Chiesa e società
Tradizione, autocoscienza storica e mito
È sempre operazione complessa introdurre nell'esposizione storica cesure e scansioni cronologiche ma ciò è particolarmente vero per la storia della Chiesa: le istituzioni ecclesiastiche e la vita di pietà sono per eccellenza storie di lunga durata nelle quali il passare delle generazioni produce mutamenti impercettibili che soltanto nella lunga distanza acquistano il senso del movimento. Mentre all'interno della stessa vita religiosa l'irrompere dell'eresia può rivelare scansioni più precise, sottolineate anche dai provvedimenti repressivi, più difficile è scrutare l'evoluzione della vita interna della Chiesa veneziana nella quale le indubbie novità affondano in un terreno stratificato durante i secoli nelle strutture e nella quotidianità dei sentimenti e dei comportamenti devoti. Punto di partenza dovrebbe essere un ingrandimento, limitato al territorio veneto, del paesaggio dell'Europa cristiana così efficacemente descritto da Le Bras (1). Il campanile, la chiesa, il villaggio, la parrocchia come elementi base di una costruzione ad un tempo religiosa e civile che si allarga per aloni successivi alle città con le loro cattedrali e istituzioni politiche, ecclesiastiche e culturali, alla capitale vista come centro di un potere immenso e misterioso, dai contorni indefiniti e - ancora più lontano - a Roma dove nella tradizione universale e nell'esercizio dell'autorità pontificia il potere umano viene percepito come confinante con il potere celeste e divino. È la chiesa che con i suoi santi protettori, con le sue reliquie ha fatto crescere la comunità di villaggio e sorregge anche le più complesse strutture urbane in simbiosi con le strutture sociali e politiche: con la liturgia e il culto, l'amministrazione dei sacramenti, il ricordo dei morti nella comunione dei santi, le organizzazioni devozionali e caritative. Questa immagine, come fotografia da satellite, appare già nitida all'inizio della nostra epoca ed è destinata a durare anche nei secoli seguenti, ma se avviciniamo maggiormente l'obiettivo possiamo osservare meglio le peculiarità del panorama religioso veneto ed essere così in grado di meglio cogliere il movimento, la dinamica che qui ci interessa: alla fine del periodo qui considerato nulla sarà più come prima pur nella continuità del quadro generale. Senza voler richiamare qui l'eredità storica della Chiesa veneziana e rinviando per un approfondimento ad un precedente saggio (2) si può dire in sintesi che anche per quanto riguarda la vita della Chiesa di Venezia il panorama viene perdendo certe sue peculiarità e diversità nei riguardi del mondo circostante: sempre meno un punto d'incontro e di mediazione tra Oriente e Occidente, con le sacre isole della laguna come baricentro tra mondi diversi, ma sempre più luogo solidamente innestato all'interno di un sistema ecclesiastico e politico italiano ed europeo. Questo passaggio, che era già venuto delineandosi durante il secolo XV e i primi decenni del XVI trova nel secolo qui esaminato la sua definitiva maturazione.
Anzitutto nella Repubblica scompare poco a poco l'identità di Stato-Chiesa nella quale politica e religione si identificavano in una sacralità che permeava in modo totale le strutture civili come quelle ecclesiali, nella vita pubblica e nella coscienza dei singoli: rimasta estranea, almeno in parte, al processo storico che con la riforma gregoriana e la lotta delle investiture aveva trasformato in tutto l'Occidente europeo il rapporto Stato-Chiesa in senso dualistico, essa aveva mantenuto per secoli uno statuto del tutto particolare che in San Marco, nella liturgia, nella figura del doge e in tutta la vita collettiva trovava le sue manifestazioni. A partire dal secolo XV si era aperto un processo storico di dissociazione che, sotto la spinta delle nuove situazioni politiche ed ecclesiastiche, porta a una frattura all'interno del corpo sociale veneziano. Come in campo politico così anche per le istituzioni ecclesiastiche il punto di partenza di questa trasformazione va ricercato nella conquista della Terraferma: la necessità del governo di mettere a capo delle diocesi e delle prelature più importanti del Dominio uomini di sua fiducia e d'altra parte la caccia che le famiglie patrizie cominciano a dare alle pingui e tranquille rendite ecclesiastiche di Terraferma mutano radicalmente il sistema ecclesiastico e i rapporti tra Venezia e il papato. L'inserimento della Serenissima nel sistema politico e territoriale europeo impone, in particolare nelle relazioni con Roma, la prevalenza dei motivi politici (libertà ed equilibrio d'Italia, pericolo turco, navigazione dell'Adriatico, problemi territoriali e di confine) su quelli religiosi. Per ricordare solo il fatto più eclatante, la Repubblica è costretta ad accettare, con la capitolazione imposta da Giulio II dopo la sconfitta di Agnadello, la rinunzia all'appello al concilio e all'imposizione di tributi agli ecclesiastici, la libera collazione da parte del papa dei benefici vacanti nei territori veneti. Nel periodo qui esaminato il processo procederà inarrestabile e sarà accelerato sotto la spinta della lotta contro l'eresia, del Concilio di Trento e della controriforma romana tutta tesa ad affermare l'uniformità e la centralizzazione: Roma tende ad affievolire la figura sacrale del doge e l'importanza della liturgia marciana; il papato rivendica la nomina del patriarca lasciando alla Repubblica il diritto di proposta come concessione di giuspatronato; finito il rito patriarchino già con il trasferimento della sede del patriarcato a Venezia, la devozione pubblica si evolve poi con la diffusione del culto dei nuovi santi della riforma cattolica e della controriforma. Il sistema di conferimento dei vescovadi e dei benefici maggiori del Dominio si adegua, nonostante la prassi delle probae in senato, a quello vigente in tutto l'Occidente cattolico con il costume di trattare i benefici ecclesiastici come patrimoni di famiglia, con trasmissione da un membro all'altro delle casate patrizie (mediante gli strumenti forniti dal diritto canonico: aspettative, resignazioni, composizioni con la Curia romana) e finisce per contagiare anche l'ordinamento interno del clero cittadino di Venezia; l'espansione dei nuovi ordini religiosi, che vengono dall'esterno ed esterni rimangono nonostante le radici profonde che mettono in terra veneta, completa il quadro di integrazione.
Riprenderemo nella nostra esposizione alcuni spunti di questi sviluppi quali possiamo cogliere allo stato attuale degli studi: per ora cerchiamo di definire il passaggio che avviene indubbiamente intorno al 1530, nostro punto di partenza. Sul piano della grande politica la diminuzione del prestigio e del potere del papato per le vicende politiche legate al sacco di Roma del 1527 si ripercuote anche nell'ambito ecclesiastico: Venezia diviene uno dei protagonisti, anche per l'opera dell'ambasciatore Gasparo Contarini, dei negoziati tra papa ed imperatore del 1529-30 e della pace di Bologna che ne costituisce la conclusione. In questa situazione l'avvenimento più importante sembra essere per la vita della Chiesa veneziana il consolidamento, con la cosiddetta "Bolla Clementina", del diritto di giuspatronato da parte dei parrocchiani sulle proprie chiese: confermata più volte nei decenni successivi l'applicazione della bolla sarà controllata da un'apposita magistratura statale e rimarrà uno dei punti forti della peculiarità del clero veneziano non soltanto per la sopravvivenza (eccezionale rispetto al resto d'Italia) dell'elezione dei parroci da parte del popolo dimorante nelle parrocchie, ma anche per la possibilità data ai giovani di povera condizione di inserirsi al servizio della Chiesa e di elevare quindi la propria condizione sociale senza possedere un beneficio o un patrimonio personale (3).
Il sistema di elezione dal basso dei pievani e degli altri titolari di uffici ecclesiastici cittadini, un tempo punto di forza della tradizione veneziana, sembra però costituire ora, all'atto della solenne conferma papale, soltanto un eccezionale privilegio elargito ai cittadini della Dominante in funzione del mantenimento di un complesso equilibrio sociale: il sistema operante in tutta la Terraferma appare dominato dagli appetiti e dagli interessi delle grandi famiglie di Venezia e delle città soggette con la mediazione degli ordinari diocesani e della Curia romana. Anche nella città stessa di Venezia la persistenza del sistema elettorale per l'elezione dei pievani innesca proprio intorno al 1530 una controversia tra il governo della Serenissima e il patriarca, che intende far valere la propria autorità nelle nomine: il patriarca Gerolamo Querini (1524-54), domenicano, è sconfitto e vivrà ai margini o lontano da Venezia gli ultimi anni della sua vita, ma è la figura stessa del patriarca in quanto tale che viene notevolmente indebolita, in contraddizione con la stessa tradizione che lo voleva eletto dal senato come espressione dell'intera classe dirigente cittadina.
Così, al livello dei benefici maggiori, dei vescovadi, si attua un notevole recupero, rispetto alle rinunce da essa dovute subire dopo la sconfitta di Agnadello, del potere di nomina della Serenissima: i grandi vescovadi di Terraferma sono distribuiti completamente, con l'accordo della Curia romana, tra i membri delle grandi famiglie patrizie, salvo qualche rara eccezione come l'attribuzione del vescovado di Verona a Giovan Matteo Giberti datario di Clemente VII e in certo modo garante della amicizia tra Venezia e il papato. Questo recupero dei vescovadi da parte dei "domini" sembra però sempre più legato a motivi politici che non alle radici sacrali della Chiesa di S. Marco, per il mantenimento della fedeltà politica delle città nelle guerre contro i nemici esterni e nelle lotte interne di fazione, secondo quanto già elaborato da Domenico Morosini nel suo De bene instituta re publica: perché in tempo di assedi e di difficoltà "horum auctoritas multum potest. Siquidem ad episcopos, ad praelatos in angustiis urbis fit concursus populorum, et propter divinorum tractationem magna eis fides adhibetur" (4). Anche se formalmente il diritto di nomina o presentazione dei vescovi non sarà più riconosciuto alla Repubblica si può dire che si instaura a partire dal pontificato di Clemente VII un compromesso di fatto per il quale i vescovi delle grandi diocesi del Dominio di Terraferma sono scelti quasi sempre tra i patrizi veneziani: le controversie verteranno sempre più sulle scelte degli uomini, nella rivalità delle grandi famiglie, in assonanza con il quadro che si sta affermando in tutti gli Stati cattolici con l'estendersi delle politiche concordatarie.
Non abbiamo un vero e proprio patto concordatario tra la Serenissima e il papato ma l'alternarsi di una serie di aggiustamenti a periodi di tensione in relazione alla situazione politica generale e al rapporto di forza: certo è che la presenza dei nunzi pontifici, sviluppata a Venezia come nelle altre grandi capitali nei decenni precedenti, diviene centrale. Ciò che è interessante notare è che se le origini della nunziatura veneziana son da ricercarsi soprattutto nelle motivazioni politiche, nella rappresentanza del papa come sovrano in vista dell'equilibrio italiano e della lotta contro il Turco, negli anni intorno al 1530 la figura del nunzio subisce una vera e propria metamorfosi: accanto alle funzioni tradizionali crescono e hanno il sopravvento le nuove funzioni connesse al controllo della Chiesa veneziana da parte del papato (per la disciplina del clero secolare e regolare, la lotta contro l'eresia, ecc.) con la costruzione di una vera e propria struttura parallela a quella ecclesiastica tradizionale (5). Certo è che abbiamo una continua osmosi tra le due funzioni per cui nei periodi di debolezza politica Venezia è costretta a fare al rappresentante papale concessioni importanti sul piano ecclesiastico mentre viceversa il nunzio è costretto ad una iniziativa cauta e rispettosa degli ordinamenti della Chiesa veneziana quando ha bisogno dell'appoggio della Serenissima nelle contingenze della politica internazionale.
Se dalle Chiese locali passiamo alla disciplina del clero regolare possiamo dire che negli anni '20 del Cinquecento, all'interno dell'evoluzione generale, che porta alla dilatazione delle competenze del consiglio dei dieci e alla creazione di una serie di magistrature speciali, abbiamo nel 1521 la costituzione dei provveditori sopra i monasteri, organo di 3 membri creato, in accordo con il patriarca, come straordinario e diventato poi stabile e onnipresente proprio intorno al 1530: con autorità vastissima per il controllo della proprietà immobiliare ma anche della vita interna dei monasteri e soprattutto con lo scopo politico ultimo di sottomettere allo Stato quel complesso monastico enorme che era andato crescendo all'interno dei territori veneti, particolarmente dopo l'espansione degli ordini mendicanti, e che tendeva per sua natura e in alleanza con il papato - a sottrarsi non soltanto alla giurisdizione episcopale ma anche al protettorato dell'aristocrazia dominante (6).
È inutile sottolineare l'importanza anche civile che veniva attribuita specialmente ai monasteri femminili (qui a Venezia come altrove, ma ovviamente con una maggior complessità per l'ampiezza e l'articolazione della classe patrizia) come risposta non tanto ad una vocazione religiosa quanto alla necessità di una sistemazione sociale delle donne non maritate o non maritabili: basta questo accenno per far comprendere che il tipo di disciplinamento della vita religiosa impostato dalla Serenissima si troverà ad urtarsi frontalmente con la disciplina basata sulla separatezza e sulla clausura promossa dai papi della controriforma.
Così intorno alla fine degli anni '20 si verifica un mutamento importante anche nelle organizzazioni delle confraternite laicali e della carità pubblica: particolarmente in seguito alla grande carestia del 1528 e al diffondersi della miseria, delle malattie "incurabili", del vagabondaggio di massa, dell'abbandono degli infanti e degli orfani - in sintonia con quanto avviene in quegli stessi anni nell'Europa più avanzata - viene in qualche modo non superato ma integrato il sistema tradizionale delle "scholae" con iniziative ospedaliere e caritative di tipo nuovo alle quali si legheranno poi i nuovi ordini della riforma cattolica.
Non esistono ancora le divisioni e le tensioni che si accentueranno nei decenni seguenti di fronte al problema della frattura religiosa e della eresia. Anche gli interventi di controllo che vengono programmati nei riguardi del mondo della cultura e della stampa - faccio solo l'esempio della nuova magistratura, istituita nel 1528, dei riformatori dello Studio di Padova - non si situano certamente su una linea di repressione controriformistica ma nascono sotto la spinta della necessità di dare impulso alla vita intellettuale secondo lo schema dominante di un sempre maggiore intervento statale (7). Sostanzialmente si può dire che verso il 1530 non si coglie nel paesaggio della Chiesa veneziana alcun segno di quei fermenti eterodossi o annunci di ribellione che domineranno la scena pochi anni dopo. Ciò che sembra di notare è l'aprirsi di una divaricazione tra la realtà alla quale Venezia partecipa nel processo di trasformazione che coinvolge la cristianità occidentale nella formazione delle Chiese territoriali in simbiosi con l'affermarsi della sovranità statale e la peculiarità della tradizione veneziana radicata nella disciplina e nella spiritualità secolare con caratteristiche peculiari come ponte tra Oriente e Occidente. Si può dire che in questi anni la tradizione si trasforma, in modo parallelo a quanto avviene per il mito di Venezia sul piano politico, in una memoria e autocoscienza non più in assonanza con la realtà storica, nello sforzo di credere ancora vivente il mondo ormai tramontato dello Stato-Chiesa impersonato non soltanto nella figura sacrale del doge ma in ogni ganglio della società.
La personalità in cui più si incarna visibilmente la coscienza di questo passaggio è quella di Gasparo Contarini, patrizio e magistrato tra i più influenti e dal 1535 cardinale di Santa Romana Chiesa. Sono stati scritti ormai innumerevoli saggi sulla sua formazione spirituale giovanile nel cenacolo veneziano dei primi del Cinquecento (tra i suoi amici Vincenzo Querini e Paolo Giustiniani, poi entrati nell'ordine camaldolese); sulla sua esperienza personale (accostata da alcuni allo stesso "Turmerlebnis" di Lutero), dalla coscienza dell'insufficienza delle opere umane per la salvezza all'abbandono fiducioso nei meriti di Cristo; sulla sua decisione di scegliere non la strada della vita contemplativa ma quella altrettanto difficile e meritoria della vita e della carriera pubblica (8). Non possiamo neppure entrare nell'esame di una figura che travalica ampiamente sia l'epoca che si vuole qui delineare sia qualsiasi visione settoriale, per la sua importanza nella vita politica, culturale, civile oltre che religiosa: la vedremo emergere da ogni grande pagina di storia veneziana; né possiamo accennare al contributo dato attraverso Contarini al movimento più ampio della riforma cattolica (9). Qui vogliamo soltanto affermare che con molta coerenza sia nella sua vita pubblica che nei suoi scritti egli cerca di ridare vita, attraverso una grandiosa opera di autocoscienza storica, alla tradizione della Chiesa veneziana proprio nel momento in cui essa subisce i colpi più gravi ed entra in contraddizione sempre più acuta con le circostanze storiche del tempo presente: ciò che egli ci presenta ha ormai più la forma di un mito ecclesiale, parallelo e intrecciato con quello politico, che non di un'analisi del reale, anche se questo mito, così come quello politico, avrà una importanza enorme nel corso di tutti i secoli successivi. Dovendo semplificare, penso ad un percorso che possiamo tracciare dal trattato De officio viri boni ac probi episcopi, composto nel 1517 e apparso poi nell'edizione parigina dell'Opera del Contarini nel 1571 (10) al più noto De magistratibus et republica Venetorum terminato proprio intorno al nostro anno di partenza 1530, percorso che trova una conferma in altri scritti, nella sua prassi politica e nei suoi carteggi: al centro non è più il giovanile entusiasmo di riforme legato all'ideale della Chiesa primitiva ma il tentativo di conciliare l'anima religiosa con l'anima politica all'interno delle strutture che egli vede come proprie e peculiari della tradizione veneta. Come Lutero, egli non elude il problema centrale per l'uomo moderno, quello del potere, ma invece di dirigersi verso un rapporto privilegiato tra la coscienza del singolo cristiano (alimentata dalla Scrittura) e il principe si pone come obiettivo possibile la costruzione di una societas christiana non più legata a modelli universali ed astratti, ma al concreto edificio dello Stato veneziano. È, solo allo stato attuale degli studi, una traccia da approfondire, ma forse può essere utile affiancarla a quella consueta di un Contarini che abbandona la via contemplativa per un impegno "nella città".
Questo è il punto di partenza del movimento di riforma che cerca di affermarsi salvaguardando le caratteristiche peculiari della Chiesa di Venezia nel tentativo di recuperare attraverso l'autocoscienza storica e l'impegno civile e religioso il contatto con un'identità sacrale che si percepiva minacciata sia da parte degli interessi politici ed economici legati al papato romano sia da parte dei nuovi fermenti che cominciavano a filtrare attraverso le Alpi. Difficile progetto teso a costruire una religiosità ortodossa ma non curiale e non romana in una situazione nella quale l'evoluzione avvenuta nell'ultimo secolo in seguito al radicamento nella Terraferma e l'inasprirsi dei conflitti religiosi e politici tendono a spaccare dall'interno l'uomo nuovo che l'umanesimo cristiano veneziano dei decenni precedenti aveva delineato come modello (11).
Come spartiacque tra la storia che si chiude e quella che si apre potremmo prendere la Confutatio contro gli articoli della Confessio augustana pubblicata proprio nel 1530 da Contarini con l'invito a mettere da parte, ripudiando le tentazioni controversistiche, le divergenze dottrinali (12):
Non c'è bisogno di concilio, di dispute o sillogismi oppure di citazioni bibliche per domare le agitazioni dei luterani. C'è solo bisogno di buona volontà, di carità verso Dio e verso il prossimo, di umiltà d'animo per deporre l'avarizia, il lusso che invade i palazzi e le corti e per ritornare a ciò che il Vangelo ci comanda. Se vogliamo sedare gli errori e i tumulti luterani, non assaliamoli con mucchi di libri, con orazioni ciceroniane o sottili argomentazioni; andiamo loro incontro soltanto con la probità di vita, con animo umile e senza sfarzo, non desiderando altro che Cristo e il bene del prossimo. Con tali armi, credetemi, senza fatica si convertirebbero non soltanto i luterani ma anche i turchi e gli ebrei.
Questa linea, del tutto divergente da quella del papato tridentino, alla quale pure Contarini collaborerà così incisivamente negli anni seguenti della sua vita, non sembra una vaga manifestazione di evangelismo irenico o un semplice invito al rinnovamento interiore, ma un programma di riforma con il quale egli vuole riproporre l'immagine di una Chiesa ideale ad un tempo e storica, quella di Venezia: ma si tratta ormai di un mito.
2. L'età della speranza e dell'inquietudine
La pace di Bologna con la quale si apre la nostra epoca oltre a sancire sul piano politico l'inserimento di una Venezia neutrale in un sistema politico italiano ormai posto sotto la tutela del papato contiene la clausola non scritta e non codificata, ma altrettanto importante delle clausole politiche, della rinuncia da parte della Serenissima alla propria autonomia sul piano ecclesiastico e spirituale (13). Il contrasto tra Roma e Venezia che non troverà più nei decenni successivi uno sbocco politico si tramuta in una conflittualità allo stato latente che lacera dall'interno il tessuto sociale e la coscienza pubblica: non si tratta soltanto della contrapposizione tra il perenne universalismo romano e il nuovo repubblicanesimo rinascimentale di Venezia; non si tratta della alternativa tra una ragion di Chiesa, sostenuta dal papato, e una ragion di Stato veneziana: entrambe le istituzioni rivendicano - accanto a rivalità prettamente politiche ed economiche - la propria competenza nel guidare globalmente il cammino storico dell'uomo attraverso la vita quotidiana della comunità cristiana verso la salvezza (14). Proprio all'inizio degli anni '30, con il dogado di Andrea Gritti, Venezia sembra voler affermare come non mai la propria immagine di Stato-Chiesa nella quale il sacro ha una sua incarnazione diretta nelle strutture politiche e sociali (15): tutte le riforme che sono avviate in questo periodo, da quelle del diritto agli interventi urbanistici, alla renovatio urbis, così come in rituali della vita quotidiana, hanno nella coscienza di costruire una "nuova Gerusalemme" non contro Roma ma certamente in alternativa ad essa la loro radice più profonda (16). Rinviando per le analisi ai saggi specifici qui è necessario soltanto sottolineare che questo tentativo urta contro le contraddizioni interne di un ceto politico sempre più compromesso nei suoi interessi di Terraferma, sempre più bisognoso dell'appoggio del papato per resistere alla pressione turca proprio mentre Roma, di fronte alla crescente minaccia della Riforma, diventa sempre più intollerante verso ogni velleità di autonomia (17). Le tendenze spirituali ed intellettuali verso il rinnovamento che erano maturate come frutto dell'umanesimo sono quindi coinvolte in queste tensioni che spaccano dall'interno sia il mondo ecclesiastico che quello religioso; i fermenti di riforma che si nutrivano delle stesse fonti evangeliche e paoline assumono nella vita concreta, nei comportamenti, nelle iniziative posizioni sempre più divergenti. Ciò avviene non soltanto per una maggiore o minore simpatia con la ribellione protestante, per un maggiore o minore radicalismo: l'elemento discriminante che divide cristiani imbevuti dalla stessa spiritualità e animati dallo stesso zelo è sempre di più l'atteggiamento di fronte a due proposte diverse di Chiesa, quella veneziana e quella romana. Dalla vita di pietà, alle opere di carità e di assistenza, alla disciplina del clero secolare diocesano e di quello regolare sino agli stessi comportamenti nella repressione dell'eresia, sembra aprirsi una spaccatura tra chi crede nella possibilità della costruzione di una Chiesa veneziana e chi si abbarbica a Roma. Questi scontri all'interno di movimenti dottrinalmente e spiritualmente omogenei nelle loro origini sembrano essenziali per comprendere la peculiarità dell'"evangelismo" veneziano, sul quale sono stati scritti fiumi di inchiostro: se ci si limita ad analizzare i testi spirituali e di devozione, anche i più celebri e diffusi come il Beneficio di Cristo, nel tentativo di dimostrare le ascendenze ortodosse od eterodosse, si rischia di non capire nulla della realtà in movimento e di seguire senza accorgersene il metodo stesso degli inquisitori la cui principale funzione era proprio quella di isolare frasi e comportamenti dai contesti di provenienza per colpire l'individuo o il gruppo della cui fedeltà al potere si diffida (18).
Sulla tradizione della ripresa dell'ideologia sacrale dello Stato nella architettura sacra degli anni '30 Manfredo Tafuri ha scritto pagine talmente acute da poter servire come traccia per una più vasta esplorazione nella "pietà" veneziana di questi anni (19): "La politica sociale della Serenissima, letta a confronto della mediocritas che informa l'edilizia religiosa veneziana, parrocchiale in particolare, sembra rispecchiare, nel suo complesso, le prescrizioni contariniane. La pratica della caritas, piuttosto che la magnificenza del culto esteriore, viene eletta a elemento di stabilitas politica […>. Essa enuncia il primato dell'assistenza sul culto passivo, dell'azione delle istituzioni sul rito. Anche attraverso quella simplicitas Venezia sembra contrapporsi, in quanto Stato di origine divina e consacrato a Cristo, all'eloquenza romana".
Anche le riforme delle strutture assistenziali introdotte particolarmente a seguito delle ondate di miseria e carestia degli anni 1528-29 non vanno nella direzione presanegli altri paesi europei di esclusione - in una lotta contro la mendicità e la devianzacoordinata dal potere politico - ma sono inserite nel contesto cittadino: non soltanto dal punto di vista urbanistico, ma soprattutto nella pietas che ne costituisce l'humus vitale con un rapporto non puramente assistenziale ma bivalente, nella prevalenza della caritas, all'interno della comunità cristiana (20). Anche l'origine dei nuovi ordini della riforma cattolica è strettamente legata in Venezia più che altrove a queste iniziative: i Somaschi in primo luogo, i più radicati nella persona stessa del fondatore Gerolamo Miani nella società veneziana, con la fondazione degli ospedali dei Derelitti e degli Incurabili negli anni '20, istituti che negli anni '30 acquistano un ruolo pubblico centrale nella vita della città. E insieme ai Somaschi altri innesti provenienti dall'esterno trovano a Venezia un terreno particolarmente fertile: Barnabiti, Teatini e Gesuiti (che, non si dimentichi, nascono di fatto proprio a Venezia negli anni '30, nell'attività caritativa) (21). Non si trattava di iniziative staccate ma di imprese che integravano il sistema delle "scuole" e quello parrocchiale di assistenza sul quale gravava, secondo la legislazione del 1529, la responsabilità maggiore nell'assistenza quotidiana ai poveri della città (22).
Venezia diventa così negli anni '30 il centro principale di attrazione per tutti i movimenti di rinnovamento religioso e ecclesiale che erano maturati nei decenni precedenti nel cattolicesimo italiano e non soltanto italiano. Un fermento analogo sembra avvenire negli stessi anni anche nell'ambito degli antichi ordini religiosi dal nucleo legato al francescano Francesco Zorzi (Francesco Giorgio Veneto) all'ambiente benedettino di S. Giorgio Maggiore dove nel 1532 viene eletto abate Gregorio Cortese. Tuttavia per il piano culturale in cui questi gruppi si muovono diventa ben presto sempre più stretto il controllo inquisitoriale su proposte venate di razionalismo padovano, di erasmianesimo e di curiosità misteriche e mistiche viste come pericolose per la compattezza del corpo cattolico (23).
Ma lasciando da parte il discorso su ristretti gruppi intellettuali si può dire che all'inizio degli anni '30 ciò che caratterizza la situazione veneziana è il suo trasformarsi in una specie di laboratorio collettivo nel quale i gruppi informali, confraternite, oratorio del Divino Amore, nuovi ordini religiosi ancora in formazione trovano la possibilità di sperimentare ancora con grande libertà e con grande partecipazione da parte degli esponenti del ceto dirigente cittadino iniziative di grande portata innovativa non soltanto sul piano dell'attività caritativa ma anche sul piano liturgico devozionale non contro ma accanto alla Chiesa istituzionale e nella città. Potremmo prendere come data simbolizzante gli anni che vogliamo qui descrivere il 6 gennaio 1530, quando Girolamo Aleandro, destinato a essere nominato qualche tempo dopo nunzio a Venezia, così annota nel diario la sua visita all'ospedale degli Incurabili, prima casa teatina (24):
Visitai il vescovo di Verona [Giovan Matteo Giberti> e presolo meco a mezza strada andai dal Carafa, vescovo teatino, e vi rimanemmo fino a notte. V'erano lì Vincenzo Grimani, figlio del defunto doge, Agostino da Mula, Antonio Venier, Girolamo Miani, Girolamo Cavalli, patrizi veneti, e Giacomo di Giovanni, cittadino, tutte persone probe e consacrate ad accrescere la pietà e la religione con le buone opere.
Alla compagnia si aggiungono Piero, Marcantonio e Gasparo Contarini, Reginaldo Pole (in visita a Venezia), Andrea Lippomano, priore della Carità, Teodoro e Francesco Querini: e l'elenco potrebbe continuare a lungo.
Come mai nel giro di pochi anni questo progetto riformatore si infrange e i protagonisti sono sballottati dalla tempesta su sponde opposte; come mai si passa dall'età della speranza all'età della inquietudine?
La visione storica tradizionale tende a mettere in evidenza le spaccature che si verificano all'interno di questo movimento storico composito, che viene definito come evangelismo italiano, tra i difensori dell'ortodossia e del potere del papato contro l'attacco luterano (in prima fila troviamo lo stesso Gian Pietro Carafa) e coloro che partecipano più dall'interno alle nuove sensibilità a proposito della Scrittura, del rapporto tra grazia e opere nel cammino della salvezza (il celebre opuscolo Il beneficio di Cristo viene stampato in questi anni a Venezia in 40.000 copie), della necessità di riforme evangeliche in senso radicale nell'organizzazione ecclesiastica. Lo spartiacque viene posto generalmente negli anni 1541-42 con il fallimento dei colloqui di Ratisbona e la fondazione del tribunale romano del S. Ufficio dell'Inquisizione, con il consolidarsi della frattura religiosa ed il formarsi dei due fronti contrapposti. Se però cerchiamo di osservare più particolarmente il caso veneto penso sia necessario un maggior discernimento delle cause per arrivare forse anche in conclusione ad una cronologia più elastica. È vero che anche a Venezia come altrove sin dall'inizio dell'affacciarsi del pericolo luterano si forma una divaricazione sempre più netta, come in tutte le altre regioni minacciate dalla Riforma. Da una parte gli "zelanti" ("qui habent, zelum Dei, sed non scientiam" come scriveva il Contarini) (25); timorosi che dottrine sulla grazia o denunzie dei mali della Chiesa potessero giovare alla causa protestante e diventare strumento degli avversari, anche se si trattava di dottrine e denunce radicate nella tradizione cattolica: si incomincia a sentire odore d'eresia dappertutto, anche in espressioni che nei precedenti decenni sarebbero state ritenute del tutto ortodosse; dall'altra coloro che vengono man mano sospinti a oltrepassare le soglie dell'incerta ortodossia verso uno spiritualismo sempre più radicale. Ma se guardiamo alla serie delle corrispondenze dei nunzi a Venezia con la Corte pontificia penso sia possibile definire alcuni nuclei intorno ai quali la lotta cresce a livello istituzionale e finisce per compromettere l'unità interna del ceto dirigente veneziano il quale non è più in grado, per le ragioni sopradette, di portare avanti il progetto politico-religioso così lucidamente espresso dal Contarini e così diffusamente partecipato dalla opinione pubblica.
Il memoriale inviato a Roma dallo stesso Gian Pietro Carafa nell'ottobre 1532, la prima cupa denuncia della corruzione della vita morale e religiosa veneziana, sembra particolarmente significativo: il pericolo della diffusione delle eresie è certo legato alla eccessiva libertà per cui tutti si credono in grado di disputare di teologia ma ha la sua radice nella rilassatezza del clero secolare e regolare, nel mercimonio dei sacramenti, nel cumulo dei vescovadi e dei benefici ecclesiastici, nella sete di lucro che assume spesso la forma di vera e propria simonia, spesso con la protezione e la complicità della Curia romana cosicché "qua gli heretici si fanno grandi ad insultarne e subsannarne e trattarne da bestie et non si sa che responderli perché la cosa è tanto sporcha che spande hormai la puzza sua per tutto" (26).
I nunzi, uscendo dalla precedente fase che li vedeva come rappresentanti diplomatici (a volte anche laici), agiscono come rappresentanti del papa nella pienezza dei poteri, spesso come legati a latere e difendono la giurisdizione e i poteri acquisiti dalla Santa Sede con ogni mezzo e con la complicità di una grande parte del patriziato legata direttamente o indirettamente a Roma da concreti interessi. Su questo piano i problemi ricorrenti e centrali sono tre: le nomine ai benefici maggiori, in particolare ai vescovadi, della Terraferma, l'esercizio della giurisdizione nelle cause spirituali, il diritto della imposizione fiscale sul clero. Su tutti questi punti si arriverà a compromessi sul piano pratico, ma sul piano giuridico la vittoria del papato risulta completa negli anni '30 e '40 del Cinquecento. Il papato non rinuncia al potere di nomina ai benefici maggiori pur procedendo a nominare candidati che sono nella quasi totalità patrizi veneziani (ad eccezione di sedi date per ricompensa ad alcuni curiali), ottenendo così due scopi: quello di avvicinare a Roma una buona parte delle grandi famiglie e quello di rompere il fronte riformatore attraverso la concessione di dispense e deroghe dalle regole del diritto canonico (27). La Serenissima si accontenta che nei posti di maggiore responsabilità ecclesiastica siano inseriti sudditi della Repubblica in grado di garantire la fedeltà politica ma rinuncia alla pretesa sacrale dello Stato di nominare alle cariche ecclesiastiche (28). Per i benefici minori e in particolare per l'elezione dei pievani Roma riconosce la tradizione veneta ma cercherà di armonizzarla poi con le norme sancite nel Concilio di Trento (29). Sul fronte della giurisdizione sugli ecclesiastici la lotta raggiunge forse il suo primo apice alla metà degli anni '30 come è testimoniato, tra mille altri casi, in una lettera del nunzio Gerolamo Verallo (30):
Sonno ogni giorno alle contese per la libertà ecclesiastica, ché loro pigliano preti, frati, et vogliono veder cause spirituali, civili et criminali, et non giova de inhibirli et far altri rimedii, ché certe volunt esse domini utriusque gladii [...> di modo che s'el santo Concilio o pure N. Signore non provede, le cose non andran bene, benché mi è detto che sempre è stato così, ma non tanto, perché li altri nuncii meno han potuto far di manco, et tanto meno quanto che son state persone interessate con questo stato.
Il problema rimane aperto e le tensioni rimarranno continue e riesploderanno, come si vedrà, dopo il Concilio di Trento in particolare con la controversia sulla pubblicazione della bolla In coena Domini, ma ciò che ci importa notare è che qui risulta già spezzato il nucleo centrale della tradizione della Chiesa veneziana: i compromessi saranno trovati in un vantaggio reciproco della Chiesa e dello Stato per il disciplinamento globale della società, ma si tratterà sempre di un rapporto di alterità.
Analogo è il compromesso raggiunto sul piano della politica fiscale della Serenissima nei riguardi degli ecclesiastici. È stato detto che gli Stati rimasti fedeli al papato hanno ottenuto dalla tassazione dei beni ecclesiastici un reddito forse maggiore di quanto abbiano ricavato gli Stati passati alla Riforma, o la stessa Inghilterra, dalla confisca e dall'alienazione dei beni ecclesiastici. Dopo il 1530 Venezia non riesce più a riottenere la concessione, di cui aveva goduto sino ad Agnadello, di riscuotere direttamente le decime dal clero con scadenza annuale ma richiede ed ottiene in modo sempre più regolare la concessione di riscuotere le decime ed imporre al clero prestiti forzati per far fronte all'incombente pericolo turco: in tutti i decenni successivi (con una battuta d'arresto per un ventennio a partire dal 1564, anno in cui fu istituito il nuovo organo dei sovraintendenti alle decime del clero) la politica fiscale veneziana verso gli ecclesiastici riprende con successo e regolarità, anche se il beneficio che essa arreca alle casse dello Stato è in progressiva diminuzione (un terzo o forse un quarto del gettito teorico agli inizi del '600) (31). Ma qui, senza entrare nell'analisi più propriamente finanziaria, delle esenzioni e delle elusioni che tanto peso avranno nelle polemiche dell'Interdetto, mi limito a notare che, in seguito all'opposizione condotta da gran parte del patriziato contro i prestiti forzosi sui beni del clero, specialmente tra il 1528 e il 1534, e alle pressioni papali, il governo veneziano dovette accettare che i prestiti del clero e la reintroduzione delle decime fossero sottoposti a preventiva approvazione da parte di Roma: i brevi di concessione che nel secolo precedente erano dati in modo pressoché automatico vengono ora strappati dopo estenuanti trattative e soprattutto pagando il prezzo altissimo del pubblico riconoscimento di una sovranità dello Stato limitata da un corpo estraneo (32).
Anche se l'enfasi che i nunzi pongono sui contrasti a proposito dei problemi relativi alle nomine, sull'opposizione da loro trovata alla giurisdizione e alla finanza è certo strumentale ("[...> tenga per certo S.S.tà che l'ha qui molto pochi amici, et quelli che S.S.tà et io teneva per amicissimi li trovo ne le cose publiche più lontani che da qui in India: sono universalmente nemici de preti et si guardano da me come dal fuoco [...>") (33), rimane il fatto che negli anni '30 la presa di distanza tra Venezia e Roma diventa insuperabile, incrina l'edificio dello Stato-Chiesa proprio nel momento in cui si teorizzava il suo recupero, spezza la solidarietà del ceto dirigente (anche con l'accentuazione delle norme sul segreto e sulla esclusione dei papalisti dai consigli) ed introduce nel corpo stesso della Chiesa veneziana un punto di riferimento esterno molto più forte che non nel passato. Queste tensioni e contraddizioni istituzionali (nelle quali Venezia e Roma scambiano in continuità reciproche accuse sulle cause della corruzione e dell'asservimento delle strutture ecclesiastiche agli interessi privati e politici) sembrano essere alla base, più che non le dispute teologiche, di tante avventure personali che si aprono in questi anni e che portano alcuni alla fuoruscita dalla Chiesa cattolica e molti altri a ritirarsi in un ambito privato di devozione e carità senza congiungerlo come avveniva precedentemente con la speranza del rinnovamento della Chiesa. Tipico di questa coloritura particolarmente veneta è il caso di Pier Paolo Vergerio vescovo di Capodistria sul quale sono stati scritti saggi, libri, romanzi e sulla cui defezione dalla Chiesa non tocca a me parlare (34). Qui interessa notare che ancora alla fine del 1545 egli, ancora vescovo veneto e suddito fedele, si rivolgeva al neoeletto doge Francesco Donà riproponendo una riforma della Chiesa che non fosse una rottura con la Chiesa romana ("questa che è la buona è stata da principio fabricata sopra i fondamenti di profheti et di apostoli"), che non significasse un'adesione alle idee di Lutero "persona vile, infima e abietta" che dalla giusta lotta contro gli abusi è passato a "destruggere le dottrine". Egli immagina però che il doge così gli risponda: "io son principe di una Republica, il quale ha da governare le cose civili et politiche, et queste delle quali tu mi parli sono materie di religione, materie d'anime. Che cosa havrei io a fare in queste, le quali hanno un altro capo e un altro governo?" (35). Questo interrogativo posto sulle labbra del doge e al quale Vergerio non trova altra risposta se non nell'esortazione ad impegnarsi nel Concilio appena iniziato a Trento mi sembra la dimostrazione della fine di un'epoca, più che non le fatidiche date di cesura degli anni 1541-42: soltanto pochi anni prima un interrogativo del genere non sarebbe mai stato posto, anche se solo a scopo dialettico, sulla bocca di un doge; né il richiamo al Concilio può essere più sufficiente perché non costituisce più come nel secolo passato l'appello ad un'autorità superiore in cui potere spirituale e potere temporale potevano trovare nella cristianità una loro sintesi.
Si apre così nei decenni '30 e '40 l'età dell'inquietudine, della "religious restlessness", come è stata brillantemente definita (36). Se quanto si è cercato di dire ha un senso, la sua esplorazione - ancora in gran parte da condurre - va estesa dal terreno della dottrina e della spiritualità al piano delle istituzioni. Non abbiamo soltanto l'incertezza teologica, l'ipocrisia degli zelanti da una parte e dei nicodemiti cripto-protestanti dall'altra, ma una frattura che colpisce all'interno la comunità cristiana e mette in crisi la proposta utopica di resurrezione di una Chiesa veneziana ripresa all'inizio degli anni '30 e teorizzata da Gasparo Contarini. Ciò non toglie naturalmente che i fermenti di riforma continuino a maturare nella società, intrecciandosi con gli stimoli provenienti dal Concilio di Trento o convogliandosi su posizioni chiaramente eterodosse. Senza voler entrare all'interno di queste ultime - sulla diffusione della Riforma in Venezia, oggetto del saggio di Aldo Stella in questo stesso volume - credo si debba valutare il loro impatto sul rapporto religione-società all'interno della cristianità veneta. Le tendenze che incominciano a prendere corpo durante il pontificato di Paolo III per una riforma incisiva e centralizzata della disciplina ecclesiastica in realtà entrano ben presto in rotta di collisione proprio con il modello di Chiesa che Venezia aveva contribuito a far nascere e che vedeva nella autonomia della Chiesa locale e nella sua saldatura alla società la sua struttura portante. Un esempio particolarmente significativo di questa contraddizione è nel comportamento nei confronti delle comunità greco-ortodosse nel Levante e nella stessa Venezia. Da una parte abbiamo l'intensificarsi degli sforzi del papato per imporre la gerarchia greco-cattolica romana, dall'altra la Serenissima che difende l'autonomia non solo liturgica ma anche ecclesiale delle comunità ortodosse e della stessa comunità greca di Venezia garantendone il rapporto con il patriarcato di Costantinopoli nonostante le pressioni dei pontefici (37).
Ancora alcuni decenni più tardi Jean Bodin all'inizio del Colloquium heptalomeres citava Venezia come il luogo in cui si godeva della massima libertà di coscienza: sulla base della documentazione relativa all'attività del S. Ufficio contenuta nell'Archivio di Stato veneziano si è giustamente smentita quest'affermazione con l'analisi dei processi, persecuzioni, condanne, a volte a morte, che nel quarantennio 1547-83 coinvolgono oltre 700 abitanti nella sola Dominante (38). Eppure penso che occorra superare i dati puramente quantitativi e cercare di approfondire più di quanto non si sia fatto sino ad ora la differenza tra una relativa tolleranza nei riguardi degli aderenti alle altre confessioni - la luterana e poi la calvinista - che nel frattempo si erano venute consolidando e la persecuzione feroce contro i gruppi dei cristiani radicali, degli anabattisti che si diffondono dalla fine degli anni '40. Mentre nella direzione della tolleranza spingono gli interessi economici e le relazioni internazionali nei confronti dei mercanti del fondaco dei Tedeschi così come degli scolari oltramontani di Padova, nella seconda direzione la repressione si sviluppa in assonanza con l'irrigidimento confessionale, nelle professioni di fede, nei catechismi, nel consolidamento delle Chiese territoriali. Il mettere tutti gli eretici in un fascio senza le opportune distinzioni o sotto la generica dizione di protestanti (il che era certo nell'interesse degli inquisitori per i quali sovrapporre l'accusa di luterano a quella più generale di empietà ed eresia era molto giovevole nei processi, ma non rientra certo nel nostro dovere di storici) conduce a non comprendere l'insieme della evoluzione del rapporto religione-politica in Venezia; se parliamo genericamente di "movimento protestante veneziano" troppe cose ci diventano incomprensibili.
La ipotesi interpretativa che qui si sottolinea è in poche parole questa: sino a quando e nella misura in cui la caratteristica dei sospetti devianti è dominata dall'impronta luterana o calvinista il potere politico resiste alle pressioni romane in nome di una sentita ragion di Stato, dell'opportunità di mantenere buoni rapporti politici e commerciali con paesi di altra confessione ma anche per una secolare esperienza di pluralismo religioso; quando l'eresia, in particolare dopo la svolta tra la fine degli anni '40 e l'inizio degli anni '50 acquista i colori, con la diffusione e la scoperta della comunità anabattista, della sovversione e della ribellione contro il potere, ritenuto comunque peccaminoso e contrario allo spirito del Vangelo, allora il governo della Repubblica ritiene necessario scendere al compromesso con Roma e scatta la repressione, condotta di comune accordo tra le due autorità (39). Una controprova può essere trovata anche nell'atteggiamento di tolleranza, che si prolunga anche nella seconda metà del secolo, verso le deviazioni individuali di tipo profetico o spiritualistico ritenute non pericolose per il potere proprio mentre si sviluppa la repressione contro la "maledetta" setta degli anabattisti poiché quelli sono non solo eretici ma anche contrari "alla potestà temporale", "che cominciano a non obedire a Dio, vogliono poi cessare di obedire alli Principi" (40). Il processo di collaborazione comincia con l'istituzione nel 1547 del tribunale dei tre savi sopra l'eresia: la presenza dei deputati dello Stato a fianco dell'inquisitore è ben difficile da digerire per Roma così come per Venezia è ben difficile operare con una magistratura mista in cui l'autorità dominante è quella ecclesiastica. L'interesse di fronte al nuovo pericolo è tuttavia talmente forte da vincere ogni contrasto: negli anni successivi l'accordo viene esteso a tutto il territorio veneto con la decisione che gli ordinari diocesani procedano nei processi per eresia alla presenza del rettore cittadino e di due dottori; nei processi degli anni 1550-51 la corrispondenza del nunzio testimonia la soddisfazione per un compromesso che, pur condannabile sul piano teorico, è indispensabile per il bene comune (41). Il sistema verrà poi consolidato nell'età della piena controriforma e troverà la sua massima applicazione nel culmine della repressione controriformista, negli anni '60 e '70: quella che rimane la relativa tolleranza di Venezia come città internazionale nella cultura e nei traffici verso appartenenti ad altre confessioni è controbilanciata sempre più dalla repressione verso movimenti ritenuti eversivi nei confronti dell'autorità politica; sempre più gravi sono le concessioni che la Serenissima stessa deve fare a Roma a spese della propria sovranità per ottenere l'appoggio contro nemici esterni ed interni dello Stato.
Su questa base si consolida, particolarmente tra la fine degli anni '50 e i primi anni '60 il ricompattamento tra Chiesa e Stato; nella disciplina del clero, nella giurisdizione, nell'organizzazione fiscale, nella repressione dei movimenti eversivi: due autorità estranee e competitive ma che ritengono di aver bisogno l'una dell'altra per la propria sopravvivenza.
3. La Chiesa veneziana e il Concilio di Trento
La Repubblica riconosce il Concilio di Trento e ne accetta i deliberati subito dopo la sua conclusione, nel 1564, a differenza di altri Stati pur cattolici, come la Francia, che rimanderanno per decenni o accetteranno solo in parte l'applicazione all'interno dei propri confini di una normativa che, concedendo troppa autorità al pontefice nell'attuazione della riforma, metteva in pericolo la sovranità dei principi (42). E una decisione non del tutto tranquilla, anzi sofferta: ma la maggioranza del patriziato è persuasa che senza la Chiesa lo Stato è incapace di resistere ai nemici esterni ed interni. Ciò che preme qui sottolineare ancora una volta è che si tratta in ogni caso di una decisione che sancisce la collaborazione tra autorità, tra poteri estranei e concorrenti, fuori dal solco della tradizione veneziana. Non per nulla Paolo Sarpi nella sua Istoria del concilio tridentino vedrà nel Concilio stesso lo strumento di rottura usato dal papato per innovare e stravolgere la tradizione della Chiesa antica e affermare il suo potere. Ma come si erano sviluppati i rapporti tra la Serenissima e il Concilio? In realtà nel clima delle speranze dei primi anni '30 era maturata l'ipotesi di un concilio in terra veneta: caduta la candidatura di Mantova infatti si decise, in accordo con la Repubblica, di aprire il 1° maggio 1538 il Concilio a Vicenza ed uno dei due commissari inviati in quella città per i necessari preparativi fu proprio il vescovo di Verona Giovan Matteo Giberti. Questo tentativo fallì, come è noto, per le non favorevoli circostanze politiche e religiose internazionali e per la diffusa sensazione che non fosse del tutto affidabile la volontà di riforma di Paolo III dopo la prima apertura avanzata con la redazione del Consilium de emendanda ecclesia alla quale lo stesso neocardinale Gasparo Contarini aveva così incisivamente collaborato. In realtà a queste cause più generali penso possa essere aggiunta una più specifica diffidenza della Curia romana verso un concilio che sarebbe stato troppo caratterizzato da una posizione, pastorale ed episcopale, come quella sostenuta da Giberti come vescovo di Verona e dallo stesso Contarini come vescovo di Belluno, tesa a porre al centro della riforma la concreta realtà di un vescovo e di una diocesi in rapporto con la vita spirituale e le strutture sociali della comunità piuttosto che alla definizione di un fronte confessionale sul piano delle verità di fede e della disciplina (43). Ciò non toglie nulla all'influenza poi esercitata dal modello pastorale del Giberti in ambito post-tridentino sia nella Chiesa veneziana sia in tutta l'Italia del Nord, dalla Milano di Carlo Borromeo alla Bologna del cardinale Gabriele Paleotti: si vuole soltanto dire che non si volle prendere questo modello come perno del discorso riformatore conciliare e che forse può essere equivoco o riduttivo definire la linea seguita dal Giberti e dal Contarini semplicemente come pretridentina.
In realtà il Concilio si aprirà davvero a Trento alla fine del 1545 quando il Contarini (1542) e il Giberti (1543) erano già morti e quando soprattutto anche nell'ambito veneto la speranza di costruire una riforma centrata sulle Chiese locali aveva lasciato il posto alla profonda inquietudine. Questo può contribuire a spiegare l'atteggiamento di scetticismo e di sfiducia con cui la Repubblica guardò al Concilio di Trento; nessuna pressione per la partecipazione al Concilio sui vescovi del Dominio i quali si sottrassero anche alle sollecitazioni del nunzio pontificio Giovanni della Casa: su settantotto diocesi del Dominio solo ventun vescovi parteciparono al primo periodo del Tridentino (1545-47) e di questi molti erano di origine non veneziana; tra i presenti nessuno svolse un ruolo importante tranne forse, in senso negativo, il minorita Grechetto (Dionigi Zanettini) vescovo di Milopotamos famoso per il suo zelo nella denuncia di ogni sospetto di eresia (44). Poiché i titolari delle più importanti diocesi della Terraferma appartenevano alle maggiori casate del patriziato veneziano e delle città soggette e dovevano la loro nomina all'intreccio degli interessi politici e famigliari, anche se con scarsa preparazione teologica e canonistica, la loro assenza sembra attribuibile non soltanto ad un disinteresse per la riforma o ad una diffidenza del governo nei riguardi di un'assemblea convocata nell'ombra dell'impero degli Asburgo, ma anche ad una esplicita presa di distanza: l'assenza dei due maggiori patriarchi, di Venezia e di Aquileia, dei vescovi delle sedi più rilevanti come Padova, Verona, Vicenza, Brescia è un chiaro segnale di distacco da parte della Chiesa veneziana; in senso opposto anche le partecipazioni più significative come quelle di Vittore Soranzo (vescovo di Bergamo, di inclinazioni valdesiane e poi processato più tardi per eresia), Giulio Contarini (succeduto allo zio Gasparo nel vescovado di Belluno da 18 anni ma non ancora ordinato e consacrato vescovo), Alvise Lippomano (successore del Giberti a Verona, titolare di molti incarichi nella Curia romana) rappresentano in modo diverso figure anomale nelle quali la sudditanza al papa o legami con ambienti più vasti prevaleva sulla fisionomia di prelati veneziani (45).
La seconda fase del Concilio di Trento vede una partecipazione ancora inferiore da parte di Venezia: gli anni 1551-52 sono al centro di un difficile periodo nelle relazioni con la corte di Roma e questo si riflette direttamente in una sistematica assenza. Ben diverso è il quadro della terza fase nella quale il Concilio assume finalmente le caratteristiche di rappresentanza di tutti i paesi rimasti nell'obbedienza romana (1562-63): non soltanto sono presenti i due patriarchi (Giovanni Trevisan di Venezia e Daniele Barbaro patriarca eletto di Aquileia) e i rappresentanti delle maggiori diocesi della Terraferma ma il cardinale veneziano Bernardo Navagero è nominato come legato pontificio membro della presidenza del Concilio e la Repubblica è rappresentata direttamente presso l'assemblea da due ambasciatori. Ciò sembra corrispondere non soltanto alla mutata situazione generale e all'analoga presenza delle grandi nazioni come la Francia e la Spagna, ma anche al compromesso raggiunto tra Roma e Venezia sui problemi più importanti, compromesso che si riflette anche - per quanto si sa fino ad oggi - nell'apporto stesso dei vescovi alle discussioni conciliari. La indubbia propensione dei Veneziani alla dichiarazione del de iure divino della residenza dei vescovi (ritenuto lesivo dai curialisti come pregiudizievole per il diritto pontificio sulla Chiesa universale e che avrebbe dato nella riforma tridentina un peso ben maggiore alle Chiese locali) non si spinge tuttavia fino alla rottura e lo stesso accade nella discussione sulla riforma generale delle ultime sessioni, ritenuta dai Veneziani troppo debole; in compenso Venezia si oppone come tutte le altre potenze secolari ad ogni progetto di "Riforma dei prìncipi" svuotando dall'interno ogni tentativo di minare la sovranità dello Stato con l'imposizione di un controllo ecclesiastico (46). Come era scritto nella istruzione degli ambasciatori al Concilio, Venezia è libera e cristiana (47): "essendo con la città et con la religione et Signoria nate anco le giurisdittioni, privilegi et consuetudini che havemo, non sarebbe conveniente che ne fussero alterate o sminuite al presente". L'elaborazione delle norme di riforma tridentine e la loro accettazione formale da parte di Venezia nel 1564 costituisce quindi una specie di concordato implicito in cui il compromesso raggiunto negli anni precedenti viene sancito e traccia il quadro di un bipolarismo alla cui base è l'accordo sostanziale tra Stato e Chiesa ma che contiene le radici delle tensioni destinate a perdurare e a crescere nei decenni seguenti (48).
La vita religiosa della Venezia post-tridentina sembra svilupparsi rigogliosamente sotto questo ombrello istituzionale: i riti e le processioni pubbliche continuano nei loro modelli secolari a trasmettere l'immagine di una sacralità che avvolge senza soluzione di continuità tutta la sfera pubblica coinvolgendo le autorità politiche come quelle religiose dalla processione ducale alle più piccole cerimonie di provincia (49). "Si pensi al rilievo [come scrive Gaetano Cozzi (50)> dato alla coreografia, non solo in tutte le manifestazioni pubbliche che avvenivano a Venezia, ma in ogni angolo del Dominio, quando i rettori vi arrivavano e ne partivano, ed esigevano nelle stesse Chiese tributi d'omaggio dal clero e addirittura un ruolo nella liturgia [...>". Ciò che occorre forse sottolineare è la prudenza con cui anche a proposito del fattore religioso occorre accostarci ai fenomeni legati alle manifestazioni pubbliche ed al cerimoniale considerando - il che oggi non è tenuto sempre presente da una storiografia alla moda - la loro lunga durata che ne fa spesso, nella persistenza atemporale dei riti, strumento di conservazione di un mondo - in questo caso dello Stato-Chiesa di Venezia - anche quando questo non esiste più (51).
La cappella di S. Marco, posta sotto il giuspatronato diretto del doge (l'"assoluto governo della chiesa di S. Marco [...> è la cosa più chiara che habbiamo" dirà il doge al primicerio nel 1580 nel contrasto per il ricorso di questi alla Santa Sede (52)), diviene più che mai il luogo di una liturgia che coinvolge l'espressione più alta della cultura musicale e quindi anche il centro di riferimento culturale di tutto il mondo veneziano, ma la restaurazione liturgica e il nuovo rituale del 1564 sembrano riproporre come ormai fissati in un quadro atemporale quell'unità organica politica e sacrale che non trovava più una corrispondenza vitale con la realtà storica: nella seconda metà del Cinquecento il doge è esaltato al centro di una scenografia che è stata acutamente definita neo-bizantina perché non corrisponde ad un aumento del suo potere nella realtà costituzionale ma esprime ormai un mito, sia pure importante per la carica emotiva e per la funzione sociale di collante come religione civica (53). Le espressioni della cultura e dell'arte sembrano rispecchiare un mondo che dopo i decenni dell'inquietudine e dell'instabilità ha ritrovato una tranquilla e condivisa adesione che coinvolge il ceto dirigente come il popolo (54). I fermenti della religiosità interiore e cristocentrica pre-tridentina così come la centralità della carità, dell'impegno sociale sembrano fondersi nella grande tradizione pittorica del secondo Cinquecento senza alcuna frattura con la devozione propriamente tridentina e con la catechesi: il tema dei sacramenti, battesimo, penitenza e in particolare l'esaltazione della pietà eucaristica, il culto della Madonna e dei santi. L'espressione dell'arte veneziana appare la punta più avanzata di quel movimento di illustrazione didattica, basata sui grandi episodi biblici e sulle vite dei santi che nell'età dei da Bassano (per indicare la bottega che dal nostro punto di vista appare la più esemplare) si impone come modello, dà l'impronta anche per i secoli successivi a tutte le chiese della valle Padana e diffonde a livello popolare le idee fondamentali sulla conciliazione tra la fede e le opere, sulla necessità della carità, sulla indispensabilità della Chiesa, sulla comunione dei santi, sulla bontà del potere e dell'ordine costituito, sulla funzione sociale della ricchezza (55). Su questo sfondo omogeneo e che tutto pervade le peculiarità sembrano dipendere sia dalla spiritualità del singolo artista che dalla singola funzione affidata ad una particolare opera artistica (la religiosità intima delle composizioni pittoriche del Tintoretto per la Scuola di S. Rocco o la esaltazione del potere politico-religioso negli affreschi del palazzo Ducale dopo gli incendi del 1574 e del 1577) oppure dalle circostanze e dalle emozioni da cui l'opera artistica è generata (la costruzione della chiesa del Redentore, deliberata dopo la peste del 1575-76) piuttosto che da diverse e contrapposte correnti o scuole spirituali.
Anche nei segni della pietà quotidiana, come ha dimostrato una recente e bella ricerca sui testamenti (56), è difficile rintracciare testimonianze di scelte interiori in dissenso con l'ortodossia cattolica: rimangono certamente fermenti che si colgono ancora nella sottolineatura della speranza di salvezza affidata unicamente ai meriti di Cristo ma questi abbandoni sono quasi sempre congiunti al riconoscimento della necessità del pentimento e della penitenza, della mediazione della Chiesa, dell'utilità delle preghiere di suffragio e dei lasciti a scopi devozionali e caritativi. Si è parlato da tanti di conformismo religioso-culturale per caratterizzare questo caldo autunno del Rinascimento veneto: una società in ripiegamento gestita da una classe dirigente che sta trasferendo la fonte del proprio potere e della propria ricchezza dalle imprese commerciali e marittime alla manifattura e alle rendite terriere. Si può anche parlare di età del disciplinamento sociale per sottolineare la capacità di costruzione del consenso non come semplice repressione ma come imposizione dall'interno di modelli di comportamento. Senza entrare in questi discorsi troppo ampi qui interessa sottolineare come il Concilio di Trento diviene lo strumento per eccellenza di questo disciplinamento confessionale dando alla società veneta quella particolare caratteristica che le successive tensioni e fratture non riusciranno ad intaccare.
Arrivando agli aspetti più repressivi, intorno agli anni '70-'80 abbiamo la svolta fondamentale: l'attività del tribunale dell'Inquisizione, con i tre savi all'eresia che dal 1547 partecipavano ai suoi lavori come rappresentanti dello Stato, non è più diretta alla persecuzione dell'eresia, tranne casi sporadici, ma a colpire forme di superstizione e di stregoneria (57). La stessa svolta si nota per quanto riguarda il controllo della stampa e la censura: l'attenzione non è più rivolta tanto alla diffusione delle opere ereticali, quanto alla morale, alla castigatezza del linguaggio; le opere dotte, anche proibite, entrano con una discreta facilità, mentre viene colpita la produzione a più larga diffusione che aveva alle spalle però anche grandi interessi tipografici: di qui le tensioni molto forti sino allo scontro del 1596 sull'Indice Clementino che rappresenta una grossa battuta d'arresto dell'intervento romano ma quando ormai il processo di disciplinamento è già compiuto (58). Accanto a questa riconversione degli strumenti classici di repressione se ne sviluppano dei nuovi: il tribunale degli esecutori contro la bestemmia, istituito nel 1537 come una delle magistrature nate dal consiglio dei dieci per il controllo dell'applicazione delle leggi antiblasfeme (e quindi della religione come ultimo fondamento dello Stato), vede estendersi nei decenni successivi la sua competenza a tutta una serie di reati ritenuti lesivi del buon costume, dal gioco agli scandali pubblici, ai reati di tipo sessuale, alle opere a stampa di contenuto licenzioso, alla prostituzione (59). Il suo intervento diventa di controllo generale sulla devianza, sulle osterie "dove si parla senza rispetto d'ogni qualità di persone, biastemano, giuocano, luxuriano, et finalmente fanno ogni sorte di mancamento" (da un decreto del consiglio dei dieci del 1571) sino ai vagabondi e agli stranieri: gli esecutori contro la bestemmia videro quindi dilatarsi enormemente il loro campo di intervento e divennero per il costume popolare l'organo parallelo a quello che era il consiglio dei dieci per i reati politici della aristocrazia, con procedure simili basate sulla denuncia anonima e sulla procedura segreta. In sostanza quindi abbiamo un sistema repressivo caratterizzato dalla gestione statale e da una prassi che mentre è tollerante sul piano della devianza dei singoli diventa feroce quando appare in pericolo il sistema sociale e il dominio aristocratico.
In questa situazione l'applicazione del Concilio di Trento sembra limitarsi molto nettamente al campo della disciplina ecclesiastica, quasi come struttura specializzata che tende a divenire corpo separato all'interno del grande quadro statale. Dopo il lungo patriarcato del domenicano Gerolamo Querini (1524-54) che aveva caratterizzato l'età dell'inquietudine con ripetuti tentativi di ricondurre a sé la direzione del clero, dall'elezione dei pievani al controllo della cura d'anime, in conflitti continui con il governo e con il suo stesso clero, e che aveva trascorso appartato e sconfitto l'ultimo decennio del suo governo, abbiamo negli anni '50 l'elezione di due patriarchi laici, Francesco Contarini (1554-55) e Vincenzo Diedo (1556-59) rappresentativi della più completa soggezione alla classe aristocratica di cui sono l'emanazione (60). Il benedettino Giovanni Trevisan (1559-90) rappresenta con la sua partecipazione all'ultima fase del Tridentino e con la sua opera nei decenni seguenti il compromesso che era stato trovato sul piano più generale e che permette a Venezia di ottenere da Pio IV la conferma di fatto, per concessione, non per diritto, della facoltà della Serenissima di designare il patriarca: la bolla del 15 settembre 1561 rinnova sotto forma di concessione del giuspatronato i tradizionali diritti della Repubblica nella proposta del candidato al patriarcato ma proclama il diritto esclusivo di nomina alla Santa Sede lasciando intatto l'equivoco sottostante e rinviando le tensioni ad un futuro nel quale ciascuna delle due parti sperava di essere più forte. Tutta la lunga e tenue opera di riforma del patriarca Trevisan si muove su questo equivoco: fonda il seminario ma senza svilupparlo perché sarebbe andato contro tutto il sistema tradizionale di reclutamento del clero; tiene alcuni sinodi in osservanza delle norme conciliari (1564, 1571, 1578) ma non promulga che norme abbastanza superficiali sull'abito e la disciplina esteriore dei sacerdoti. Il suo principale atto è la pubblicazione delle Constitutiones nel 1587 (61). È molto significativo che in esse non si faccia alcun fondamento sul Tridentino (se non riprendendo alcune norme inserite nel primo sinodo post-tridentino del 1564), ma ci si limiti soprattutto alla riesumazione delle costituzioni degli antichi sinodi veneti.
Nella prima parte "De celebratione missarum, de divinis officiis ac de residentia" di notevole vi è soltanto il comando di ricordare il doge nel canone della messa subito dopo il memento per il papa (62): per il resto si tratta di pure norme tradizionali sulla frequenza alle funzioni religiose e l'amministrazione dei sacramenti, sugli abiti e la tonsura, sul divieto di immischiarsi negli affari secolari, di non frequentare donne e osterie, di non portare armi (se non durante i viaggi, ecc.). La seconda parte "De electionibus plebanorum, atque titulatorum et de earum confirmatione" si limita a richiamare il diritto di elezione dei pievani, dei rettori di chiese e titolati da parte dei parrocchiani con il riconoscimento di Leone X e le successive conferme fissando la procedura per l'elezione stessa che viene sottoposta alla conferma del patriarca (63). È significativo che anche l'ultimo patriarca del secolo sia un laico, Lorenzo Priuli (1590-1600), che aveva fatto una lunga carriera nelle magistrature e nelle ambasciate, che all'atto della nomina è podestà di Brescia e che trova molta difficoltà nell'imporre la residenza e il controllo sul clero per i continui ricorsi del clero stesso a Roma. Ma sul problema dell'intervento di Roma nella nomina stessa del patriarca si ritornerà più avanti.
Al di là del patriarcato, la cui storia interna è ancora tutta da studiare, il panorama delle diocesi della Terraferma e del Dominio conferma, per quanto se ne sa fino ad oggi, questa simbiosi particolare e questo incerto equilibrio tra Stato e Chiesa. Alcuni casi abbastanza conosciuti possono permettere di tracciare qualche linea del quadro: Brescia, Verona, Aquileia e Treviso. Il vescovo di Brescia Domenico Bollani (1559-85) è la figura più rappresentativa del tentativo di continuare anche nella situazione post-tridentina una doppia appartenenza: "devozione alla Chiesa e allo Stato" è il sottotitolo posto ad una sua bella biografia (64): dopo una lunga carriera nelle magistrature e nella diplomazia, all'atto della sua nomina a vescovo di Brescia è podestà della stessa città. Non si può condividere l'impostazione ottimistica del biografo sulla trasfusione nella riforma cattolica della tradizione della Repubblica di Venezia. In realtà si tratta di un equilibrio difficile nel quale il centro di tutto, nonostante i conflitti che avvengono tra due diverse obbedienze anche all'interno della coscienza dello stesso vescovo, è rappresentato da una funzione disciplinante che trova il riscontro in una attività pastorale completamente parallela a quella statale (65), "integrata nella attuale realtà della Chiesa e adatta alla attuale realtà della Repubblica", come ha scritto magistralmente G. Cozzi (66). Il comportamento del Bollani appare quello in cui le due obbedienze sono più equilibrate, al più alto livello di tensione civica e religiosa. Gli altri esempi più significativi sono Agostino Valier, vescovo di Verona dal 1565 al 1606, e Francesco Barbaro, patriarca di Aquileia dalla nomina nel 1585 a coadiutore di Giovanni Grimani (successione in famiglia come durante quasi tutto il secolo secondo il costume di nominare accanto al patriarca in carica un patriarca eletto) sino a quando si ritirò egli stesso a Venezia nel 1608. Per il Valier non abbiamo alcuna biografia recente ma la sua produzione letteraria ci fa intravvedere una personalità in cui la composizione delle due obbedienze avviene in un modo sostanzialmente passivo e in cui il collante è costituito soprattutto dall'esaltazione dell'ordine costituito e dal timore per ogni devianza: gli incarichi di visitatore apostolico della Dalmazia (1578), dell'Istria (1579) e di Venezia stessa (1581), l'impegno pressoché totale a Roma negli ultimi anni configurano questo patrizio veneto più come uomo di Chiesa che uomo di Stato, come un vescovo che ha come modello (e imita "cautamente") Carlo Borromeo (67). Per Francesco Barbaro la recente e documentatissima biografia di Giuseppe Trebbi (68) ci permette di cogliere in pieno la figura di un prelato totalmente devoto alla Curia romana e difensore della giurisdizione ecclesiastica, ma altrettanto persuaso che l'unica possibilità anche per la riforma cattolica è quella di un'azione congiunta con il potere civile e non disgiunta dalla fitta ragnatela dei rapporti e degli interessi famigliari. Gli scontri di Francesco Barbaro sembrano trasferirsi nei confronti delle forze interne del clero (abbazie, monasteri, capitoli) e delle giurisdizioni comunitarie e feudali sparse nel territorio: la impossibilità di risolvere i nodi del rapporto tra Roma e Venezia sembra riportare alla paralisi, all'esaurimento della spinta di riforma tridentina (69). La sua lettera al nunzio Minuccio Minucci del febbraio 1596 per moderare il suo zelo curiale, descrive una situazione emblematica di questa fase post-tridentina (70):
V.S. sa benissimo che la Repubblica è pia, religiosa, e devota per sua natura di questa Santa Sede; è vero che non bisogna con certe cosette, che alla fine importano poco, insospettirla di voler invadere le giurisdizioni, delle quali tutti ne sono gelosi. Lei è al timone e credo che potrà aiutare che la barca camini placidamente sopra quelle onde che altri con fini storti potessero commovere; e certo niuna cosa conferisce più, e per la libertà ecclesiastica, e per il servizio di Dio, quanto che questa Santa Sede sia col vincolo della carità congionta con la Repubblica.
Il paragone che Barbaro farà più tardi tra la dipendenza dei patriarchi e dei vescovi dal papa e il ruolo dei rettori veneti di Terraferma nello Stato veneto ("poiché li patriarchi, vescovi et altri prelati né più né meno sono tenuti di riconoscere il papa vicario di Cristo e de dipendere dalla sua volontà e dalli suoi comandamenti come li rettori di questo Stato a riconoscere la Serenità Vostra et obedire alli suoi ordini" (71)) sarà il riconoscimento di un distacco ormai avvenuto nella bufera dell'Interdetto. Il patriziato veneziano diffidò del Barbaro il quale aveva dato adito al sospetto di tramare ai danni dello Stato per la sua fedeltà alla Santa Sede, ma la sua attività pastorale rimase al di sopra delle critiche: quasi nessuno a Venezia, eccezion fatta per il Sarpi e per pochi suoi discepoli, avrebbe osato rimettere apertamente in discussione i risultati di fondo dell'azione svolta dal Barbaro e dagli altri vescovi veneti, che negli ultimi decenni del '500 avevano introdotto nella Terraferma le tipiche istituzioni della cura d'anime post-tridentina (72). Più che dalle singole figure episcopali la fisionomia della Chiesa post-tridentina nel Veneto potrebbe essere meglio illuminata da indagini sul funzionamento concreto delle strutture, dalle piccole parrocchie di campagna ai canonicati delle grandi città, dalla pratica devozionale quotidiana alle espressioni più elaborate della nuova spiritualità. Occorrerebbe soprattutto un'analisi delle visite pastorali e dei sinodi, analisi che ora non possediamo salvo le eccezioni, alle quali si è accennato, per Brescia e Aquileia (73).
La abbondantissima documentazione raccolta per la diocesi di Treviso nella seconda metà del Cinquecento ci fa intravvedere uno strettissimo intreccio tra gli interessi della nobiltà veneziana e del ceto dirigente locale e la nuova riorganizzazione ecclesiastica: sul piano del rapporto Chiesa-società la ragnatela di interessi tra la classe aristocratica e il sistema beneficiale costituiva un collante molto più forte e solido al di sotto di ogni tensione di superficie (74). Le controversie che avvengono a tutti i livelli, da quello centrale al groviglio dei rapporti periferici, riguardano soprattutto alcuni specifici punti di frizione (ospedali e altri luoghi pii, monasteri femminili) e ben difficilmente toccano i non addetti ai lavori ma soltanto i protagonisti, i grandi funzionari e i prelati: lo Stato è ancora uno Stato confessionale che ha ottenuto dalla Chiesa post-tridentina le concessioni necessarie per il consolidamento della sua sovranità e la Chiesa è ancora preoccupata di un possibile distacco di Venezia per porre in modo determinante il problema della indipendenza del corpo ecclesiastico da quello politico. Ma il comune mortale, il popolo cristiano non poteva accorgersi delle crepe che andavano crescendo attraverso queste tensioni nella coscienza delle nuove generazioni politiche e nella presa di coscienza del clero: per esso il potere si esprimeva nelle prediche e nei decreti dei rettori, nel disciplinamento quotidiano della vita pubblica, religiosa e civile come in un insieme omogeneo nel quale il rito, la coreografia erano completamente misti, nel quale il confine tra l'aspetto religioso e quello politico era indefinibile e impalpabile; lo stato permanente di conflittualità doveva assumere ai suoi occhi l'aspetto delle controversie di precedenza nelle processioni e nelle cerimonie pubbliche.
4. Verso la frattura
Alla fine del secolo il patrizio Francesco Contarini scrive nei suoi Annali: "Li preti hanno in mille vie intacata la iurisdittion laica et andavano di giorno in giorno dilatando" (75). Le contese sul piano della giurisdizione hanno raggiunto alla fine del secolo il livello di guardia: la questione dell'Interdetto non sarà altro che l'ultimo atto di un crescendo drammatico aggravato dall'aumento cospicuo dei beni fondiari e delle rendite ecclesiastiche avvenuto per lasciti ereditari e donazioni nell'età post-tridentina. La coscienza pubblica è mutata particolarmente con la crisi costituzionale del 1583-84 e con il prevalere di nuovi equilibri internazionali che impongono alla nuova classe dirigente, ai "giovani", un atteggiamento sempre più circospetto e diffidente, in difesa, verso il nuovo ordine che trovava nel papato, negli Asburgo e nella Spagna i principali punti di riferimento. Ma questi problemi sono già stati ampiamente illustrati: qui vorrei mettere in luce soltanto un aspetto sottostante, meno esplorato, interno alla cristianità veneziana, dicendo semplicemente che le tensioni e le lotte giurisdizionali non sono che la manifestazione di tempeste di superficie del fenomeno che si è cercato di mettere a fuoco nei paragrafi precedenti, cioè della progressiva separazione del corpo ecclesiastico da quello politico in un organismo in cui l'intreccio e la simbiosi a tutti i livelli costituiva la vita stessa della comunità. Bisogna partire dal fatto che è errato vedere nelle lotte che si aprono la "ragion di Stato" dalla parte di Venezia e la "ragion di Chiesa" dalla parte del papato: oltre alle emergenze di ordine internazionale dovute alla presenza stessa dello Stato pontificio come potenza commerciale e militare (pensiamo alla contesa per il dominio sul mare Adriatico) e al sistema delle alleanze, tutta l'azione del papato in questo periodo sembra ispirata più che all'antico universalismo medievale alla necessità di compensare le perdite subite in seguito alla Riforma protestante con un aumento del predominio sull'Italia ammantando tutto questo sotto motivazioni religiose, come dirà poi Sarpi dei pontefici "omnia ad spiritualitatem et religionem revocantes" (76). D'altronde, dalla parte della Serenissima, non si difende soltanto un'autonomia politica ma soprattutto la sacralità dello Stato: non una religiosità vaga e ondivaga, sottoposta alle suggestioni più varie da quelle riformate a quelle gallicane, ma una tradizione ben precisa, secolare, per la quale la comunità cristiana non può esistere che come comunità completa e quindi statuale. Il concetto, tra innumerevoli citazioni che si potrebbero fare, sarà bene espresso nel parere di Paolo Sarpi contro i ricorsi a Roma da parte delle collettività soggette a Venezia: la comunità e quindi la Chiesa di un territorio non ha una consistenza separabile da quella dei singoli componenti e quindi la sua esistenza non può che coincidere con quella politica (77): "Ognuno può supplicare a Roma per cosa che reputa appartenere alla salute dell'anima sua nel foro della coscienza; ma non può una comunità che non ha anima distinta dall'anima de' particolari".
In sostanza il percorso sotterraneo che intravvediamo negli ultimi decenni del Cinquecento, al di là dei compromessi empirici sul piano politico e sul piano dell'esercizio concreto del potere ecclesiastico (nomine, giustizia, fisco, ecc.) è il consolidarsi della frattura apertasi nel secolo precedente, messa in secondo piano dal pericolo eversivo dell'eresia e dalla minaccia turca: l'attuazione del Concilio di Trento anche da parte dei prelati più fedeli alla Repubblica ha prodotto un processo irreversibile di formazione di un'anima collettiva della Chiesa veneta distinta da quella statale. Paradossalmente quindi il mutamento di rotta avvertito con il ricambio generazionale e l'avvento al potere dei giovani intorno al 1580 non va letto come emersione di una nuova tendenza dei giovani, contro i patrizi più conservatori, alla difesa dello Stato laico contro le invadenze clericali, ma come emersione della coscienza che i compromessi, a cui la Serenissima era stata costretta, avevano favorito una dissociazione che stava distruggendo la base sacrale dello Stato. Ma ormai si tratta di un recupero nostalgico che ha perso anche la forza del mito che aveva avuto nei primi decenni del '500: i richiami dei vecchi provvedimenti per l'esclusione dei papalisti, di tutti i patrizi compromessi in qualche modo con Roma, dalle più importanti decisioni pubbliche mostrano la loro tragica impotenza e contraddizione: il problema ora non è più la presenza di papalisti nei consigli ma di un corpo ecclesiastico separato dal corpo politico. L'episodio esemplare è la discussione del 1588 in senato sulla opportunità o il danno di ottenere la nomina di cardinali veneziani: Leonardo Donà sostiene lucidamente che è pericoloso per la Repubblica avere cardinali ed anche papi veneziani ma il parere contrario prevale e si decidono passi a Roma in favore delle nomine richieste: la divisione non è più tra papalisti e antipapalisti ma per la prima volta è visibile ad occhio nudo una frattura interna al corpo sociale veneziano prima ancora che nelle relazioni con Roma. Leonardo Donà e i "giovani" non sono, a mio avviso, sostenitori del sopravvento della politica sulla religione, di un regalismo di tipo moderno, e neppure di un dualismo fra Stato e Chiesa, ma coloro che ritengono possibile tentare la restaurazione dell'antica tradizione, perduta negli ultimi tempi dello Stato sacrale. I pericoli della sovversione ereticale sono ormai scomparsi negli anni dopo il 1570 ed anche l'ondata di entusiasmo che aveva animato la guerra contro il Turco, culminata nella battaglia di Lepanto, con i colori della crociata ha lasciato il posto alla coscienza, dopo la pace del 1573, che il Turco non è più il nemico fondamentale ma uno dei pericoli che circondavano Venezia: viene lentamente meno quella coscienza pubblica della Serenissima come "antemurale" della cristianità che era stato il collante fondamentale nel rapporto con Roma (78). Non si tratta di comprendere, in coloro che poi saranno protagonisti della contesa dell'Interdetto, la conciliazione tra una intensa religiosità privata e la difesa dello Stato ma di capire che la religione per loro non può essere concepita come un fatto privato, dal doge (ricordiamo ancora che a Pasquale Cicogna, morto nel 1595, viene attribuito il miracolo dell'ostia consacrata volata nelle sue mani per un colpo di vento) sino all'ultimo suddito della Terraferma. Certamente il dualismo diventa ormai dominante e anche per le nuove generazioni l'atteggiamento difensivo che si viene affermando è quello centrato sulla distinzione tra le due sfere, secondo la dichiarazione dello stesso Leonardo Donà al nunzio pontificio nel 1589 "esser distinte per loro natura tra sé le giurisditioni ecclesiastica e laica" (79). Ma qui vogliamo sottolineare il fatto che il principio della divisione dei poteri non era tanto il frutto della coscienza delle nuove generazioni quanto della tendenza del clero a formare, con l'appoggio di Roma, un corpo a se stante rispetto a quello politico. Si è già accennato allo stupore dei nunzi degli anni '30 di fronte alla anomalia ancora esistente nel caso veneto per la commistione tra potere politico e potere spirituale; dopo il Concilio di Trento assistiamo ad una vera e propria fatica dei nunzi per educare la classe dirigente veneziana al principio della divisione dei due poteri. Paradossalmente è Roma che contribuisce a far crescere in Venezia la coscienza, dapprima inesistente, di uno Stato laico. Cerchiamo di esemplificare questo in alcuni episodi più importanti (la controversia intorno alla bolla pontificia In coena Domini, la visita apostolica, il problema della conferma del patriarca) dagli anni '60 alla fine del secolo, trascurando volutamente tutti gli episodi in cui sono prevalenti gli aspetti politici, pur così importanti nella realtà concreta, per concentrarci sulle loro conseguenze sul piano del rapporto tra Chiesa e società.
La prima tensione si apre con l'inizio del pontificato di Pio V: le istruzioni e i primi atti del nuovo nunzio Giovanni Antonio Facchinetti mettono in crisi, già dal 1566, il compromesso raggiunto con la conclusione del Tridentino (80). I provvedimenti per la residenza del clero, contro la corruzione del clero e dei monasteri, per la persecuzione degli eretici, esigono, per essere realmente applicati, un mutamento nella disciplina giuridica (soprattutto la lotta contro il giuspatronato laico, sia pubblico che privato, sui benefici ecclesiastici) e nella stessa mentalità dei governanti: il primo sforzo di teorizzazione sulla divisione dei poteri è quello contenuto nei discorsi del nunzio in collegio nel quadro di una dottrina teocratica che vede il mondo diviso tra la signoria di Cristo (e quindi del suo vicario il papa) e la sovranità dei prìncipi. La controversia sulla pubblicazione della bolla In coena Domini in Venezia e nel Dominio negli anni 1568-70 rappresenta, accanto ai ricatti quotidiani e all'attenzione sino alle norme cerimoniali più minute (81), il vero primo braccio di ferro tra Roma e Venezia secondo due concezioni diverse della Chiesa e dello Stato e non più soltanto tra due diverse tradizioni. Diciamo soltanto che la bolla era pubblicata, come dice il suo nome, durante la cerimonia del giovedì santo dai pontefici sin dal XIV secolo e contemplava la scomunica per particolari categorie di persone (eretici, pirati, occupatori delle terre della Chiesa, ecc.): il punto determinante, quando essa è resuscitata da Pio V, è l'insistenza sulla scomunica ai prìncipi che impongono ingiustamente o senza il permesso della Sede Apostolica tasse e gabelle (82). Il problema della potestà contributiva pone in gioco concretamente il problema della sovranità statale: il governo veneziano sostiene il proprio diritto alla imposizione fiscale e polemicamente insiste sul fatto che è stato proprio il papato, approfittando dell'unione del potere temporale con quello spirituale, a dare l'esempio agli Stati nell'introduzione dei nuovi sistemi di tassazione; da Roma si ribadisce che il controllo da parte del pontefice è ammesso non soltanto dai sostenitori del potere diretto del papa in temporalibus ma anche dai teologi (come Domenico de Soto, Francesco de Vitoria) che si sono schierati in difesa dei sovrani: il papa deve, come pastore universale, preoccuparsi di proteggere i popoli dalle ingiustizie e dalle angherie dei prìncipi. La politica papale è sempre però realistica e mira a trarre dal problema generale almeno alcuni vantaggi in favore dell'immunità fiscale del clero (83):
[...> Ma poiché i prìncipi tutti non possono sentire di levare et restringere le facoltà di accrescere le loro entrate, et questa tale sopraintendenza di N.S. li pare formidabile, et i popoli in gran parte sono devenuti heretici, et molti cattolici ciechi et ignoranti, S. Beatitudine conosce la qualità del negotio et la calamità di questi tempi. Io non voglio già promettere che si possa ottenere qua che questi signori si debbano astenere dall'imporre datii et gabelle, ma credo ben che N.S. con la solita patienza et providenza sua, potrà, per mezzo di questa bolla, rimediar a molti et molti abusi che si sono introdotti in questo Dominio contro la giurisditione ecclesiastica.
Questa volta il braccio di ferro è vinto temporaneamente dalla Serenissima anche per la particolare situazione che si verifica alla vigilia di Lepanto, ma l'episodio rappresenta il primo scollamento, non soltanto tra lo Stato e la Chiesa, ma anche tra il popolo cristiano e il clero che tende a configurarsi (nel frantumarsi dell'impossibile sogno di una cristianità universale) come corpo privilegiato separato. Più tardi, nel 1580, in occasione di una nuova contesa nata dalla scomunica di un avogador di comun per aver intentato un processo contro un ecclesiastico, Leonardo Donà richiamerà i vecchi e nuovi meriti di Venezia "antemurale della christianità" contro il Turco e ricorderà l'esempio di Domenico Bollani che aveva espresso il desiderio di rinunciare al vescovato di Brescia perché "in proposito della bolla In coena Domini [...> non poteva obedir la Santità Sua senza incorrer in contumatia con la sua patria" (84).
Il secondo episodio riguarda la visita apostolica del 1581 al patriarcato di Venezia. Il progetto dell'invio di un visitatore apostolico delegato da Roma non poteva non risollevare problemi di fondo proprio nella visione tradizionale dell'autonomia della Chiesa locale e dei suoi legami con la società: non per nulla le visite apostoliche erano iniziate nei primi anni di Gregorio XIII a partire dalle diocesi dello Stato pontificio. L'uomo chiave che prepara questa iniziativa è Carlo Borromeo che come visitatore delle diocesi veneziane di Bergamo (1575) e poi di Brescia (1580-81) riesce a volare più alto delle controversie giurisdizionali, pur esistenti, per la sua personalità e per l'impostazione nettamente spirituale ed episcopale (85). Nel febbraio 1580 Borromeo è a Venezia dove ha grande successo con enorme concorso di popolo alla predicazione e alla celebrazione dell'eucarestia: di lì egli scrive a Roma che Venezia stessa avrebbe bisogno di procedere ad una generale riforma della disciplina "né in ciò si può aspettare provisione alcuna dal Patriarca, il quale non ha già cattiva volontà, ma è huomo da niente"; l'unico rimedio sarebbe una visita che non avrebbe avuto ostacoli "purché non si entrasse a romperla con loro in certe usanze vecchie et usurpatione della giurisdizione ecclesiastica e cose simili"; per questo sarebbe meglio che la visita fosse condotta non dal nunzio ma da altra persona che potesse sottolinearne il fine unicamente spirituale (86).
In realtà l'intelligente consiglio del Borromeo viene seguito soltanto in parte dalla Curia romana: al nunzio Alberto Bolognetti vengono affiancati come convisitatori due veneziani, Federico Corner, vescovo di Padova, e Agostino Valier, vescovo di Verona (e già visitatore delle diocesi della Dalmazia e dell'Istria), ma questo non basta a smorzare la diffidenza del governo veneziano (87). Più che le interpretazioni date sino ad ora dagli storici sul cesaropapismo veneziano o sul nuovo spirito laico che anima la Signoria ci sembra dover porre l'accento sulla coscienza del rapporto Chiesa-società che emerge dalle discussioni in consiglio dei dieci e in senato: la visita deve essere compiuta dal patriarca come ordinario della diocesi, afferma il vecchio doge Nicolò da Ponte; in Venezia non è possibile distinguere l'aspetto religioso da quello civile, non soltanto per i luoghi pii, per le procuratie, per gli ospedali e per le scuole, ma anche per i monasteri maschili, per le monache e per le stesse parrocchie che sin dalla loro fondazione sono giuspatronato della Repubblica. Il 3 marzo 1581 il senato decide infine di accettare un solo visitatore, il Valier, e di escludere dalla visita le monache ed i luoghi pii governati dai laici: questa è la base sulla quale la visita viene condotta nei mesi successivi; il nunzio Bolognetti, giudicato troppo debole e remissivo, viene richiamato a Roma, ma anche il suo successore, Lorenzo Campeggi, si tiene in secondo piano quasi come accompagnatore del Valier e non conclude la visita con ordinazioni formali emananti dall'autorità apostolica, come il Valier stesso scrive a Carlo Borromeo al suo ritorno a Verona alla fine d'agosto: "Spero con l'aiuto di Dio di affaticare nelle visite di quà con maggior frutto di quello ch'ho potuto fare in Venetia, essendo stato il negocio veramente da tutte le parti difficillimo, essendo bisognato visitar congiuntamente, haver notari e ministri comuni, et havendo havuto molte contrarietà occulte, donde si doveva et si poteva sperar aiuto" (88).
Questa conclusione ambigua permetterà negli anni successivi l'estensione della visita apostolica alle altre importanti diocesi del Dominio (nel 1583 a Padova, Vicenza e Verona; nel 1584 a Feltre, Belluno, Concordia e Treviso) ma contribuirà a diffondere una situazione di disagio che si ripercuoterà negli anni successivi accentuando su questo tema fondamentale la frattura all'interno della classe dirigente: anche per queste motivazioni l'emergere di un giurisdizionalismo laico in senso moderno nei "giovani" può essere visto non tanto come causa del sopravvento di un nuovo ideale politico su quello religioso, quanto l'effetto della constatata impossibilità di recepire la riforma tridentina all'interno della tradizione veneziana.
Il diaframma tra Venezia e il papato della controriforma viene crescendo negli ultimi due anni del Cinquecento: lasciamo al quadro politico generale il bilancio sul peso che ebbero in questo deterioramento le grandi controversie come quella ricorrente relativa al mare Adriatico, la posizione filofrancese di Venezia nelle complicate vicende diplomatiche relative all'assoluzione di Enrico IV di Francia, la questione di Aquileia a proposito dei diritti sul feudo di Taiedo, le pretese di sovranità del vescovo di Ceneda (89). Ciò che interessa sottolineare è la conseguenza indiretta che questi episodi hanno avuto, insieme ad innumerevoli altri quotidiani più o meno clamorosi relativi all'immunità giudiziaria e fiscale del clero in tutto il Dominio, nel provocare il lento distacco del corpo ecclesiastico da quello politico, distacco che i compromessi e le mediazioni dei prelati veneziani non riescono a fermare in una situazione in cui sia sul piano delle idee che su quello degli interessi si afferma una divaricazione che tende fatalmente a espandersi o nella direzione curiale o in quella del giurisdizionalismo laico. L'episodio ultimo che appare esemplarmente più significativo è quello che si apre proprio nell'anno 1600 con la controversia per la conferma del patriarca, eletto secondo la tradizione in pregadi, il laico Matteo Zane (90). Clemente VIII chiede che l'eletto si presenti a Roma, come tutti i vescovi italiani debbono dal 1592, per sottoporsi al giudizio di una commissione di cardinali sulla sua preparazione in diritto canonico e teologia: Venezia resiste più di un anno, ma infine lo Zane si reca a Roma con la promessa che non verrà sottoposto ad esame formale; ma una volta che il patriarca eletto è alla presenza del papa ha luogo un colloquio che assume formalmente la "spetie d'esame". Sarà l'ultimo cedimento, l'ultimo compromesso, l'ultimo equivoco prima della resa dei conti. Ma la difesa della scelta veneziana, a parte la vertenza sull'esame e l'approvazione da parte di Roma, appare ancorata più all'ecclesiologia e alla tradizione spirituale della Serenissima che non ad una visione giurisdizionalistica come emerge dal discorso fatto da Leonardo Donà in occasione della vertenza: "Perché portava d'haver letto in S. Giovanni Chrisostomo esser frequentemente più utile alla Chiesa un vescovo tolto tra li consultori di Stato che elletto dalli monesterii o dalli seminarii". Ancora allo scoppiare della contesa dell'Interdetto mentre la diplomazia veneziana cerca di indurre i sovrani ad un fronte comune contro le prepotenze della Curia romana, la diplomazia pontificia dipinge la situazione veneta come un caso del tutto anomalo perché i Veneziani agiscono "come se fossero vescovi et havessero la total giurisditione spirituale" (91). Negli stessi anni Giovanni Botero nella sua Relatione della Repubblica Venetiana (92), descrivendo la magnificenza delle chiese, la profondità della fede, la diffusione della devozione e del culto, l'impegno nelle opere di carità, caratterizzava la "religione di Venezia" come fine, non strumento della società politica: ma sembra una visione edulcorata; anche se non falsa, come quadro visto dall'alto, non tiene alcun conto delle dinamiche interne, delle tensioni che stanno per esplodere.
Sul piano della coscienza individuale il Soliloquio di Paolo Paruta, apparso postumo nel 1599 e composto qualche anno prima (troppo spesso letto soltanto come documento intimistico e mistico), è anche ricapitolazione in chiave autobiografica di tutto il secolo ormai al tramonto: la storia personale si identifica con la storia religiosa e civile della "patria" senza la quale Paruta avrebbe perso la propria identità non soltanto di uomo ma anche di cristiano in "questo corrotto secolo principalmente, nel quale con certo vano nome di ragion di stato si vanno spesso perturbando, et confondendo le cose humane e le divine [...> ". Ogni potere viene da Dio e la vita attiva nel "governo di famiglia, amministrazione di robba, negotii della Repubblica", la stessa vita civile non avrebbe senso e sarebbe soltanto torre di Babele e fonte di dannazione se la patria - Venezia - non fosse essa stessa creatura divina:
Dammi dunque Signore [...> che ami la mia Patria terrena, non però si, che minor conto tenga della mia Patria celeste; et ubbidisca alla mia Repubblica con integrità di coscienza, con fine di giovare a lei, non a me, et per la tua, non per la mia gloria. Questa è meravigliosa opera della tua mano, et che da te solo s'ha a riconoscere; poiché per si lungo corso d'anni con unico esempio si conserva nella libertà, nel Dominio, nella vera religione. Però s'io non posso con fervore di spirito servire immediatamente a te, fa che almeno possa non indegnamente, et infruttuosamente servirti in questa, che tu facesti eccellentissima creatura tua.
È tutta una tradizione veneziana, da Bernardo Navagero a Gasparo Contarini, che si rispecchia in queste parole, ma non più tanto nella prospettiva positiva ancora prevalente nel suo Della perfettione della vita politica, di venti anni precedente, quanto nella forma di un testamento spirituale che sembra tradursi in un testamento politico di Venezia. In esso vi sono anche, particolarmente nell'ultima invocazione a Dio perché conceda al papa Clemente VIII di condurre nel porto della pace la "abbattuta nave della Christianità", le inquietudini del secolo e traspaiono i timori di una crisi imminente. Egli sembra respingere la dissociazione, che già sente intorno a sé, tra politica e religione, dissociazione che Paolo Sarpi dopo qualche anno cercherà di vincere respingendo ogni compromesso e progettando un ritorno alla sacralità dello Stato con un'impossibile sintesi tra le antiche tradizioni veneziane e le nuove proposte riformate e gallicane ormai consolidate nei nuovi Stati confessionali. Ma politicamente sarà troppo tardi, in un sistema italiano ed europeo ormai bloccato.
1. Gabriel Le Bras, La chiesa e il villaggio, Torino 1979. L'ingrandimento di un particolare di questo paesaggio per il Veneto di quest'epoca lo possediamo per la Valpolicella nel saggio esemplare di Michael Knapton, Istituzioni ecclesiastiche, culto, religiosità nella Valpolicella di età pretridentina e tridentina, in La Valpolicella nella prima età moderna (1500 c.-1630), a cura di Gian Maria Varanini, Verona 1987, pp. 319-453.
2. Paolo Prodi, The Structure and Organization of the Church in Renaissance Venice: Suggestions for Research, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 409-430. Per la storia della pietà (il mio compito qui è di limitarmi agli aspetti esterni del rapporto tra strutture ecclesiastiche e società senza entrare negli strati più profondi delle espressioni del sentimento religioso) sono ancora in gran parte da approfondire le suggestioni avanzate da Giuseppe De Luca, Letteratura di pietà a Venezia dal '300 al '600, Firenze 1963.
3. V. da ultimo Dennis Romano, Patricians and Popolani. The Social Foundations of the Venetian Renaissance State, Baltimore-London 1987, cap. V: "The Parochial Clergy and Communities of the Sacred", pp. 91-118.
4. Gaetano Cozzi, Domenico Morosini e il "De bene instituta re publica", "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 417-418 (pp. 405-458). Dal punto di vista opposto della trattatistica religiosa sull'ideale del vescovo v. Oliver Logan, The Ideal of the Bishop and the Venetian Patriciate: c. 1430-c. 1630, "Journal of Ecclesiastical History", 29, 1978, pp. 415-450.
5. Franco Gaeta, Origine e sviluppo della rappresentanza stabile pontificia in Venezia (1483-1533), "Annali dell'Istituto Italiano per l'Età Moderna e Contemporanea", 9-10, 1957-58, pp. 5-281; Id., Un nunzio pontificio a Venezia nel Cinquecento (Girolamo Aleandro), Venezia-Roma 1960. Inoltre naturalmente i volumi della serie Nunziature di Venezia (il cui I vol. è apparso nel 1958 a cura di Id.).
6. Innocenzo Giuliani, Genesi e primo secolo di vita del Magistrato sopra i monasteri (1519-1620), "Le Venezie Francescane", 28, 1961, pp. 42-68 e 106-169.
7. François Dupuigrenet-Desroussilles, L'Università di Padova dal 1405 al Concilio di Trento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 607-647.
8. V. soprattutto (anche per gli studi precedenti) Gigliola Fragnito, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze 1988; Gasparo Contarini e il suo tempo, a cura di Francesca Cavazzana Romanelli, Venezia 1988.
9. Ricordo soltanto la nota tesi di Hubert Jedin (Gasparo Contarini e il contributo veneziano alla riforma cattolica, in AA.VV., La civiltà veneziana del Rinascimento, Venezia-Firenze 1958, p. 114 [pp. 103-124>): "Ciò che non riuscì sotto Leone X a Querini e Giustiniani, poté essere compiuto da Contarini sotto Paolo III: aprire la porta di Roma alla Riforma cattolica".
10. Su quest'opera v. in particolare G. Fragnito, Gasparo Contarini, pp. 79-211.
11. Come base di questa riflessione è ancora importante Innocenzo Cervelli, Storiografia e problemi intorno alla vita religiosa e spirituale a Venezia nella prima metà del '500, "Studi Veneziani", 8, 1966, pp. 447-476.
12. Antonino Poppi, La teologia nell'Università e nelle scuole, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Vicenza 1980, p. 33 (con la citazione dall'edizione dell'Opera del 1571, p. 580) (pp. 1-33).
13. Tra le molte pagine dedicate da Gaetano Cozzi al problema, particolarmente efficace è il saggio La politica culturale della Repubblica di Venezia nell'età di Giovan Battista Benedetti, in G.B. Benedetti e il suo tempo (Atti del Convegno internazionale di studio), Venezia 1987, pp. 9-27.
14. Per il quadro generale William J. Bouwsma, Venezia e la difesa della libertà repubblicana. I valori del Rinascimento nell'età della Controriforma, Bologna 1977 (con la osservazione di Paolo Prodi in Il sovrano pontefice, Bologna 1982, pp. 326-327).
15. Gaetano Cozzi, Politica, cultura e religione, in Cultura e società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, a cura di Vittore Branca-Carlo Ossola, Firenze 1984, p. 26 (pp. 21-42). Per il persistere della concezione religiosa dello Stato nei decenni successivi (in particolare nelle Orazioni di Bartolomeo Spadafora) v. Salvatore Caponetto, B. Spadafora e la riforma protestante in Sicilia nel sec. XVI, "Rinascimento", 7, 1956, pp. 296-310. Più in generale Gino Benzoni, Una città caricabile di valenze religiose, in La Chiesa di Venezia tra riforma protestante e riforma cattolica, a cura di Giuseppe Gullino, Venezia 1990, pp. 37-61.
16. "Renovatio urbis": Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984.
17. Per una visione d'insieme v. Gaetano Cozzi, Stato e Chiesa: vicende di un confronto secolare, in AA.VV., Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987, pp. 11-56.
18. John Martin, Salvation and Society in Sixteenth-Century Venice: Popular Evangelism in a Renaissance City, "Journal of Modern History", 60, 1988, pp. 205-233; Anne Schutte Jacobson, Periodization of Sixteenth-Century Italian Religious History : The Post-Cantimori Paradigm Shift, ibid., 61, 1989, pp. 269-284.
19. Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985, pp. 116-117. Per l'analisi di un caso esemplare v. Antonio Foscari - Manfredo Tafuri, L'armonia e i conflitti. La chiesa di S. Francesco della Vigna nella Venezia del '500, Torino 1983.
20. Oltre al saggio di Giovanni Scarabello in questo stesso volume rinvio per lo specifico rapporto tra pietà ed assistenza ai saggi contenuti nel volume Nel regno dei poveri. Arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna (1474-1797), a cura di Bernard Aikema-Dulcia Meijers, Venezia 1989.
21. Un'ultima sintesi in Silvio Tramontin, Le nuove congregazioni religiose, in La Chiesa di Venezia tra riforma protestante e riforma cattolica, a cura di Giuseppe Gullino, Venezia 1990, pp. 77-112. In particolare per il soggiorno di Ignazio di Loyola a Venezia nel 1536-37 e per il processo a cui dovette sottostare per sospetto di eresia v. Pietro Tacchi Venturi, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, II/i, Roma 1951, pp. 78-83.
22. Brian Pullan, La nuova filantropia nella Venezia cinquecentesca, in Nel regno dei poveri. Arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna (1474-1797), a cura di Bernard Aikema-Dulcia Meijers, Venezia 1989, p. 27 (pp. 19-34) (con rinvio naturalmente ai precedenti saggi dello stesso Pullan sul sistema caritativo veneziano).
23. V. il saggio di Aldo Stella in questo stesso volume (con rinvio ai suoi numerosi saggi e volumi precedenti) e Cesare Vasoli, Profezia e ragione nel-la cultura del Rinascimento, Napoli 1974, pp. 174-179. Per l'ambiente intellettuale è fondamentale il volume di Christopher Cairns, Pietro Aretino and the Republic of Venice. Researches on Aretino and His Circle in Venice 1527-1556, Firenze 1985.
24. S. Tramontin, Le nuove congregazioni, pp. 82-83.
25. Aldo Stella, Movimenti di riforma nel Veneto nel Cinque-Seicento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 1-21. Ricordiamo pure la frase dello stesso Contarini in una lettera al Giberti del 1537, contro gli zelanti: "li quali perché Lutero ha detto cose diverse de gratia Dei et libero arbitrio, si hanno posto contra ogni uno il quale predica et insegna della infermità umana" (in Gaetano Cozzi - Michael Knapton - Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992, p. 31).
26. F. Gaeta, Un nunzio pontificio a Venezia, pp. 87-91. Quivi è pure citata la riflessione del nunzio Aleandro pochi giorni dopo il suo arrivo a Venezia (aprile 1533): "Et è hormai venuta la cosa di molti religiosi di questa città in tal desordine, non so se per tirare denari o che lutherizzino [...>".
27. È tutta da fare l'indagine sulla carriera e la prosopografia dei vescovi veneti a partire dal sondaggio di Giuseppe Alberigo, I vescovi italiani al concilio di Trento (1545-1547), Firenze 1959, pp. 47-89.
28. Tipica di questo atteggiamento è la lettera dei procuratori da ultra al card. Marcello Cervini in data 29 aprile 1552 (Nunziature di Venezia, VI, a cura di Franco Gaeta, Roma 1967) a proposito della nomina del priore del convento dei Serviti della Giudecca: "Et perché, per legge, di questo Ill.mo Dominio et per continua osservantia, sempre al governo del predetto nostro monasterio si sono di tempo in tempo posti priori et ministri da integra vita et signanter venetiani et subditi di questo Dominio [...> dia tale ordine che in executione delle preditte leggi et ordini nostri sia eletto priore in questo loco persona da bene et venetiano, acciò abbiamo causa di accettarlo et tenerlo questo governo".
29. Un esempio nella istruzione del card. Michele Bonelli al nunzio Giovanni Antonio Facchinetti del marzo 1566 (ibid., VIII, a cura di Aldo Stella, Roma 1963, p. 36): "Che al fare delli piovani delle parrocchie, ciascuno che havrà ad essere ballottato porti una fede delli tre più vecchi nobili et tre altri più vecchi cittadini et popolari della parrocchia, circa la bontà et costumi, et una fede del patriarcha circa la sua dottrina".
30. Ibid., II, a cura di Franco Gaeta, Roma 1960, p. 68, ad Ambrogio Ricalcati 13-14 luglio 1536; ed alcuni mesi dopo (8 dicembre 1536) allo stesso (ibid., p. 96): "[...> ma V.S. ha da sapere si come più volte ancora ho scritto, che questa Signoria vole essere alle volte et papa et principe, né però temeno scomuniche né minacce quando non li va de fantasia".
31. Giuseppe Del Torre, La politica della Repubblica di Venezia nell'età moderna: la fiscalità, in Fisco religione Stato nell'età confessionale, a cura di Hermann Kellenbenz-Paolo Prodi, Bologna 1989 (Annali dell'Istituto Storico Italo-Germanico, Quaderno 26), pp. 387-426.
32. Ibid., p. 405. Come esempio della miscela dei problemi finanziari con altri problemi politici e finanziari è opportuno riportare qualche brano della lettera del nunzio Girolamo Aleandro a Pietro Carnesecchi in data 23 aprile 1534: è molto rischioso non concedere il permesso di imporre sul clero il prestito richiesto "né mancono già delli maligni intelletti che, con gran attention, in molti Pregadi volsero persuadere che non eran tenuti chieder licenza di questo, ma che poteano e doveano da sé metter detto impresto, non essendo obbligati obedire il pontefice se non in materia fidei et sacramentorum [...>"; a queste posizioni estreme espresse da Sebastiano Foscarini ha replicato Gasparo Contarini che è riuscito ad ottenere che l'assemblea decidesse di chiedere il permesso al papa: "Et in effetto, ancor che messer Gaspare, seguendo ancor lui il corso di ambir di questa terra, per quanto ho inteso da alcuni degni di fede, non si porta così bene nelle cose della giurisditione et libertà ecclesiastica, nondimeno lui tiene ferma-mente pontificatum romanum esse de iure divino, et di ciò ha scritto un libretto [...>" (Nunziature di Venezia, II, p. 210; sull'episodio v. G. Fragnito, Gasparo Contarini, p. 32).
33. Gerolamo Verallo ad Ambrogio Ricalcati, 26 febbraio 1536 (Nunziature di Venezia, II, p. 47).
34. Anne Jacobson Schutte, Pier Paolo Vergerio e la Riforma a Venezia 1498-1549, Roma 1988.
35. Aldo Stella, L'orazione di Pier Paolo Vergerio al doge Francesco Donà sulla riforma della Chiesa (1545), "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 128, 1969-70, pp. 1-39 (la cit. è a p. 37).
36. C. Cairns, Pietro Aretino, capp. IV e V.
37. Per ulteriori accenni al problema e bibliografia v. P. Prodi, The Strutture, pp. 422-424 e in particolare Giorgio Fedalto, Ricerche storiche sulla posizione giuridica ed ecclesiastica dei greci a Venezia nei secoli XV e XVI, Firenze-Venezia 1967 e Vittorio Peri, L'"incredibile risguardo" e l'"incredibile destrezza". La resistenza di Venezia alle iniziative post-tridentine della S. Sede per i greci dei suoi dominii, in AA.VV., Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, Firenze 1977, pp. 599-625. Interessante mi sembra citare la lettera del nunzio Giorgio Andreassi al card. A. Farnese (4 gennaio 1541, in Nunziature di Venezia, II, p. 277) nella quale si dice che i Greci non riconoscono che l'autorità del patriarca di Costantinopoli e ritengono i cattolici uguali ai luterani: "e tornano a predicare, tanto in la chiesa, come nelli altri lochi publici, li latini tutti per lutherani".
38. V. da ultimo Silvana Seidel Menchi, Protestantesimo a Venezia, in La Chiesa di Venezia tra riforma protestante e riforma cattolica, a cura di Giuseppe Gullino, Venezia 1990, pp. 131-154, e Ead., Der Protestantismus in Venedig, "Nederlands Archief voor Kerkgeschiedenis", 70, 1990, pp. 140-157; John Martin, Alcuni aspetti di un'analisi quantitativa dell'Inquisizione veneziana: primi risultati e metodi, in AA.VV., L'Inquisizione romana in Italia nell'età moderna. Archivi, problemi di metodo e nuove ricerche, Roma 1991, pp. 143-158.
39. In questo senso sembrano ancora valide le indicazioni di Edouard Pommier, La société vénitienne et la Réforme protestante au XVIe siècle, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", i, 1959, pp. 3-26. Mentre le indagini di Aldo Stella hanno ben illustrato i fondamenti intellettuali del radicalismo anabattista e le lacerazioni interne sul problema trinitario penso sia ancora da approfondire il radicalismo politico anabattista (e la sua repressione in Venezia come nei paesi protestanti e riformati) con il rifiuto delle magistrature cristiane, del giuramento ecc.: "Levano le auttorità di ogni Signoria et praticano una libertà christiana che non dobbiamo essere soggetti ad alcuno" (Aldo Stella, Dall'anabattismo al socinianesimo nel Cinquecento veneto. Ricerche storiche, Padova 1967, p. 200).
40. Marion Leather Kuntz, Voci profetiche nella Venezia del sedicesimo secolo, "Studi Veneziani", n. ser., 22, 1991, pp. 49-74 (quivi il rinvio agli studi precedenti sull'esperienza veneziana di Guillaume Postel).
41. Sull'organizzazione e gli sviluppi dell'Inquisizione veneta v. Andrea Del Col, Organizzazione, composizione e giurisdizione dei tribunali dell'Inquisizione romana nella Repubblica di Venezia (1500-1550), "Critica storica", 25, 1988, pp. 244-294; Id., L'inquisizione romana e il potere politico nella Repubblica di Venezia (1540-1560), "Critica Storica", 28, 1991, pp. 189-250. Per i risvolti nei riguardi della stampa v. Paul F. Grendler, L'Inquisizione romana e l'editoria a Venezia 1540-1605, Roma 1983.
42. Il Concilio di Trento come crocevia della politica europea, a cura di Hubert Jedin-Paolo Prodi, Bologna 1979 (Annali dell'Istituto Storico Italo-Germanico, Quaderno 4). Per tutto ciò che segue v. Hubert Jedin, Venezia e il concilio di Trento, "Studi Veneziani", 14, 1972, pp. 137-157.
43. Adriano Prosperi, Tra evangelismo e controriforma: Giovan Matteo Giberti (1495-1543), Roma 1969; Riforma pre-tridentina della diocesi di Verona. Visite pastorali del vescovo G.M. Giberti 1525-1542, a cura di Antonio Fasani, I-III, Vicenza 1989. Per il Contarini, nonostante le contraddizioni e i compro-messi che caratterizzarono l'accettazione della diocesi di Belluno (che passerà poi al nipote Giulio Contarini) era chiara la sua impostazione pastorale sin dal suo De officio episcopi, v. G. Fragnito, Gasparo Contarini, pp. 44-46 e 155-206.
44. G. Alberigo, I vescovi italiani, pp. 47-89.
45. Sull'interessante caso del Soranzo v. Pio Paschini, Un vescovo disgraziato nel Cinquecento italiano : Vittorio Soranzo, in Id., Tre ricerche sulla storia della Chiesa nel Cinquecento, Roma 1945, pp. 92-151. Negli stessi anni viene accusato d'eresia anche il patriarca di Aquileia, v. Id., Giovanni Grimani accusato d'eresia, in Id., Tre illustri prelati del Rinascimento, Roma 1957, pp. 131-196. Dello stesso Paschini v. pure Venezia e l'Inquisizione romana da Giulio III a Pio IV, Padova 1959, nel quale è possibile cogliere (più forse che in opere successive) l'intreccio tra le accuse ereticali e i concreti grovigli di interessi familiari e politici sottostanti.
46. Giuseppe Alberigo, La riforma dei Principi, in Il Concilio di Trento come crocevia della politica europea, a cura di Hubert Jedin-Paolo Prodi, Bologna 1979 (Annali dell'Istituto Storico Italo-Germanico, Quaderno 4), pp. 161-177; Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell'Occidente, Bologna 1992, pp. 314-320.
47. Sul dibattito tra vescovi, ambasciatori e consiglio dei dieci a proposito della libertà di voto conciliare v. soprattutto Gaetano Cozzi, Domenico Bollani: un vescovo veneziano tra Stato e Chiesa, "Rivista Storica Italiana", 89, 1977, pp. 562-589.
48. È abbastanza indicativo l'elenco dei meriti di Pio IV verso la Repubblica che l'ambasciatore a Roma Girolamo Soranzo inserisce nella sua relazione del 1563: "Fece suo [della Serenissima> giuspatronato l'arcivescovato di Cipro; espedì in buonissima forma un motu proprio sopra la denominatione che ha la Serenità Vostra del patriarca di questa città, con altri privilegi a favore delle sue giurisdizioni; e le diede la denominazione delli quattro per il vescovato di Verona quando vacò per la prima volta. Ha proceduto con gran rispetto nel conferir i vescovati vacanti a suo tempo, in questo Serenissimo Dominio, avendoli dati tutti a gentilhuomini veneziani. Concesse due decime molto graziosamente [...>" (in Relazioni degli ambasciatori veneti al senato, a cura di Eugenio Alberi, ser. II, vol. IV, Firenze 1857, p. 116).
49. Edward Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinasci-mento, Roma 1984.
50. Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, p. 340.
51. V. le acute osservazioni metodologiche e concrete di Edward Muir nel saggio Manifestazioni e cerimonie nella Venezia di Andrea Gritti, in AA.VV., "Renovatio Urbis": Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, p. 74 (pp. 59-77).
52. G. Cozzi - M. Knapton - G. Scarabello, La Repubblica di Venezia nell'età moderna, p. 24. Sullo stato giuridico della chiesa di S. Marco e sulla funzione del Primicerio nel suo governo (secondo l'antica formula "governi il Primicerio nello spirituale la chiesa, ma come dal doge gli sarà ordinato") è ancora punto di partenza lo studio di Andrea Galante, Per la storia giuridica della Basilica di S. Marco, "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte", Kanon. Abt. 2, 1912, pp. 283-298. Ma vedi ora lo studio esaustivo di Gaetano Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio sulla cappella ducale di San Marco, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 151, 1992-93, pp. 1-69.
53. Gina Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I, Firenze 1973, pp. 261-295.
54. V. soprattutto Paolo Ulvioni, Cultura politica e cultura religiosa a Venezia nel secondo Cinquecento. Un bilancio, "Archivio Storico Italiano", 141, 1983, pp. 591-651 ; Gaetano Cozzi, Politica, cultura e religione, in Cultura e società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, a cura di Vittore Branca-Carlo Ossola, Firenze 1984, pp. 21-42.
55. Mi limito a quest'accenno rinviando agli altri saggi compresi in questo volume anche per ulteriori indicazioni bibliografiche. Come pista di ricerca esemplare anche per altre tematiche v. i saggi di Stefania Mason Rinaldi sulla devozione eucaristica: "Hora di nuovo vedesi [...>". Immagini della devozione eucaristica a Venezia alla fine del Cinquecento, in AA.VV., Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987, pp. 171-196 e Un percorso nella religiosità veneziana del Cinquecento attraverso le immagini eucaristiche, in La Chiesa di Venezia tra riforma protestante e riforma cattolica, a cura di Giuseppe Gullino, Venezia 1990, pp. 183-194.
56. Federica Ambrosini, Ortodossia cattolica nei testamenti veneziani del '500, "Archivio Veneto", 122, 1991, pp. 5-64.
57. J. Martin, Alcuni aspetti, pp. 145-146. V. anche il caso esemplare descritto da Valerio Rossato, Religione e moralità in un merciaio veneziano del Cinquecento, "Studi Veneziani", n. ser., 13, 1987, pp. 193-253.
58. P.F. Grendler, L'Inquisizione, pp. 395-401.
59. Renzo Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel '500-'600. Gli esecutori contro la bestemmia, in Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp 431-528.
60. Per brevi biografie v. Antonio Niero, I patriarchi di Venezia da Lorenzo Giustiniani ai nostri giorni, Venezia 1961.
61. Constitutiones et privilegia patriarchatus et cleri Venetiarum [...>, Venetiis 1587. Sull'opera di riforma del Trevisan v. Antonio Niero, Riforma cattolica e concilio di Trento a Venezia, in Cultura e società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, a cura di Vittore Branca-Carlo Ossola, Firenze 1984, pp. 77-96 e Silvio Tramontin, Gli inizi dei due seminari di Venezia, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 363-377 (accanto al seminario patriarcale fondato soltanto nel 1579 nasce nel 1581 il seminario di S. Marco in servizio della basilica ducale).
62. Constitutiones, f. 5° (t. I, c. 9): "Statuimus ut in hoc canone missae in secreta, ubi dicitur, una cum Papa nostro, etc., immediate subiungatur et duce nostro, expresso nomine, et pro bono statu Venetiarum; demum quae ibi sequuntur".
63. Ibid., f. 27° (t. I, c. 1) (ex synodo b. Laurentii Giustiniani): "Ordinamus quod quandocumque plebanus, aut alius rector ecclesiae seu titulatus in aliqua ecclesia obierit, sepulto corpore, omnes in civitate residentes ad electionem vocentur, nisi suspensi sint ab homine aut excommunicati; et omnes in capitulo congregati, primo missam Spiritus Sancti audiant; denum hymnum Veni creator Spiritus cantent, aut legant; et tunc, aut per scrutinium, aut compromissum procedant ad eletionem; nisi ex longa consuetudine introductum sit, ut per balotas, aut voces publica prolatas ad electionem procedant; quam consuetudinem tolleramus: inhibentes tamen ipsis habentibus vocem in capitulo, ne facultatem habeant eligendi de extra gremium; quo usque sufficientem in moribus et in litteratura aliquem de capitulo habeant". La terza parte delle Constitutiones riguarda la sepoltura e la quarta ed ultima è costituita dalle ristampe dei decreti dei sinodi precedenti dello stesso Trevisan.
64. Christopher Cairns, Domenico Bollani Bishop of Brescia. Devotion to Church and State in the Republic of Venice in the Sixteenth Century, Nieuwkoop 1976.
65. Daniele Montanari, Disciplinamento in terra veneta. La diocesi di Brescia nella seconda metà del XVI secolo, Bologna 1987 (Annali dell'Istituto Storico Italo-Germanico, Quaderno 8).
66. V. le osservazioni al Cairns in G. Cozzi, Domenico Bollani.
67. Lorenzo Tacchella, San Carlo Borromeo ed il card. Agostino Valier (carteggio), Verona 1972; Lorenzo e Mary M. Tacchella, Il card. A. Valier e la riforma tridentina nella diocesi di Trieste, Udine 1974 (per la visita in Italia v. Mario Pavat, La riforma tridentina del clero nelle diocesi di Parenzo e Pota nei secoli XVI-XVII, Roma 1960; Armando Pitassio, Diffusione e tramonto della Riforma in Istria. La diocesi di Pola nel '500, "Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Perugia", n. ser., 10, 1970, pp. 7-65)
68. Giuseppe Trebbi, Francesco Barbaro, patrizio veneto e patriarca di Aquileia, Udine 1984.
69. Claudio Donati, Vescovi e diocesi d'Italia dall'età post-tridentina alla caduta dell'antico regime, in Clero e società nell'Italia moderna, a cura di Mario Rosa, Bari 1992, pp. 342-344 (pp. 321-389).
70. G. Trebbi, Francesco Barbaro, p. 187.
71. Ibid., p. 195.
72. Ibid., p. 469.
73. Si può aggiungere l'esame della prima visita post-tridentina a Padova in Paolo Preto, Un aspetto della Riforma cattolica nel Veneto: l'episcopato padovano di Niccolò Ormaneto, "Studi Veneziani", 11, 1969, pp. 325-363.
74. Giuseppe Liberali, Documentari sulla riforma cattolica pre e post-tridentina a Treviso (1527-1577), I-X, Treviso 1971-1976.
75. G. Cozzi, La Repubblica, p. 74.
76. P. Prodi, Il sovrano pontefice, p. 327.
77. Cit. in Francesco Scaduto, Stato e Chiesa secondo fra Paolo Sarpi e la coscienza pubblica durante l'interdetto di Venezia del 1606-1607, Firenze 1885, p. 142.
78. V. i saggi contenuti nel vol. Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto, a cura di Gino Benzoni, Firenze 1974; Paolo Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975 (in particolare le pp. 314-325).
79. Federico Seneca, Il doge Leonardo Donà. La sua vita e la sua preparazione politica prima del dogado, Padova 1969, p. 250. V. ora anche la voce di Gaetano Cozzi, Donà Leonardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 757-771.
80. Nunziature di Venezia, VIII, p. 47. Giovan Antonio Facchinetti a Michele Bonelli, 21 maggio 1566: "Hieri mi fui in Collegio e, perché m'erano venuti sei o otto casi che gli Avogadori mettevano mano in cause di preti, mi risolvei di trattarne in genere, questo capo della libertà ecclesiastica e tra molte raggion dissi a questi signori che Dio haveva create due podestà l'una temporale e l'altra spirituale, che sì come nella temporale erano essi nel dominio loro re, imperatori e legge viva e potevano fare tutto quel che lor pareva a benefitio publico, così nella spirituale [...> non gli era lecito di porvi mano, ma che dovevano ricorrere a N.S., a i ministri di S.B.ne, al patriarca, a i vescovi et a chi s'apparteneva [...l".
81. Come in occasione della precedenza del patriarca sul nunzio nei funerali del doge: "[...> La premura del patriarcha a me non dà fastidio, ma è cosa se venisse aiutata da questi signori che meriterebbe d'essere ripressa, perche non solo i patriarchi, ma anco gli arcivescovi in Italia favoriti da Prencipi sono passati poco a poco a tanta insolenza c'hanno voluto competere insin coi Papi", ibid., p. 303 (G.A. Facchinetti a Michele Bonelli, 15 novembre 1567).
82. Per una sintesi su questo punto (con più ampio ricorso alle lettere del nunzio) v. l'introduzione di Paolo Prodi a Fisco religione Stato nell'età confessionale, a cura di Hermann Kellenbenz-Paolo Prodi, Bologna 1989 (Annali dell'Istituto Storico Italo-Germanico, Quaderno 26), pp. 14-19.
83. Nunziature di Venezia, IX, a cura di Aldo Stella, Roma 1972, p. 68, il cardinal nipote Michele Bonelli a G.A. Facchinetti, Roma 18 maggio 1569.
84. Aldo Stella, Chiesa e Stato nelle relazioni dei nunzi pontifici a Venezia. Ricerche sul giurisdizionalismo veneziano dal XVI al XVIII secolo, città del Vaticano 1964, p. 26 n.
85. V. da ultimo Id., I rapporti di s. Carlo Borromeo con Venezia, in AA.VV., San Carlo Borromeo e il suo tempo, II, Roma 1986, pp. 727-739.
86. Giovanni Soranzo, Rapporti di s. Carlo Borromeo con la Repubblica Veneta, "Archivio Veneto", ser. V, 27, 1940, pp. 1-40 (le citazioni sono riportate da due lettere del Borromeo a Cesare Speciano, datate da Venezia 13 e 26 febbraio 1580).
87. Su tutte le controversie ampia documentazione è contenuta in Silvio Tramontin, La visita apostolica del 1581 a Venezia, "Studi Veneziani", 9, 1967, pp. 453-533
88. Agostino Valier a Carlo Borromeo, da Verona, 31 agosto 1581, in L. Tacchella, S. Carlo Borromeo, p. 123.
89. Su tutto ciò oltre ai saggi contenuti nel presente volume v. il contributo di Gaetano Cozzi, Stato e Chiesa: vicende di un confronto secolare, in AA.VV., Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987, pp. 11-56.
90. Gino Benzoni, Una controversia tra Roma e Venezia all'inizio del '600: la conferma del Patriarca, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 121-138.
91. Il card. Borghese al nunzio in Savoia, Roma 16 dicembre 1605, in Carlo Emanuele I e la contesa fra la Republica veneta e Paolo V (1605-1607), a cura di Carlo De Magistris, "Miscellanea di Storia Veneta per Cura della R. Deputazione di Storia Patria", ser. II, 10, 1906, p. 7 (pp. 6-8).
92. Venezia 1608 (ma composta nel 1603), cc. 86r-95r.