Cesare Cantù
Cesare Cantù, scrittore, polemista, storico, letterato, giornalista, educatore e organizzatore di cultura, non senza incursioni nella politica, fu attivo pressoché per tutto l’Ottocento nel nostro Paese. Operò quindi con molteplici interessi e su più tavoli in un arco di tempo eccezionalmente lungo, ricco di eventi e trasformazioni. Forte fu il suo legame con una terra, la Lombardia, e, prevalentemente, con una città, Milano, crogiuolo di idee, movimenti, eredità e programmi cui, peraltro, guardò con anelito di conservazione, piuttosto che per trarne occasione di apertura e progresso. Conobbe grande popolarità in tutta la penisola e anche all’estero ed entrò in contatto con pressoché tutti i protagonisti della vita culturale del suo tempo. Eppure in una prospettiva storica rimane figura particolarissima, anche se in un certo senso isolata. La sua eclettica, torrentizia produzione, ricca di polivalenze e spesso di ambiguità sfugge a rigide catalogazioni. Sotto il profilo ideologico si caratterizzò per un «atteggiamento antipiemontese» (Berengo 1975, p. 340) tutt’altro che democratico-repubblicano, neoguelfo antiaustriacante, perché sostenitore di un municipalismo locale nelle cui tradizioni riteneva di ravvisare le doti di laboriosità, religiosità, morigeratezza di cui era fautore.
Nato a Brivio, in Brianza, il 5 dicembre 1804, da Celso e da Rachele Gallavresi, Cesare Cantù trascorse gli anni della sua prima formazione a Milano dove la famiglia si era trasferita nel 1812 dopo un dissesto. Qui studiò in uno dei migliori istituti, il ginnasio S. Alessandro, erede del vecchio e prestigioso collegio dei barnabiti ormai laicizzato. E qui incontrò uno dei pochi professori che, a suo dire, riuscì a incidere su di lui: Giambattista De Cristoforis, amico del gruppo dei romantici e collaboratore assiduo del «Conciliatore».
L’adesione alle idealità romantiche e liberali, oltre alle difficoltà economiche seguite al dissesto del padre, furono probabilmente le cause che gli impedirono di accedere agli studi universitari e quindi di laurearsi. Ripiegò perciò sull’attività di insegnante per la quale all’epoca non era prevista la laurea. Nel 1821 accettò il posto di supplente di grammatica al ginnasio di Sondrio che doveva trasformarsi, dal 1824 al 1827, in un posto in organico. Passato a insegnare a Como nel 1828, approdò nuovamente a Milano nel 1832 al ginnasio di S. Alessandro dove era stato studente.
La passione e l’impegno civile della sua prima produzione e dell’insegnamento finirono per attirare l’attenzione delle autorità austriache. Quando, nel 1833-34, si celebrò a Milano il processo contro gli adepti della Giovine Italia, alcuni dei quali risultavano suoi amici e compagni quotidiani, venne arrestato perché, secondo la Direzione di polizia di Milano, egli era uomo «pregiudicato nell’opinione pubblica per gli esaltati suoi principi» e per la «quasi mania nel liberalismo» (Della Peruta 1984, 1989, p. 115).
La marginale implicazione di Cantù nelle vicende della Giovine Italia non gli evitò il carcere dovuto probabilmente alle sue testarde deposizioni. Infatti, egli si dichiarava contrario alle congiure ordite dai democratici, ma anche profondamente avverso all’accentramento autoritario del governo austriaco. Scarcerato dopo undici mesi di detenzione e radiato, nel 1836, dall’insegnamento per risoluzione imperiale, Cantù, stretto dal bisogno, si dedicò all’unico mestiere cui si sentiva realmente portato, quello del letterato.
Eppure ciò non gli valse la tranquillità in patria. Alla vigilia delle Cinque giornate Cantù fu per essere arrestato a Milano e dovette espatriare a Torino. Rientrò per le Cinque giornate, scrisse molto ma non fu un leader né politico né ideologico. Caduta Milano, si rifugiò in Svizzera, ma questo nuovo esilio durò poco. Il rientro coincise con polemiche ancora più dure nei suoi confronti da parte dei patrioti in esilio. Polemiche, queste, non senza ragion d’essere, se è vero che Cantù assunse pubblicamente posizioni tutt’altro che ostili a Vienna, assunse cariche pubbliche (la segreteria dell’Istituto lombardo di scienze e lettere), criticò apertamente il governo piemontese, mostrò comprensione per il progetto di uno Stato autonomo affidato a Massimiliano. Eppure anche la tregua con l’autorità fu di breve durata. Varie opere storiche riaccesero la diffidenza governativa nei suoi confronti.
Data la sua storia politica, non poteva certo essere trionfale il suo approdo al Parlamento, avvenuto nel 1859. La sua elezione nel 1863 fu addirittura annullata e nel dibattito parlamentare non si esitò a definirlo papista, nemico della libertà, settario religioso e così via. Rieletto, dopo l’annullamento, fu deputato sino al 1867 e si distinse per la costante opposizione a provvedimenti che in qualche misura incidessero sulla posizione del clero e della Chiesa.
Cessato il mandato parlamentare, proprio per il successo e la notorietà delle sue opere che anche le voci a lui contrarie avevano contribuito ad amplificare, si sentiva in credito verso lo Stato che nel 1863 gli aveva rifiutato una cattedra a Bologna per l’insegnamento della storia moderna. E in effetti un qualche risarcimento e riconoscimento gli vennero nel 1873 con la nomina ministeriale a direttore dell’Archivio di Stato di Milano, istituzione e tematica quella degli archivi cui già anni prima Cantù aveva rivolto il proprio interesse, guadagnandosi per questo aspetto la stima di Giosue Carducci. L’anno successivo assunse anche la presidenza della Società storica lombarda.
Il suo lavoro per gli Archivi milanesi nel ventennio successivo fu intenso e meritorio. Unificò e riordinò archivi sparsi, curò egli stesso la pubblicazione di raccolte di documenti, fondò la rivista «Archivio storico lombardo» (1874). Continuò inoltre un’intensa attività di storico, letterato, pubblicista sino alla morte, avvenuta a Milano l’11 marzo 1895.
Testimonianza delle convinzioni romantico-liberali degli esordi sono alcune operette, per lo più in poesia, mai pubblicate in vita, traboccanti di passione patriottica e impegno civile, che altro non erano se non mere esercitazioni scolastiche. Tra le altre, Alarico sulle Alpi, poemetto epico, composto probabilmente nel 1822-1823 in cui esaltava la «bella Italia d’eroi feconda madre» e un ancora più ispirato componimento, La gioventù italiana, scritto nel 1825 (C. Cantù, Opere giovanili inedite, a cura di A. Bozzoli, 1968, pp. 51-52). Permeata di patriottismo appariva anche la prima opera pubblicata nel «Nuovo Ricoglitore» del 1827, Algiso o la Lega lombarda. Stranamente sfuggito alla censura austriaca, questo lavoro – una novella in ottave – trattava della lotta dei liberi Comuni lombardi contro Federico Barbarossa. Secondo «il metodo dell’allusione alle condizioni e alle prospettive del presente attraverso la rievocazione del passato» (Della Peruta 1984, 1989, p. 112), metodo comune a tutti gli scrittori di opposizione al regime austriaco del tempo, l’Algiso contrapponeva la libertà dell’Italia del tempo antico allo stato servile del tempo presente e invitava gli italiani alla concordia.
La passione e l’impegno civile di Cantù caratterizzarono anche la produzione storica degli anni giovanili. Scemando la vocazione poetica, egli volle dedicarsi alla storia «attenta alla vita del popolo e degli umili, manzonianamente intesi» (Bartesaghi, in Cesare Cantù e “l’età che fu sua”, 2006, p. 56). Nacque così, tra il 1829 e il 1831, la non originalissima Storia della città e diocesi di Como in due volumi e, nel 1832, il volume Sulla storia lombarda del secolo XVII. Ragionamenti per servire di commento ai Promessi sposi. In particolare, nella Storia lombarda Cantù individuava l’inizio della rinascita della «nazione italiana» nel periodo del declino della dominazione spagnola cui aveva fatto seguito, nel secolo successivo, e per tutto l’arco del Settecento, l’età del progresso predicato dagli illuministi.
Tra la Storia della città e diocesi di Como e i Ragionamenti, quasi a sottolineare il suo passaggio dall’attività poetica alla ricerca storica e a voler ribadire il suo impegno patriottico, Cantù diede alle stampe nel 1832 una «lettera» sul romanzo storico (Sul romanzo storico. Lettera di un romantico). Nella lettera dichiarava ancora una volta apertamente la sua adesione alle idealità romantiche, affermava la sua volontà di volgere la poesia a un compito civile, «deplorava l’alluvione di romanzi storici che stava sommergendo il paese e che giudicava inutili o nocivi per la diseducativa mescolanza di vero e di immaginario e sosteneva l’opportunità che gli intellettuali italiani si applicassero con perseveranza alla storia» (Della Peruta 1984, p. 113).
Idealità liberali e progressiste continuarono a essere al centro dei suoi scritti ancora per qualche tempo. Valga per tutti il romanzo storico Margherita Pusterla la cui prima stesura probabilmente risaliva all’inizio del 1835 quando era ancora in prigione. I frequenti riferimenti ai fatti politici d’Italia e in particolare l’allusivo riferimento alla persecuzione degli austriaci contro la Giovine Italia piacque molto a Giuseppe Mazzini.
Dopo Margherita Pusterla (che fu pubblicato nel 1838), il pensiero di Cantù andò progressivamente involvendo. Si ripiegò su posizioni sempre più moderate, accentuò l’ossequio alla dottrine tradizionali della Chiesa cattolica e all’autorità dei papi e cominciò a predicare, in modo via via più insistente, la conservazione sociale. La testimonianza di questa involuzione può essere ravvisata nell’articolo Della letteratura popolare pubblicato nel «Ricoglitore» del 1835. In esso Cantù non solo attaccava coloro che avevano cercato di scrivere per il popolo con trascuratezza, superficialità e ciarlataneria, ma anche i democratici e i mazziniani, rei di aver trascurato il tema della morale, della religione, della realtà.
Orgoglioso sostenitore di un ruolo nuovo che l’intellettuale era chiamato a svolgere nella società del tempo, Cantù fu ben conscio che, per poter esplicare questo ruolo fino in fondo, era necessario che il letterato, allontanato dalla vita e dalle cariche pubbliche che avrebbero potuto assicurargli una vita dignitosa, fosse comunque liberato dal «bisogno». La libertà dal bisogno, ovvero l’indipendenza economica, era l’unica in grado di dare all’uomo di cultura una vera libertà di giudizio. Tuttavia, non potendo più essere raggiunta attraverso la «benevolenza» e la protezione del mecenate (come era nei tempi più antichi) e del potere (come era accaduto nell’età napoleonica), non era conseguibile se non attraverso il lavoro dell’intellettuale in un contesto che lo potesse premiare. «Avvicinandoci sempre più alla condizione ove ogni uomo sia retribuito secondo l’opera, anche i letterati credono onoratissimo modo di guadagno l’uso del proprio ingegno» (C. Cantù, Condizione economica delle lettere, «Rivista europea. Nuova serie del Ricoglitore italiano e straniero», 1838, 7, pp. 35-59). Cantù, convinto di compiere un lavoro utile e di essere un vero educatore della nazione, capace insomma di «gettare fra i suoi concittadini splendide ed utili verità» fu, in effetti, uno dei primi intellettuali che seppero trarre profitto dal proprio lavoro. Anzi fu uno dei pochi uomini di lettere che seppe convertire «in attività professionale la propria condizione culturale» (Berengo 1980, p. 362).
In questo contesto, dedicò grande attenzione al problema della inadeguata tutela della proprietà letteraria, di cui egli fu spesso vittima, tra l’altro, con il romanzo Margherita Pusterla. Polemizzando aspramente con la tesi per cui il diritto d’autore svilirebbe le arti e le scienze e ostacolerebbe la diffusione del sapere, propugnava un riconoscimento uniforme della proprietà letteraria in tutti gli Stati italiani. Cantù fu così un importante testimone del movimento che portò alla Convenzione austro-piemontese del 1840 e quindi alla tutela della proprietà letteraria in tutta la penisola, a eccezione, con grandi proteste di Cantù stesso, del Regno di Napoli (Borghi 2003, pp. 47-54).
La necessità di vivere del proprio lavoro editoriale conferì un’importanza cruciale al suo rapporto con gli editori. In contatto con la maggior parte degli imprenditori della carta stampata dell’epoca (Giacomo Agnelli, Gaspero Barbera, Carlo Barbini, Natale Battezzati, Giuseppe Bernardoni, Nicolò Bettoni, Giuseppe Civelli, Ulrico Hoepli, Felice Le Monnier, Luigi Pedone Lauriel, Giuseppe Pomba, Francesco Sonzogno, Antonio Fortunato Stella, Emilio Treves, Antonio Vallardi per non citarne che alcuni pochi), collaborò con tutti accettando anche le commissioni più ingrate. Più di cento, tra l’altro, sono i marchi editoriali che contrassegnano le sue opere.
L’attività editoriale di Cantù non si limitò alla pur ricchissima produzione libraria. Intensa fu anche – nei più svariati campi – la sua attività di pubblicista. Egli collaborò infatti con le più prestigiose testate del suo tempo. Per es., prestò la sua opera agli «Annali universali di statistica», diretti dal 1829 da Gian Domenico Romagnosi, lavorando, pur nella diversità di ispirazione ideale con Carlo Cattaneo, Giuseppe e Defendente Sacchi, Cesare Correnti e Giuseppe Ferrari. Collaborò, a partire dal 1832, con l’«Antologia» di Giovan Pietro Vieusseux cui lo legava l’interesse per la storia. E scrisse soprattutto su due periodici: «Il nuovo ricoglitore» (1825-33), sostituito dal «Ricoglitore italiano e straniero. Rivista mensile europea di scienze, lettere, belle arti, bibliografie e varietà» (1834), confluito poi nella «Rivista europea» (1837). Per qualche tempo fu anche redattore delle due riviste e pubblicò una novantina di ‘pezzi’ tra recensioni, saggi, lettere di critica o di polemica occupandosi di vari argomenti.
Cantù volle interpretare il ruolo di intellettuale presente in tanti campi del sapere sulle varie tribune disponibili, facendosi pure fautore di un rinnovamento del linguaggio e dello stile, in contrapposizione a una letteratura «promossa da un’élite per nulla interessata a rendere pubbliche le proprie scoperte» (Albergoni 2006, p. 127). Anche questo mutamento di rotta, oltre che il diritto d’autore e l’eliminazione di vincoli legislativi, era un ingrediente per creare un ‘mercato’ in cui il letterato potesse guadagnare con le proprie forze.
Al crescente successo editoriale, all’impegno per una diffusione del libro e della cultura, date le posizioni ideologiche di stampo ultraclericale e conservatore, non corrispose certo una popolarità di Cantù tra gli intellettuali più liberali e avanzati della penisola (da un certo momento anche Alessandro Manzoni fu tra questi), dai quali fu sostanzialmente isolato. E con il progredire degli anni, nonostante la persistente diffusione delle sue opere, si formò l’opinione che Cantù avrebbe dovuto essere «sulla lista dei grandi che hanno da diventare piccini» (C. Dossi, Note azzurre, a cura di D. Isella, 2010, p. 406).
Tra i molti aspetti di una personalità polivalente e di una produzione vulcanica, quale quella di Cantù dall’inizio degli anni Trenta in poi, occupano un posto di rilievo, anche per la risonanza che ebbero tra i contemporanei, le opere a carattere pedagogico-educativo, una produzione che, da un lato, si inquadrava nel genere della letteratura popolare e di consumo, dall’altro, ben si raccordava alla ‘missione’ dell’intellettuale educatore che Cantù sosteneva con crescente convinzione e orgoglio.
Notissima è, in particolare, la trilogia Perseverando composta da tre opere (Il buon fanciullo, racconti di un maestro elementare; Il giovinetto drizzato alla bontà, al sapere, all’industria; Il galantuomo, libro di morale popolare) che presentò sin dal 1833 a un concorso bandito dalla Società fiorentina dell’istruzione elementare per un’opera originale italiana che servisse «di esercizio di lettura e d’istruzione iniziale per i fanciulli» e contemporaneamente sapesse diffondere «le cognizioni indispensabili al maggior numero di fanciulli italiani» (Colin, in Cesare Cantù e dintorni, 2007, p. 2).
Cantù non vinse e gli fu preferito, quando fu rinnovato il bando l’anno dopo, il celeberrimo Giannetto (1837) del rivale milanese Luigi Alessandro Parravicini (1799-1880). Cantù nonostante l’insuccesso, non abbandonò questo ambito, sia intervenendo a livello teorico sulla letteratura educativa sia pubblicando comunque nel 1837 la trilogia Perseverando che ebbe numerose edizioni. Quasi contemporaneamente (1836) diede alle stampe Carlambrogio da Montevecchia che intendeva essere il primo libro popolare italiano.
Cantù voleva diffondere un’educazione permeata in modo integrale da valori cattolici, rispettosa dell’ordine costituito, fondata sull’etica della laboriosità, ma anche della sopportazione serena e dell’umiltà. Se la trilogia Perseverando si rivolgeva ai giovani, Carlambrogio guardava a un pubblico più vasto e adottava la formula, che ritornerà alcuni decenni più tardi nel Portafoglio d’un operaio, del racconto esemplare delle esperienze, degli incontri, delle regole di comportamento di un uomo virtuoso, nella specie un mercante (Carlambrogio) di un piccolo centro della Brianza.
La corrispondenza dei «buoni sentimenti» a un prototipo di giovane e poi di uomo del popolo senza finalità eversive rendono bene conto di come le opere «educative» per la gioventù (alla trilogia Perseverando ne fecero seguito altre dagli anni Quaranta sino agli anni immediatamente successivi all’unificazione) prima dell’Unità ebbero diffusione nei vari Stati della penisola, assolutamente senza alcuna reazione delle varie censure. Questa filosofia educativa e le stesse caratteristiche letterarie di tali opere vennero aspramente criticate da Francesco De Sanctis che, se sul piano letterario giudicava fallimentare il tentativo di Cantù di dar vita al romanzo veramente popolare, sul piano dei contenuti lo bollava come esponente del peggiore moderatismo cattolico e quale alfiere di un «uomo di natura più pecorina che umana» (De Sanctis 1897, p. 255).
Non meno severamente, Croce lo qualificava, da un lato, mero «compilatore», dall’altro, «spirito vanitoso, iroso, puntiglioso, bisbetico» affetto da un «interiore guazzabuglio» (Croce 1930,p. 197).
Eppure, l’opera pedagogico-educativa di Cantù, dagli anni Trenta agli anni Sessanta, ricevette attenzione anche all’estero, in particolare in Francia, passando indenne attraverso la monarchia degli Orléans, il Secondo impero, la Terza repubblica. Dalla Francia la notorietà risalì all’Inghilterra.
Verso la fine degli anni Sessanta l’interesse di Cantù per la letteratura pedagogica educativa e, in generale, per la letteratura popolare prese una nuova direzione, che non osservava più, come negli anni Trenta, fanciulli e popoli (Paladini Musitelli, in Cesare Cantù e dintorni, 2007, pp. 47-48), ma guardava agli operai e, più in generale, al mondo della produzione sia industriale sia agricola. Di questo periodo sono Buon senso e buon cuore (1870) e soprattutto il fortunato Portafoglio d’un operaio (1871) cui fece seguito, nel 1876, Attenzione! Riflessi di un popolano. Lo schema del Portafoglio d’un operaio ricalca, in certa misura, quello di Carlambrogio da Montevecchia di trent’anni prima. È il racconto di un giovane operaio del Sud (l’Italia è unita) che sale al Nord e passa attraverso molte esperienze di lavoro nei luoghi più vari. Il pellegrinaggio dell’operaio Savino offre l’occasione per una serie di digressioni tecniche sulle varie attività produttive. Nel romanzo Cantù fa confluire il suo interesse per le scienze in quello per i rapporti umani nel mondo del lavoro, in un’epoca in cui il capitalismo liberale anche in Italia iniziava ad affermarsi.
Non è semplice individuare la ‘linea’ di Cantù che si rende conto dell’ineluttabilità del progresso, teme la disumanità di un liberismo eccessivo, paventa materialismo e socialismo (una delle figure più negative è proprio un libero pensatore che propugna tali valori nel singolare ruolo di direttore di fabbrica), tende spesso a rivalutare una presunta età dell’oro del mondo agricolo e municipale. A rivelare il mondo ideale cui Cantù guarda è l’epilogo del libro in cui entra in scena un imprenditore, che non a caso si chiama Pensabene, esempio di self made man che segue i canoni di laboriosità, onestà e altruismo. E il clou arriva con la descrizione di una visita dell’industriale Alessandro Rossi (1819-1898, cui è dedicato il libro) a Pensabene alla presenza dell’operaio Savino. Il modello che emerge «sta da un lato nella filantropia paternalistica del buon padrone, dall’altro nell’istruzione dell’operaio» (Paladini Musitelli, in Cesare Cantù e dintorni, 2007, p. 61), un’educazione lontana da politica e giornali. Il cerchio si chiude: si ritorna ai precetti degli scritti giovanili degli anni Trenta.
Il rapporto con Rossi, che fu collega parlamentare di Cantù, costituisce in effetti un nucleo ispiratore centrale di questa fase della sua produzione, tanto che parte della critica ipotizza una coscrittura del Portafoglio d’un operaio con Rossi o, comunque, una sua committenza. Gli ideali di Rossi, impegnato in quegli anni a consolidare la sua impresa laniera (che, divenuta società anonima, nel 1873 venne quotata alla Borsa di Milano), costituivano «un misto contradditorio di ideali borghesi capitalistici […] e di precetti solidaristici cattolici» (Castronovo 1980, p. 41). Una grande sintonia con la linea di Cantù, anche se il cattolicesimo di Rossi pare meno conservatore e più sociale.
Da sempre convinto assertore dell’importanza della storia quale elemento fondativo della coscienza nazionale e da sempre consapevole che il ruolo dello storico fosse determinante per la formazione della coscienza nazionale italiana, Cantù, nel 1837, accettò di buon grado la proposta dell’editore torinese Pomba, uno dei più grandi organizzatori culturali del tempo, di redigere una Storia universale che doveva diventare il lavoro della sua vita.
L’opera, che voleva essere di ampio respiro e di vasto impianto storiografico, aveva un unico obiettivo: «abbracciare in un’unica sintesi la storia di tutti i continenti» e rappresentare «l’umanità come una persona che vive e progredisce continuamente» (F. Cantù, in Cesare Cantù e dintorni, 2007, p. 202). Uscita dal 1838 al 1846 in diciotto volumi, cui se ne aggiunsero altri sedici con note e documenti che contenevano un guazzabuglio di informazioni (dai compendi sulla legislazione alla cronologia, dall’arte della guerra all’archeologia, dalla geografia alla letteratura, dalla filosofia alle religioni e alle biografie), si concludeva con un ultimo volume, il trentacinquesimo, contenente tavole e indici dei nomi. Preceduta da una formidabile campagna pubblicitaria, ma giudicata duramente dalla critica che attribuiva a molti contributi scarso fondamento scientifico, nessuna originalità (in qualche caso si parlava di plagio), idee reazionarie, non più solo neoguelfe, ma clericali e conservatrici, la Storia universale si rivelò una grandiosa operazione editoriale. Elevatissimi furono anche i guadagni che assicurarono all’autore una notevole agiatezza.
Alla Storia universale Cantù fece seguire altre varie opere di storia: il racconto storico dal tono decisamente anti austriacante, Ezelino da Romano, uscito nel 1852, i due compendi, Storia di cento anni (1851) e Storia degli Italiani (1854-1856), l’opera più interessante per originalità di ricerca e impostazione dei problemi, Eretici d’Italia (1865-1866) e infine, summa di tutto il suo pensiero politico, Dell’indipendenza d’Italia. Cronistoria, uscita dal 1872 al 1877.
L’attività politica, ormai istituzionale, negli anni Sessanta non impedì a Cantù di dare alle stampe anche opere di storia della letteratura greca e latina (1863-1864) e pure, riprendendo precedenti scritti, una Storia della letteratura italiana, edita nel 1865. Il filo conduttore è ben più che il giudizio estetico, quello etico, che divenne guida estetica alla quale il popolo dei lettori, che Cantù, con una prosa facile e a effetto, vorrebbe il più ampio, avrebbe dovuto attenersi.
Se nell’ultima parte della sua vita Cantù teorizzò, nel lavoro Gli archivi e la storia (1873), il ruolo fondamentale che la ricerca archivistica doveva occupare nell’ambito delle scienze storiche, ciò non significò affatto una sua apertura nel trattare di storia. Il clericalismo ispira, si è visto, l’opera storica della vecchiaia (Dell’indipendenza d’Italia. Cronistoria) e, come ricorda Marino Berengo (1975, p. 343), il rimpianto per l’autorità anzitutto morale, che riteneva oramai definitivamente destinata a scemare, della Chiesa fu, sino alla vigilia della morte, un pilastro del suo pensiero.
Algiso o la Lega lombarda, Como 1827.
Storia della città e diocesi di Como, 2 voll., Como 1829-1831.
Sul romanzo storico. Lettera di un romantico, Como 1832.
Sulla storia lombarda del secolo XVII. Ragionamenti per servire di commento ai Promessi sposi, Milano 1832.
Carlambrogio da Montevecchia, Milano 1836.
Il galantuomo, Milano 1837.
Il buon fanciullo, Milano 1837.
Il giovinetto drizzato alla bontà, al sapere, all’industria, Milano 1837.
Margherita Pusterla, Milano 1838.
Storia universale,35 voll., Torino 1838-1846.
Storia di cento anni, Firenze 1851.
Ezelino da Romano, Torino 1852.
L’abate Parini e la Lombardia nel secolo passato: studi, Milano 1854.
Storia degli Italiani, Torino 1854-1856.
Storia della letteratura italiana, Firenze 1865.
Eretici d’Italia, 3 voll., Torino 1865-1866.
Buon senso e buon cuore, Milano 1870.
Portafoglio d’un operaio, Milano 1871.
Gli archivi e la storia, Firenze 1873.
Attenzione! Riflessi di un popolano, Milano 1876.
F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX, Napoli 1897.
B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 1° vol., Bari 1930.
M. Berengo, Cesare Cantù scrittore autobiografico, «Rivista storica italiana», 1970, 82, pp. 714-35.
F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista, Milano 1970.
M. Berengo, Cantù Cesare, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 18° vol., Roma 1975, ad vocem.
M. Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino 1980, p. 4.
V. Castronovo, L’industria italiana dall’Ottocento ad oggi, Milano 1980.
F. Della Peruta, Cesare Cantù e il mondo popolare, «Storia in Lombardia», 1984, 2, pp. 5-38, poi in Id., Conservatori, liberali e democratici nel Risorgimento, Milano 1989.
M. Borghi, La manifattura del pensiero. Diritti d’autore e mercato delle lettere in Italia (1801-1865), Milano 2003.
N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Brescia 2002.
G. Albergoni, I mestieri delle lettere tra istituzioni e mercato. Vivere e scrivere a Milano nella prima metà dell’Ottocento, Milano 2006.
M.I. Palazzolo, “Scrivendo in paese libero”. Cantù e la Congregazione dell’Indice, «Passato e presente», 2006, 68, pp. 61-85.
Cesare Cantù e “l’età che fu sua”, Atti dei convegni, Brivio, Milano, Varenna 2005, a cura di M. Bologna, S. Morgana, Milano 2006 (in partic. P. Bartesaghi, Cesare Cantù e Giampietro Viesseux: due “moderati” laboriosissimi”, pp. 49-97; F. Cantù, “America” e “Spagna” nella “Storia universale”, pp. 201-19).
Cesare Cantù e dintorni, Atti del convegno, Bergamo 2006, a cura di M. Dillon Wanke, L. Bani, Milano 2007 (in partic. M. Colin, L’opera pedagogica di Cesare Cantù in Francia. Tradizione e ricezione, pp. 1-19; M. Paladini Musitelli, “Il portafoglio di un operaio” e la questione dello sviluppo industriale. Note e riflessioni, pp. 45-63).