il valore personale, guerriero degno di considerazione era solo quello che, grazie al suo cavallo, possedeva un'evidente superiorità personale sull'uomo costretto a combattere a piedi. I Germani furono così essenzialmente cavalieri; e celebrati come tali furono, sin dall'inizio del sec. III, gli Alamanni, e poi gli Ostrogoti, i Franchi, i Vandali. Di Vandali fatti prigionieri Giustiniano si serviva anzi per formare cinque reggimenti di cavalleria, da inviarsi in Oriente.
Per gli stessi motivi, per tutto il Medioevo la cavalleria rimane l'arma fondamentale: sia presso i Bizantini, dov'essa appare divisa in due corpi (i catafratti, coperti di pesanti armature, e i trapeziti, armati alla leggiera), sia presso gli Arabi e i Tartari, e presso i popoli dell'Europa occidentale. La sua importanza anzi va assai di là dal campo puramente militare: basti ricordare qui come le origini del sistema feudale siano strettamente connesse con la necessità di mantenere in efficienza un corpo di cavalieri.
Mancando dunque un ordinamento in veri e proprî corpi tattici, e riducendosi la battaglia per lo più a duelli personali, il successo venne a dipendere sempre più dall'abilità del singolo combattente e dalla bontà delle sue armi. Ecco pertanto l'armatura divenire sempre più pesante (v. armi). Ma ecco anche stabilirsi, nel seno della stessa cavalleria, delle nuove differenziazioni. Da una parte c'è il cavaliere armato di tutto punto, non solo con armi offensive (lancia, spada, daga), ma con armi difensive (armatura completa; cavallo anch'esso corazzato, a partire dal sec. XIII); dall'altra, il cavaliere di leggiera armatura, il cui attrezzamento difensivo si riduce a elmo, corazza e scudo. Di più, il cavaliere di pesante armatura è fiancheggiato da paggi e scudieri, da persone cioè che, inutili o quasi nel momento decisivo della battaglia, servono tuttavia il loro capo, oltreché per il suo servizio personale, anche come ausiliarî in azioni preliminari, scaramucce, ecc. Si giunge così, con i secoli XIV e XV alla lancia (o gleve o homme d'armes), termine che designa non solo il cavaliere di pesante armatura, a cui spetta risolvere la battaglia, ma, accanto a lui, altre persone (per lo più tre, talora sei oppure otto) che con lui costituiscono la lancia. Frattanto si erano diffusi negli eserciti dell'Europa centrale e specie dell'Italia, corpi speciali di cavalleria levantina, cioè: schiavoni, stradiotti, argoletti, con l'incarico di esplorare e fiancheggiare le pesanti compagnie delle genti d'arme; ma erano milizie indisciplinate e selvagge, più di saccomanni che di soldati.
Ma con la fine del sec. XV la cavalleria aveva perduto la sua assoluta supremazia. Il diffondersi e il perfezionarsi delle armi da fuoco, da una parte; dall'altra, e non meno, il costituirsi di veri e proprî corpi tattici di fanti - nel che stava la grande forza degli Svizzeri - apportavano un radicale rivolgimento nell'arte della guerra, per cui l'arma fondamentale ritornava ad essere la fanteria, e la cavalleria si riduceva ad arma ausiliaria.
Bibl.: Cfr. soprattutto G. Kölher, Die Entwickelung des Kriegswesens und der Kriegsführung in der Ritterzeit von Mitte des 11. Jahrh. bis zu den Hussitenkriegen, voll. 5, Breslavia 1886-93; H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, 2ª ed., Berlino 1923 (quivi altre indicazioni bibl.).
Età moderna. - Con la scomparsa della cavalleria feudale, l'arma ritorna ad essere ausiliaria della fanteria, mentre, d'altra parte, la comparsa delle prime armi da fuoco (sec. XIV) l'obbliga a trovare nuove forme di lotta.
Essa deve infatti risolvere il problema di attraversare una zona battuta dal fuoco prima di giungere sull'avversario. In un primo tempo reputa di poterlo fare coprendo cavallo e cavaliere di pesanti armature "a prova di fuoco". Successivamente ricorre alla caratteristica manovra del caracollo. Ridotta cioè la pesante e insufficiente armatura difensiva alla sola corazza e sostituita alla lancia la spada, il moschetto o la pistola, si ordina in pesanti squadroni su molteplici righe (da cinque a otto in Germania, dieci in Francia, cinque in Olanda) e avanza al passo o al piccolo trotto - per non disordinare l'ordinanza - contro i battaglioni nemici. A breve distanza da essi si arresta e fa successivamente fuoco per righe che vanno poi a riordinarsi in coda. Scosso il nemico col fuoco, l'intero squadrone carica all'arma bianca. Con una tattica siffatta la cavalleria veniva a intaccare la sua vera essenza di arma di urto per trasformarsi in fanteria montata, con l'aggravante della poca efficacia del fuoco eseguito da cavallo.
Tale manovra ebbe a migliorarsi alquanto in Francia quando, nel 1543 Enrico II, su proposta dell'italiano Pietro Strozzi, creò i dragoni incaricati di trasportarsi, a cavallo, nella località di attacco, dove, appiedati, si servivano delle loro armi da fuoco. È solo però nella prima metà del 1600 che la cavalleria torna ancora alla sua millenaria manovra d'urto, consentitale, all'epoca di Gustavo Adolfo, dalla protezione di fuoco datale dalla fanteria.
La cavalleria svedese divisa in reggimenti di numero vario (da 8 a 24) di cornette, ciascuna da 100 a 120 cavalli, ebbe due specialità: i dragoni sprovvisti di armi difensive e armati di spada, pistola e moschetto e i corazzieri armati di lunga spada e due pistole, elmo e corazza. Mentre i dragoni - specialità che poteva fare da sé perché assuefatta al combattimento a piedi e a cavallo - erano più specialmente incaricati di missioni lontane e del servizio di esplorazione di avanguardia, e di fiancheggiamento, gli squadroni di corazzieri combattevano in intima cooperazione con la fanteria. Essi si formavano, in ordine serrato su tre righe, sulla stessa linea; negli intervalli tra essi si disponevano drappelli di moschettieri a piedi. Cavalieri e fanti avanzavano di conserva, al passo, sino a breve distanza dalla linea avversaria. Da qui gli squadroni, inizialmente al trotto e poi al galoppo, si lanciavano contro il nemico; le due prime righe facendo fuoco a bruciapelo e poscia caricando con la spada, riservando la pistola per la mischia. In sostanza - come per la stessa fanteria svedese nei riguardi dei moschettieri e dei picchieri - il fuoco dei primi doveva consentire ai cavalieri l'avanzata nella zona battuta dal nemico. In caso di attacco fallito gli squadroni ripiegavano e si riordinavano a tergo dei drappelli moschettieri.
Tra la seconda metà del sec. XVII e la prima metà del secolo XVIII la cavalleria francese (cavalleria di linea, dragoni, usseri, carabinieri e gendarmeria o cavalleria scelta) non abbandona ancora la tattica del caracollo. L'esegue però con gli squadroni su tre righe a sei passi di distanza e spesso su fronti ristrette.
Il Condé le affidò l'azione principale nella battaglia e l'adoperò per l'urto al galoppo. Col Turenne furono frequenti gli appiedamenti fatti dai dragoni, i quali talora costituivano fitte linee di tiratori. Col Cromwell in Inghilterra la cavalleria torna alla sua manovra d'urto a cavallo. In questo periodo sorse la cavalleria orientale (turca) armata di scimitarra e di coltellaccio; caricava con grande slancio e risolutezza, formando un cuneo verso il nemico. Spesso il cavaliere prendeva in groppa il fante (giannizzero).
Con Federico II la cavalleria trovò la sua protezione, nella zona battuta dal fuoco nemico, nella sua stessa mobilità. Le linee di cavalieri - moventi al gran galoppo - attraversavano all'incirca in quarantacinque secondi detta zona, mentre le armi nemiche, capaci di tre colpi ogni due minuti, non potevano che eseguire una sola raffica, e non sempre molto efficace. Le perdite erano quindi limitate.
Le cariche della cavalleria prussiana erano eseguite per battaglione (ciascuno su 5 squadroni) in colonna di squadroni spiegati, prima su tre, poi su due righe. Esse erano preparate dal fuoco della artiglieria a cavallo - che trovò il suo primo impiego nel combattimento di Reichenbach del 15 agosto 1762 -, artiglieria che sostanzialmente, ebbe, nei rapporti della cavalleria, la stessa funzione che, nei riguardi di essa, ebbero i drappelli di moschettieri di Gustavo Adolfo. È questo il periodo tra i più gloriosi per la cavalleria dopo il Medioevo e ad esso va legato il nome del generale prussiano Seidlitz. La forma principale d'azione dell'arma è infatti l'urto travolgente. Gli squadroni prussiani di corazzieri, di dragoni, di usseri non potevano far uso che delle armi bianche e in varie battaglie quest'arma decise della vittoria.
Con Napoleone I la cavalleria trovò il suo classico uso nell'esplorazione, nella copertura, nella battaglia, nell'inseguimento. Riunendo la cavalleria in brigate e divisioni, e, nelle ultime campagne, in corpi di cavalleria della stessa specialità, Napoleone intese assegnare a ciascuna di esse una missione speciale. Di massima, la cavalleria leggiera fu assegnata ai corpi d'armata (una divisione, di regola, per corpo d'armata), quella grave e i dragoni (cavalleria da battaglia) costituirono la riserva di cavalleria. L'esplorazione lontana napoleonica non era permanente ma era fatta a momento opportuno e con mezzi adeguati: classica fu l'esplorazione strategica di Napoleone, nell'anno 1806 prima della battaglia di Jena. L'imperatore lanciò il Murat su Lipsia, in una zona cioè dove notoriamente non si trovava il nemico, ma dove passavano le sue principali comunicazioni. Il Murat sorprese convogli e corrieri ed ebbe cosi notizie sicure sulle intenzioni del nemico.
La copertura napoleonica fu saltuaria come l'esplorazione lontana; si effettuò in marcia o da fermo. All'inizio della campagna del 1805 furono le sette divisioni di Murat (due di corazzieri, quattro di dragoni, una di cavalleria leggiera) che coprirono la marcia della grande armata dalla Manica al Reno; nel novembre dello stesso anno, prima di Austerlitz, fu un velo di cavalleria sostenuta da posti di fanteria, che, su di una fronte di circa 200 km., dal Danubio ai monti di Boemia, coprì l'occupazione di Brünn e mascherò le strade per le quali, all'ultimo momento, affluirono i corpi del Davout e del Bernadotte. Dopo la campagna di Russia, l'imperatore risentì del deficiente addestramento di quest'arma; impegnò così nel 1813 a Lützen una battaglia d'incontro, nella quale la sorpresa fu reciproca.
Sul campo di battaglia Napoleone conservò la tattica d'urto, sia contro fanteria sia contro cavalleria. A Marengo il Kellermann prese di fianco la colonna dello Zach già premuta dal Marmont e dal Desaix; a Jena il Murat, dopo aver sbaragliato i resti del corpo di Rüchel, caricò i Sassoni sulla collina della Schnecke; ad Austerlitz e Friedland si ebbero cariche di cavalleria contro cavalleria. Spesso la cavalleria di riserva fu chiamata a produrre quello che l'imperatore chiamava l'"événement" e cioè quel periodo di crisi da parte nemica da sfruttare ai fini della decisione della battaglia. Così a Eylau, alla Moscova, a Dresda e a Montereau. A Waterloo stesso sembrò che la carica del Ney dovesse decidere della giornata.
L'inseguimento napoleonico non mancò mai quando la vittoria non condusse all'immediata stipulazione dell'armistizio e fu un inseguimento ardito, tenace, a fondo, come quello dell'ottobre del 1806 che fece deporre le armi ai resti nemici sfuggiti alla duplice disfatta di Jena e di Auerstädt.
Dal 1815 al 1870 la cavalleria, lasciato in tutto o in parte il moschetto, adottò quasi generalmente la lancia, in massima non più adoperata dopo il Medioevo. Considerata principalmente come arma delle fasi risolutive, la cavalleria, di massima, fu tenuta indietro nelle colonne, per la decisione e per l'inseguimento. D'altro canto a causa del più perfezionato armamento dell'artiglieria e della fanteria essa di rado interveniva sul campo di battaglia. Sono da menzionarsi peraltro in questo periodo, le cariche della cavalleria inglese a Balaklava (Crimea); di quella sarda a Montebello, del 10° ussaro austriaco a Magenta, delle brigate Pulz e Bujanovics nella seconda battaglia di Custoza. Anche nella campagna di Boemia essa si mostrò impari al suo compito.
La cavalleria prussiana - riunita in grandi masse al seguito delle armate (solo un reggimento fu assegnato alle divisioni) - si trovava nelle condizioni più favorevoli per agire nel campo strategico. Ma l'esplorazione, salvo quella a breve raggio della cavalleria divisionale, mancò. Così, prima di Sadowa, il Comando supremo ignorava che a pochi chilometri di distanza si andava ammassando tutto l'esercito nemico e, dopo la battaglia, non fu mantenuto il contatto con le colonne avversarie in ritirata. Anche nell'esercito austriaco - come già nelle campagne d'Italia - la cavalleria fu tenuta quasi sempre in coda alle colonne. Nella battaglia del 3 luglio peraltro, durante la ritirata, la cavalleria si sacrificò con la riserva di artiglieria, per salvare l'esercito da un completo disastro.
Nelle campagne del 1870-71 - nonostante i progressi dell'armamento che rendevano sempre più cruento l'impiego dell'arma nella battaglia - la cavalleria non sa rinunciare alla sua tradizionale tattica dell'urto. Ma non è più l'urto dell'epoca napoleonica che contribuisce alla decisione della battaglia; è il sacrificio, spesso sterile di risultati, di una massa di eroi, che strappa, a volta, allo stesso nemico un generoso grido di ammirazione. Durante la campagna, nel campo dell'esplorazione, specie da parte francese, l'arma viene usata male. Wissembourg, Rezonville, Saint-Privat rappresentano infatti delle sorprese per gl'imperiali. I Germanici, per l'esperienza della guerra del 1866, impiegarono l'arma meglio dei Francesi, ma non seppero sempre sfruttare le successive vittorie con l'inseguimento, sì che troppo spesso il maresciallo Moltke, all'oscuro della situazione del nemico, dové basare la sua manovra su considerazioni logiche ma non sempre rispondenti alla realtà.
Nello speciale ambiente delle guerre di Secessione, dei Balcani, della Manciuria e del Transwaal, caratterizzato, in genere, dalle ampie distese e dagli ampî spazî nonché dalla sproporzione tra le opposte cavallerie (sproporzione che spinge la più forte a operazioni ardite) nasce il cosiddetto raid che si prefigge lo scopo di colpire un punto lontano e sensibile dell'avversario. Ma i raids eseguiti - quelli dello Stuart (242 km. in tre giorni) del Morgan (1.100 km. in 24 giorni) e dello stesso Sheridan (36 giorni) nella guerra di Secessione; quello del Gurko nel 1877; quello del French nella guerra del Transwaal; quelli del Misčěnko e del Rennenkampi nella guerra di Manciuria - rappresentano degl'insuccessi o adducono a risultati non decisivi. Essi pertanto - anche nella considerazione delle speciali condizioni d'ambiente che richiedono - non possono certo rappresentare una forma normale dell'attività bellica dell'arma.
Secondo la dottrina immediatamente precedente alla guerra mondiale, la cavalleria deve trovare, come nel passato, il suo efficiente e redditizio impiego prima, durante e dopo la battaglia. I suoi procedimenti d'azione risentono però dell'esperienza delle ultime guerre, e in specie di quelle del '66 e del '70-71 nonché dei progressi della balistica, e della comparsa delle armi rigate e dei fucili a ripetizione. Prima della battaglia la cavalleria trova impiego nell'esplorazione lontana e nell'esplorazione vicina.
L'esplorazione lontana o avanscoperta è eseguita a parecchie giornate di marcia dalle armate o dai gruppi d'armata, ed è affidata a grandi unità di cavalleria (forti di cavalli, di moschetti, di mitragliatrici, di cannoni, di ciclisti). Scopo: prendere e mantenere il contatto col nemico, fornire tutte quelle notizie che, integrando quelle già date dal servizio informazioni, valgano a illuminare i Comandi e dar loro norme per regolare i movimenti delle grandi unità dipendenti, e porli nelle più favorevoli condizioni per imporre, accettare o anche evitare il combattimento. L'esplorazione è eseguita da pattuglie sostenute dal grosso delle grandi unità di cavalleria, grosso che, di massima, marcia riunito. Quando i settori d'azione sono molto ampî, tra le pattuglie esploranti e il grosso s'interpongono distaccamenti di squadroni, o di gruppi di squadroni.
Secondo la dottrina tedesca la cavalleria in avanscoperta deve anzittutto ricercare l'opposta cavalleria per batterla; analogamente i Francesi ritengono che la messa fuori causa della cavalleria nemica sia condizione indispensabile perché la loro cavalleria assolva tutte le altre mansioni di sua competenza.
Secondo la dottrina italiana lo scopo essenziale è quello dell'esplorazione. Tuttavia la cavalleria dovrà decisamente lanciarsi nel combattimento contro la cavalleria nemica, sia per assolvere il suo compito esplorativo, sia per acquistare quell'ascendente sulla cavalleria nemica che i primi successi varranno generalmente ad assicurarle per tutto il periodo della campagna.
Ma nel campo strategico una cavalleria bene addestrata potrà assolvere altri compiti, importantissimi ai fini dell'andamento della campagna: disturbare la radunata nemica, occupare prontamente posizioni di particolare importanza, isolare punti fortificati, effettuare grandi dimostrazioni in determinate direzioni, attaccare il nemico sui fianchi o sulle sue retrovie, travolgere lunghe e pesanti colonne carreggio, distruggere infine magazzini, comunicazioni stradali, ferroviarie, telegrafiche e telefoniche.
Nell'esplorazione tattica o vicina, la cavalleria, rinforzata eventualmente da ciclisti, ha sostanzialmente, in limiti più ristretti, gli stessi compiti dell'avanscoperta. Essa però - assegnata ai corpi d'armata, alle divisioni o alle grosse unità di fanteria operanti indipendentemente - ha anche una funzione di sicurezza in rapporto alle colonne retrostanti. Occorrendo, anzi, la cavalleria incaricata dell'esplorazione vicina deve concorrere con l'avanguardia alla protezione delle retrostanti truppe durante lo schieramento.
Dato questo compito di sicurezza, la cavalleria d'esplorazione vicina - a differenza di quella d'avanscoperta che subordina la propria azione essenzialmente al nemico - deve, pur conservando la necessaria libertà d'azione, regolare le sue mosse su quelle dell'avanguardia con la quale non deve mai perdere il collegamento. Essa pertanto potrà essere spinta avanti solo a 10 o 20 km. circa.
Nello stesso campo tattico, la cavalleria accorta e audace, che sappia cogliere l'attimo favorevole al suo intervento, potrà ancora ottenere risultati decisivi. Essa deve essere quindi pronta a sfruttare ogni occasione per lanciarsi, col massimo slancio, e con la più ferma fede, nella lotta. "Le occasioni sono tanto fugaci - dicono le nostre norme generali per l'impiego delle grandi unità, ed. 1913 - e sulla loro riuscita ha così grande parte la sorpresa, che, salvo la restrizione imposta da speciali ordini ricevuti, in tutte le fasi del combattimento l'intervento della cavalleria dovrà essere lasciato, di regola, all'iniziativa del suo comandante. Non si deve dimenticare che, se il perfezionamento delle armi ha reso più difficile la condotta della cavalleria nel campo di battaglia, lo stesso perfezionamento potrà produrre tali terribili effetti di disgregazione e di demolizione sulle più impressionabili masse odierne, da offrire ad una cavalleria che sappia approfittarne a momento opportuno, occasioni non meno frequenti e propizie che per il passato".
Comunque è sancito il concetto che contro fanteria non scossa e provvista di munizioni, la carica della cavalleria è ineseguibile.
Sostanzialmente adunque solo in circostanze particolarmente favorevoli è possibile eseguire l'urto a cavallo di Federico II o di Napoleone il Grande. Quest'urto si effettuerà normalmente su tre scaglioni: il primo - il più forte - per la carica, il secondo per l'avvolgimento dei fianchi nemici, il terzo per costituire una riserva a disposizione del comandante. Quando non si verificheranno le suddette condizioni favorevoli, la cavalleria appiederà e combatterà col fuoco con modalità analoghe a quelle della fanteria. Di nomma un'unità di cavalleria appiederà al massimo i ¾ della sua forza; il rimanente sarà incaricato della custodia dei cavalli scossi. Spesso occorrerà avere alla mano una riserva. Tuttavia il combattimento a piedi della cavalleria, nella concezione prebellica, non trova unanimi consensi. Esso trova ancora numerosi oppositori troppo ligi alla tradizionale tattica dell'urto.
Ad attacco riuscito, contro la fanteria nemica che ripiega, la cavalleria ha ancora aperti davanti a sé i vasti orizzonti del passato. "Essa possiede - dicono le nostre norme per il combattimento, ed. 1913 - i migliori requisiti per raccogliere, con l'inseguimento, i frutti della vittoria". Dovrà quindi gettarsi a briglia sciolta in questa fase decisiva della battaglia, per manovrare contro i fianchi del nemico o per prevenirlo su punti di obbligato passaggio, determinandone la definitiva messa fuori causa. L'insuccesso tattico segnerà il momento eroico per la cavalleria, la quale "animata dal più alto spirito di sacrificio lanciandosi a fondo contro la cavalleria avversaria per arrestarne l'inseguimento o contro la fanteria nemica incalzante, necessariamente disordinata, potrà rendere tali servizî da decidere con la sua sola azione se per le proprie truppe sconfitte debba trattarsi di ritirata o di fuga".
Iniziatasi nel 1914 la grande guerra, i principali eserciti entrano nel conflitto mondiale con grandi masse di cavalleria; la Germania con 11 divisioni, la Francia con 10. Noi vi entrammo nel maggio 1915 con 4 divisioni. Ma la guerra stabilizzata non offre grandi possibilità d'impiego a quest'arma che, in parte, discioglie le sue unità, in parte le appieda e le interra nella lotta di trincea. Sennonché all'inizio, alla fine e ogni qualvolta la guerra stabilizzata ruppe in fasi di movimento, la cavalleria ritrovò il suo naturale campo di attività. Di essa comunque si sentì allora il bisogno e spesso se ne lamentò l'assenza o la deficienza.
L'impego dell'arma peraltro non risultò sempre rispondente alla dottrina di guerra sopra riassunta e che, nella sua sostanza, era informata ad una concezione di lotta decisamente offensiva.
All'inizio della guerra, subito dopo l'invasione del Belgio, tra i Francesi e i Tedeschi s'interpone un ampio spazio favorevole alla avanscoperta; ma le due opposte cavallerie, non si ricercano per la lotta iniziale. E non si ricercano nemmeno più tardi, quando (8 agosto 1914) le 3 divisioni di cavalleria di von der Marwitz, coprenti l'assedio dei forti di Liegi, sono a meno di 12 km. dall'avanguardia del corpo di cavalleria del Sordet. La cavalleria tedesca sfugge al combattimento non per mancanza di slancio, ma in ottemperanza a ordini ricevuti; quella francese rimane come disorientata dalla mancanza di quello scontro che avrebbe dovuto assicurarle l'ascendente sull'avversario. E così, dopo i gravi scacchi di Virton e di Charleroi, non sa efficacemente coprire la ritirata delle proprie truppe e, successivamente, dopo la vittoria della Marna, non sa lanciarsi all'inseguimento con quell'impeto travolgente che è proprio del carattere e della tradizione francese. Analogamente le nostre divisioni di cavalleria, al principio della nostra guerra, non sanno staccarsi dalle retrostanti grandi unità di fanteria e la loro missione d'esplorazione fallisce. L'8 e 9 settembre 1914, l'intervento sull'Ourcq della III divisione di cavalleria francese - che audacemente penetra nelle linee nemiche - paralizza l'azione della I armata tedesca e interdice i rifornimenti da Soissons su La Ferté-Milon e su Neuilly-Saint-Front. Dopo la battaglia della Marna, durante la cosiddetta corsa al mare, la cavalleria francese e tedesca, precedendo l'entrata in azione dei grossi, si scontrano frequentemente, l'una tendendo al fianco dell'altra. Ma è uno scontro essenzialmente di fuoco, di fanteria montata più che di cavalleria.
Nel corso della guerra molteplici furono le occasioni favorevoli per l'impiego di quest'arma, non potute sfruttare per essere essa o disciolta o lontana al momento del bisogno. Così per i francesi in Artois nel maggio 1915, in Champagne nel settembre 1915; allo Chemin des Dames nell'aprilc 1917; a Cambrai nel novembre 1917. Così per i tedeschi, il 21 marzo 1918, dopo la rottura della fronte inglese; così per gli austro-tedeschi dopo la rottura di Caporetto; così per noi - per quanto si riferisce all'impiego di grandi masse di cavalleria - a Vittorio Veneto. Sul nostro fronte la cavalleria trova buon impiego nelle giornate dell'ottobre e del novembre 1917 per ostacolare l'avanzata avversaria e consentire alle retroguardie di fanteria il ripiegamento dietro le prestabilite, successive linee di difesa. Successivamente, nella battaglia del Piave, la nostra 3ª brigata di cavalleria, nei giorni dal 17 al 19 giugno, arresta l'avanzata degli austriaci penetrati nell'ansa di Zenson e il 5° squadrone del reggimento Piemonte Reale Cavalleria carica a cavallo gli ungheresi spintisi alle fornaci di Monastier. Il 1° novembre 1918, infine, la nostra cavalleria, lanciata all'inseguimento, compie brillanti operazioni di carattere tattico.
Sulla fronte francese, ogni volta che una larga breccia avviene sul fronte degli alleati, la cavalleria, in collegamento con le prime divisioni di fanteria accorse, compie la sua missione ritardatrice. Nei Balcani, nel settembre 1918, durante l'azione del generale Franchet D'Esperey, azione intesa a separare l'XI armata tedesca dal grosso dell'esercito bulgaro, la cavalleria francese, operando in una zona montagnosa, non adatta all'impiego dell'arma, piomba prima su Prilep e poi su Uskub, sede del quartier generale del comando dell'armata nemica, e s'impadronisce della città dopo un violento combattimento a piedi. Successivamente, insieme con una divisione di cavalleria serba, si slancia all'inseguimento dei resti austro-tedeschi in ritirata verso l'Ungheria e arriva al Danubio dove solo dopo 22 giorni potrà essere raggiunta dalla sua fanteria. Nello stesso settembre del '18, in Palestina, un corpo di 12.000 cavalli, incaricato di sfruttare il successo iniziale inglese, decide della capitolazione di 3 armate turche e costringe il Sultano a separare la sua causa da quelle degl'Imperi Centrali. L'armistizio sulla fronte francese arrestò, infine, la cavalleria degli alleati che aveva preso il suo slancio per l'inseguimento.
La concezione odierna. - Il limitato impiego nel campo esplorativo e nel campo tattico di quest'arma durante l'ultima guerra, la non preponderante sua azione nella conclusione del conflitto, i più poderosi mezzi di lotta odierni e, infine, la nuova arma aerea capace di un'esplorazione a largo raggio sussidiata dalla fotografia, sembrò dovessero decretare la fine della cavalleria. Il primo passo verso la sua definitiva abolizione parve quasi segnato da noi con la riduzione delle sue unità, imposta peraltro dalla speciale natura dei nostri confini.
Nella stessa concezione francese dell'immediato dopoguerra, l'arma appare virtualmente abolita come "cavalleria". Essa infatti rappresenta quasi una fanteria montata capace di portare rapidamente un rinforzo di fuoco là dove se ne presenta il bisogno. Il cavallo adunque dalla funzione di vera e propria arma passa a quella più modesta di mezzo di trasporto e le unità di cavalleria rappresentano, sostanzialmente, un elemento d'informazione nel campo dell'esplorazione ravvicinata e una riserva di fuoco nel campo tattico. Per quanto riguarda l'avanscoperta "la cavalleria" - avverte l'istruzione provvisoria francese del 6 ottobre 1921 sull'impiego tattico delle grandi unità - "è stata rimpiazzata dall'aviazione nelle missioni dell'esplorazione lontana".
Ci troviamo, dunque, nell'immediato dopoguerra, in un periodo di completo disorientamento, analogo a quello in ogni tempo provocato dalla comparsa di nuovi mezzi d'azione che rendono inadeguati i procedimenti di lotta in atto; periodo che, come in passato, non potrà risolversi se non - attraverso a ripetuti e spesso affannosi tentativi - quando la nuova guerra risponderà al mutato ambiente bellico. L'abbiamo già notato nel rapido sguardo dato alla cavalleria attraverso i millennî della sua storia.
Arma unica e superba che risolve le tenzoni del Medio Evo, deve rinunciare alla sua tattica individuale di fronte alla disciplinata ordinanza delle ricomparse fanterie. Arma d'urto per eccellenza, si disorienta di fronte alle prime armi da fuoco e trova poi, con Federico II, la sua adatta forma d'azione. Più tardi, di fronte al graduale perfezionarsi delle armi, sentirà la necessità di combattere, secondo le contingenze della lotta, a piedi o a cavallo. Il conflitto mondiale - con i più poderosi e nuovi strumenti di azione - non poteva certo decretare l'abolizione degli attori della lotta. Esso ha imposto loro soltanto nuove forme e nuovi procedimenti di azione. Tra questi attori sta la cavalleria con tutto il peso del suo passato e con le sue possibilità d'impiego nella guerra futura.
Nel campo dell'esplorazione lontana - dalla nostra nuova regolamentazione chiamata esplorazione avanzata - essa non può certo essere sostituita dall'aviazione. Questa, se può esplorare nell'interno ed al di là degli schieramenti avversarî, non può certo tenere sempre il contatto col nemico, sia per il numero rilevante di apparecchi che occorrerebbero a un'esplorazione ininterrotta, sia per le difficoltà dell'esplorazione notturna, sia infine per le frequenti avverse e proibitive condizioni meteorologiche. Di più le sue informazioni negative - informazioni che in molte circostanze hanno analoga importanza dì quelle positive - non sono certo attendibili. In relazione infatti alle previdenze di occultamento o di mascheramento prese dalle truppe a terra, essa non potrà certo escludere la presenza dell'avversario in una data zona o località. Dal canto suo la cavalleria, con la possibilità di prendere e mantenere il contatto con l'avversario e con le sue concrete notizie - positive e negative - viene evidentemente a integrare l'azione d'esplorazione compiuta dagli aerei.
Compito dell'esplorazione avanzata è quello di precedere (a circa tre o quattro tappe) il movimento delle grandi unità, per portarsi a contatto dello schieramento nemico, al fine di disturbarlo e di precisarne i particolari non determinabili dall'aviazione. Altro compito potrà essere quello di prevenire l'avversario su tratti di terreno importanti, atti a facilitare la successiva marcia delle grandi unità retrostanti. Per assolvere questi compiti, la cavalleria dovrà anzittutto ricercare e battere le truppe esploranti avversarie e rimuovere con azione di forza, tutte quelle resistenze che si trovano organizzate nella zona che deve percorrere. All'uopo essa dovrà disporre d'un notevole volume di fuoco. Per quanto armate di moschetti e di mitragliatrici proprie, le unità di cavalleria dovranno quindi disporre oggi - in misura indubbiamente ancora più larga di quanto non fosse previsto nel periodo prebellico - di ciclisti, di fanteria e mitragliatrici pesanti autoportate, di artiglieria.
Dell'esplorazione avanzata sono incaricati: in Germania la cavalleria d'esercito (divisioni o corpi di cavalleria di più divisioni); in Francia le divisioni o i corpi di cavallena; nel Belgio le divisioni leggiere o le truppe leggiere d'armata; da noi i corpi celeri, la cui composizione, come si è già accennato, è in relazione alla situazione del momento. Il corpo celere opera schierato in profondità e manovra secondo gli stessi principî che regolano l'azione delle altre grandi unità.
Con analoghe modalità opera, a favore della divisione o dei corpi d'armata di prima schiera, a distanza all'incirca di una tappa da essi, l'esplorazione vicina. Ai compiti esploranti essa aggiunge anche, come nel periodo prebellico, una funzione di sicurezza, in quanto deve prevenire da sorprese le grandi unità retrostanti. Dell'esplorazione vicina è incaricata la cavalleria delle grandi unità. Nel nostro esercito essa è compiuta, in massima, per divisione, dal nucleo esplorazione vicina (di massima un reggimento di cavalleria).
Nella battaglia la cavalleria interviene ancora con azione a piedi o con azione a cavallo. Secondo i Belgi e secondo i Francesi, il suo modo normale di azione è il combattimento a piedi col fuoco Il combattimento a cavallo di piccole unità dell'arma è previsto solo in casi speciali, contro truppe disorganizzate e nell'inseguimento d'un nemico in preda al panico. Sostanzialmente la cavalleria manovra a cavallo e combatte a piedi.
Nel nostro esercito il combattimento a cavallo è ritenuto normale contro reparto a cavallo di forza adeguata e contro quelle altre truppe cui la sorpresa tolga la possibilità di valersi efficacemente deì proprî mezzi d'azione. Il combattimento con alcuni reparti a piedi e i rimanenti a cavallo è ritenuto normale quando convenga impegnare il nemico col fuoco dei reparti appiedati per agevolare ai rimanenti la manovra e il combattimento a cavallo. Il combattimento con tutti i reparti appiedati è ritenuto infine normale in tutti i rimanenti casi.
In genere i ciclisti devono risolvere i combattimenti iniziati dalla cavalleria. Essi, come la cavalleria appiedata, combattono ispirandosi agli stessi principî e adottando, compatibilmente col loro meno efficiente armamento, le stesse modalità della fanteria.
Vinta o perduta la battaglia, la cavalleria ritrova il suo classico impiego del passato. Nell'insuccesso è l'arma che deve proteggere la ritirata; nella vittoria è l'arma che trova la sua più larga possibilità d'impiego nell'inseguimento d'un nemico battuto, disorganizzato materialmente e spiritualmente. E l'arma che dovrà allora mutare in rotta la ritirata nemica.
In conclusione, come tutte le armi combattenti, la cavalleria ha dovuto adeguare la sua azione, il suo armamento e la stessa composizione delle sue unità alle nuove esigenze della guerra odierna, ai nuovi mezzi e alle nuove forme di lotta. Essa peraltro - se ha dovuto rinunciare alla sua tradizionale tattica d'urto di grandi masse a cavallo e se ha dovuto provvedersi di armi automatiche e completarsi di ausiliarî che le aumentino, a seconda delle contingenze, il volume di fuoco di cui dispone - ha conservato, integra e piena, la sua missione di guerra. Non ne sono mutate che le modalità di attuazione. Arma dell'esplorazione, della copertura e dell'inseguimento, le sono ancora aperti, quale ausiliaria della fanteria, vasti orizzoriti sullo stesso campo di battaglia.
Bibl.: Moreno, Trattato di storia militare, Modena 1892; Servizio in guerra, 1912, parte. 1ª; Norme generali per l'impiego delle grandi unità, 1913 e 1928; Norme per il combattimento, 1913; Norme per l'impiego tattico della divisione, 1928; Circolare del Comando del corpo di S. M. Uff. A, n. 800, 16 marzo 1929; Regolamento tedesco, Comando e combattimento delle armi riunite, 1921; Istruz. provvisoria francese sull'impiego tattico delle grandi unità, 1921, ristampa del 1928; Istruz. provvisoria belga sull'impiego tattico delle grandi unità, 1924. Circ. del Comando del C. di S. M., n. 1200, 21 marzo '30.
La cavalleria nell'esercito italiano. - Storia. - I primi reggimenti d'ordinanza di cavalleria, cioè i dragoni di Sua Altezza e i dragoni di Madama Reale, furono organizzati nel 1668. Il reggimento dragoni di Madama Reale fu sciolto nel 1689; ma in seguito furono formati: il reggimento dragoni del Genevois nel 1689 (fig. 1); il reggimento dragoni del Piemonte (fig. 2) nel 1692; e nell'anno stesso: i due reggimenti di cavalleria detti Piemonte Reale e Savoia. Esisteva già il reggimento delle guardie del corpo di S. M.; cosicché, da quell'anno, la cavalleria rimase distinta in due specialità: dragoni o cavalleria pesante (tre reggimenti): cavalleria leggiera (3 reggimenti comprendendovi le predette Guardie).
Acquistata l'isola di Sardegna, fu nel 1726 organizzato un corpo di dragoni di Sardegna, che rimase sempre in quell'isola e fu base della legione Cagliari; poi passò nei Reali Carabinieri. Nel 1736 si costituì una compagnia di usseri, che servì di nucleo a un nuovo reggimento, detto poi dei dragoni della Regina. Nel 1774 i reggimenti di dragoni furono portati a quattro, con un nuovo reggimento detto del Chiablese (fig. 3), e i reggimenti di cavalleria leggiera pure a quattro col reggimento Aosta, anch'esso di nuova formazione.
Durante la dominazione francese i reggimenti di cavalleria piemontese andarono soggetti a varie trasformazioni; poi al tempo della Restaurazione, furono costituiti due reggimenti detti di cavalleria, cioè: Piemonte Reale e Savoia; due reggimenti di dragoni, cioè: del Re (fig. 4) e della Regina; due reggimenti di cavalleggeri, cioè: del Re (fig. 5) e di Piemonte; oltre a quello dianzi detto dei dragoni o dei cavalleggeri di Sardegna.
Subirono variazioni i reggimenti di cavalleria dopo i fatti del 1821, poiché furono sciolti i reggimenti dragoni del re, della regina e cavalleggeri del re, e fu formato un reggimento detto dei dragoni del Genevese; cosicché rimasero nei ruoli i reggimenti seguenti: cavalleggeri Piemonte (che nel 1832 si dissero cavalleggeri Nizza); Piemonte Reale, Savoia; dragoni del Genevese (poi Genova; fig. 6). Nel dicembre 1828 furono istituiti i dragoni Piemonte detti poi reggimento Novara, e nel 1831 il reggimento Aosta. Questi ordinamenti furono cambiati dopo le guerre del 1848 e 1849, anzi nel maggio 1849 fu creato un nuovo reggimento: Saluzzo.
Un decreto del gennaio 1850 prescrisse che la cavalleria fosse divisa in cavalleria di linea e in cavalleria leggiera: la prima costituita da 4, la seconda da 5 reggimenti, e furono istituiti due nuovi reggimenti: quello di Monferrato con gli squadroni Guide, e quello di Alessandria. Con l'annessione della Lombardia si ebbero reggimenti di cavalleggeri Milano, Montebello e Lodi; i quattro reggimenti di linea si dissero corazzieri, e si formò un reggimento guide. Dopo l'annessione della Toscana e dell'Emilia furono istituiti nuovi reggimenti, cioè: Firenze, Lucca, Vittorio Emanuele II e usseri di Piacenza.
Nel 1860 la cavalleria italiana si raggruppò sotto le seguenti denominazioni: cavalleria di linea (4 reggimenti; i corazzieri ripresero così l'antica denominazione); lancieri (6 reggimenti); cavalleggeri (7 reggimenti).
Con l'incorporazione dei contingenti napoletani furono costituiti 2 altri reggimenti (Foggia e Caserta); nel 1871 si formò il reggimento Roma e si abolirono le distinzioni di cavalleria di linea, lancieri, cavalleggeri, guide e usseri. Dei 20 reggimenti allora esistenti i primi 10 furono armati di lancia.
Nel 1882 i reggimenti di cavalleria erano 22, nel 1887 erano 24, e nel 1897 fu ristabilita nei reggimenti la distinzione tra i primi 10 lancieri e gli altri 14 di cavalleggeri. Nel 1909 la cavalleria venne formata di 29 reggimenti, ciascuno di 1 Stato Maggiore, 5 squadroni e 1 deposito, che poi (1910) vennero riuniti in 3 divisioni.
Ecco, riepilogando, le denominazioni dei reggimenti di cavalleria esistenti fino al 1915. Nizza Cavalleria (1°); Piemonte Reale Cavalleria (2°); Savoia Cavalleria (3°); Genova Cavalleria (4°). Seguivano 8 reggimenti lancieri, cioè: Novara (5°); Aosta (6°); Milano (7°); Montebello (8°), Firenze (9°); Vittorio Emanuele II (10°); Mantova (25°); Vercelli (26°); e 17 reggimenti cavalleggeri: Foggia (11°); Saluzzo (12°); Monferrato (13°); Alessandria (14°); Lodi (15°); Lucca (16°); Caserta (17°); Piacenza (18°); Guide (19°); Roma (20°); Padova (21°); Catania (22°); Umberto I (23°); Vicenza (24°); Aquila (27°); Treviso (28°); Udine (29°); Palermo (30°).
Subito dopo la guerra 1915-1918 furono disciolti i seguenti reggimenti: 7° Milano - 8° Montebello - 11° Foggia - 15° Lodi - 16° Lucca - 17° Caserta - 18° Piacenza - 20° Roma - 21° Padova - 22° Catania - 23° Umberto I - 24° Vicenza - 25° Mantova - 26° Vercelli - 27° Aquila - 28° Treviso - 29° Udine - 30° Palermo.
Gli stendardi dei detti reggimenti sono conservati a Roma nel Museo dell'Esercito in Castel S. Angelo.
Passare in rassegna le divise della cavalleria, anche solo per l'esercito sardo, poi piemontese e ora italiano, porterebbe a lunga esposizione. Se ne farà un breve accenno.
In quanto alle corazze e ai dragoni, i più antichi corpi di cavalìeria, si vegga alle rispettive voci. Dal buon album di divise del Galateri si riporta qui quella del reggimento Nizza Cavalleria (1° reggimento), partendo dal 1814, quando si chiamava dei Cavalleggeri di Piemonte; essa discende dai dragoni gialli o dragoni Piemonte; per la divisa precedente la Restaurazione vedi dragoni (figg. 7, 8, 9 e 10).
Ebbero questi cavalieri per la prima volta un elmo; era nero, con frontale, sottogola e ornamenti dorati, cimiero dorato sormoritato da cresta di piuma azzurra; abito chiuso azzurro con colletto, paramani e risvolti alle falde rossi; spallini e bottoni dorati; cravatta nera; bandoliera bianca; pantaloni azzurri più chiari della giubba; stivali corti; sciabola con elsa, guardia e fodero di metallo bianco. Carlo Felice tolse l'elmo e sostituì un chepì di color rosso con tondino più largo della parte bassa, visiera nera, fregi e nappina dorati, coccarda e pennacchietto (alto) azzurri; per il resto come la divisa precedente. Subì una modificazione radicale nel 1832 sotto Carlo Alberto, giacché venne dato alla cavalleria l'elmo bello elegante odierno, con coppa argentata, cimiero dorato; la giubba fu ancora ad abito ma con faldine corte e fu di colore azzurro con colletto, paramani e larghi bordi alle faldine di colore cremisi, bottoni, bandoliere, spalline, cinturino e pendagli in bianco; pantaloni lunghi fino alla scarpa, grigi-azzurrati con doppia banda cremisi. Nel 1843 pur rimanendo la divisa precedente, l'abito fu fatto a tunica (corta), per uniformarlo a quello degli altri corpi (fig. 10). Così durò, con leggiere modificazioni, la divisa della cavalleria piemontese fino al 1860; ben inteso che i corpi diversi avevano colori diversi da quello di Nizza Cavalleria nelle filettature e paramani.
Coi risultati felici delle guerre d'indipendenza, vi furono, nell'esercito piemontese, infiltrazioni di corpi di altri stati italiani, e anche di stati stranieri, specialmente nella cavalleria ed avemmo Ungari, Polacchi e altri. Evidentemente la maggiore varietà, per la maggiore quantità di corpi annessi, si ebbe dopo le guerre del 1860-1861, e per parecchi anni fiurono conservati presso di noi ed usseri, e guide, che avevano divise specialissime.
La radicale riforma a tutte le divise dell'esercito praticata dal ministro Ricotti, portò la cavalleria italiana a due categorie distinte per quanto riguarda appunto la divisa, cioè alla cavalleria che mantenne come copricapo l'elmo (i primi 4 reggimenti), e alla cavalleria che ebbe per copricapo il colbacco (gli altri reggimenti).
Le distinzioni fra reggimento e reggimento sono date sempre dai colori diversi. Nella divisa grigio-verde adottata anche per la cavalleria, i colori si limitano al colletto, che può essere: o tutto d'un colore o a fiamma di panno, colorata. In campagna, nei servizî sotto le armi e simili, la cavalleria (di tutte le specie) ha l'elmetto. In quanto ad armamento, essa è dotata di moschetto, detto appunto da cavalleria, e di sciabola con guardia, elsa e fodero metallico. I lancieri, ossia i primi quattro reggimenti, hanno in più la lancia (fig. 10).
Organismo attuale. - L'arma di cavalleria comprende attualmente 2 comandi di brigata; 12 reggimenti (Nizza, Savoia, Genova, Piemonte Reale, Vittorio Emanuele II, Aosta, Saluzzo, Novara, Monferrato, Guide, Firenze, Alessandria); una scuola di reclutamento ufficiali in S. P. E. (Accademia di fanteria e cavalleria in Modena); una scuola di perfezionamento ufficiali in S. P. E. e di reclutamento ufficiali di complemento e sottufficiali di cavalleria (Scuola di applicazione di cavalleria, in Pinerolo, con distaccamento a Tor di Quinto); 4 squadroni di palafrenieri (due per la Scuola di applicazione e per il suo distaccamento di Tor di Quinto; uno per l'Accademia di fanteria e cavalleria e uno per la Scuola di guerra); un gruppo squadroni di rimonta (comando di gruppo e 4 squadroni di rimonta); 6 depositi allevamento quadrupedi (Mirandola, Prestane-Lipizza, Grosseto, Lazio, Persano, Bonorva, 8 depositi cavalli stalloni (Crema, Ferrara, Reggio Emilia, Pisa, S. Maria Capua Vetere, Foggia, Catania, Ozieri) dipendenti dal Ministero dell'agricoltura e foreste.
Le brigate e i reggimenti di cavalleria fanno capo, per la parte tecnica, all'Ispettorato delle truppe celeri, istituito nel giugno 1928, in luogo dell'Ispettorato della cavalleria e dell'Ispettorato dei bersaglieri, che vennero soppressi. L'anzidetto Ispettorato delle truppe celeri sovrintende alla istruzione dei bersaglieri e della cavalleria e agli studî ed esperimenti relativi all'ordinamento, al personale, al servizio speciale, ai materiali e ai quadrupedi di tali truppe, e a tutto quanto si riferisce ai progressi tecnici che possono interessarle; compila determinate istruzioni riguardanti le truppe celeri e studia le varie questioni tecniche e d'impiego riflettenti i bersaglieri, la cavalleria e i reparti delle varie armi, specialità e servizî dei quali sia previsto l'impiego in guerra con le truppe celeri.
La brigata di cavalleria comprende: un comando di brigata (comandante, ufficiali del comando e squadra comando); tre reggimenti di cavalleria. Ogni reggimento di cavalleria comprende: il comando di reggimento (comandante, ufficiali del comando e reparto comando); due gruppi di squadroni: I gruppo: comando di gruppo e 1° e 2° squadrone; II gruppo: comando di gruppo, 3° e 4° squadrone e squadrone mitraglieri (5°); un deposito. Lo squadrone comprende: il comandante; il plotone comando (comandante, squadra comando e squadra servizî); quattro plotoni cavalieri (1°, 2°, 3° e 4°). Il plotone cavalieri comprende: il comandante; 2 squadre cavalieri (1ª e 2ª); 1 squadra di 2 mitragliatrici leggiere (3ª). Lo squadrone mitraglieri consta: del comandante; della squadra comando e squadra servizî; di 4 plotoni mitraglieri (1°, 2°, 3° e 4°). Ogni plotone mitraglieri consta del comandante e di 2 squadre mitragliatrici pesanti (1ª e 2ª). Il deposito del reggimento di cavalleria comprende: un comando di deposito con squadrone deposito; un ufficio mobilitazione; un ufficio d'amministrazione (conti; pagatore; materiali con magazzino e officina; matricola). Ogni deposito allevamento quadrupedi ha: un direttore (colonnello o tenente colonnello); un vicedirettore (tenente colonnello o maggiore o capitano); ufficiali medici, veterinarî e d'amministrazione; agenti civili.
La cavalleria come classe sociale e politica.
I "cavalieri" nel mondo classico. - Grecia. - Nella Grecia arcaica, prima della trasformazione economica e sociale che tenne dietro al movimento colonizzatore dei secoli VIII-VI a. C., solo i nobili ricchi potevano tenere dei cavalli da guerra e apprendere l'arte del combattere dal cocchio o dal cavallo; e poiché carri da guerra o cavalleria costituivano l'elemento di gran lunga più importante degli eserciti del tempo, i nobili, dopo la caduta della monarchia, ebbero anche il potere politico e costituirono oligarchie, e costituzioni oligarchiche ebbero in genere anche più tardi quegli stati, che, come la Tessaglia, Eretria, Colofone, Magnesia e altre città dell'Asia Minore, continuarono ad avere la loro principale forza militare nella cavalleria (cfr. Aristotele, Politica, IV, 1289 b e 1297 b).
La parola ἱππεῖς, cavalieri, già usata in Omero (ἱππεῆες) per designare i guerrieri combattenti dal cocchio, o altri termini analoghi (ἡνίοχοι καὶ παραβάται in Beozia, ἱπποβόται a Calcide), venne così a indicare, oltre che i combattenti a cavallo, la classe dei nobili, l'aristocrazia. Col sorgere d'una forte classe media in grado di armare una numerosa fanteria pesante di opliti, capace di contrastare alla cavalleria aristocratica il primato sul campo di battaglia, le costituzioni democratiche scalzarono in molti stati greci le oligarchie. Le democrazie allora abolirono o quasi, per reazione e per motivi specialmente politici, la cavalleria come arma, ma il titolo di ἱππεῖς sopravvisse in alcuni stati con significato sociale e politico, mentre in altri la classe più elevata era indicata con termini che alludevano più direttamente alla superiorità economica (οἱ πλούσιοι, οἱ εὔποροι, οἱ παχεῖς, οἱ γεωμόροι, οἱ γαμόροι).
Così in Atene portavano dapprima il titolo di ἱππεῖς tutti i membri della classe più ricca, che nei tempi più antichi era costituita quasi per intero da nobili, eupatridi; e si disputa se il titolo sia stato introdotto nell'Attica, sprovvista di cavalleria, ad imitazione della Tessaglia, dell'Eubea e della Ionia, ove indicava l'aristocrazia che combatteva a cavallo (è l'opinione di G. De Sanctis, 'Ατϑίς, Storia della Repubblica Ateniese, 2ª ediz., Torino 1912, p. 230), o se non ricordi invece un'epoca nella quale anche nell'Attica l'aristocrazia combatteva, o almeno marciava in guerra, montata a cavallo. In seguito nella costituzione di Solone portavano il nome di ἱππεῖς solo i cittadini della seconda classe, in quanto che egli probabilmente creò a scopo finanziario una prima classe di pentacosiomedimni (che potevano raccogliere sulla loro proprietà almeno 500 medimni di grano), nella quale furono collocati i più ricchi degli ἱππεῖς (ἱππεῖς πεντακοσιομέδιμνοι), mentre il titolo dei cittadini della seconda classe, detti alle volte anche triacosiomedimni, sarebbe stato ἱππεῖς τριακοσιομέδιμνοι (così l'opinione più comune; v. diversamente G. Busolt, Griech. Staatskunde, Monaco 1926, p. 826). Quando fu ristabilita in Atene, intorno alla metà del V sec. a. C., la cavalleria, questa si reclutava fra i cittadini delle due prime classi; ma dopo la guerra del Peloponneso le classi del censo perdettero la loro importanza e il reclutamento avveniva con altri criterî: e il titolo politico di ἱππεῖς, senza relazione pratica col servizio militare a cavallo, sopravvisse come termine antiquato.
In altri stati il titolo di ἱππεῖς fu conservato a reparti dell'esercito originariamente montati e poi appiedati; così a Sparta alla guardia del re, e nella Boezia a un corpo scelto di 300 opliti che ancora al tempo della guerra del Peloponneso si chiamavano ἡνίοχοι καὶ παραβάται, "guidatori di cocchi e guerrieri che stanno al loro fianco".
Roma. - In Roma la cavalleria è molto antica. Formata prima su tre centurie, aumentata poi, già nell'epoca regia, a sei e successivamente a diciotto, essa fu resa permanente nel senso che i designati dai consoli, e poi dai censori, al servizio a cavallo in guerra, ricevevano un'indennità. Inoltre questi equites equo publico vennero a godere nella massima assemblea popolare romana, il comizio ccnturiato, di un diritto politico superiore, poiché le loro centurie, che avevano ciascuna un voto, non potevano oltrepassare i cento iscritti, mentre, con l'accrescersi della popolazione e della ricchezza, le altre centurie della prima classe del comizio, e specialmente quelle degli iuniores, diventavano sempre più grosse. Perciò i membri dell'aristocrazia romana, favoriti dai censori appartenenti in generc all'aristocrazia stessa, tendevano a rimanere iscritti nelle centurie degli equites anche quando l'età avanzata li aveva resi meno idonei al servizio a cavallo, mentre d'altra parte fra le stesse persone si sceglievano ordinariamente i magistrati e gli ufficiali dell'esercito, che non si potevano quindi arruolare nella cavalleria, cosicché, se si tien conto che un certo numero di equites e. p. non dovevano essere disponibili per malattie e per altre cause, le 18 centurie erano ben lungi dal poter fornire ad ogni momento 1800 uomini a cavallo. E poiché, per non mutare i rapporti fra le varie classi del comizio centuriato, si evitò sempre in Roma di accrescere il numero delle centurie equestri, non rimaneva altro espediente, nel caso di deficienza di cavalieri mobilitabili, che di ammettere o obbligare al servizio a cavallo anche cittadini fuori delle centurie equestri. Per Dionisio (VI, 44) già nel 494 a. C. si sarebbero arruolati come cavalieri più di 400 plebei, s'intende con cavalli proprî; mentre, secondo la notizia ben più attendibile di Livio (V, 7) sarebbe avvenuto nel 403, durante l'assedio di Veio, che coloro quibus census equester erat, equi publici non erant adsignati, offrissero al Senato equis se suis stipendia facturos; e soggiunge quindi: tum primum equis suis merere equites coeperunt. Comunque sia, i magistrati ai quali spettava compilare le liste dei cittadini per la leva (i consoli e poi i censori) e tenere a numero e controllare l'attitudine fisica e l'onorabilità dei cavalieri equo publico cominciarono molto per tempo a tener nota a parte di quelli fra i cittadini della prima classe che avessero un censo tale da poter servire a cavallo con mezzi proprî, e nel 225 a. C. la cifra di tali cittadini saliva a 23.000 su circa 270.000 cittadini maschi adulti, cioè all'8-9%. Da questi cittadini con censo equestre si sceglievano gli uomini necessarî a completare le turmae di cavalleria delle legioni, se non erano sufficienti gli equites equo publico.
Ai cittadini con censo equestre non spettavano particolari diritti politici, riservati ai componenti le 18 centuriae equitum; solo essi percepivano in servizio il soldo equestre, che era il triplo del soldo della fanteria. Ma il senso della superiorità del servizio a cavallo sul servizio a piedi, e il fatto che dai cavalieri con cavallo proprio al pari che dai cavalieri equo publico si vennero sempre più largamente scegliendo gli ufficiali necessarî per il comando dei corpi di fanteria romani e alleati e per la costituzione degli stati maggiori, cosicché il corpo degli equites si venne gradatamente a trasformare in un corpo di ufficiali, fecero sì che i cittadini anche solo qualificati per il servizio a cavallo si sentissero superiori agli altri e solidali fra loro. Il termine eques fu esteso quindi, dal suo significato primitivo e più ristretto di cittadino iscritto nelle 18 centuriae equitum equo publico, a designare non solo coloro che avevano servito con cavallo proprio, ma anche tutti quelli che per le loro condizioni economiche erano qualificati per il servizio a cavallo. E questa classe, formata dapprima a solo scopo militare, si trasformò così in una classe a contenuto economico-sociale. Inoltre, quando la cavalleria degli eserciti romani fu reclutata sempre più fra gli alleati, i cavalieri romani per indicare la loro posizione privilegiata di fronte ai cavalieri alleati e più vicina a quella dell'ufficiale, anche quando servivano nella cavalleria si chiamarono col titolo di equites Romani (con o senza l'aggiunta equo publico), nel quale l'elemento politico è preminente; eques semplicemente è il soldato di cavalleria di qualunque provenienza.
Quale censo si richiedesse nell'epoca più antica per il servizio equestre, non è detto; ma poiché la lex Roscia theatralis del 67 a. C. richiedeva 400.000 sesterzî perché un cavaliere avesse posto riservato a teatro, cioè il decuplo del censo della prima classe, si ritiene da alcuni (cfr. Mommsen, Röm. Staatsr., III, p. 499) che questo sia stato sempre il censo equestre; ma dato che in Roma, come abbiamo visto, nel 225 il 9% circa degli adulti lo possedeva, la ricchezza del popolo romano sarebbe stata così grande o così inegualmente distribuita, che altri (Beloch e De Sanctis) ritengono più probabile che il censo equestre fosse un tempo molto più modesto. Si richiedeva inoltre l'ingenuità, cioè la nascita da liberi.
Nella massa degli equites equo publico e dei qualificati al servizio a cavallo, che erano in sostanza i maggiori censiti di Roma, formavano però una classe distinta e superiore per dignità i cittadini appartenenti alla nobilitas, cioè alle famiglie che avevano dato magistrati curuli allo stato, e con questi coloro che, come ex-magistrati, avevano il diritto, almeno da una certa epoca, di sedere in Senato. Questa distinzione assunse un preciso carattere economico con il plebiscito Claudio del 218 a. C., che vietava ai senatori e ai figli dei senatori di possedere navi della capacità di più di 300 anfore (Livio, XXI, 63, 3), cioè li escludeva dal commercio, riservandolo così agli altri equites, e specialmente con l'altra legge, approvata, pare, poco prima della guerra annibalica, che vietava ai senatori di assumere pubblici appalti. Questi appalti erano le più importanti operazioni finanziarie che si potessero compiere in Roma, e furono quindi riservati, con l'esclusione legale dei senatori, morale dei libertini e pratica dei non abbienti, ai ricchi non senatori, né libertini, cioè in sostanza agli equites equo privato. Publicani, appaltatori, ed equites vennero così a coincidere. Il privilegio economico consolidava la loro compagine e ne faceva un vero e proprio ordo, classe sociale e politica; l'ordine senatorio si fissò come classe di grandi proprietarî terrieri, che governava attraverso le magistrature e il Senato; l'ordine equestre come classe di finanzieri e di commercianti, che deteneva la maggior parte del capitale mobile; nobiltà ereditaria la prima, personale la seconda, entrambe distinte dalla plebe nel senso più recente della parola.
La distinzione fra i due ordini fu resa ancora più netta da Gaio Gracco, che con varie misure legò alla plebe e al partito popolare i cavalieri, e acuì consciamente il contrasto degl'interessi dei due ordini per servirsi dell'equestre contro il senatorio; perciò egli è ritenuto il vero creatore dell'ordine equestre (il titolo ufficiale di ordo equester non è però attestato per l'età dei Gracchi, ma solo per quella di Cicerone) e di quella situazione politica, per la quale i cavalieri formarono dopo di lui il nucleo del partito democratico e antisenatorio romano e la lotta fra cavalieri e Senato fu il motivo dominante della storia di Roma sino alla fine della repubblica e oltre. Sino all'epoca di Gracco, i senatori conservarono in genere l'equus publicus per godere del voto privilegiato nelle 18 centurie equestri; ma con un plebiscito del 129 o poco dopo, i senatori furono esclusi dalle 18 centurie. Inoltre con la sua lex iudiciaria Gracco escluse i senatori e i loro parenti dai posti di giudici nei processi penali e civili, assegnandoli ai cavalieri; e poiché i due ordini erano in contrasto soprattutto sul terreno dell'amministrazione provinciale, alla quale i senatori partecipavano come governatori e i cavalieri specialmente come appaltatori della riscossione delle imposte, praticamente i senatori accusati de repetundis, di delitto di concussione a danno dei sudditi, si trovarono alla mercé dei giudici cavalieri, i quali potevano vendicarsi, con accuse e condanne nella corte de repetundis, di ogni governatore che non avesse lasciato a loro la parte del leone nello sfruttamento delle provincie. Questa legge di Gracco, che portò allo stadio acuto il contrasto fra i due ordini, sopravvisse alla caduta di lui; una legge del console Q. Servilio Cepione nel 106, che attribuiva i posti di giudice ai due ordini in comune, una del tribuno M. Livio Druso nel 91 e una del console Silla nell'88, che li restituivano al Senato, o non furono approvate o furono subito abrogate, finché Silla dittatore nell'81 ristabilì le giurie senatorie, che durarono per una diecina d'anni. Col crollo della restaurazione sillana ritornarono le giurie di cavalieri, finché nel 70 una legge del pretore L. Aurelio Cotta dispose che l'albo dei giudici fosse costituito per un terzo da senatori, un terzo da cavalieri e un terzo da tribuni aerarii; ogni giuria doveva contare giudici scelti proporzionalmente dalle tre sezioni (decuriae) dell'albo. Ma siccome i tribuni aerarii avevano il censo equestre, due terzi dei posti rimanevano sempre ai cavalieri; e anche quando Cesare dittatore nel 46 escluse dall'albo i tribuni aerarii, il rapporto non dovette mutare, perché le tre decuriae rimasero e due quindi furono probabilmente assegnate da Cesare agli equites equo publico, da lui, pare, accresciuti di numero. I senatori furono esclusi definitivamente dai giudizî da Augusto, che costituì le tre decurie di cavalieri e ne aggiunse una quarta (e Caligola una quinta), reclutata fra coloro che avevano metà del censo equestre (ducenarii in contrapposto ai cavalieri quadringenarii), per i giudizî civili minori. Poiché Silla abolì praticamente la censura, il reclutamento degli equites equo publico per opera dei censori cessò e fu sostituito da un altro sistema a noi ignoto; e allo stesso Silla si attribuisce (Mommsen, Röm. Staatsr., III, p. 486) l'istituzione che i figli dei senatori erano di diritto equites equo publico fino alla loro entrata nel Senato, ciò che praticamente sottoponeva all'influenza del Senato le 18 centurie, e l'altra che la nomina a ufficiale (tribunus militum) dava di diritto il grado di cavaliere.
Un riconoscimento formale dell'ordine equestre era infine il privilegio della proedria, di sedere cioè in posti distinti a teatro, che spettava già dal 194 a. C. ai senatori. Si ritiene che questo privilegio sia stato concesso ai cavalieri già da G. Gracco e che loro l'abbia soltanto ridato, dopo la reazione sillana, quella lex Roscia theatralis del 67 che riservava ai cavalieri le prime 14 file di sedili, le due prime destinate ai cavalieri che erano stati tribuni militari e ai cavalieri figli di senatori, le altre divise in due settori (cunei) dei seniores e degli iuniores con un reparto speciale per i cavalieri decoctores, cioè dichiarati falliti. La stessa legge fissava a 400.000 sesterzî il censo equestre che dava diritto alla proedria, che non era quindi legata solo al possesso del cavallo pubblico.
Augusto, nella sua restaurazione dello stato romano, riprese in parte le idee di Gaio Gracco. Di fronte al Senato e a sostegno del principe, egli riordinò e rafforzò, attribuendogli una parte importantissima nel governo dello stato e legandolo strettamente alla persona del principe, l'ordine equestre, che, tradizionalmente avverso al Senato, più spregiudicato e costituente una più mutevole nobiltà personale, era meno pervaso da quello spirito di attaccamento all'antico ordine di cose e di rimpianto per il perduto potere, che rendeva la nobiltà senatoria ereditaria intimamente ostile al nuovo regime. Al Senato Augusto riservò in genere le antiche cariche repubblicane fornite di imperium, dispendiose e spesso solo onorifiche; dall'ordine equestre trasse invece la nuova burocrazia statale e l'ufficialità dell'esercito divenuto permanente; solo gli appartenenti ai due ordini, nettamente distinti dalla plebe, potevano accedere alle magistrature, agli uffizî e ai sacerdozî. L'ordine senatorio è più elevato e dall'ordine equestre si sale spesso al senatorio, ma l'equestre tende ad avere nelle sue mani una somma di gran lunga maggiore di poteri e un'influenza decisiva nell'amministrazione. Il passaggio era del resto logico e facile: gli antichi publicani, che comprendevano il flos equitum Romanorum, con la nuova tendenza del principato di sostituire ai grandi appalti della repubblica l'assunzione diretta da parte dello stato della riscossione dei tributi e dei pubblici servizî, erano i più adatti a trasformarsi in una burocrazia statale largamente retribuita e legata al principe; e l'ordine equestre, già classe del capitale mobile e della speculazione finanziaria, si trasformò in una classe di proprietarî fondiarî al pari dell'ordine senatorio. Nel campo militare, Augusto non ridiede ai cavalieri il servizio a cavallo nelle legioni, che diviene indipendente da ogni qualifica, ma rese norma precisa l'antica consuetudine repubblicana, che ufficiali fossero gli aventi censo equestre; d'ora innanzi i cavalieri devono prestare, e soli possono prestare, servizio di ufficiale nell'esercito, e questo servizio è di regola condizione necessaria per essere ammessi poi nella carriera amministrativa e negli albi dei giudici.
Inoltre con Augusto tutti i cavalieri divennero equites equo publico (è questa l'opinione più diffusa e più probabile, contrastata però da alcuni, come il Kübler, v. la bibl.) e ricevevano il cavallo o dai censori, finché questi rimasero o gl'imperatori rivestirono essi stessi la censura, o di regola dal principe stesso, di solito su domanda dell'aspirante, senza limite di numero e a vita; e il cavalierato si perdeva solo cambiando ordo, cioè entrando nel Senato, o per punizione. Per vagliare i requisiti degli aspiranti, si formò un ufficio particolare a censibus (la verifica del censo prescritto era l'elemento più importante), che faceva parte del dicastero per le petizioni, a libellis. Con l'aiuio di questo stesso ufficio il principe esercitava la sua sorveglianza sull'intero ordine, dal quale egli poteva escludere, come un tempo i censori, tutti coloro che risultassero indegni, assistito in questa decisione, pare, da un consiglio di dieci senatori. Inoltre Augusto richiamò in vita l'antica cerimonia repubblicana della transvectio equitum, una solenne rivista dell'intera cavalleria, che agl'Idi di luglio sfilava dal tempio di Marte presso la porta Capena attraverso il Foro, ov'era il tempio dei Dioscuri, protettori della cavalleria, sino al Campidoglio; e in questa occasione l'imperatore procedeva, oltre che al census generale dei cavalieri, alla rassegna (detta più tardi equitum probatio) dei cavalieri più giovani (degli iuniores, fino a 35 anni), per accertarsi, con l'assistenza di tre senatori, del loro portamento militare. Naturalmente si dovevano ammettere dispense per ragioni di salute e per i cavalieri dimoranti nelle regioni più lontane; cìò portò presto a una decadenza della cerimonia.
In questa pompa annuale, come in tutte le occasioni solenni, la cavalleria appariva non più formata in centurie, ma in sei turmae, capitanate dai seviri equitum Romanorum, nominati dall'imperatore e che duravano in carica un anno; erano di solito cavalieri di nascita senatoria o principi imperiali e a loro spettava organizzare i ludi equestres. I principes iuventutis erano invece i principi imperiali che ricevevano per acclamazione dalla cavalleria, e più tardi dall'imperatore, questo titolo che significava un primato d'onore nell'ordine. L'ordine ha una organizzazione non corporativa, ma che richiama sotto certi aspetti la corporazione, fa decreti onorarî, innalza statue, esprime voti, invia commissioni al principe, e ciò non in base a diritti formalmente riconosciuti all'ordine, ma come manifestazioni spontanee della massa di coloro che vi appartengono. Del resto queste manifestazioni tollerate negli ultimi tempi della repubblica e sotto la prima dinastia, furono poi certo limitate non ammettendosi più corporazioni politiche in Roma oltre al Senato.
Sotto l'Impero, per l'ammissione all'ordine equestre si osservano in linea di principio le antiche norme repubblicane (età militare, censo, attitudine fisica, libertà della nascita), ma l'arbitrio del principe può passare sopra le norme. Principi imperiali e figli di alti personaggi sono ascritti all'ordine prima dei 17 anni compiuti; nel sec. II d. C. ricevono il cavalierato dei bambini. Già nell'età repubblicana, il cavallo era lasciato, ad arbitrio del censore, anche a individui che non avevano più per l'avanzata età la necessaria prestanza fisica; pare anzi che questa fosse la norma per i senatori, e il ricordato plebiscito graccano de reddendis equis mutò solo in parte (per i senatori), e per ragioni politiche, questo stato di cose. Con Augusto il cavalierato diviene vitalizio, e all'attitudine fisica si diede sempre minore importanza, quanto più l'ordine si trasformava da militare in politico. Augusto stabilì un controllo sull'attitudine fisica degli equites in quanto ufficiali o aspiranti ufficiali, ma dopo i 35 anni dispensò i cavalieri dagli obblighi che richiedevano prestanza giovanile.
Il censo equestre si mantenne sotto l'Impero quale era stato fissato dalla legge Roscia, 400.000 sesterzi, ma perdette ogni valore in seguito alla svalutazione della moneta nel sec. III d. C.; e furono inoltre ammessi dei temperamenti per i cavalieri il cui censo fosse caduto sotto quel limite senza loro colpa. Pare che il cavalierato non sia mai stato ereditario, per quanto alcuni pensino il contrario (Kübler) e il Mommsen abbia ammesso che Marco Aurelio l'abbia reso ereditario fino al terzo grado. Erano invece cavalieri per nascita, pare dopo Silla (v. sopra), i figli dei senatori. Ma se potevano essere fatti equites tutti i nati liberi (solo sotto Tiberio si esclusero i non ingenui), era però naturale che si preferissero i figli di buona famiglia e di persone già appartenenti all'ordine; e perciò in questo senso si può parlare di famiglie equestri e di ereditarietà pratica. In ogni caso, poiché il numero dei cavalieri era, sotto l'impero, illimitato, questa ereditarietà pratica non limitava l'ascesa all'ordine dei figli di famiglie più modeste. Quanto alla residenza, si cominciò sotto l'impero a preferire i residenti in Italia, ma la scelta fu a mano a mano estesa alle provincie più romanizzate, in modo che la storia dell'origine dei cavalieri coincide con la storia della romanizzazione delle provincie: dei 120 cavalieri del sec. I d. C. dei quali ci è nota l'origine, più di metà sono italici; degli 80 da Traiano a Settimio Severo, solo 30; dei 50 circa del sec. III solo una diecina. Così il rapporto fra cavalieri occidentali e orientali si va invertendo dal secolo I al III, che segna la prevalenza nell'Impero delle provincie orientali. L'onorabilità, che la repubblica controllava per tutti i cittadini e richiedeva in grado maggiore per gli equites equo publico, è sotto l'Impero controllata dal principe solo per i senatori e gli equites; ma poco noi sappiamo sul grado di onorabilità che a questi ultimi si richiedeva.
Già sotto la Repubblica, v'era fra cavalierato e servizio nella fanteria incompatibilità, espressa dal fatto che il cavaliere romano di truppa era superiore di rango allo stesso centurione; i qualificati al servizio equestre abbandonarono gradatamente anche i reparti a cavallo, e servirono come ufficiali, mentre gli altri cittadini servivano nella fanteria come soldati e sottufficiali (i centurioni avevano in Roma moralmente il rango di sottufficiali). Sotto l'impero, chi per qualche ragione assumeva il grado di centurione nella fanteria, usciva dall'ordine equestre, e solo negli ultimi tempi dell'impero centurioni e principales hanno in genere rango equestre.
L'incompatibilità con il grado senatorio, già sancita da Gracco, fu per la stessa ragione mantenuta rigorosamente sotto l'Impero. Ma il senato imperiale si alimenta dai cavalieri, detti perciò seminarium senatus, o meglio da una élite di cavalieri; i figli dei senatori, obbligati sotto l'Impero per legge a seguire la carriera senatoria, cominciavano col prestar servizio con grado equestre, e chiedevano di seguire la stessa via giovani di famiglie distintissime che aspiravano alla carriera senatoria, e, come già i censori, anche il principe sceglieva fra i cavalieri se voleva ascrivere in via straordinaria nuovi membri al Senato. Questa concessione spettava, p. es., al praefectus praetorio, il più elevato degli ufficiali equestri. Ma in genere i cavalieri non erano destinati a passare al Senato, e non vi aspiravano.
Ai privilegi che i cavalieri avevano nell'età repubblicana si aggiungono sotto l'Impero quelli di occupare tutti i posti di ufficiale, dai quali sono esclusi i senatori, e una parte a loro riservata degli uffici pubblici e dei sacerdozî. Abbiamo già detto che Augusto escluse, o esonerò, i senatori dalle funzioni di giudice, formando tre delle decurie dell'albo di soli cavalieri. La scelta dei giudici veniva fatta dall'imperatore con molto rigore; dovevano avere almeno 35 anni, e, sotto Augusto, essere italici, o almeno delle provincie romanizzate e cittadini dalla nascita. Una delle tre decurie era per turno dispensata dal servizio per un anno. L'estendersi della cognitio extra ordinem, che faceva a meno degli iudices, fece gradatamente sparire il giudizio ordinario con iudices, e le decurie non sono più ricordate nel sec. III d. C.
Ai cavalieri sono riservati i posti di ufficiale, che si dicono appunto equestri. Condizione per essere ufficiali è la concessione da parte del principe dell'equus publicus, cosicché esclusivamente il principe, come capo supremo del suo esercito, nomina gli ufficiali. Il principe poteva costituire con doni il censo richiesto a chi ne era privo, o concedere uno stato personale di origine libera fittizio a chi non l'aveva; quindi il frequente ricordo del dono del cavallo (equo publico donatus) da parte del principe nelle iscrizioni. Ormai la cavalleria negli eserciti romani è formata di soldati senza speciale qualifica, il cui servizio è indicato come stipendium equestre; il servizio dei cavalieri come ufficiali, che sono montati, è invece militia equestris, o militia senz'altro, coi tre gradi, secondo l'ordine gerarchico ascendente fissato da Claudio, di praefectus equitum o alae, comando di un corpo di cavalleria ausiliaria, di praefectus cohortis, comando di un corpo di fanteria ausiliaria, e di tribunus legionis (grado che sparisce nel sec. III) o cohortis, cui è da aggiungere la praefectura castrorum e altri comandi di rango equestre. I figli dei senatori rivestivano però solo il tribunato delle legioni e prima di entrare in Senato; di solito fino al 25° anno. Non era necessario rivestire tutti questi gradi e successivamente, e si faceva larga parte all'opportunità. Non vi poteva aspirare, come a regolare carriera, il soldato plebeo, cui era concesso d'arrivare solo sino ai primi posti di centurione; però gli poteva essere concesso per meriti il cavalierato, anzi la concessione divenne col tempo sempre più frequente e infine normale. Almeno dal principio del sec. II, l'ufficiale deve compiere tre militiae (dopo i Severi, quattro), ed è allora veteranus, e queste durano per un numero di anni che dipendeva dalla volontà del principe o almeno che non era, o non ci appare, fissato, ma che poteva essere contenuto o meno, in un limite consuetudinario.
Furono riservati da Augusto all'ordine equestre gli uffici che più strettamente si collegavano con le funzioni del principato. Tutte le cariche e i comandi che esso creò fuori della tradizione repubblicana furono considerati di esclusiva spettanza del principe e affidati ai cavalieri. Sono uffici, di solito, meno appariscenti, ma che avevano o s'avviavano ad avere importanza grande nell'amministrazione. Tali erano i comandi dei nuovi corpi ausiliarî, delle flotte di Ravenna e di Miseno, dei corpi militari stanziati in Italia, come la guardia imperiale (pretoriani) e il corpo dei vigili del fuoco a Roma, le nuove provincie come l'Egitto, governato dall'imperatore per mezzo di cavalieri e rigorosamente precluso ai senatori senza speciale permesso, e le provincie che facevano da spalto all'Italia, Norico, Rezia, Alpi Occidentali, e la nuova amministrazione finanziaria del principato, specialmente la riscossione diretta delle imposte. Il principe, che amministra direttamente Roma e l'Italia, si vale di ausiliarî dei due ordini e gestisce la cassa dello stato e gli acquedotti per mezzo di senatori, le poste e l'approvvigionamento della capitale per mezzo di cavalieri; per la manutenzione delle strade italiche e la sorveglianza dei beni delle principali municipalità si hanno senatori nei posti più elevati e cavalieri nei posti minori. Grande potenza acquistano i cavalieri per il fatto che vengono loro affidati gradatamente (e completamente con Adriano) gli uffici della segreteria, del patrimonio e della cassa personale del principe, che questi affida, come cose sue personali, dapprima a persone di sua fiducia al di fuori d'ogni qualifica, ma che divengono sempre più uffici pubblici. Anche nel consiglio del principe e fra i suoi comites sono ammessi senatori e cavalieri, ma, data la tendenza antisenatoriale del governo imperiale, i cavalieri finiscono con l'essere in prevalenza nel sec. III e la stessa rappresentanza dell'imperatore è assunta dal più elevato degli ufficiali equestri, il praefectus praetorio. Le cariche equestri hanno titoli speciali, ben distinti da quelli delle cariche tradizionali dell'ordine senatorio, e che si raggruppano sotto le due categorie dei praefecti (ἔπαρχοι) e dei procuratores (ἐπίτροποι) (v. prefetto e procuratore).
Nell'ordine equestre si vennero fissando delle categorie che godevano di maggiore o minore considerazione. L'aver gestito una carica equestre costituiva un titolo di distinzione, come un tempo l'aver gestito una carica curule: in questo senso si parlava di equestris nobilitas (Tac., Agric., 4), che non era però rigorosamente definita e classificata come la nobiltà senatoria. Ma è naturale che le più alte cariche equestri (prefetture del pretorio, dell'Egitto, dell'annona, dei vigili) godessero di un lustro speciale e fossero considerate come il coronamento della carriera. Vi era poi una gerarchia basata sugli stipendî, che per i procuratori erano di 200.000, 100.000 e 60.000 sesterzî l'anno, donde i titoli di procurator ducenarius, centenarius e sexagenarius. Ma solo con Marco Aurelio e Vero si fissò un ordine gerarchico che comprendeva le cariche di ambedue gli ordini. In esso le cariche equestri erano così classificate: Iª classe, il praefectus praetorio, cui spettava il titolo di vir eminentissimus; IIª classe, gli altri praefecti e i capi dell'amministrazione finanziaria e della segreteria, con il titolo di vir perfectissimus; IIIª classe, gli altri funzionarî dell'ordine equestre, cui spettava il titolo di vir egregius. Tutte insieme queste tre classi formavano nei secoli III e IV la categoria degli honorati. La IVª classe era costituita dai cavalieri che non erano pervenuti alle cariche e che erano detti splendidi (il titolo - anche splendidissimus - che già Cicerone dava ai cavalieri repubblicani) o equites Romani senz'altro. Queste classi avevano importanza anche per la giustizia penale, poiché erano ad esse riconosciuti dei privilegi, anche ereditarî.
Quanto ai sacerdozî, Curiones e Luperci potevano essere senatori e cavalieri; ma Curiones di solito divenivano i giovani senatori durante il loro servizio equestre, mentre i cavalieri prevalevano fra i Luperci. Ma erano riservati ai cavalieri i posti di Flamines minores, di Pontifices minores e di tubicines e gli antichi sacerdozî pubblici latini di Alba, Aricia, Caenina, Lanuvium, Lavinium, Tusculum. Questi sacerdozî venivano assegnati di solito dall'imperatore, mentre nei sacerdozî senatoriali prevaleva la cooptazione; importavano certe immunità da honores e munera, ma in genere erano puramente onorifici, come le nostre decorazioni.
Con la monarchia assoluta livellatrice e con l'imbarbarimento dell'esercito e dello stato romano, gli ordini e il dualismo dell'amministrazione vengono gradatamente meno. Sotto Costantino e i suoi successori si parla ancora di cavalieri, ma l'ordine come tale e come forza viva dello stato romano è nella realtà spento.
Distintivo esteriore caratteristico dei cavalieri era l'anello o gli anelli d'oro (ius anulorum, il plurale si usò almeno dall'epoca di Tacito in poi), prima portato solo dai membri del senato e della nobiltà, e che col formarsi di un ordo equester divenne distintivo dei senatori e dei cavalieri di fronte alla plebe. I figli dei membri dei due ordini portavano poi la bulla aurea. Si ebbero al principio dell'impero disposizioni legislative per reprimere l'abuso dell'anello d'oro (senatoconsulto del 23 e lex Visellia del 24 d. C.), la cui concessione significava l'ammissione all'ordo. La concessione dell'anello da parte dell'imperatore ai libertini, dava loro un'ingenuità fittizia e il rango equestre, ma dopo Commodo significò solo riconoscimento dell'ingenuità e non del rango equestre. Altro distintivo (ma non pare esclusivo) dell'ordine erano le due strisce di porpora portate verticalmente sulla tunica, angustus clavus, in contrapposizione alle striscie più larghe dei senatori, latus clavus, dopo la separazione dei due ordini nel sec. II a. C.; quindi gli aggettivi angusticlavius e baticlavius per i tribuni militari destinati alla carriera equestre o senatoria. Alessandro Severo volle distinguere i cavalieri per la porpora più fine del clavus. I cavalieri portavano poi, come milizia permanente, anche in pace, nella parata del 15 luglio e nelle solennità, la trabea, mantello più corto della toga, così detto dalla stretta striscia di porpora (trabes).
Bibl.: Per gli ἱππεῖς greci, v. l'art. ‛Ιππεῖς di E. Lammert, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VIII, col. 1689 segg.; G. Busolt, Griechische Staatskunde, Monaco 1926, passim e spec. p. 823 e gli scritti ivi citati. Per Roma, della letteratura più antica, va ricordato E. Belot, Histoire des chevaliers Romains considérée dans ses rapports avec celle des différentes constitutions de Rome depuis le temps des Gracques jusqu'à la division de l'empire romain, voll. 2, Parigi 1866-1873. Fondamentale: Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III, Lipsia 1887, pp. 476-569; trad. francese in Manuel des antiquités romaines, VI, ii, Parigi 1889, p. 68 seg.; A. Martin e R. Cagnat, art. Equites, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, II, p. 752 seg.; B. Kübler, art. Equites Romani, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI, col. 272, con ricca letteratura, e in genere tutte le opere sul diritto pubblico romano. La più recente opera d'insieme: A. Stein, Der römische Ritterstand. Ein Beitrag zur Sozial- und Personengeschichte des römischen Reiches, in Münch. Beitr. zur Papyrusforsch. und antiken Rechtsgesch., fasc. 10, Monaco 1927.
Medioevo. - Come istituzione politica e sociale la cavalleria ebbe il suo più completo sviluppo durante l'età medievale, dentro la quale è sorta e rigogliosamente si è svolta con proprî ordinamenti e propria impronta. Quanto alle origini, varî autori tentarono già di ricondurle a costumanze germaniche, e più precisamente al rito della vestizione delle armi, descrittoci da Tacito per gli antichi Germani (Germania, 13). Sennonché è da osservare: che l'avvicinamento così proposto non riflette che un momento della vita del cavaliere, quello della vestizione, che è momento formale ed estrinseco, non intrinseco e sostanziale; inoltre, che questa vestizione delle armi riguardava, presso i Germani, tutti i giovani fatti idonei all'esercizio della milizia, fosse questa milizia a cavallo o milizia a piedi; infine che uno spirito completamente diverso presiede alle due istituzioni. Occorre quindi ricercarne altrove l'origine, la quale sembra meglio da porre nella prima metà del secolo VIII, durante le grandi lotte della cristianità contro gli Arabi. Fu particolarmente allora, che per vincere questi agilissimi combattenti a cavallo, si venne man mano mutando la compagine degli eserciti, e spostandone il nerbo dalla fanteria alla cavalleria; e fu parimenti allora che questa poté incominciare a svolgersi come istituzione a sé; del che infatti si ha la prova nello spostarsi al maggio, mese più idoneo al mantenimento dei cavalli, di quelle grandi assemblee che prima erano use a tenersi nel marzo; spostamento di cui si ha memoria dall'anno 755, con re Pipino.
Come principio, la nuova milizia era libera a tutti; e questo infatti ci attestano concordemente i Capitolari, e specialmente il Capitulare missorum del 786, il quale parla non solo di cavalieri non nobili, ma anche di servi che, tenendo benefici e uffici, potevano avere armi e cavallo, stando in rapporto di vassallaggio col loro signore; e parimenti il Capitulare de causis diversis, di data incerta, ma intorno l'anno 807, con cui Carlomagno ordina ai Frisi che i conti e i vassalli e tutti i caballarii debbano venire al suo placito bene equipaggiati, e dispone che i meno agiati (reliqui pauperiores) debbano armare ogni sette persone un cavaliere; e così ancora l'Edictum Pistense dell'864, con cui Carlo II stabilisce che dei Franchi pagensi debbano muovere in guerra tutti quelli che hanno cavalli, vietando ai conti e ministri regi di usar loro violenza nella persona o nei beni, in modo che non potessero più armarsi contro il nemico. Sennonché, come agevolmente s'intende, col rapido progredire delle istituzioni feudali, col sempre più vivo compenetrarsi in esse dei tre elementi che erano concorsi a formarle: il beneficio, il vassallaggio, l'immunità; col trasformarsi della maggior parte della proprietà da allodiale in feudale, questa conseguenza non dovette tardare a prodursi: che l'obbligo della milizia, pur incombendo come antico principio su tutti i liberi, venisse mano mano adeguandosi al rango sociale e al requisito della possidenza; e il servire a cavallo venisse parallelamente costituendosi come uno degli attributi degli appartenenti alla società feudale. Fu anzi allora, che più non intendendosi il dovere del servizio militare del vassallo, se non come la prestazione di questo servizio a cavallo, ed essendo anzi questa diventata una ragione di forza e un titolo d'onore della classe feudale, la voce miles indicò a un tempo il combattente a cavallo e il feudatario, come appare dalle fonti del sec. IX e del X, e particolarmente, per es., dalla Legge romana udinese.
A questo punto si chiede se, così compenetratasi con la società feudale, la cavalleria abbia finito col formare una cosa sola con essa, così da potersi definire come "la feudalità riguardata nel compimento dei suoi doveri militari" (Salvioli). L'opinione affermativa ha avuto, e ha tuttavia, numerosi seguaci: fra i più autorevoli, oltre il Salvioli, l'Esmein e il Patetta. Certo, la cavalleria trovò nella società feudale il terreno al suo meraviglioso sviluppo; e in taluni luoghi e sotto taluni aspetti l'identificazione tra cavalieri e feudatarî può dirsi completa. Ma conviene anche non dimenticare che, di fronte al feudalesimo, la cavalleria non tardò ad avere proprie consuetudini e proprie leggi (riunite poi nei codici cavallereschi), distinte e diverse da quelle feudali; inoltre che, mentre il feudalesimo si costituì sin dalle origini come una classe chiusa, ordinata in una rigida gerarchia, facente capo all'imperatoie, la cavalleria invece rimase, almeno come principio, istituzione aperta e libera a tutti, con non altre distinzioni segnate se non dal valore; infine che, mentre nel feudalesimo uno specifico giuramento di fedeltà legava il vassallo verso un determinato signore, accordandogli in compenso la protezione di lui e il godimento di una certa quantità di beni avuti in concessione, questi elementi esulavano dalla cavalleria medievale, secondo la quale il cavaliere era tenuto soltanto al giuramento di fedeltà verso quei supremi principî di giustizia, d'onore, di riverenza a Dio, di difesa delle donne e dei deboli, che dovevano ispirare tutte le sue azioni. Si deve dunque conchiudere che cavalleria e feudalità non si possono confondere insieme; e che la prima ha dovuto avere, di fronte alla seconda, cause sue proprie di sviluppo; le quali cause possono infatti essere indicate nelle seguenti.
Giova far capo alla fondamentale distinzione tra feudo franco e feudo longobardo; e giova ricordare che, mentre il feudo longobardo aveva carattere prevalentemente patrimoniale, era come tale divisibile e non conosceva diritto di primogenitura, il feudo franco invece aveva carattere spiccatamente politico, era come tale indivisibile ed era imperniato sul diritto di primogenitura. Nei paesi a feudo franco, il feudo veniva in conseguenza trasmesso al solo primogenito. Gli altri fratelli (i cadetti) ne erano esclusi. Ad essi le consuetudini assegnavano, è vero, quel tanto che bastasse per equipaggiarsi a cavallo; ma senza legarli al giuramento di fedeltà verso un determinato signore. Donde appunto il formarsi di una classe sempre più numerosa di militi a cavallo, non legati da alcun particolare giuramento di fedeltà, e come tali viventi al di fuori dei ranghi della gerarchia feudale. Orbene è da questi militi che, probabilmente, la cavalleria, prima semplice espressione d'un ordinamento militare, poté avere politica e giuridica determinazione, soprattutto in quanto da essi le venne quel fondamentale principio della parità fra tutti i cavalieri, che fu la base del suo progressivo differenziarsi di fronte alla società feudale. La particolare impronta della cavalleria si spiega appunto così; e chi ha famigliarità con la storia del diritto pubblico non può trovare difficoltà a comprendere come un complesso di uomini, che si trovavano ad avere gli stessi bisogni e le stesse aspirazioni, siano stati naturalmente tratti anche a riconoscersi come uniti insieme da un vincolo spirituale comune, e la colleganza di sentimenti, che in tal modo valeva ad unirli, sia valsa anche a gettare i primi germi d'un loro comune ordinamento, prima con linee tenui e incerte, poi con caratteri sempre più determinati, in modo da costruire, sulle basi mutevoli della semplice associazione, la figura giuridica a confini precisi dell'istituzione.
Ma tutto ciò non si poté compiere rapidamente e senza contrasto; al contrario, tale processo giunse a compimento solo attraverso una progressione lenta di tempi e d'idee. Le prime manifestazioni, infatti, dei "cadetti" dovettero avere carattere completamente diverso, e momenti di singolare crudeltà e violenza; e si comprende. Posti fuori dei ranghi della gerarchia feudale, essi per ciò stesso non ne sentivano il freno; donde il violento e torbido sfogo delle loro passioni, e il corrispondente racconto delle più antiche "canzoni di gesta" che li rappresentano come uomini insofferenti d'ogni legge, rotti a ogni vizio, capaci di ogni delitto; e ad esempio ci narrano di quel Raoul di Cambrai, che ad Origni si fa rizzare la tenda in mezzo alla chiesa, che ha saccheggiata, poi brucia la chiesa e quanti vi sono rinchiusi, e mentre le fiamme crepitano, impreca a Dio, con la mano nel sangue e la fronte levata verso il cielo; e parimenti di quel Bègue, che spezza a Isoré l'elmo che ha in capo, ne divide la testa fino ai denti, poi gli squarcia il petto e ne strappa il cuore, e lo getta in viso al cugino Guglielmo, perché lo faccia cuocere e se ne cibi. Non fu, com'è noto, se non più tardi, alla fine del sec. X e nei primi del sec. XI, che contro questo violento scoppio di passioni, che nessuna forza sembrava poter contenere, poté incominciare a levarsi l'azione della Chiesa, soprattutto con l'assidua opera diretta a coprire i luoghi più turbati col manto di "pubbliche paci". E non fu che più tardi ancora, col progredire del sec. XI, che all'azione della Chiesa poté essere compagna la restaurata autorità dello Stato; e l'impero del diritto poté essere ricondotto là dove prima non aveva regnato che la violenza; così che quegli stessi militi, che nel sec. X erano stati causa di tanta perturbazione, diventassero a mano a mano artefici e ministri di giustizia e di pace. Lo Stato, reso più forte, valeva a contenerne le intemperanze e gli eccessi: la Chiesa, appoggiata allo Stato, ne educava le rudi energie, indirizzandole a strumento di bene. Così si formava la nuova anima del cavaliere; o se si vuol meglio, così si formava la nuova morale cavalleresca, che troviamo infatti formata, quasi in ogni precetto, già all'epoca della prima crociata, e che fra i primi doveri del cavaliere poneva quella defensio atque protectio ecclesiarum, viduarum, orphanorum, omniumque Deo serventium, cui sopra abbiamo accennato.
Così dunque formatasi la cavalleria, soprattutto nei paesi a feudo franco in un'epoca che possiamo dire conchiusa con la fine del secolo XI, non riesce difficile seguirne poi gli sviluppi anche attraverso i secoli successivi, XII e XIII. I quali sviluppi per noi si concretano nel suo sempre più netto costituirsi come dignità eminentemente personale, e parallelamente, nel suo sempre più deciso differenziarsi dalla feudalità; di che sono prova varî ordinamenti che si vedono man mano introdotti, quali il divieto della trasmissione ereditaria del titolo, che ogni cavaliere doveva sapersi guadagnare da sé; e il corrispondente diritto di ogni cavaliere di fare dei cavalieri (tout chevalier a le droit de faire des chevaliers), quasi a mostrare che ognuno di essi era come il depositario di quel nuovo spirito onde la cavalleria era penetrata e pervasa, e ognuno poteva quindi rivestire altri del medesimo onore.
A questo primo periodo, che può farsi durare per tutto il sec. XII, subentra poi, nei primi del secolo successivo, un nuovo periodo in cui la cavalleria sembra invece serrarsi e diventare il privilegio della classe nobiliare. Già nelle fonti del periodo esaminato, s'incontrano infatti non rare recriminazioni contro i cavalieri non nobili; e a lato di esse, pressanti raccomandazioni dei padri ai figli, dei vecchi ai giovani, di non elevare villani alla dignità cavalleresca, "perché i villani rimangono sempre villani, e non è prudente averli consiglieri ed amici". Il significato di queste raccomandazioni è per sé stesso evidente. Inoltre la regalità, fatta ognora più forte di contro al feudalesimo, doveva essa stessa sentirsi tratta a limitare nei feudatarî lo sconfinato diritto di armare cavalieri, togliendo ad essi la potestà di concedere l'onore del cingolo militare ai non nobili. Infine dovettero necessariamente influire anche le modificazioni operatesi nell'ordinamento del feudo franco, per cui all'antica e rigida applicazione del diritto di primogenitura, si erano venute man mano sostituendo nuove disposizioni (contenute, per es., nell'Ordinanza di Filippo Augusto del 1209), in virtù delle quali anche i fratelli cadetti avevano parte alla divisione del feudo, ed essi pure si consideravano immediatamente dipendenti dal loro signore e, per suo mezzo, dal re. S'intende allora facilmente come anche la cavalleria dovesse a mano a mano modificarsi e rinserrarsi e fondersi con la feudalità, sottoponendo ai vincoli e agli oneri della gerarchia feudale anche quelli che prima ne erano immuni.
Sennonché, col rinserrarsi, la cavalleria decadde; e della sua decadenza si ebbero i segni anche nella letteratura, come provano, fra i molti esempî, le due parti distinte, per l'autore, e per gli spiriti, del Romanzo della Rosa. Nella prima, composta sotto Luigi IX, spira "l'ultimo anelito dell'ideale cavalleresco; nella seconda, composta da Giovanni di Meung sotto Filippo il Bello è "un lungo e grossolano scoppio di risa plebee contro tutto ciò che pochi anni innanzi era stato grande, gentile, ideale: contro l'amore e contro la donna, contro la cavalleria e contro la religione" (Carducci).
Se guardiamo ora ai paesi a feudo longobardo, allora le linee del quadro si fanno notevolmente diverse. Il feudo longobardo infatti, già lo avvertimmo, aveva carattere prevalentemente patrimoniale. Era come tale divisibile, e non conosceva diritto di primogenitura. Alla morte cioè dell'investito, non succedeva il solo primogenito, succedevano tutti i discendenti ed eredi di lui. Onde agevolmente si comprende come questa divisibilità del feudo, attraverso la successione delle generazioni, dovesse naturalmente portare a uno spezzettamento sempre maggiore dell'originaria unità feudale, e alla corrispondente formazione d'innumeri signorie locali, come accadde infatti già nel sec. X, e poi in tutto il corso del sec. XI. Da che due conseguenze derivano: la prima che nei paesi a feudo longobardo non si sia avuta l'azione di quei cavalieri cadetti che sopra abbiamo ricordato; la seconda, che in loro luogo si sia formata una numerosa piccola nobiltà, di fronte all'alta nobiltà, costituita dai marchesi, dai conti, dai vescovi e in genere dai maggiori vassalli imperiali. Ora è ai componenti di questa piccola nobiltà che le fonti, in tali paesi, dànno nome di milites, donde la giusta identificazíone per essi proposta già dal Patetta, di vassallo uguale a cavaliere. I quali cavalieri, ebbero anche, come è noto, la loro propria storia. Naturalmente attaccati al loro piccolo feudo, essi a lungo lottarono per la sua conservazione e difesa, richiedendo per sé quel diritto di trasmissibilità ereditaria che i grandi feudatarî avevano già conquistato, sin dall'877, a Kiersy. E l'ebbero alfine riconosciuto da Corrado il Salico, nel 1037, con quella famosa costituzione, data alle mura di Milano, che può ben riguardarsi come la magna charta della piccola nobiltà, in cui questa si trova tutta raccolta sotto la comune denominazione di milites, di fronte all'alta nobiltà, quella dei valvassores maiores per usare le parole con cui il testo si esprime. Differente adunque l'origine, e differenti anche, per lungo tratto di poi, gli sviluppi. Differente inoltre, per due secoli, la letteratura (Carducci); e differenti i riflessi e le ripercussioni sopra i maggiori avvenimenti del tempo; anche se a partire già dalla stessa fine del sec. XI e dall'epoca della prima crociata, i contatti sempre più frequenti tra cavalieri di stirpi diverse dovettero naturalmente portare a una comunicazione sempre maggiore fra essi di costumanze, di riti e di leggende, e "la diffusione della letteratura di oltre Alpe dovette finire col dare un carattere, almeno apparentemente, quasi uniforme al pensiero cavalleresco europeo" (Patetta).
Rimane a dire della cavalleria nei suoi sviluppi durante l'età comunale; e poi del suo tramonto nei secoli XIV e XV. Ora quanto al primo punto, è ben noto che la cavalleria fu largamente accolta nei nostri comuni, sin dagl'inizî, e rappresentò anzi in essi l'organizzazione dell'elemento signorile nella misura in cui questo contribuì a dar vita al fenomeno comunale. Dentro i comuni, infatti, essa presto si compose in quelle fiorenti Società di cavalieri che molti dei nostri documenti ricordano, e alle quali dànno anche varî nomi: Società delle Torri, come a Bologna e a Firenze; Società di S. Secondo ad Asti; Società dei militi a Parma e in molti altri luoghi; Società dei nobili a Chieri. Il periodo di maggior fiore di queste societates militum può dirsi si estenda dalla metà del sec. XII alla metà del XIII; e di molte di esse ci è nota, anche nei particolari, la storia. A lato poi di questi militi, appartenenti in tal modo ai quadri della società feudale, altri ne vennero presto creando i nostri comuni, traendoli dalle classi dei commercianti e degli artieri. Sono quei militi di cui parla già, fra gli altri, il vescovo Ottone di Frisinga, lo storiografo di Federico Barbarossa, con parole che per verità dimostrano il disdegno della nobiltà feudale contro di essi. Ma le salde milizie comunali vinsero gloriosamente a Legnano; e per un notevole periodo di tempo i milites de communi gareggiarono in valore con quelli feudali, e costituirono il nerbo delle milizie cittadine. Più tardi invece, e cioè dopo la metà del sec. XIII, e più specialmente poi nel sec. XIV, per cause varie e ben note che coincidono col declinare dell'età comunale, militi del comune e militi feudali vennero man mano perdendo dell'antico valore. Attraverso il diffondersi delle compagnie di ventura, l'esercizio delle armi finì col diventare mestiere; e dentro i comuni, se per lungo tratto durarono, e anzi si accrebbero, la solennità e il fasto delle vestizioni dei cavalieri, in realtà se ne andarono perdendo pressoché interamente il significato morale, il valore politico e lo spirito primitivo. Col sec. XV il decadimento è completo. L'onore del cingolo è accordato a persone vili e ignobili, e la cavalleria è schernita da poeti e novellieri. Inoltre, a quell'epoca la cavalleria aveva già incominciato a perdere parte della sua importanza anche come ordinamento militare, in quanto l'invenzione della polvere da fuoco era venuta togliendo preminenza alle truppe di cavalleria. Soli rimanevano gli ordini cavallereschi (v.), a tramandarne nei secoli il nome.
Bibl.: L. A. Muratori, Antiquitates Italicae medii aevi, t. II, diss. XXVI, t. IV, diss. LIII (De institutione militum quos "cavalieri" appellamus); L. Gautier, La chevalerie, Parigi 1895; G. Salvemini, La dignità cavalleresca nel comune di Firenze, Firenze 1896; S. Pivano, Lineamenti storici e giuridici della cavalleria medioevale, in Mem. della R. Accad. delle sc. di Torino, Torino 1905 (dove è anche riferita la letteratura anteriore); F. Patetta, Studi storici e note sopra alcune iscrizioni medioevali, in Mem. della R. Accad. di Modena, Modena 1907; A. Abram, Chivalry, in The Cambridge Medieval History, VI, Cambridge 1929, p. 799 segg., con copiosa appendice bibliografica a p. 973 segg.
L'educazione cavalleresca. - L'essenza della cavalleria spiega anche i caratteri dell'educazione cavalleresca. La cavalleria, che non è una casta sociale, perché non s'identifica senz'altro con la nobiltà, è però un corpo, con determinate funzioni e ideali, che si recluta nella casta dei nobili, dei signori, che si sente unito da certi vincoli morali e religiosi, distinti, in parte, da quelli di razza o di nazione, e che perciò si considera, sotto un certo aspetto, una vera organizzazione supernazionale. La sua educazione è, si può dire, l'unica forma di educazione propriamente laica che si abbia in tutta la seconda parte del Medioevo, fino al diffondersi delle università e delle prime scuole comunali e private.
Sua prima caratteristica essenziale è la finalità insieme militare, mondana e religiosa: la divisa del cavaliere è "la mia anima a Dio, la mia vita al Re, il mio cuore alla Dama, l'onore per me": onde il fanciullo deve abituarsi a difendere la fede, a porsi al servizio dei deboli e degli oppressi, a elevare il suo spirito nel culto della donna, consacrandole pensieri e opere degne: bravura nelle armi, coraggio e amor di avventure si fondono col culto, tra platonico, romantico e formalistico, della donna, e tutto è idealizzato, quant'è possibile, dalla coscienza di essere militi di Cristo e della sua Chiesa. La donna esce, così, dal suo isolamento, diventa ispiratrice; i rapporti tra i sessi tendono ad acquistare una funzione educatrice, soprattutto per l'uomo, disciplinando e ammorbidendo la sua rozzezza e ferocia guerriera nel sentimento della gentilezza femminea e nella gioia di servire alla dama: senza questa abitudine - così Ulrico di Liechtenstein dichiara di avere appreso da fanciullo - nessuno può acquistare valore. Altra caratteristica dell'educazione cavalleresca è l'importanza data alla cortesia e al sentimento dell'onore: due termini che in sostanza valgono lo stesso. Cortesia è, per il cavaliere, insieme galateo, rispetto verso tutti, benignità verso gl'inferiori, piacevolezza di maniere e di conversazione, ma anche fede alla parola data e al servizio cui si è consacrato, disdegno d'ogni viltà, amore di gloria militare, prontezza a dare, poca cura della ricchezza. Con tutto ciò si sviluppa naturalmente, e si cerca di coltivare nel fanciullo, un vero e proprio orgoglio di casta, per cui si crede il villano indegno di entrare nell'ordine sacro dei cavalieri e incapace di acquistarne le virtù, e si sente, perciò, il dovere di tenerlo lontano e di negargli la propria fiducia. L'educazione cavalleresca ha infine un indirizzo nettamente pratico; è intesa come vero e proprio tirocinio all'acquisto di abilità e di abitudini determinate. Il preciso scopo etico-professionale spiega questo carattere dell'educazione cavalleresca, che si compie perciò nel mezzo più adatto.
Il futuro cavaliere rimane fino ai 7 anni sotto la tutela della madre e delle nutrici. I suoi giochi, per quanto sappiamo, non differiscono sostanzialmente dai nostri: non mancano quelli di abilità, come il tric-trac (tables, negli antichi testi francesi) e gli scacchi; ma vi predominano i giuochi fisici: l'altalena, i trampoli, le racchette e il volano, le bocce, la palla, la pallacorda, la trottola, la corsa, la lotta, la barriera, la giostra, la finta guerra. Soprattutto, il bambino si esercita precocissimamente a cavalcare. Dopo i 7 anni, comincia l'educazione vera e propria. Il fanciullo deve anzi tutto indurire e render destro il corpo, poi abituarsi a servire. La distinzione dei gradi, in questo tirocinio del cavaliere, non ci risulta in modo perfettamente uniforme e non ci è del tutto chiara. Di solito, il primo periodo si fa decorrere dai 7 ai 14 anni, e corrisponderebbe al grado di paggio, garåon (garzune), Junkherrelin, in ted. anche Bube; il secondo periodo, dal 14° anno al 21°, corrisponderebbe al grado e al titolo di damoiseau, Junkherr, scutifer, scutarius (scudiere), armiger. Queste denominazioni e delimitazioni temporali sono soggette a rettifica. Il damoiseau non è, in genere, che il fanciullo e il giovane non ancora cavaliere, come enfant e, per un certo tempo, valletto, mentre paggio, da prima significante condizione inferiore, di famulus, ha preso assai tardi il significato, del resto sempre generico, di giovane nobile, aspirante alla cavalleria e addetto a certi servizî. Vera determinazione esatta pare quella di scudiero, che comincia non necessariamente a 14 anni, ma anche prima, e finisce con la consacrazione a cavaliere, la quale è possibile anche prima dei ventun anni.
Inesatto è anche - almeno per la generalità - che il fanciullo fosse mandato fuori della casa paterna a 7 anni. Di solito, fino ai 12 anni l'educazione è domestica, poi il fanciullo è mandato, di regola, e di solito verso i 12 anni, a fare il suo tirocinio in un castello feudale o, addirittura, alla corte del re. L'uso era già, come c'informa Rodrigo di Toledo, presso i Goti di Spagna, dove i figli dei nobili erano allevati alla corte del re. Pare che condizioni economiche v'influissero. Certo è che, di solito, erano sottratti a questo tirocinio fuori del loro castello i figli cui spettava il diritto di eredità. I nobili più potenti e il re avevano interesse a reclutare e a preparare un certo numero di cavalieri. Nel castello ospitale o nella corte il giovinetto impara a servire per diventare, praticamente, esperto delle armi, della vita e della missione del cavaliere. Quivi egli è educato e mantenuto, apprendista, aiutante e quasi servo insieme: nourri è, di fatto, un termine con cui egli è regolarmente designato. Il damoiseau attende alle armi e al cavallo del signore e, occorrendo dei cavalieri suoi ospiti, lo segue dappertutto portandogli lo scudo, provvede, nel castello, a mille servizî, via via meno umili col suo procedere negli anni, nell'interesse del signore e della dama, mentre prosegue gli esercizî fisici preparatorî alla guerra.
Quale parte aveva la cultura nell'educazione del cavaliere? Si è esagerato nel considerarne quasi estraneo ogni elemento intellettuale. In realtà, l'educazione del cavaliere implica anche una cultura: per lo meno dal sec. XII in poi, cioè da quando la cavalleria ha già conseguito una precisa disciplina.
Il Tristano di Goffredo di Strasburgo c'informa come l'eroe ricevesse dal suo precettore larghe cognizioni di lingue e di scienze. Altri esempî numerosi soccorrono. Non mancano, nei castelli, professori di lingue, che si chiamano latimiers. A parte i casi speciali, e gli speciali motivi - è frequente l'apprendimento, in Germania, del francese, come mezzo indispensabile alla lettura dei romanzi cavallereschi - è certo che, per lo più, il cavaliere riceve un'istruzione elementare e spesso una discreta cultura, che si spinge fino alla musica, all'apprendimento di qualche strumento, alla poesia. Le sette probitates che Pietro Alfonso enumera nella sua Disciplina clericalis, in corrispondenza delle sette arti liberali, e che costituiscono le sette perfezioni del cavaliere, contengono appunto quest'ultimo elemento: equitare, natare, sagittare, caestibus certare, aucupare, scacis ludere, versificare. Del resto, nel castello paterno o in quello dov'è nutrito, l'apprendista-cavaliere ascolta racconti d'imprese guerresche, né è infrequente, dal sec. XII in poi, che egli abbia tra mano, almeno in Francia, una di quelle traduzioni d'una Imago mundi o d'una Philosophia mundi che, sotto il titolo d'Image, di Miroir du monde, ecc., già diffondevano fra i laici nozioni di teologia, di morale e di vario genere. Comunque, più curata è nella società cavalleresca la cultura femminile, della quale è tipo idealizzato, per es., Isotta. La sua funzione umanizzatrice richiede, appunto, una più fine e varia istruzione, che anch'essa riceve, spesso, presso la dama d'un castello o a corte.
In conclusione, l'educazione del cavaliere ci appare perfettamente adeguata alla funzione storica e agl'ideali della cavalleria. Elementi estetici vi sono innegabili. Essa si può considerare come l'umanesimo del mondo feudale, che prelude all'umanesimo, impregnato di cultura, dell'epoca del Rinascimento.
Bibl.: Veesenmeyer, art. Adelige Erziehung, in Enzykl. des gesammten Erziehungsund Unterrichtswesens di C. A. Schmid, I, Gotha 1859; K. Schmidt, Die Geschichte der Pädagogik in weltgeschichtlicher Entwicklung, II, Cöthen 1861, p. 230-262; Zingerle, Das deutsche Kinderspiel im Mittelalter, in Sitzungsberichte der Ak. der Wiss. zu Wien, Phil. Hist. Classe, LVII (1867); Just, Zur Pädagogik des Mittelalters, Vienna 1876; L. Gautier, La Chevalerie, Parigi 1884, cap. V e VI; J. Batty, The Spirit and influence of Chivalry, Londra 1890; F. W. Cornish, Chivalry, Londra 1901; J. E. G. de Montmorency, art. Chivalric Education, in Cyclopedia of Education del Monroe, New York 1911; Ch. V. Langlois, La vie en France au moyen âge. La vie spirituelle. Enseignements, Méditations et Controverses, Parigi 1928; A. Parducci, Costumi ornati, Bologna 1928.
V. tavv. CLXIII-CLXVIII e tav. a colori.