Cesare Balbo
Tra le figure più note del 19° sec. in Italia, Cesare Balbo si distingue per la complessa personalità, poco riducibile a schemi: protagonista del Risorgimento, provvisto di vasta cultura, attivo in politica e profondo pensatore, scrisse di storia, di filosofia, di letteratura. In uno dei periodi più vivaci della cultura europea, di cui aveva assimilato a pieno il romanticismo e talune radici illuministiche, visse profondamente l’esperienza napoleonica e i suoi aneliti libertari. Distinguendosi da Vincenzo Gioberti, non considerò in alcun modo possibile una Confederazione italiana governata dai pontefici, ritenendo una priorità la distinzione fra potere temporale e potere spirituale.
Cesare Balbo nacque il 21 novembre 1789 a Torino da Prospero e da Enrichetta Taparelli d’Azeglio, in una famiglia della nobiltà chierese di antica tradizione militare. Prospero, educato dalla famiglia del ministro Giovanni Battista Lorenzo Bogino cui era legato da parentela, percorse sempre la carriera degli alti uffici governativi. Cesare lo seguì fra il 1798 e il 1802 nella sede diplomatica di Parigi e, successivamente, in esilio a Barcellona, Bologna e Firenze.
Tornato con la famiglia a Torino, fra il 1802 e il 1807 si applicò, anche guidato dal padre, agli studi di matematica, fisica, eloquenza e si legò ai giovani alfieriani dell’Accademia dei Concordi. Nel 1808, chiamato al Consiglio di Stato napoleonico, prestò servizio quale liquidatore delle antiche amministrazioni a Firenze, a Roma, a Lubiana. Nella veste di firmatario del decreto che cancellava il potere temporale dei papi, nel 1809 il giovane Cesare venne colpito da scomunica. Fra il 1812 e il 1814 fu auditore a Parigi, applicato anche in missioni speciali. Con la Restaurazione, tornò nell’esercito ma, fra il 1816 e il 1819, si recò a Madrid al seguito del padre ambasciatore, prima come addetto d’ambasciata, poi, partito il padre, come reggente.
Tornato al servizio militare, Balbo mostrò interesse al costituzionalismo; avvicinatosi ai promotori dei moti del 1821, specialmente a Santorre di Santarosa, operò per mediare fra loro e il reggente Carlo Alberto al fine di ottenere una costituzione moderata. L’insuccesso della rivoluzione condannò Balbo all’esilio a Parigi, durante il quale continuò gli studi sul costituzionalismo.
Nel 1823 si unì in matrimonio con Felicita di Villeneuve, figlia del tesoriere di Parigi, da cui avrebbe avuto otto figli. Nel 1836, rimasto vedovo, sposò la figlia di Gian Francesco Galeani Napione, Luigia. Dal 1824 al 1826 fu confinato a Camerano, dove studiò e scrisse di storia.
Con la salita al trono di Carlo Alberto, Balbo sperò di venire richiamato a ricoprire incarichi pubblici, ma, deluso, tornò alla scrittura di storia, di politica, di filosofia e collaborò a riviste; finalmente, con la pubblicazione delle Speranze d’Italia nel 1844 entrò nel più vasto dibattito politico. Seguirono anni di intenso impegno: scrisse il Sommario della Storia d’Italia (1846) e contribuì al dibattito sulle riforme e la costituzione, schierandosi con i liberal-moderati. In tale posizione fu chiamato a dirigere il primo governo parlamentare del Regno di Sardegna (marzo-luglio 1848). Gli ultimi anni furono dedicati all’attività alla Camera, mentre riprendeva a scrivere di parlamentarismo e riforme. Morì a Torino il 3 giugno 1853, nel generale cordoglio.
Le due autobiografie che Balbo scrisse contribuiscono a delineare il personaggio nei tratti personali più profondi. Furono scritte l’una nell’aprile, l’altra nel dicembre del 1844, quando, assurto a vasta notorietà con la pubblicazione delle Speranze d’Italia, ritenne necessario farsi conoscere pubblicamente, senza niente nascondere dei suoi trascorsi, e specialmente del servizio reso allo Stato e del relativo esonero nel 1821.
Il primo dei due scritti, benché più ampio, si conclude proprio con la rivoluzione del 1821. Si sofferma a lungo sul rimorso provato per la parte avuta nella fine del potere temporale dei papi e manifesta ammirazione per la dignità di Pio VII e dei cardinali di fronte alla prepotenza straniera.
L’episodio, benché perdonato più tardi dalla Chiesa, lo avrebbe condizionato per tutta la vita. Il rimpianto per l’atto compiuto aiuta a spiegare il diniego dato anni dopo in Parlamento alle leggi Siccardi. Amaramente Cesare ricorda che a lui, diversamente da altri, non fu concesso l’indulto, probabilmente per la precedente colpa di giurisdizionalismo imputatagli dalla scomunica. L’amarezza del fallimento delle richieste costituzionali, l’allontanamento di Carlo Alberto e il proprio dal quartier generale pongono termine a questa autobiografia.
La seconda autobiografia, scritta in terza persona, è assai più breve, ma giunge fino al 1844 e, contrariamente alla precedente, fu subito pubblicata. Non si rivolge qui solo agli amici, Balbo vuole rendere noti al grande pubblico il proprio «ardore» per la patria, l’«operosità» della sua vita pubblica e privata, gli appelli contro la repressione della libertà di opinione.
Tra i suoi scritti egli ricorda la Storia d’Italia sotto ai barbari, la traduzione di Tacito, le Quattro novelle di un maestro di scuola, la Vita di Dante. Aveva messo mano a una sorta di filosofia della storia, le Meditazioni storiche, quando, racconta, nel 1843, leggendo il Primato di Gioberti, scrisse con «impeto» le Speranze d’Italia, stampate a Parigi nel 1844. Chiude con parole cariche di amarezza:
Dio gli perdoni […] di non aver adempiuto sempre ai due doveri che gli costarono quasi soli in vita sua: ridursi a lavorar di lettere in un paese in cui esse non son libere; perdonare amorevolmente a coloro che il ridussero a sì misera operosità (Ricotti 1856, p. 386).
Il riferimento conclusivo di tale scritto all’operosità aiuta a spiegare il significato che Balbo dette alla storia. Per lui essa corrispondeva a un’indagine sui percorsi dell’agire umano per costruire una concreta politéia, al modo di Aristotele. Ripercorrere la storia umana a partire dagli inizi remoti equivale a conoscere le forme della politica nelle società organizzate per adattarle al presente.
Alle radici delle sue riflessioni c’è David Hume e c’è l’Inghilterra che, capace di correggere nel corso della storia i propri errori, aveva quasi raggiunto la perfetta libertà parlamentare, modello imprescindibile per l’Europa. Si trattava di cogliere tali aspetti concreti della storia nel percorso universale della cristianità, guidata dalla provvidenza.
Dagli anni Trenta, dunque, egli sviluppa i due filoni di studio: l’interpretazione filosofica della storia ispirandosi a Jacques-Bénigne Bossuet e la ricostruzione dei fatti che contraddistinsero lo sviluppo dei popoli e delle nazioni, seguendo gli storici a lui contemporanei, François Guizot, Augustin Thierry, Friedrich Karl von Savigny, che a suo parere avevano raffinato la ricerca dopo Montesquieu e Ludovico Antonio Muratori.
Fin dagli anni del confino di Camerano aveva scritto La storia d’Italia sotto ai barbari, e più tardi, presso l’Accademia delle Scienze di Torino, sollecitò i più giovani allo studio del Medioevo italiano. Egli concordava con Savigny e Guizot sulla persistenza del diritto romano in quell’età. Ne scaturì, fra il 1830 e il 1831, un dibattito con Carlo Troya, che difendeva le tesi ‘guelfe’ di Scipione Maffei, e Alessandro Manzoni, secondo cui i Longobardi avrebbero annullato il diritto romano, sostituendolo con il diritto barbaro integrato con quello canonico.
Nel contempo impostava il suo lavoro più complesso di filosofia della storia, le Meditazioni storiche, uscite in dispense fra il 1842 e il 1845. In esse elaborava un disegno di storia universale, simile a una parabola che dalla creazione biblica scendeva all’avvilimento della civiltà antica per risalire progressivamente dopo Cristo. Il tema era già presente nelle lettere all’abate Amedeo Peyron Della letteratura nei primi XI secoli dell’era cristiana (1836), dove la storia moderna era interpretata alla luce della filosofia della storia agostiniana; le Meditazioni aggiungevano considerazioni di metodo, ispirate a Carlo Sigonio, Gian Vincenzo Gravina e all’«inarrivabile Muratori».
A lato della storia universale, Balbo andava elaborando, fin dal 1838, i Pensieri sulla storia d’Italia. La valenza politico-ideologica e l’intento didascalico dell’opera sintetizzano le riflessioni elaborate negli anni di lontananza forzata dalla vita pubblica: indipendenza, libertà, unità d’Italia sono i temi prevalenti. Nel frattempo, dopo la chiusura della fiorentina «Antologia», Balbo allargò la collaborazione ad alcune riviste torinesi. Anche in questa attività la prudenza fu sua connotazione distintiva: le Due lettere all’Avvocato Battaglione, direttore del «Subalpino», che apprezzavano la storia economica di Luigi Cibrario (1839), furono pubblicate solo postume per le osservazioni, forse audaci, sulla libertà di stampa. Scrisse anche per riviste non conformiste come i milanesi «Annali universali di statistica» di Gian Domenico Romagnosi, dove argomenta sulle strade ferrate, la libertà di scambio e l’unione doganale (1839). Alle «Letture popolari» di Lorenzo Valerio egli affidò nel 1841 riflessioni di argomento civile, quali moderazione, progresso, caratteri dell’ingegno italiano, filosofia del lavoro.
L’impegno politico si fece esplicito con la pubblicazione della Vita di Dante (1839), una biografia politica e un’analisi delle opere. Secondo Balbo, Dante rappresenta l’ingegno, le virtù e i vizi italiani: la sua biografia, dunque, ben supplisce alla mancanza di una storia nazionale. Per gli errori compiuti – l’abbandono della «sua» parte guelfa per quella ghibellina, e dunque la concessione dell’Italia allo straniero – emblematicamente il poeta esprime la sintesi degli errori degli italiani.
Impegni più urgenti costrinsero Balbo ad accantonare il progetto di una società di amici per scrivere un’ampia storia d’Italia. La pubblicazione del Primato morale e civile degli Italiani di Gioberti (marzo 1843) suscitò in lui emozioni e riflessioni che stanno all’origine delle Speranze d’Italia, pubblicate un anno dopo a Parigi per evitare la censura. Di Gioberti egli condivideva la moderazione dell’approccio politico-patriottico nella prospettiva del progresso cristiano della civiltà; ma la concretezza di storico lo portava a una visione più realistica.
Il principio assiomatico che lo distingue da Gioberti è la necessità dell’indipendenza dallo straniero dell’intera penisola; in successione stavano le libertà civili, da raggiungere con la collaborazione dei governanti. Imprescindibile per il compimento di tali scopi è la considerazione della civiltà dell’Europa e della geografia dei suoi Stati. Al pari di Gioberti ammetteva l’ipotesi di una confederazione italiana; ma solo l’indipendenza nazionale poteva valere a salvaguardarla. Balbo era anche scettico sul disegno di affidare ai papi la presidenza della eventuale confederazione.
La cacciata dell’Austria dalla penisola, ragionava, sarebbe stata conseguenza di trasformazioni geopolitiche internazionali. L’indebolimento dell’impero turco e il conseguente spostamento dell’impero austriaco a Oriente («inorientamento»), si sarebbe compiuto con l’aiuto dei principi e degli eserciti italiani, che ne avrebbero ottenuto in compenso la libertà. Infine Balbo, da buon romantico, riteneva la libertà di una nazione raggiungibile solo grazie al coraggio militare e al tributo di sangue.
Il successo dell’opera, pur fra critiche da destra e da sinistra, fece di Balbo un protagonista del nascente Risorgimento con una propria personale posizione. La strategia suggerita per l’indipendenza non era compatibile con l’eroismo mazziniano e l’appello dei democratici, tanto meno poteva essere accettata dai principi italiani protetti dall’Austria. Eppure, anni dopo, l’appoggio internazionale motivò la convergenza fra moderati e democratici.
Sensibilizzare l’opinione pubblica fu tra gli obiettivi principali di Balbo. Ecco allora la scrittura di getto del Sommario della storia d’Italia. L’occasione venne dall’incarico di redigere la parte storica della voce Italia per la Nuova enciclopedia popolare (1846) di Francesco Predari, e il successo lo spinse a farne un volume pubblicato per la prima volta a Losanna nel 1847.
Il Sommario di Balbo ebbe fra l’altro il merito, riconosciuto dai contemporanei e dalle generazioni successive, di riparare alla mancanza di un manuale che narrasse la storia generale d’Italia, alla vigilia degli avvenimenti che avrebbero portato alla scomparsa degli antichi assetti.
La fonte di riferimento sono gli Annali della storia d’Italia di Muratori. Ma distinguendosi da quelli che avevano inizio dall’era volgare, il Sommario comprende anche l’evo più antico e l’età della grande Roma repubblicana. La superiorità romana, si dice, non fu dovuta tanto al diritto e alla solidità istituzionale, quanto alla «magnifica rivendicazione dell’indipendenza contro ai Galli», a cui Roma chiamò i popoli italici assumendone la guida per l’indipendenza nazionale. Una tale interpretazione della storia romana suonava come stimolo per Carlo Alberto, a cui l’opera fu però dedicata solo nell’edizione postuma.
Riguardo al Medioevo è significativa la moderazione tenuta nella condanna dei Longobardi, a cui si unisce la ugualmente cauta condanna dei papi che, primi, chiamarono i Franchi a invadere l’Italia. Al pari di Niccolò Machiavelli, Balbo disapprova la servitù della penisola imposta da Carlo Magno e a lui attribuisce l’inizio del grave equivoco istituzionale che portò la dipendenza del potere laico da quello ecclesiastico: l’umiliazione di Canossa ne fu il simbolo. Riguardo all’età comunale egli condivide ancora con Machiavelli la delusione per il profilo politico delle istituzioni, per la frammentazione territoriale e, soprattutto, per la mancanza di milizia cittadina.
L’età moderna rappresenta invece l’età del trionfo della cristianità che, superata «la barbara monarchia centrale di Carlo Magno», acquista una propria identità risvegliandosi grazie allo stimolo della cultura. Dall’Italia partì il rinnovamento della civiltà in Europa, che seppe coglierlo, mentre noi andammo verso uno «splendidissimo, spensieratissimo precipitare». Roma, divenuta «un vero baccanale della cultura», scandalizzò la Germania. La nostra aristocrazia si avvilì; mentre in Europa si formavano gli Stati moderni. In Italia resistette e percorse un cammino ascendente solo lo Stato sabaudo, l’eroe ne fu Emanuele Filiberto. Balbo ne traccia un profilo esemplare, diretto a Carlo Alberto.
Dopo l’armistizio dell’agosto del 1848, Balbo aggiunse un’Appendice nell’edizione del 1849 per raccontare gli anni dal 1814 al 1848, l’età della «preponderanza» austriaca sulla penisola, della cauta vitalità del Piemonte e, soprattutto, della «rivoluzione delle riforme», degli anni fra il 1843 e il 1848. Seguì «la guerra d’indipendenza», un’illusione grandissima, scrive, che resterà uno dei fatti più notevoli nella storia delle rappresentanze e delle nazionalità europee.
Durante il 1847, grazie alle riforme concesse dal nuovo papa Pio IX, l’opinione pubblica si scosse e le piazze si riempirono di popolo. In quell’anno Balbo si impegnò a scrivere palesemente di politica, in contatto con liberali come lui in Piemonte e fuori: Roberto e Massimo d’Azeglio, Lorenzo Valerio, Camillo Benso conte di Cavour, Domenico Carutti, Gino Capponi, Leopoldo Galeotti, Luigi Carlo Farini, solo per ricordare i principali nomi. Le lettere a Farini (14 dicembre 1846-aprile 1847), pubblicate poi come Lettere al Sig. D***, si propongono come trattati propedeutici al ragionamento politico. In tutto otto – nel 1847 apparvero solo le prime tre –, furono ripubblicate insieme alle altre nel volume postumo Lettere di politica e letteratura (1855). Si tratta di una disamina del liberalismo moderato, dove le enunciazioni generali si fondano sui dati storici.
Egli mette in guardia dal rischio di dimostrazioni pericolose, facili a divenire sollevazioni. A tal fine porta l’esempio di quanto avvenuto all’estero e, specialmente, in Inghilterra, dove Daniel O’Connel e Richard Cobden avevano ottenuto la libertà religiosa e il libero commercio del grano battendosi pacificamente (Lettera I). La sua condanna delle società segrete è radicale (Lettera II) ed egli ritorna a collegare la questione italiana con l’Europa e i Paesi occidentali. Ma Balbo confida anche che l’Unione americana libera e progredita, legata alla nostra civiltà, in grande espansione demografica, possa venire in soccorso dell’Europa (Lettera III).
Dopo la lettura di quanto d’Azeglio e Galeotti scrivevano sulle condizioni dello Stato pontificio, Balbo inverte la successione dei momenti politici del suo programma: l’arretratezza di quello Stato esigeva urgenti riforme. Insiste, tuttavia, perché esse avvengano anche con il consenso sovrano ritornando all’Inghilterra, «paese tipo della civiltà, della libertà, delle rivoluzioni e delle riforme» (Lettera IV). Il dovere di resistenza per proteggere la propria libertà impone di battersi contro le esagerazioni, da qualunque parte vengano, pur mantenendosi nella legalità. Considerando i termini «civile e legale» come sinonimi, Balbo sostiene che i moderati dimostrano il coraggio civile difendendo la propria opinione nel nome delle libertà personali. Ciò tuttavia non sminuisce il valore di opere volte a trovare l’unità sociale (Lettera V). Prima di mutazioni politiche è necessaria l’educazione politica e Balbo si rivolge ai governanti perché aboliscano «l’antico segretume», concedano libertà di stampa e permettano una buona educazione politica. Ma egli ricorda anche le assemblee specializzate, corporative, nel commercio, nell’agricoltura, nelle scienze adatte a raffinare il dibattito. Tuttavia, le più importanti ad addestrare alla dialettica politica sono le assemblee istituzionali, comunali e provinciali, ma ricordando i rischi di separatismo presenti in specie nei dibattiti provinciali (Lettera VI). I «governati», per loro parte, traggano insegnamento dal pensiero politico nazionale. L’eccezionalità di Machiavelli è incontestabile: egli, pur adducendo esempi condannabili, ebbe il merito di essere stato contrario all’impero e di aver predicato già da tre secoli l’indipendenza; è inoltre il nostro migliore prosatore volgare (Lettera VII). L’ultimo argomento trattato è quello militare: il coraggio e dunque l’educazione militare sono la necessità ultima per l’Italia. Lo jus gentium dà piena legalità alla guerra di indipendenza, con i suoi richiami simbolici: «Niuna nazione non potrà mai avere intiera la virtù della nazionalità senza un battesimo di sangue». Il Piemonte deve rendere efficiente il suo esercito allo scopo (Lettera VIII).
Tale impegno politico e ideologico si espresse attraverso riviste sorte in quell’anno 1847 in preparazione degli avvenimenti. Molto lavoro Balbo dedicò a «Il Risorgimento», il giornale uscito il 15 dicembre con un programma a sua firma, che riprendeva gli assunti moderati già enunciati. Egli aveva al fianco Cavour, Pietro De Rossi di Santarosa, Roberto d’Azeglio. L’intenso impegno di pubblicista basta a spiegare perché Carlo Alberto, avviandosi a concedere riforme e statuto, scegliesse Balbo come presidente della Commissione incaricata di stendere la legge per le elezioni dei deputati. In mezzo alle difficoltà sorte anche in seguito agli avvenimenti di Francia, dove si era scelto il suffragio universale, con la mediazione di Balbo fu deliberata una legge elettorale basata su criteri censitari mobili e immobili.
La sua scelta di capo del primo governo rappresentativo pochi giorni prima della guerra all’Austria, pur gradita al pubblico, era stata compiuta a malincuore da Carlo Alberto. La ribellione milanese, seguita dal primo successo della guerra piemontese all’Austria, fu vissuta da Balbo con entusiasmo ed egli stesso si recò al fronte. Ma la sua posizione venne poco per volta indebolita per avere accettato l’unione con la Lombardia mediante l’Assemblea costituente. Attaccato dalla destra, guidata da Cavour, mentre si palesava il fallimento militare, il suo ministero cadde il 26 luglio 1848.
Assiduo in Parlamento, Balbo si assunse il compito ingrato di relatore del trattato di pace con l’Austria; mantenne posizioni moderate sostenendo ogni iniziativa favorevole al libero commercio, alla libertà d’insegnamento, allo snellimento delle regole parlamentari. Fra il maggio e il luglio del 1849, egli accettò la missione, senza esito, a Gaeta presso Pio IX, per convincerlo a mantenere il governo parlamentare a Roma. Pur considerando disgiunto il potere temporale dalla religione cattolica ne sostenne la legittimità: non votò le leggi Siccardi, appellandosi a motivi di coscienza, ma conservò una posizione di centro vicina al ministero. Ancora nel novembre del 1852, fu interpellato per guidare un nuovo governo, ma cedette a Cavour, più giovane, ormai pronto ad assumere quel compito.
Pur in parlamento, non cessò di dedicarsi agli studi politici. Il salto del 1848 che aveva legittimato le monarchie parlamentari spinse Balbo a comporre due opere, rimaste incompiute e pubblicate postume in un unico volume, Della Monarchia rappresentativa in Italia e Della politica nella presente civiltà (1857).
Dichiarando di voler compiere il tentativo di trovare la migliore soluzione per la libertà del Paese, e stabilito che nell’attualità siano possibili solo monarchie o repubbliche rappresentative, presenta un vero manuale di diritto e prassi costituzionale rivolto a governati e a governanti, allo scopo di facilitare l’ingresso della nazione «nella gran repubblica europea». Liquidava i progetti comunisti e socialisti come contrari all’umana natura, ma prendeva in considerazione le diverse forme di assistenza privata e pubblica.
L’Inghilterra è di nuovo il costante punto di riferimento. In quel Paese le opposizioni svolgono correttamente il loro ruolo, senza invadenza rispetto al ministero, e i regolamenti parlamentari sono di gran lunga più efficienti rispetto a quelli del continente. Niente scrutinio segreto per l’approvazione delle leggi, il che scongiura ogni ambiguità; una buona preparazione di ciascuna parte permette la migliore discussione in Parlamento. Importante è l’uso dei giudizi parlamentari pronunciati in aula a seguito di accuse: tale regola ha consentito agli inglesi di mantenere la legalità attraversando le rivoluzioni. Loda la loro architettura parlamentare priva di «teatralità», presente invece sul continente. Il confronto con gli oratori italiani è tutto a nostro discapito per la mancanza di documenti prima del Cinquecento, e dopo per la presenza di un’oratoria improntata all’imitazione e alla pedanteria. Le ultime pagine incompiute affrontano il complesso rapporto fra progresso civile e libertà personale: la prevalenza del primo fattore porta a una limitazione del secondo; la moderazione diviene dunque necessaria. Il volume pubblica anche l’intero disegno dell’opera: nel capitolo Della libertà religiosa, previsto in nove paragrafi, merita di essere segnalato il 6° paragrafo, Della libertà religiosa perfetta ne’ paesi cattolici dove il cattolicesimo non è religione di stato, che fa intravedere la possibilità di modifiche dello statuto albertino che stabiliva il cattolicesimo religione di Stato.
La seconda opera, Della politica nella presente civiltà, torna sul tema della civiltà cristiana, ma con attinenze all’attualità politica della cristianità, equivalente a un terzo del genere umano, come civiltà modello per tutti. L’accezione del termine cristianità non riguarda alcuna Chiesa, né la dottrina, e per «politica cristiana» deve intendersi quella informata al messaggio evangelico. Con esso niente ebbero a che fare le crudeltà spagnole in America, le perfidie inglesi in Asia, la «servitù dei negri». L’Inghilterra anglicana è ancora richiamata a esempio per l’eccellenza delle istituzioni e l’Europa, in cui diverse sono le Chiese cristiane, è Repubblica della cristianità, meta da raggiungere. Due capitoli sono dedicati alle scuole degli scrittori politici: la «scuola razionale», o della filosofia, fornisce una definizione generale di uomo; la «scuola sperimentale», fondata sull’empiricità, consente il progresso della scienza politica e riconduce gli eventi della cristianità nella concretezza sociale.
Dunque, ancora al termine della vita, pur nelle difficoltà sorte con la cecità che da qualche anno lo affliggeva, continuò a riflettere e a scrivere sulle novità del secolo e a indicare strade da percorrere per l’utile operare dell’uomo, in una generale cornice cristiana. La legittimità del potere sovrano a cui fu fortemente legato per nascita gli impedì di condannare il potere temporale dei papi come quello di ogni altro principe. A centocinquant’anni di distanza il suo pensiero può essere analizzato senza parzialità, senza vedere nei suoi scritti e nel suo operato il cammino che fu percorso più tardi da altri, cattolici liberali, popolari, democristiani, in un diverso contesto dottrinario, politico e sociale.
Balbo fu un liberale cattolico e legittimista, non ci risulta abbia mai fatto considerazioni di dottrina e di disciplina confessionale come altri suoi contemporanei, da Antonio Rosmini-Serbati a Gioberti, da Capponi a Bettino Ricasoli. Nella concretezza della storia si rifaceva a Erasmo per comprendere la Riforma protestante e non fu benevolo con il Concilio di Trento. La sua figura politica, ammirata dai contemporanei, fu ridimensionata da quella di Cavour, che con lui aveva collaborato prima del 1848, ma che se ne allontanò per la scelta di una linea più pragmatica e duttile.
La sua attività di ricercatore e di storico ha avuto notevole incidenza, non solo con il Sommario ma anche grazie all’apprezzamento ricevuto per le opere minori dagli storici del diritto e dalla storiografia erudita. Così se Pasquale Villari basava le sue lezioni universitarie sul Sommario, Carlo Cipolla, Ferdinando Gabotto, Alessandro Pertile lo tennero come maestro. Una visione del Risorgimento più distaccata e critica trova ormai superata la prospettiva di Francesco De Sanctis, ripresa da Benedetto Croce, che, pur nel rispetto del suo lavoro, inseriva Balbo fra gli storici «neoguelfi», contrapposti a quelli «neoghibellini», in uno schema di stretti orizzonti che trascurava la cultura classica e la cultura europea di cui Balbo fu imbevuto e non teneva conto degli appunti non sempre benevoli mossi alla Chiesa nella sua storia.
Storia d’Italia, Torino 1830, 2a ed. Storia d’Italia sotto ai barbari, Firenze 1856.
Vita di Dante, 2 voll., Torino 1839.
Delle Speranze d’Italia, Paris 1844, 5a ed. con Appendici inedite, Firenze 1855.
Meditazioni storiche, Torino 1844-1845, ed. ampliata Firenze 1854.
Della storia d’Italia dalle origini fino all’anno 1814, Losanna 1846, 10a ed. corretta e accresciuta dall’autore, Firenze 1856; poi ed. critica a cura di G. Talamo, Milano 1962.
Pensieri ed Esempi. Opera postuma coll’aggiunta dei dialoghi di un maestro di scuola, Firenze 1854.
Lettere di politica e letteratura edite ed inedite, precedute da un «Discorso sulle rivoluzioni», del medesimo autore, Firenze 1855.
Della monarchia rappresentativa in Italia. Saggi politici: della politica nella presente civiltà, Abbozzi, Firenze 1857.
Pensieri sulla storia d’Italia, Firenze 1858.
Il Regno di Carlo Magno in Italia e scritti storici minori, a cura di C. Boncompagni, Firenze 1862.
Pagine scelte precedute da un saggio, con un saggio di N. Valeri, Milano 1960.
Storia d’Italia e altri scritti editi e inediti, a cura di M. Fubini Leuzzi, Torino 1984.
E. Passamonti, Cesare Balbo e la rivoluzione del 1821 in Piemonte, in La rivoluzione piemontese del 1821, Torino 1826, pp. 5-184.
E. Ricotti, Della vita e degli scritti del conte Cesare Balbo. Rimembranze con documenti inediti, Firenze 1856 (contiene le due autobiografie di Cesare Balbo citate nel testo).
E. Passerin d’Entrèves, La giovinezza di Cesare Balbo, Firenze 1940.
E. Passerin d’Entrèves, Balbo Cesare, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 5° vol., Roma 1963, ad vocem.
G.B. Scaglia, Cesare Balbo. Il Risorgimento nella prospettiva storica del progresso cristiano, Roma 1975.
M. Fubini Leuzzi, Contributi e discussioni su alcuni aspetti del pensiero storiografico di Cesare Balbo, «Rivista storica italiana», 1978, 90, pp. 834-54.
Cesare Balbo alle origini del cattolicesimo liberale, a cura di G. De Rosa, F. Traniello, Roma-Bari 1996.
Tra i protagonisti della vita intellettuale del tempo che ebbero un ruolo politico di rilievo e aderirono ai movimenti prerisorgimentali, figura di spicco è quella di Pietro Colletta (Napoli 1775-Firenze 1831), convinto bonapartista che perseguì l’attuazione di riforme politiche e sociali guidate dall’alto. A Napoli ricoprì incarichi militari e civili di grande responsabilità negli anni napoleonici. Fu vicino al re, Giuseppe Bonaparte, e soprattutto al suo successore Gioacchino Murat, di cui fu consigliere nelle controverse decisioni dopo la disfatta di Lipsia assumendo anche alti compiti militari. Membro del consiglio di Reggenza, trattò la pace con gli austriaci; nel 1818 fu impegnato nella repressione del brigantaggio in Basilicata e a Salerno, come anni prima lo era stato in Calabria. Scoppiati i moti costituzionali del 1820, dopo un’iniziale perplessità si schierò in loro sostegno in qualità di generale. Ritornato il Regno sotto il controllo austriaco venne esiliato in Boemia e dal 1823 a Firenze.
Fu in questi anni che si dedicò alla scrittura, specialmente della Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, pubblicata postuma (1834) dall’amico Gino Capponi. Si tratta piuttosto di una cronaca in cui l’autore ricostruisce gli avvenimenti cui fu parte senza celare la polemica contro i vincitori e le loro proscrizioni. Le pagine dedicate a Carlo di Borbone (1734-1759), sono viceversa di appoggio al sovrano illuminato. Conservano interesse anche quelle dedicate alla lotta al brigantaggio. L’opera ebbe molto successo presso i democratici e non solo, considerata stimolo contro i principi reazionari. Apprezzamento fu rivolto per altro riguardo all’eleganza della lingua, per la quale Colletta si era giovato delle competenze di Pietro Giordani, Capponi, e poi anche di Giacomo Leopardi.
Più defilato rispetto alle vicende politiche, Gino Capponi (Firenze 1792-ivi 1876) fu una figura significativa della cultura moderata toscana del 19° secolo. Di ricca e illustre famiglia fiorentina, devota ai granduchi, ricevette un’educazione letteraria, di impronta cattolica. Dopo aver intensamente viaggiato nel periodo della giovinezza, intorno agli anni Venti animò un vivace circolo di uomini di cultura, che comprendeva Cosimo Ridolfi, Niccolò Tommaseo, Raffaello Lambruschini, Giordani, Leopardi.
Fu vicino a Giovan Pietro Vieusseux, direttore del Gabinetto letterario, pubblicando sull’«Antologia» (1821-32), finanziata dallo stesso Vieusseux, una parte dei suoi scritti pedagogici, in cui inseguiva l’idea di un’educazione virile improntata alla religione romana quale la più adatta a formare gli italiani. Messa a tacere «L’Antologia» dalla censura, continuò negli studi, ma, rimase sempre sensibile a quanto accadeva. Nel 1842, ancora con Vieusseux fondò l’«Archivio storico italiano» che prese ad accogliere contributi e documenti di storia italiana, e specialmente toscana, partecipando, attraverso lo studio della storia, ai crescenti fermenti risorgimentali. La fedeltà alla dinastia lorenese e l’atteggiamento prudente tenuto durante i fatti del 1847-48 lo portarono per brevi settimane a presiedere il governo che nel 1848 (agosto-ottobre) dovette cedere a Francesco Domenico Guerrazzi. Estraneo alla politica piemontese per l’Unità e a Cavour, con difficoltà accettò la sparizione del Granducato. Da senatore continuò a impegnarsi per l’istruzione, in nome del rispetto della persona. In politica si mantenne ostile alla politica ecclesiastica governativa.
Fra gli Scritti editi ed inediti (2 voll., 1877) occorre ricordare le cinque lettere a Pietro Capei Sulla denominazione dei Longobardi in Italia (1844), in cui per un verso assegna ai Germani il totale rinnovamento della civiltà italiana, per l’altro nega l’origine germanica delle istituzioni comunali, ricordando lo «splendore» da loro portato all’Italia dalle città guidate dalla Chiesa gregoriana e la Storia di Pietro Leopoldo, non completata, che fa del granduca illuminato un modello per il Risorgimento d’Italia. Affronta nell’Introduzione all’istoria civile dei papi la ricostruzione dell’origine dell’affermazione del papato, attraverso il confronto con la cultura filosofica e religiosa precedente. La Storia della Repubblica di Firenze (1875), a cui lavorò a lungo, intende ripercorrere l’esempio storico di una «vera» democrazia, alla cui ricerca stava andando l’Europa. Elaborata con ricchezza di fonti narrative, fece limitato ricorso alle testimonianze documentarie, diffuse dalla scuola di Leopold von Ranke. Nonostante la precoce cecità, Capponi intrattenne anche una larghissima corrispondenza (pubblicata negli anni 1884-1890), che costituisce ancora oggi una significativa documentazione fra politica e cultura dei ceti più colti in Italia nel 19° secolo.
Da ricordare per il ruolo che sostenne durante il Risorgimento a Napoli, non tanto per l’attività politica, quanto per il suo impegno di fare storia, è Carlo Troya (Napoli 1784-ivi 1858), appartenente all’ordine ecclesiastico. Le simpatie mostrate per il costituzionalismo nel 1820-21, collaborando alla rivista liberale «Minerva napoletana», gli costarono l’esilio fino al 1826. Più tardi la moderazione politica e il prestigio di uomo di cultura lo portarono per brevissimo tempo (3 aprile-15 maggio 1848) a presiedere uno dei governi rappresentativi a Napoli.
Il centro dei suoi studi di storia medievale italiana fu la ricerca di conferme degli ideali nazionali. Seguace del metodo storico muratoriano, trovò nella Chiesa di Roma dell’alto Medioevo la connotazione identitaria che il Risorgimento cercava di affermare. Nelle sue ricerche, pur convinto della superiorità della fonte documentaria su quella narrativa, spesse volte preferì non approfondire, accreditando falsità.
L’opera più significativa di Troya rimane la Storia d’Italia nel Medioevo (5 voll., 1830-1855). Poiché lo stesso argomento era stato affrontato da Balbo nella sua Storia d’Italia sotto ai barbari (1830), nacque uno scambio epistolare tra i due per discutere il rapporto fra popolazioni latine e germaniche.
L’impegno politico caratterizzò anche la vita di Luigi Tosti (Napoli 1811-Montecassino 1897), appartenente a nobile famiglia napoletana, entrato nel 1832 nell’ordine benedettino nella Abbazia di Montecassino dove aveva compiuto gli studi. Interessato alla storia ecclesiastica, vi si dedicò ben seguendo l’indirizzo muratoriano. Fra le sue numerose opere, in gran parte composte a Montecassino, dove ricoprì per qualche tempo la carica di abate, vanno ricordate, anche per il manifestarsi dell’adesione di Tosti al clima patriottico e riformista, La storia di Bonifazio VIII e dei suoi tempi (1846) e La Storia della Lega Lombarda (1848). Nella prima sostiene la tesi secondo cui la rottura fra il papato e il re di Francia Filippo il Bello fu l’avvenimento che, precipitando nell’incertezza l’origine del potere temporale, ebbe gravissime conseguenze sulla civiltà occidentale. Nella seconda, alla minuziosa ricostruzione degli avvenimenti è sottesa l’idea che il medesimo appoggio dato ai comuni lombardi da Alessandro III contro l’imperatore debba essere ora rinnovato da Pio IX. La Lega, infatti, fu un’anticipazione dell’«aspirazione dell’individualità italiana» a trovare la patria: «La coscienza dell’individuo e la religione creano la patria». Aderì alla rivista «L’Ateneo italiano» con Balbo, Troya e Gioberti, dove sostenne il papato quale guida spirituale per la rinascita dell’Italia, mentre al contempo cercava di trovare l’appoggio diplomatico della Francia a questo scopo. Arrestato per tali tentativi, venne presto rilasciato grazie al prestigio suo e della famiglia. Nel 1848 aveva anche pubblicato su questa linea l’opuscolo Il veggente del secolo XIX. Deluso dai risultati politici, dagli anni Cinquanta si dedicò nuovamente alla storia ecclesiastica. La Storia del Concilio di Costanza (2 voll., 1853), pur giustificando le esigenze del popolo dei fedeli alla partecipazione degli affari ecclesiastici, condanna le tesi della supremazia del Concilio e definisce «il papato, formula sintetica della Chiesa […], principio di ogni conciliazione». Dopo il 1870 lavora a Roma come archivista della Biblioteca Vaticana, riceve l’incarico di sovrintendente dei monumenti sacri italiani e, vicino a Leone XIII, si impegna per un riavvicinamento fra Stato e Chiesa con la pubblicazione di un opuscolo, La Conciliazione (1887), frutto sembra di accordi riservati fra le parti. Ma, sconfessato lo scritto da Leone XIII e costretto a ritrattare, si ritira definitivamente a Montecassino e porta a termine la Storia della Badia di Montecassino.