Celestino III
Giacinto (Hyacinthus) nacque a Roma all'inizio del sec. XII da Pietro Bobone, capostipite della nobile famiglia che assumerà il nome Orsini. Abbracciò la carriera ecclesiastica e diventò già nel 1126 "prior subdiaconorum" della basilica di S. Giovanni in Laterano che era officiata dai Canonici Regolari secondo la Regola di s. Frediano di Lucca. Studiò dialettica e teologia con Abelardo a Parigi, come Arnaldo da Brescia e, secondo una fonte contemporanea, con il cardinale prete di S. Marco Guido de Castello. Insieme con Arnaldo egli difese il maestro al concilio di Sens (1140) contro gli attacchi di Bernardo di Chiaravalle, il quale però riuscì a far condannare alcune dottrine del teologo parigino. L'ostilità del potente abate non portò tuttavia svantaggio a Giacinto. Guido de Castello, divenuto nell'anno 1143 pontefice con il nome di Celestino II, nominò Giacinto nel 1144 cardinale diacono di S. Maria in Cosmedin ("in schola graeca"). Durante gli anni del suo cardinalato i Cosmati eseguirono, certamente con la sua collaborazione e con il suo consenso, gli splendidi pavimenti di marmo e le altre opere di scultura in questa chiesa.
Ormai Giacinto si era conquistato la stima di tutti. Papa Anastasio IV nel 1154 lo mandò come legato in Spagna con l'incarico di predicare la guerra contro i Saraceni, di comporre le liti tra i principi e i vescovi e di migliorare la disciplina del clero. Nel 1155 Giacinto attaccò personalmente alle proprie vesti il "signum crucis" per la crociata e organizzò le truppe. Dopo che alla Dieta di Besançon, nel 1157, era esploso il conflitto tra la Curia e l'imperatore Federico Barbarossa, Adriano IV lo mandò, insieme con un cardinale prete, alla corte imperiale per tentare una mediazione. Giacinto era considerato infatti uomo di assoluta integrità e di grande abilità diplomatica, e disponibile anche al compromesso. Il cronista dell'imperatore lo ritiene particolarmente adatto a difendere la causa papale ed esalta la sua esperienza nelle cose temporali.
Negli anni 1161-1165 seguì papa Alessandro III e la Curia nell'esilio in Francia. Questo soggiorno gli procurò una conoscenza profonda della situazione francese sia sul piano politico che su quello ecclesiastico, e lo convinse della necessità di collaborare con quella monarchia. Ma soprattutto rimase colpito dall'indigenza materiale della Curia dovuta alla mancanza di una sicura documentazione relativa ai suoi diritti e alle sue rivendicazioni finanziarie. L'assassinio nel 1170 di Tommaso Becket, il quale era stato un suo estimatore e si era rivolto varie volte a lui nel corso del conflitto con il re Enrico II d'Inghilterra, lo dovette rattristare profondamente. Nel 1172-1174 una nuova legazione lo condusse per la seconda volta in Spagna. Nel corso di essa acquisì una tale familiarità con i problemi della penisola iberica da poter essere considerato da allora un esperto delle cose spagnole in Curia. Si adoperò soprattutto per trovare un compromesso nella lite tra gli arcivescovi di Braga e di Toledo. Era stimato anche dall'imperatore Federico I che apprezzava la sua disponibilità al compromesso. Giacinto contribuì infatti a realizzare la pace di Venezia (1177) e fece parte delle commissioni ivi create per esaminare questioni relative all'Italia centrale.
Ormai quasi novantenne, ma stimatissimo da tutti, Giacinto, dopo sessantacinque anni spesi al servizio della Chiesa, il 10 aprile 1191 fu eletto papa, immediatamente dopo la morte di Clemente III. Si trattava di una soluzione di compromesso per evitare uno scisma nel Collegio cardinalizio. Il 13 aprile venne ordinato prete, il 14 consacrato papa e assunse il nome di Celestino III in ricordo dell'amico Guido de Castello, papa Celestino II. Il nome e il suo motto: "Perfice gressus meos in semitis tuis" indicano la sua volontà di riformare la Chiesa nel senso dell'amico, ma rivelano anche la preoccupazione di conservare, alla fine della vita, quello che era stato compiuto. Date queste premesse, la sua posizione nei confronti del Collegio cardinalizio non fu facile. Il Collegio si dimostrò poco maneggevole e più di una volta negò al papa, che del resto non sempre prendeva le decisioni più opportune, il suo consenso. In molte importanti questioni di politica interna ed estera si formarono fazioni che si ostacolavano a vicenda e minacciavano di bloccare tutta l'attività della Curia, legando molto spesso le mani al pontefice. Ma C. non poteva fare a meno dei cardinali benché avesse sicuramente gravi riserve nei confronti di parecchi di loro, contro i quali erano state mosse pubbliche accuse di simonia e di nepotismo. C. cercò di ovviare a questo inconveniente creando nuovi cardinali di sicura integrità morale. Nel 1193 ne nominò, a quanto pare, sei, tra i quali probabilmente due parenti. Il quasi sconosciuto Bobone fu nominato cardinale diacono di S. Teodoro, il monaco cluniacense Giovanni di S. Paolo cardinale diacono senza titolo (egli non era un Colonna come è stato sostenuto in passato), Pietro Capuano dell'antica famiglia amalfitana cardinale diacono di S. Maria in Via Lata e il romano Cencio cardinale diacono di S. Lucia in Orphea (v. Onorio III). Il cardinale pisano Soffredo, "virtus Curiae" e noto per la sua lotta contro la corruzione della Curia al tempo di Clemente III, fu promosso cardinale prete di S. Prassede; Bernardo, in precedenza canonico di S. Frediano a Lucca, cardinale prete di S. Pietro in Vincoli. Quest'ultimo si acquistò più tardi grandi meriti per la restaurazione della disciplina ecclesiastica nella Francia meridionale. Al già menzionato Giovanni di S. Paolo fu poi assegnato il titolo presbiterale di S. Prisca. Egli diventò uno dei più stretti collaboratori di C. e infine, al tempo di papa Innocenzo III, primo penitenziere della Curia. Erano tutte personalità di indubbia probità. Tuttavia non fu facile per il pontefice mettere d'accordo i ventinove cardinali residenti in Curia oltre ai cinque che risiedevano fuori Roma, a Benevento, Montecassino, Verona, Magonza e Reims. Fu dunque della massima importanza per lui avere presso di sé successivamente Cencio, il suo cubiculario al tempo del cardinalato e dal 1188 anche camerario della Chiesa, che più tardi, eletto papa con il nome di Onorio III, avrebbe ripreso anche il suo motto. Insieme con lui egli riorganizzò le finanze pontificie, facendo compilare, sulla base di vecchi documenti, un elenco di tutte le rivendicazioni finanziarie della Curia, il Liber censuum Ecclesiae Romanae.
Nel 1192 era pronto un elenco "eterno" dei censi. Ordinato secondo paesi e vescovati, vi erano registrati tutti i monasteri e le diocesi che erano tenuti a pagare il censo alla Curia romana, i Regni e i signori sui quali la Chiesa vantava la sovranità feudale, come la Sicilia, l'Aragona e il Portogallo, infine i Regni soggetti al pagamento dell'obolo di S. Pietro come l'Inghilterra, la Polonia e i Paesi scandinavi. A questa lista fu aggiunta negli anni fino al 1195 anche la documentazione più importante, soprattutto la donazione di Costantino e i diplomi imperiali sui quali il papato basava le sue rivendicazioni sull'Italia e su tutte le isole. Furono inclusi inoltre un elenco più antico delle abbazie di S. Pietro, cioè delle abbazie di proprietà del papa, esenti dal pagamento, gli "ordines" delle incoronazioni imperiali, le "consuetudines Curiae", le formule per il giuramento dei sudditi, i "Mirabilia Urbis Romae". Ma oltre al Liber censuum erano a disposizione della Cancelleria e della Camera anche singoli registri, un provinciale romano, elenchi con le regole della Cancelleria, formulari per la redazione dei documenti, un "Catalogus sanctorum".
Le entrate regolari della Curia registrate nel Liber censuum erano piuttosto modeste. Le superavano di parecchio quelle provenienti da donazioni di singoli fedeli e dalle tasse riscosse per il rilascio di documenti, ecc. Da quando il papato era tornato a Roma nel 1188, vi fu un fiume ininterrotto di visitatori e pellegrini e gli uffici della Curia riuscivano solo con difficoltà a far fronte al lavoro. I tributi si pagavano in oro ("aurei", "marabotini") oppure in altra moneta, se così era stato stabilito nei rispettivi documenti, ed in questo caso venivano pagati secondo la quotazione del giorno, che si basava probabilmente sul prezzo dell'oro. I registri di Cencio cominciarono a dare il loro frutto: la situazione finanziaria migliorò. Nel 1195 fu possibile ricomprare beni che ancora al tempo di Innocenzo II erano stati impegnati ad alcuni nobili romani.
Accanto all'organizzazione papale esisteva anche una Camera dei cardinali dove confluivano non solo le entrate delle loro chiese ma anche una parte delle entrate complessive papali, che veniva divisa secondo gli "ordini" cardinalizi.
Con tutto ciò la riorganizzazione delle finanze pontificie aveva raggiunto uno dei suoi obiettivi più importanti. L'incremento dell'attività della Curia è testimoniato anche dai circa millesettecento documenti conservati, ai quali vanno aggiunti altri cinquecento circa, cui si fa cenno nelle bolle dei papi successivi. I documenti venivano datati nella Cancelleria stabilitasi definitivamente nel Laterano prima del 1195. Il datario fu, fino al novembre 1194, Egidio cardinale diacono di S. Nicola in Carcere Tulliano, che apparteneva probabilmente alla famiglia dei Pierleoni, e dopo questa data Cencio, munito ormai di grandi poteri come camerario e cancelliere del papa, senza peraltro portare quest'ultimo titolo. Nella datazione erano indicati gli anni del pontificato a partire dal 14 aprile 1191; si usava l'indizione greca, l'incarnatio dominica cadeva il 25 marzo. Per ordine del papa tutti i privilegi venivano trascritti nel registro di C. oggi perduto e, se lo desideravano i postulanti, anche altri documenti.
Il sorgere di una centrale di falsari a Roma costrinse la Curia a controllare rigorosamente l'autenticità dei documenti presentati. A tale scopo si esaminava lo stile, la bolla e si confrontava il documento con la copia conservata in archivio. Esisteva dunque già allora qualcosa come un rudimentale sistema burocratico nel senso moderno.
La situazione era tale che il papa si vide costretto ad occuparsi non tanto di problemi spirituali quanto di suppliche riguardanti i possedimenti e i diritti dei monasteri, di decisioni in controversie annose, di questioni di diritto canonico. Per poter far fronte a questa mole di lavoro delegò, probabilmente per la prima volta nella storia del papato, ai cardinali l'audizione e l'esame delle cause portate davanti alla Curia. Questi "auditori" gli riferivano, ma talvolta decidevano autonomamente. Con tutta probabilità esisteva già allora l'"audientia Ecclesiae Romanae", una istanza di appello presieduta dal papa. Le controversie irrisolte erano affidate per lo più a ecclesiastici provenienti dai territori vicini a quelli interessati e perciò bene addentro nelle situazioni locali. Nelle sue decisioni nel campo del diritto canonico C. si basava prevalentemente sul decreto di Graziano, senza però respingere le dottrine dei canonisti contemporanei come Uguccione. Ma proprio da questo lato gli furono mosse parecchie critiche, specie per quel che riguardava la legislazione matrimoniale, nonostante che proprio in questo campo, come in quello economico, avesse esteso in modo sostanziale i diritti della Curia nei confronti dei laici, pubblicando vari decreti in questo senso. Tuttavia non fu molto fortunato con i suoi interventi nelle questioni matrimoniali di Filippo II Augusto di Francia e di Alfonso IX di León, anche perché per altre ragioni non voleva prendere misure severe nei confronti della Francia. All'interno della Chiesa cercò di imporre, contro molte resistenze, il celibato dei suddiaconi. Fu uno dei primi a rivendicare per il papa la "plenitudo potestatis" e uno dei suoi obiettivi principali fu la realizzazione della "uniformitas fidei et doctrinae" in tutta la vita della Chiesa. A questo scopo servivano anche le legazioni dei cardinali in quasi tutti i paesi della cristianità. Ma in un'epoca di grande discordia all'interno e all'esterno della Chiesa, in un momento di violente accuse pubbliche contro la mondanità del clero e il suo potere temporale basato sul denaro, mentre i movimenti eretici esercitavano un'attrazione sempre maggiore, tutto ciò poneva problemi insormontabili per il vecchio pontefice. Il quale, d'altro canto, non risparmiò né le scomuniche né i mezzi della grazia. Vanno aggiunte le canonizzazioni di Pietro di Tarantasia (1191), di Ubaldo da Gubbio (1192), di Berardo di Hildesheim, di Gualberto di Vallombrosa (1193), di Rosendo di Dumio e nel 1197 quella di Geraldo di Sauvemajeur. Nel 1197 fu aperto anche il processo di canonizzazione dell'imperatrice Cunegonda.
Il pontefice continuò dunque a costruire sulle vecchie fondamenta, aggiungendo nuove pietre per fortificare l'edificio della Chiesa. Era un uomo molto pio, tutto compreso della dignità del suo ufficio, espertissimo degli affari della Curia, delle sue finanze e dei suoi diritti. Ma la diminuzione delle sue energie e della memoria e l'indebolimento della salute negli ultimi anni del suo pontificato, e soprattutto nel 1197, lo resero sempre più dipendente dal suo entourage nonostante la sua caparbietà. Finì per essere a volte oggetto di scherno dei visitatori e di certi cardinali. Fu probabilmente una disgrazia che C., dotato più per i problemi della politica interna che di quella estera e perciò destinato a portare avanti la riforma della Chiesa, fosse invece costretto a confrontarsi con i grandi problemi della politica estera.
Di importanza fondamentale per ogni politica verso l'esterno erano necessariamente i rapporti della Curia con la città di Roma. Quest'ultima da molto tempo era dominata dai contrasti tra le singole fazioni nobiliari (Frangipane-Pierleoni, Orsini-Conti) e dal conflitto tra la nobiltà e il popolo. Un accordo abbastanza vantaggioso del maggio 1191 con la magistratura nobiliare del Senato dei cinquantasei garantì al papa, dopo la consegna di Tuscolo, un breve periodo di relativa tranquillità. Ma già alla fine dello stesso anno la città passò sotto il dominio del capo dei popolani Benedetto Carushomo, il quale restrinse la libertà di movimento del papa e si impadronì di una parte dello Stato della Chiesa (Marittima e Sabina). La sua caduta ad opera di Giovanni Capocci allentò un poco questa stretta e nell'anno 1195 C. poté conferire a varie chiese cardinalizie i beni tuscolani recuperati nel 1191. L'anno 1196 portò nuovi sconvolgimenti con l'ascesa di Giovanni Pierleoni alla dignità di primo senatore che conservò fino alla fine del 1197, quando, in seguito ad avvenimenti non del tutto chiari, fu sostituito dal Senato dei cinquantasei. I contrasti romani si ripercuotevano fino all'interno del Collegio cardinalizio dove sedevano i fautori dei singoli raggruppamenti politici e ciò spiega l'atteggiamento ambiguo assunto dal papa in varie circostanze.
Quando C. salì al trono pontificio, il re di Germania Enrico VI era accampato già da tempo davanti alle mura di Roma chiedendo di essere incoronato imperatore come gli era stato promesso da Clemente III. L'elezione pontificia aveva ritardato la cerimonia, che ebbe luogo il lunedì di Pasqua, 15 aprile 1191. Già in quest'occasione si manifestarono i primi screzi: Enrico VI si era presentato con un esercito per conquistare l'eredità della moglie Costanza, il Regno di Sicilia. Ma con l'appoggio del papato, che temeva di restare completamente accerchiato nel caso dell'unione della Sicilia con l'Impero, il Regno era passato nelle mani di Tancredi di Lecce. Il fallimento della spedizione imperiale e la cattura dell'imperatrice procurarono un certo respiro alla Curia; con la scomunica di Montecassino, che fu revocata solo dopo la protesta dei cardinali benedettini e dell'imperatore, il papa poté intervenire nuovamente a favore di Tancredi. Una contemporanea offerta del papa di tentare una mediazione tra l'imperatore e Tancredi era destinata a fallire. Dopo la liberazione di Costanza ottenuta da C., la Curia concluse con Tancredi il concordato di Gravina nel quale il re concesse al papato più di quanto mai avessero concesso in precedenza i re siciliani. Tancredi diventò vassallo del papa e pagò, come era consuetudine già prima, il censo. L'ostilità nei confronti dell'imperatore fu sottolineata anche dalla consacrazione del nuovo vescovo di Liegi Alberto, che era stato cacciato dalla sua sede da Enrico VI. Il conflitto era manifesto. L'assassinio del vescovo che ricordò al papa, e non soltanto a lui, quello di Tommaso Becket, e la cattura del re inglese Riccardo, crociato in Terrasanta, da parte di Leopoldo d'Austria che consegnò il prigioniero all'imperatore, aumentarono la tensione. Il vescovo insediato da Enrico fu scomunicato e venne ordinato a lui e al duca Leopoldo di giustificarsi. Con tutto ciò C. non osò affrontare in modo diretto l'imperatore, anche perché una parte del Collegio cardinalizio glielo sconsigliava. Tuttavia il giuramento di fedeltà che Riccardo Cuor di Leone prestò all'imperatore per l'Inghilterra, dopo aver pagato una grossa somma per la sua liberazione, costituì un grave colpo per la Curia, tanto più che la morte di Tancredi, avvenuta nel febbraio del 1194, aveva contemporaneamente aperto ad Enrico e a Costanza la strada della Sicilia. L'"unio Regni ad Imperium" diventò realtà alla fine del 1194. Il contrasto in fondo insanabile tra papa e imperatore si concluse provvisoriamente nel 1195 quando Enrico VI prese la croce pregando il pontefice di mandargli dei cardinali per predicare la crociata. Solo con grande esitazione il papa accolse la richiesta e la predicazione ebbe grande successo. In seguito il cardinale prete di S. Cecilia Pietro Diani da Piacenza si recò come legato particolare del papa alla corte dell'imperatore per tentare di raggiungere una soluzione durevole del conflitto. Ma mentre erano ancora in corso le trattative, C., con atto provocatorio, cercò di intervenire nelle faccende interne della Chiesa siciliana: un atteggiamento contraddittorio che si spiega probabilmente con le divisioni all'interno del Collegio cardinalizio. Costanza protestò energicamente contro questa ingerenza. Ma il conflitto esplose in tutta la sua violenza e le trattative con il cardinale Pietro, ormai bene avviate, furono bruscamente interrotte quando il papa, alla nuova discesa di Enrico VI in Italia, protestò violentemente contro certi abusi commessi ai danni dello Stato della Chiesa e di persone ecclesiastiche, non lasciando più alcuna speranza di poter giungere ad una soluzione pacifica del conflitto. L'imperatore respinse duramente i rimproveri mossigli, accusando a sua volta il papato di aver sempre fatto fallire i tentativi di pace promossi dagli imperatori. Le trattative finali ebbero luogo, in un'atmosfera meno tesa, tra l'ottobre e il novembre nei pressi di Roma, ma non giunsero ad alcun risultato. Varie cause contribuirono al loro fallimento. Ma erano soprattutto due i punti sui quali Enrico VI non era assolutamente disposto a cedere, e neanche a discutere: la restituzione al papato dell'Italia centrale e dei beni della contessa Matilde e il riconoscimento della sovranità feudale della Chiesa sulla Sicilia.
Pare comunque che Enrico VI abbia fatto una controproposta ispirata forse dall'esperto delle finanze Cencio, il massimo cui fosse disposto per venir incontro al papa, almeno per quello che riguardava il primo punto: in cambio della rinuncia pontificia ai territori contesi l'imperatore avrebbe garantito al papa entrate fisse e sicure dai proventi di tutte le Chiese. La proposta, considerando realisticamente solo l'aspetto economico e finanziario della faccenda, trascurava però i valori tradizionali e sentimentali, e le vere pretese di dominio del papato; ma se fosse stata accolta, avrebbe certamente liberato la Chiesa dalle accuse mossele così spesso di sfruttare i propri sudditi e i fedeli. Altre richieste inaccettabili della Curia, frequenti malattie del pontefice, la repressione della rivolta contro il dominio tedesco nel Regno, che C. aveva appoggiato per lo meno sul piano propagandistico, infine i preparativi per la crociata impedirono nel 1197 ogni altro tentativo di pacificazione. Quando l'imperatore morì il 28 settembre 1197, gli uomini che più contavano in Curia, basandosi sul Liber censuum, predisposero immediatamente il recupero dei territori contesi nell'Italia centrale e la riconquista delle terre di Matilde, con la conclusione di un'alleanza con la lega tusca. In una delle sue ultime lettere C. invitò la popolazione a liberarsi dalla tirannia tedesca.
In confronto ai rapporti con l'Impero, quelli con gli altri paesi passarono necessariamente in seconda linea. Il papa aveva accolto sotto la sua protezione i re di Francia e d'Inghilterra quando avevano preso la croce e si erano recati in Terrasanta, ma fu anche coinvolto nel conflitto anglofrancese che si riaccese con rinnovata violenza quando Filippo II Augusto, tornato dalla crociata, cominciò a minacciare seriamente i possedimenti inglesi in Francia. Le proteste di C., il quale inviò due cardinali legati, rimasero inascoltate, e il giuramento di fedeltà all'imperatore di Riccardo Cuor di Leone peggiorò la situazione. Quando infine il re di Francia divorziò dalla moglie senza ricorrere al papa e respinse con irritazione ogni intervento di C., questi si vide così privato anche di uno dei più antichi sostegni del papato. Tutti i tentativi di mediazione tra la Francia e l'Inghilterra ebbero scarso successo. In Inghilterra poi si attirò l'ostilità dell'alto clero quando il suo legato, il vescovo Guglielmo di Ely, si impegnò troppo zelantemente e in modo poco diplomatico a salvaguardare i diritti regi. Il paese più vicino al cuore del pontefice era naturalmente la Spagna, ma C. si dovette rendere conto che non era possibile superare l'egoismo dei principi. Pur adottando un mezzo finora sconosciuto nei confronti del re di León, la concessione cioè a quelli che lo combattevano di un'indulgenza concessa normalmente solo ai crociati, non impedì tuttavia la sconfitta del re di Castiglia da parte dei Mori nei pressi di Alarcos, che costituì un grave colpo per la "reconquista". Fu invece un certo successo il passaggio di Cipro alla Chiesa cattolica verificatosi in seguito alla crociata (1195).
In politica estera C. non ebbe successo. Purtuttavia persistette nei suoi tentennamenti, nel rinviare le decisioni, nella sua irresolutezza. Quando infine la morte lo liberò del suo antagonista Enrico VI, non si sentì più capace di affrontare la nuova situazione. Alla fine del 1197 rivelò ai cardinali l'intenzione di abdicare a condizione che avessero eletto come successore il suo stretto collaboratore Giovanni di S. Paolo. Ma i cardinali non gli risparmiarono insulti e invettive e respinsero la proposta per motivi sia canonici sia personali. A C. rimanevano oramai poche settimane di vita. Morì l'8 gennaio 1198 a Roma e fu sepolto in S. Giovanni in Laterano "iuxta S. Mariam de Reposo". Lo stesso giorno i cardinali elessero papa, dopo qualche esitazione, il trentasettenne cardinale diacono dei SS. Sergio e Bacco, Lotario, che assunse il nome di Innocenzo III.
Ricordano C. le porte di bronzo da lui donate per la cappella di S. Giovanni Evangelista nel battistero del Laterano (1196), l'iscrizione relativa alla consacrazione della chiesa di S. Giovanni a Porta Latina (10 maggio 1191), le tavole di marmo relative alla consacrazione di S. Salvatore alle Coppelle (26 novembre 1195), S. Eustachio (12 maggio 1196), S. Lorenzo in Lucina (26 maggio 1196). I numerosi ritratti del papa nel manoscritto del De rebus Siculis Carmen di Pietro da Eboli, suo contemporaneo, non sono il frutto di una conoscenza personale.
Fonti e Bibliografia
Bolle: Coelestini papae III Epistolae et Privilegia, in P.L., CCVI, coll. 864-1304.
Altro materiale è stato raccolto nell'ambito del "Papsturkundenwerk" della Piusstiftung di Gottinga e pubblicato in "Nachrichten von der Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen", Phil.-hist. Klasse, 1896-1905, 1908, 1912, 1924, 1962 (P.F. Kehr, Papsturkunden in Italien); 1902, 1904 (A. Brackmann, Papsturkunden in Deutschland); Supplem. 1906, 1907, 1911, 1913 (W. Wiederhold, Papsturkunden in Frankreich); in "Abhandlungen der Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen", Phil.-hist. Klasse, n. ser., 1927, nr. 18; 1928, nr. 22 (P.F. Kehr, Papsturkunden in Spanien); 1927, nr. 20 (C. Erdmann, Papsturkunden in Portugal); 1930, nr. 25 (W. Holtzmann, Papsturkunden in England); ser. III, 1932, nr. 3 (H. Meinert, Papsturkunden in Frankreich); 1933, nr. 8 (J. Ramackers, Papsturkunden in den Niederlanden); 1935, nr. 14 (W. Holtzmann, Papsturkunden in England); 1937, nr. 21; 1940, nr. 22; 1942, nr. 27; 1951, nr. 35; 1958, nr. 41 (J. Ramackers, Papsturkunden in Frankreich), 1976, nr. 95 (D. Lohrmann, Papsturkunden in Frankreich); 1952, nr. 33 (W. Holtzmann, Papsturkunden in England); 1972, nr. 77 (R. Hiestand, Papsturkunden für die Templer);
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