Abstract
Nel contributo si analizza il regime fiscale della principale operazione di ordine realizzativo prevista dall’ordinamento. L’analisi verte in particolare modo sulla ipotesi della compravendita di azienda a fronte della quale, ai fini dell’imposizione sui redditi, il cedente realizza un componente di reddito imponibile e, in maniera simmetrica, il cessionario attribuisce al compendio acquisito un valore fiscalmente riconosciuto pari al prezzo dovuto. Ci si sofferma poi sulla disciplina dell’imposta di registro la quale, oltre ad essere incentrata sulla nozione di valore piuttosto che su quella di prezzo, presenta caratteristiche peculiari che rendono la cessione di azienda un’operazione meritevole di autonoma attenzione.
Nel novero di quelle tradizionalmente definite quali operazioni straordinarie d’impresa la cessione di azienda costituisce la paradigmatica operazione sui beni la quale, non risolvendosi in una modificazione del contratto di società (al contrario delle cosiddette operazioni sui soggetti) ma nella mera disposizione di un bene d’impresa (pur complesso quale è, indubbiamente, l’azienda), ha conseguenze di ordine realizzativo al pari di tutti i contratti di compravendita. Invero, alla nozione atipica di cessione si è soliti ricondurre anche altri atti di natura dispositiva (come, ad esempio, quelli traslativi di diritti reali di godimento ovvero la destinazione a finalità estranee all’esercizio d’impresa o l’assegnazione al socio) a cui l’ordinamento attribuisce identiche conseguenze di ordine realizzativo (in contrapposizione alla neutralità che caratterizza le menzionate operazioni sui soggetti quali fusione, scissione e trasformazione). Per ragioni di semplicità espositiva (ed anche per ragioni di frequenza applicativa), tuttavia, in questa sede si descrive la disciplina della cessione di azienda avuto riguardo principalmente allo schema del contratto di compravendita a cui è lecito riferirsi anche per gli altri atti equiparati quoad effectum dall’art. 9, co. 5, del t.u.i.r. ovvero per gli ulteriori negozi (onerosi) che comportano realizzazione, in quanto idonei ad incidere sulla determinazione dell’imponibile del soggetto d’imposta che li ponga in essere. V’è, peraltro, da evidenziare che proprio la natura realizzativa della cessione di azienda per il contribuente dante causa trova il proprio corrispondente nella sfera soggettiva dell’avente causa dell’operazione. Come, infatti, il cedente dell’azienda realizza un componente reddituale che incide sulla determinazione del proprio imponibile, così il cessionario (in ragione di una sorta di effetto simmetrico) è legittimato ad attribuire piena rilevanza fiscale al corrispettivo pagato; egli è cioè facoltizzato ad immettere nel proprio ciclo d’impresa il compendio aziendale valorizzandolo ad un quantum corrispondente al prezzo corrisposto (laddove, per converso, nelle operazioni sui soggetti, proprio in ragione della natura non modificativa e perciò neutrale dell’operazione, l’azienda transita dal dante causa all’avente causa senza alcuna alterazione del valore fiscale della stessa e ciò indipendentemente dalle modalità di rappresentazione contabile dell’operazione medesima).
Appurata la natura realizzativa della cessione a titolo oneroso di azienda va posto in luce come ai fini dell’imposizione sui redditi non sia ravvisabile nel t.u.i.r. una disposizione dedicata in esclusiva a questa tipologia di operazione. Essendo il sistema di tassazione dei redditi incentrato sul corrispettivo negoziale (in contrapposizione, ad esempio, a quanto previsto dalla disciplina del tributo di registro che identifica l’imponibile con il valore venale dell’oggetto compravenduto) ciò che viene realizzato dal cedente rappresenta una plusvalenza (artt. 58-86 del t.u.i.r.) o una minusvalenza (artt. 58, co. 2 e 101 del t.u.i.r.) che si quantifica quale differenza algebrica fra il prezzo pattuito inter partes, da un lato, ed il valore fiscalmente riconosciuto del compendio aziendale, dall’altro lato. Per quanto riguarda l’IRAP, invece, l’operazione è irrilevante in quanto i componenti derivanti dal trasferimento di azienda sono esclusi dalla base imponibile perché di natura straordinaria (e ciò ancorché l’attuale disciplina del bilancio non preveda più una porzione destinata ad accogliere il risultato della gestione straordinaria e sia stata abrogata la previsione già contenuta all’art. 11, co. 3, del d.lgs. 15.12.1997, n. 446 che escludeva ex professo dall’imponibile IRAP i componenti di reddito scaturenti dai trasferimenti di azienda). Va precisato come la natura composita dell’azienda non si rifletta sulle modalità di determinazione del componente di reddito derivante dall’alienazione. La plusvalenza o minusvalenza, infatti, risulta unica perché determinata avuto riguardo alla contrapposizione fra il prezzo (che è unitario) ed il costo fiscale riconosciuto delle attività e passività che compongono l’azienda (passività di cui il cessionario acquisisce la titolarità in ragione di un accollo cumulativo ex lege prescritto dall’art. 2560 c.c.). La circostanza che, per più motivazioni, il valore fiscale degli elementi patrimoniali inclusi nel perimetro aziendale possa non risultare coincidente con l’espressione contabile degli stessi (basti pensare ad un’immobilizzazione integralmente svalutata dal cedente – e quindi sprovvista di una propria espressione contabile – ma tuttora in fase di ammortamento a fini fiscali o ancora ad un fondo rischi risultante in contabilità ma non dedotto ai sensi dell’art. 107, co. 4, del t.u.i.r.) fa sì che il cedente debba porre particolare attenzione alla corretta identificazione del costo fiscale riconosciuto dell’azienda da contrapporre alla grandezza prezzo. È solo il valore (unitario) di matrice fiscale riferibile all’azienda ceduta (e non, pertanto, l’espressione contabile della stessa) che assume rilievo. Ciò sta a significare che è statisticamente infrequente che il componente di reddito contabilizzato in esito all’operazione assuma tel quel rilievo anche fiscale in capo al cedente essendo, invece, quest’ultimo sovente tenuto a correggere ai fini dell’imposizione sui redditi la plusvalenza/minusvalenza contabilizzata in esito all’operazione. La menzionata natura simmetrica della cessione di azienda comporta, per quanto evidenziato, che il cessionario acquisisca il compendio per un (nuovo) valore fiscalmente riconosciuto che corrisponde al prezzo pagato (una grandezza che, nella sfera giuridica del cessionario, acquista rilievo anche a fini IRAP ancorché – come rappresentato – il cedente non realizzi invece né una plusvalenza né una minusvalenza ai fini di tale tributo). Dato il richiamato assetto unitario dell’azienda, l’acquirente è tenuto a ripartire detta grandezza (id est il corrispettivo) su tutti gli elementi patrimoniali che compongono il compendio aziendale i quali, per l’effetto, acquisiscono un valore fiscale riconosciuto pari a quello di prima iscrizione in contabilità. È doveroso precisare come il cessionario dell’azienda, fermo restando il limite massimo iscrivibile quale costo fiscale del compendio (limite pecuniario rappresentato dal prezzo corrisposto), non è obbligato a replicare nella propria contabilità né la totalità degli elementi patrimoniali acquisiti né la valorizzazione degli stessi come risultante dall’ultima situazione contabile predisposta dal cedente. Ne consegue che, pur nel limite massimo rappresentato dal menzionato prezzo di acquisto, l’acquirente è sostanzialmente libero di allocare tale quantum fra le attività e le passività acquisite per effetto dell’operazione. Resta inteso che tale discrezionalità non deve tradursi in un censurabile arbitrio, essendo perciò necessario che la condotta del cessionario al riguardo sia ispirata a criteri di ragionevolezza e sia (possibilmente) supportata da adeguata documentazione probatoria. Ove ciò non si verifichi (perché, ad esempio, l’avente causa – in antitesi ad una logica economica ed aziendale – imputa la maggior parte del corrispettivo ad elementi dell’attivo circolante al fine di spendere con più immediatezza il valore fiscale riconosciuto dell’azienda acquisita) l’Amministrazione finanziaria, nel normale esercizio dei propri poteri accertativi, è legittimata a disconoscere la valutazione operata dal contribuente. Ciò posto va evidenziato che tanto nella prospettiva del cedente quanto in quella del cessionario gli elementi significativi sono esclusivamente il prezzo pattuito ed il costo fiscale riconosciuto del compendio aziendale ed è a queste grandezze che occorre fare riferimento in un’ottica fiscale indipendentemente dalle modalità di contabilizzazione dell’operazione che possono essere anche eterogenee. Nella dinamica tipica dei soggetti che fanno riferimento agli standard contabili internazionali, infatti, si possono verificare delle situazioni cui l’operazione è realizzata in cosiddetta continuità di valori ossia con il subentro del cessionario nei medesimi valori caratterizzanti la contabilità del cedente (si tratta delle cosiddette transactions under common control le quali non prevedono la contabilizzazione di componenti di reddito da parte del cedente e non consentono al cessionario di iscrivere il compendio per il prezzo effettivamente pattuito). Ebbene, in base a quanto previsto, dall’art. 4, co. 3, del d.m. 1.4.2009, n. 48 (secondo cui «per le operazioni di cessione di azienda ovvero di partecipazioni rileva il regime fiscale disposto dal testo unico, anche ove dalla rappresentazione in bilancio non emergano i relativi componenti positivi e negativi o attività e passività fiscalmente rilevanti») in siffatta eventualità il dato contabile diviene del tutto recessivo e le conseguenze fiscali dell’operazione sono determinate solo avuto riguardo alla grandezza prezzo ed a prescindere dalle risultanze contabili (le quali, presupponendo una valorizzazione immutata del compendio non permettono l’emersione contabile di componenti di reddito né di nuove attività e passività).
In termini di toponomastica normativa la disciplina della cessione di azienda è, come anticipato, parcellizzata. In realtà, una volta che si sia determinata la natura del componente reddituale derivante dall’operazione (plusvalenza versus minusvalenza) l’assetto è sufficientemente semplice. In caso di contabilizzazione di una minusvalenza la stessa concorrerà (in minus) in maniera ordinaria alla determinazione dell’imponibile. Nell’ipotesi in cui l’operazione generi una plusvalenza – ferma restando l’impossibilità di ricorrere a forme di tassazione sostitutiva come, invece, pure previsto nel passato – il contribuente ha facoltà optare per il concorso a tassazione frazionata in cinque periodi d’imposta (il che implica una mera agevolazione di ordine finanziario atteso che il quantum assoggettato a tassazione ordinaria non subisce alcuna decurtazione nel suo complesso). Condizione necessaria affinché possa operare (in via opzionale) il regime di rateizzazione della plusvalenza è che, al pari di quanto previsto per le immobilizzazioni (un genere di cui l’azienda può ritenersi una species), il compendio aziendale ceduto sia stato detenuto dal dante causa per un periodo superiore a tre anni (e ciò lascia emergere la ratio sottesa allo specifico istituto che è quella di apprezzare, in maniera differente, le plusvalenze maturate sotto il profilo economico in un arco temporale ritenuto sufficientemente lungo). Il regime opzionale di tassazione frazionata è precluso al contribuente persona fisica che ceda la propria unica azienda e tale circostanza appare logica ove si apprezzi il fatto che, in ragione dell’alienazione del compendio, il cedente dismette il proprio status di titolare di reddito d’impresa e, pertanto, non avrebbe modo di fare concorrere a tassazione (nell’ambito di tale categoria reddituale) le quote di plusvalenza oggetto di frazionamento. Al contribuente persona fisica che alieni un compendio ex art. 2555 c.c., tuttavia, è consentito optare per la tassazione separata dell’eventuale plusvalenza conseguita in esito alla cessione a condizione che l’azienda ceduta sia detenuta da più di un quinquennio. In tale eventualità (prevista dall’art. 17, co. 2, del t.u.i.r.) le modalità tecniche con cui la plusvalenza è assoggetta a tassazione sono quelle fissate dall’art. 21 del t.u.i.r. in forza del quale si applica l’aliquota media corrispondente alla metà del reddito complessivo netto riferibile al biennio anteriore a quello di intervenuta cessione (ed anche nell’occasione traspare la ratio – sostanzialmente analoga a quella del regime di tassazione frazionata di cui all’art. 86, comma 4, del t.u.i.r. – del trattamento speciale riservato agli atti di realizzo di plusvalenza maturate lungo un arco poliennale).
Si è detto che l’ordinamento tributario – quanto agli effetti di realizzazione –tende ad assimilare allo schema della compravendita anche ulteriori negozi giuridici a titolo oneroso fra cui quelli ai quali sono comunque connessi effetti reali o traslativi di diritti reali di godimento. In tale prospettiva, quindi, anche il contratto di permuta – al pari della compravendita – è idoneo a generare componenti di reddito rilevanti ai fini delle imposte sui redditi. In questa eventualità, in carenza di una controprestazione di ordine pecuniario, l’eventuale plusvalenza/minusvalenza è determinata previo confronto fra il costo fiscale del compendio trasferito, da un lato, ed il valore normale del bene ricevuto in permuta, dall’altro lato. A tale regola fa, tuttavia, eccezione l’ipotesi (considerata dall’ultimo periodo di cui all’art. 86, co. 2, del t.u.i.r.) in cui, quale corrispettivo per il trasferimento della azienda, vengono acquisiti beni ammortizzabili (o un differente compendio aziendale) e sia traslato sugli stessi in sede di prima iscrizione in bilancio l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto del complesso ceduto. In siffatta eventualità infatti – in una prospettiva di natura agevolativa e soprattutto tenuto conto del roll over (ossia della non modificazione) dell’ultimo valore fiscale dell’azienda (traslato tel quel su quanto ricevuto in permuta) – il cedente non realizza alcun componente di reddito (fatto salvo l’eventuale rilievo del conguaglio pecuniario ove previsto). Analogo effetto neutrale, peraltro, si determina nell’ipotesi di trasferimento non oneroso dell’azienda (per causa di morte ovvero atto gratuito) da parte dell’imprenditore individuale. In tal caso, infatti, il dante causa (ossia l’imprenditore individuale) non realizza alcun componente rilevante ai fini dell’imposizione sui redditi ed in maniera simmetrica il soggetto avente causa del negozio subentra nell’ultimo valore fiscalmente riconosciuto del compendio. L’equilibrio ricercato dalla specifica disposizione è palese: l’immodificabilità dei valori fiscali non cagiona pregiudizio per l’Erario e, al tempo stesso, la neutralità per il dante causa esclude che il passaggio generazionale dell’azienda (mortis causa o per atto gratuito) sia gravato da una sorta di penalizzazione fiscale (per di più incidente su plusvalori non concretamente realizzati sotto il profilo finanziario).
Va in primo luogo posto in luce che la cessione di azienda è un atto assoggettato in ogni caso a registrazione in termine fisso (e soggetto a tributo di registro perché escluso dal campo di applicazione dell’IVA (imposta sul valore aggiunto) entro 20 giorni dalla conclusione dello stesso nell’ipotesi in cui il compendio sia localizzato in Italia (e ciò quand’anche i contraenti siano contribuenti ivi non residenti come sancito dall’art. 3, co. 1, lett. b del d.P.R. n. 131/1986). Per quanto anticipato, nella prospettiva dell’imposta di registro ed in antitesi alla disciplina in tema di imposte dirette ed IRAP, ciò che assume rilievo ai fini della determinazione dell’imponibile è il valore venale del compendio aziendale oggetto di trasferimento piuttosto che il corrispettivo negozialmente pattuito (ancorché la grandezza prezzo – in assenza di condizioni tali da incidere sulla libera determinazione delle parti – sia da apprezzare come un dato numerico in grado di approssimare il valore in condizioni di libera concorrenza). Il valore, pertanto, è un quid che non solo non è necessariamente sovrapponibile (almeno in termini concettuali) al prezzo di cessione ma non coincide neanche con la consistenza patrimoniale netta dell’azienda trasferita (rappresentata dalla differenza algebrica fra le attività e passività contabili ricomprese nel perimetro dell’azienda). Ai fini della stima del valore, infatti, occorre tenere conto anche di quella intrinseca qualità immateriale dei compendi ex art. 2555 c.c. (una qualità che non ha una propria espressione quantitativa e perciò non incide sulla consistenza patrimoniale contabile dell’azienda) rappresentata dall’avviamento (vale a dire dalla capacità di sovraperformare in termini reddituali denominata anche goodwill) cosiddetto originario (ossia sviluppato in maniera endogena e non acquisito a titolo oneroso per effetto di un’operazione con terzi come avviene, invece, per il cessionario il quale, ove corrisponda un prezzo per tale capacità sovrareddituale, è legittimato ad imputare a tale titolo una porzione del corrispettivo attribuendo così per la prima volta espressione contabile al goodwill). Peraltro, ancorché non si tratti tecnicamente di una passività preiscritta e quindi non esplicitamente menzionata dall’art. 51, co. 4, d.P.R. n. 131/1986 (in quanto, come detto, proprio perché grandezza originaria è sprovvista di una propria espressione contabile in capo al cedente), va considerato che l’avviamento può assumere anche una valenza negativa (eventualità designata nella prassi con il termine badwill) deprimendo così il valore del compendio e riducendolo al di sotto della sua espressione contabile (sull’esigenza di considerare, ai fini del tributo di registro, il badwill quale componente negativa dell’imponibile del tributo di registro, da ultimo, cfr. Cass., sez. trib., 17.1.2018, n. 979). Apprezzato, quindi, che l’imponibile della tassazione di registro è rappresentato dal valore dell’azienda il quale è concettualmente differente tanto dalla consistenza contabile netta del compendio quanto (almeno in astratto) dal prezzo di compravendita (che potrebbe essere influenzato da peculiari condizioni di negoziazione) va precisato che la prassi accertativa (avallata dalla giurisprudenza di legittimità) secondo cui l’eventuale accertamento di un maggiore valore del compendio ai fini del tributo di registro (rispetto al prezzo pattuito in via negoziale) consentiva una automatica rettifica del componente reddituale realizzato dal cedente (per effetto di una sorta di allineamento del prezzo inferiore al superiore maggiore valore accertato) costituisce una condotta ormai non più praticabile (alla luce dell’introduzione della norma tale per cui «Gli articoli 58,68,85 e 86 del testo unico delle imposte sui redditi, (..) e gli articoli 5,5-bis. 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l'esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347» cfr. art. 5, co. 3, d.lgs. 30.10.2015, n. 174). La evidenziata natura composita (vale a dire determinata dalla giustapposizione di elementi patrimoniali attivi e passivi) dell’azienda è altresì presa esplicitamente in considerazione dall’art. 51, co. 4, del d.P.R. n. 131/1986 il quale – in deroga alla previsione ordinaria secondo cui l’accollo di debiti costituisce una forma di pagamento del prezzo (e perciò non decrementa il valore del bene alienato) – prescrive che in sede di determinazione dell’imponibile di riferimento l’espressione contabile delle passività trasferite al cessionario debba decurtare (previa imputazione proporzionale) il valore delle corrispondenti attività. È a tale risultato netto, quindi, che va poi aggiunto il valore della grandezza avviamento o dell’eventuale badwill. La composizione eterogenea dei complessi aziendali comporta, peraltro, l’esigenza di apprezzare anche la previsione di cui all’art. 23, co. 1, d.P.R. n. 131/1986. Poiché, infatti, il tributo di registro è applicato con differenti aliquote a seconda della natura dei beni oggetto di trasferimento, tale disposizione sancisce che nell’ipotesi in cui i contraenti non valorizzino distintamente i singoli beni trova applicazione l’aliquota individuale più elevata fra quelle applicabili ai beni oggetto di trasferimento. Allo scopo di evitare la liquidazione di un maggiore tributo di registro rispetto a quello altrimenti conseguibile, perciò, i contraenti sono soliti segmentare il corrispettivo pattuito così da fare in modo che per ciascuna delle attività trasferite trovi applicazione l’aliquota sua propria prevista in via normativa.
Fonti normative
Artt. 23, co. 1 e 51, co. 4, d.P.R. 26.4.1986, n. 131; Art. 86 d.P.R. 22.12.1986, n. 917; d.lgs. 15.12.1997, n. 446; d.m. 1.4.2009, n. 48.
Bibliografia essenziale
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