CHIESA (fr. église; sp. iglesia; ted. Kirche; ingl. church)
Presso i Greci la parola έκκλησία "assemblea" significava l'adunanza generale del popolo nella pubblica piazza allo scopo di prendere deliberazioni politiche (così anche in Atti, XIX, 32,39 segg.); quindi dai Settanta è stata adoperata specialmente nelle parti più recenti della loro versione come equivalente all'ebraico qāhāl ovvero ‛edhāl "adunanza", ossia la società religiosa del popolo israelitico, mentre nelle parti più antiche si usa più spesso nel medesimo senso συναγωγή "riunione". Questa seconda parola è passata nell'uso comune degli Ebrei di lingua greca per mdicare tanto una loro comunità locale o il luogo delle sue adunanze, quanto l'intiera comunità religiosa di Israele: mentre la prima (in lat. ecclesia "chiesa") è divenuta propria dei cristiani, parimente per indicare una loro comunità locale e il luogo delle sue adunanze, ma soprattutto la sociea cristiana universale. Da κυσιακόν "casa del Signore" sono derivati i termini tedesco e inglese. Per i beni della Chiesa v. ecclesiastici, beni; patrimonio ecclesiastico (XXVI, p. 519 seg.).
Sommario: La Chiesa come società di fedeli: Il concetto cattolico, p. 7; altre concezioni, p. 8; Storia delle religioni, p. 9; L'unione delle Chiese, p. 9; La Chiesa come luogo di culto: Storia dell'architettura, p. 10; Diritto canonico, p. 17; Chiese palatine, p. 18; Chiese private, p. 18; Storia della Chiesa: Dalle origini al concilio di Nicea, p. 19; La Chiesa alla conquista del mondo classico (312-565), p. 22; La conquista del mondo germanico (c. 350-814), p. 24; Chiesa e Impero nella cristianità medievale (814-1305), p. 25; La Chiesa da Bonifacio VIII alla Riforma protestante (1305-c. 1500), p. 30; La Controriforma (1534-1570), p. 34; Il Seicento e il Settecento, p. 35; l'Ottocento e il primo trentennio del nostro secolo, p. 36; Bibliografia, p. 38; Lo Stato della Chiesa, p. 38; Chiesa e Stato, p. 46.
La Chiesa come società di fedeli.
Il concetto cattolico. - Secondo l'insegnamento della Chiesa cattolica, autore e fondatore della Chiesa è Gesù Cristo. Annunziò dapprima il regno di Dio, non come qualche cosa di futuro, ma come un'istituzione presente sulla terra, di natura religiosa, etica, che però non si restringe solo all'interno, ma ha il carattere esterno di un'organizzazione sociale e lo volle destinato non a un solo popolo o a una sola nazione, ma a tutto l'universo, quale religione universale, definitiva, assoluta (v. cattolica, chiesa). Per formare tale società raccolse seguacie discepoli; tra essi scelse i dodici apostoli, ai quali promise di fondare la sua Chiesa; annunziò a Pietro che lo avrebbbe destinato a capo di essa e gli avrebbe conferito "le chiavi del reġno dei cieli" (Matteo, XVI, 18-19), cioè un'autorità monarchica e una giurisdizione somma; nonché il primato, quando dopo la risurrezione gli comandò di pascere i suoi agnelli e le sue pecore (Giovanni, XXI, 15-17). Al primate e agli apostoli assegnò quale missione di ammaestrare tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo e insegnare loro tutto quanto aveva comandato (Matt., XXVIII, 18-20). Così Cristo fondando la sua Chiesa su Pietro, quale pietra basilare, e sugli apostoli, a Pietro sottomessi, ne costituì l'autorità; assegnando ad essa la missione di salute ne determinò il fine e lo scopo e la farnì di mezzi, adatti al raggiungimento di tale scopo.
Sorta dalla volontà di Cristo, continuatrice di Gesù sacerdote, profeta, re, la Chiesa ha un triplice scopo: distribuendo le sue grazie, da Cristo meritate con la sua passione, continua l'opera sacerdotale di Cristo; custodendo inalterata la dottrina, ad essa affidata, e trasmettendola, perpetua la missione dottrinale di Cristo; mantenendo nella sua compagine primitiva, nella sua costituzione e gerarchia il regno di Dio, quale società e diffondendolo, la Chiesa partecipa all'autorità regale di Cristo. Il fine supremo è il primo: la santificazione degli uomini; la trasmissione della dottrina ha per scopo d'istruire gli uomini e sul fine e sui mezzi per arrivare alla salute, affinché nella piena libertà delle loro decisioni si rendano disposti a partecipare alla salute; per volere di Cristo poi l'uno e l'altro scopo si devono ottenere nella società religiosa da lui fondata. Donde la dottrina extra Ecclesiam nulla salus, intesa non nel senso che fuori della Chiesa non si diano grazie e anche santità, ma piuttosto nel senso che tutti i mezzi di salute appartengono alla Chiesa e sono distribuiti dalla Chiesa, quale via ordinaria.
Per assolvere questo triplice compito Cristo conferì alla sua Chiesa una triplice dignità e potestà: la potestà sacerdotale, la potestà dottrinale, la potestà giurisdizionale.
Alla potestà sacerdotale Cristo affidò i mezzi di santificazione, con cui viene distribuita ai membri della Chiesa la grazia santificante. Questi mezzi sono i sette sacramenti (v.): istituiti da Cristo, come segni esteriori efficaci di grazia, conferiscono la grazia a chi non oppone impedimento. Tali sacramenti, sebbene affidati alla dignità sacerdotale, non possono nel loro complesso essere amministrati da tutti i sacerdoti. Con la creazione della potestà e dignità sacerdotale Cristo stabilì una differenza tra il clero, addetto al santuario, e il corpo laicale.
La potestà e dignità dottrinale per potere debitamente custodire intatte le dottrine di Cristo, che costituiscono il deposito della fede, fu insignita del carisma dell'infallibilità, grazie a una protezione speciale dello Spirito Santo, da Cristo promesso e mandato alla sua Chiesa. Viene così esclusa ogni possibilità di adulterazione delle verità rivelate, che riguardano la fede e i costumi. Tale carisma risiede in S. Pietro e nel suo successore, il pontefice romano, negli apostoli, sottomessi a Pietro, e nei loro successori, i vescovi, sotto il papa. A tale dignità e prerogativa corrisponde nei membri della Chiesa il dovere di sottomettere la loro intelligenza alle decisioni emanate.
La potestà e dignità di giurisdizione fu conferita alla Chiesa per compiere il suo ufficio pastorale. Direttamente creata da Cristo nelle sue forme principali, autorità di Pietro e potere degli apostoli, costituisce la gerarchia (v.) della Chiesa (v. cattolica, chiesa; papato; vescovo).
Società religiosa, monarchica, la Chiesa è perfetta e indipendente nel suo ufficio da qualsiasi altra potestà, essendo stata da Cristo fornita di tutti i poteri e di tutti i mezzi necessarî per ottenere il fine. La Chiesa è inoltre una società sovrannaturale, perché la sua origine è sovrannaturale, essendo fondata da Cristo, figlio di Dio, sovrannaturale è il suo scopo, la salvezza eterna di tutta l'umanità; sovrannaturali i mezzi di cui si serve, i sacramenti e la rivelazione. Questo suo carattere la differenzia da ogni altra società religiosa; essa è di fatto e di diritto unica; l'Antico Testamento, essendo solo preparazione del cristianesimo, quindi di carattere transitorio, cessò come religione col sorgere del cristianesimo; le altre religioni non cristiane sono escluse e illecite, perché la Chiesa è cattolica, cioè universale; le religioni non cattoliche romane, che si dicono cristiane, non sono ammesse, perché Cristo fondò un'unica Chiesa e la stabilì su Pietro e sul suo successore. Solo quindi la Chiesa basata sul Primato, che riconosce nel pontefice romano il successore di S. Pietro, è l'unica, assoluta, definitiva religione, necessaria alla salute delle anime. La Chiesa, infine, è sovrannaturale anche quale organismo sociale, perché è il corpo mistico di Cristo: con Cristo come capo forma un corpo, vivificato dalla vita di Cristo, vita che scorre in tutti i membri, siano essi i soggetti delle varie potestà, siano essi semplici fedeli. L'espressione di S. Paolo, della Chiesa come corpo di Cristo, significa la società di coloro, che sono uniti tra loro col vincolo della stessa fede cristiana e della partecipazione agli stessi sacramenti sotto la potestà di giurisdizione dei legittimi pastori e specialmente del suo vicario sulla terra, il pontefice romano.
Dalla sua origine, dal suo scopo, dalla sua natura la Chiesa trae i caratteri e le note che la distinguono da ogni altra societb religiosa: unità, santità, cattolicità e apostolicità (v.; e v. cattolica, chiesa).
Altre concezioni. - In contrasto con la precedente sono state emesse, specialmente da parte protestante, diverse teorie. Siccome il protestantesimo ha tra i suoi capisaldi l'esclusione del primato del pontefice romano, le varie teorie hanno questo in comune, che negano che Cristo abbia voluto fondare una Chiesa con autorità monarchica; questa autorità sarebbe sorta solo in un secondo tempo, grazie all'influsso preponderante del vescovo di Roma.
Lutero invece del magistero autentico ammise l'esperienza interna, che consisterebbe in un'illuminazione dello Spirito Santo, nella lettura e nella spiegazione dei libri sacri; una cosiddetta ispirazione, che competerebbe a tutti i lettori di buona volontà. La Chiesa sarebbe essenzialmente invisibile: la riunione di coloro che sono veramente credenti, che solo da Cristo sono riconosciuti come tali, e che in Cristo riconoscono il loro capo, la loro guida e il loro maestro. Il soggettivismo, a cui diede origine il principio di Lutero, fece crollare anche i pochi dogmi e i pochi riti, che egli avrebbe voluto ritenere. Per fronteggiare questo abuso egli ammise che, oltre la Chiesa invisibile, c'è anche la Chiesa visibile. Per la fede infatti è necessaria la predicazione, la quale a suo credere compete a ogni cristiano, esclusa com'era ogni gerarchia di diritto divino. Siccome non tutti sono adatti a predicare, la comunità trasferisce i suoi diritti a persone scelte, che accolgono l'incarico per commissione della società. La questione come mai la Chiesa possa assumere forme esterne, senza perdere la sua natura, quale viene descritta da Lutero, rimase sempre un problema insoluto. Anch'egli però sentì verso la fine la necessità di un'autorità. Avendo esclusa ogni autorità dalla Chiesa, ricorse a un'autorità estrinseca, cioè allo Stato (v. lutero); si diede così origine a un'unione (da lui deprecata ma postulata per evitare maggiori danni) tra Chiesa e Stato, che asservì la prima al secondo. Questa dipendenza dallo Stato ha fatto sì che il luteranesimo si scindesse in una serie di comunità territoriali (Gemeinde), con una loro organizzazione giuridica, che i luterani stessi distinguono dalla Chiesa universale (Kirche), interiore e invisibile.
Nella via tracciata da Lutero restano quelli che concepiscono la costituzione della Chiesa come in vario grado democratica; questi sono la maggior parte tra i protestanti, mentre una teoria, che va sotto il nome di carismatica o pneumatica, può considerarsi come aristocratica e ha avuto minore fortuna.
Il principio della concezione democratica è che il soggetto prossimo di ogni autorità nella Chiesa è la comuntà, formata dai membri che la compongono. I fautori di tale teoria si sogliono dividere in due gruppi, che vengono classificati come conservatori e liberali. I primi ammettono un nesso tra Cristo e la Chiesa; della società religiosa da lui fondata, egli non avrebbe tuttavia determinato la costituzione, lasciandola all'arbitrio della comunità. Ad essa gli apostoli avrebbero a loro volta trasmesso i loro pieni poteri, perché questa si desse nel volgere delle varie epoche una costituzione conforme ai tempi. Tale costituzione quindi non farebbe parte dell'essenza della Chiesa, perché non ci sarebbe nessun vincolo giuridico immediato tra l'opera di Cristo e la forma della costituzione della Chiesa. I liberali invece rigettano ogni nesso tra la Chiesa e Cristo, dubitano che Cristo abbia mai voluto fondare una Chiesa, ammettono tutt'al più che la comunità cristiana per sviluppo organico naturale trasse origine dalle idee e dai sentimenti religiosi di Cristo, in cui aveva ritrovato la via, che mena al Padre.
La teoria carismatica (v. carisma), emessa per la prima volta dal Sohm, si basa sul postulato che carisma e diritto si escludono; a una società spirituale ripugna l'organizzazione. Onde il sillogismo: la Chiesa è fondata sul carisma, il carisma esclude il diritto e quindi l'organizzazione e la gerarchia, dunque la Chiesa esclude il diritto, l'organizzazione e la gerarchia. Esclusa ogni organizzazione giuridica, il Sohm ammette però un'analoga organizzazione carismatica. La Chiesa primitiva fu arricchita di carismi. Tali carismi obbligano, non per giustizia, ma solo per carità, chi li riceve a comunicarli agli altri e gli altri a sottomettersi e a riconoscerli. Tutta la comunità è così fondata sulla carità. La differente distribuzione dei carismi da parte dello Spirito Santo produce una certa ineguaglianza, una tal quale subordinazione, non però giuridica. Tale organizzazione non sarebbe però durata a lungo, arizi poco dopo la metà del sec. I sarebbe completamente scomparsa. In quel tempo si sarebbe cominciata a formare quella costituzione giuridica, che tuttora perdura e che a torto si affermerebbe di diritto divino.
Non è necessario infine indugiarsi sugli escatologisti e modernisti; essi sostengono che Cristo avrebbe creduto all'imminente fine del mondo e al prossimo avvento del regno messianico, di cui sarebbe stato re. In tale supposizione non avrebbe pensato a fondare una chiesa. Essa sarebbe una semplice creazione umana, come tale esposta al volgere e al mutare dei tempi e dei gusti degli uomini.
Bibl.: P. Batiffol, L'Église naissante et le Catholicisme, Parigi 1909; H. Bruders, Die Verfassung der Urkirche, Magonza 1904; A. B. Bruce, S. Paul's Conception of Christianity, Edimburgo 1897; H. Dieckmann, Die Verfassung der Urkirche, Berlino 1923; S. v. Dunin Borkowski, Die Kirche als Stiftung Jesu, Monaco 1921; F. Hettinger, Lehrbuch der Fundamentaltheologie, II, Friburgo in B. 1888; W. Köster, Die Idee der Kirche beim Apostel Paulus, Münster in W. 1928 (N. T. Abh., 14, 1); D. Palmieri, Tractatus de Romano Pontifice, Prato 1902; E. Ruffini, La gerarchia della Chiesa negli Atti degli Apostoli e nelle lettere di S. Paolo, Roma 1921; Y. de la Brière, Église, in Dictionnaire apologétique de la foi catholique, Parigi 1911, coll. 1219-1301; A. Harnack, Entstehung und Entwicklung der Kirchenverfassung und des Kirchenrechtes in den zwei ersten Jahrhunderten, Lipsia 1910; O. Scheel, Die Kirche im Urchristentum, Tubinga 1912 (Religionsgeschichtliche Volksbücher, IV, 20); R. Sohm, Kirchenrecht, Lipsia 1892-1923, voll. 2; id., Wesen und Ursprung des Katholizismus, Lipsia 1912; id., Das altkathol. Kirchenrecht und das Dekret Gratians, Monaco 1918; G. A. Briggs, Church Unity, studies of its most important problems, New York 1909; E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, in Gesammelte Schriften, I, Tubinga 1912; articoli Church, e Church, doctrine of the, in Hastings, Encycl. of Rel. and Ethics, III, Edimburgo 1910, pp. 617-629. Per le chiese acattoliche, v. anche le rispettive voci.
Storia delle religioni. - Sebbene il termine "chiesa" sia proprio del cristianesimo, si adopera anche, nella storia delle religioni, in un senso più largo per indicare la forma che prende una religione qualsiasi quando sia arrivata a superare il momento nazionalista (v. associazione: Religione), e abbia per scopo l'acquisto di beni che non si confondono con quelli particolari di un popolo e in generale con i beni esteriori del mondo, ma costituiscono il patrimonio comune dello spirito. Sorge allora per necessità da una parte la tendenza alla diffusione e alla propaganda fra tutti gli uomini, e dall'altra parte il bisogno di una stretta comunione fra tutti quelli che ad essa aderiscono, di là dai limiti di luogo e di razza, per la conservazione e l'accrescimento dei beni medesimi. Così ne viene la "Chiesa", società universale, non solo supernazionale ma anche superindividuale; nettamente distinta tanto dallo Stato e dalle società religiose da esso costituite, quanto dalle società o sette religiose particolari, le quali, sia pure con tendenze all'universalità, si formano per iniziativa e libero concorso di singoli individui, non importa quanto numerosi. Ma non basta: una società che ha in mira beni esclusivamente spirituali e trascende le condizioni di tempo e di luogo, si potrebbe per sé concepire come unita soltanto da vincoli spirituali, e così può anche essere stato in origine; ma, per poter durare, col tempo si rende indispensabile un'unità tangibile con forme fisse, una perfetta organizzazione, esteriore e giuridica, la quale si concilia con lo scopo spirituale solo col credere che venga non dagli uomini ma dalla divinità. E ciò fa sì che tale "Chiesa" porti in sé la coscienza di essere come estranea al mondo nel quale vive e sul quale pur bisogna che operi per conquistarlo, divisa tra due tendenze in apparenza opposte, da una parte di avvicinamento e tolleranza, dall'altra di allontanamento ed esclusivismo.
Buddhismo. - Il buddhismo, a differenza del brahmanesimo che, per quanto religione panteistica universale, non ha prodotto alcuna chiesa, ha procurato di stringere i suoi credenti in una società che, del tutto sciolta e indipendente dalla nazione, anzi dal mondo, loro faciliti e assicuri la via della salute: una "chiesa" (sangha) dunque, che si fonda sull'ispirazione e l'autorità del Buddha, perpetuata nella tradizione dei singoli monasteri e della loro associazione sinodale, fissata poi in un canone scritturale, fonte della dogmatica e del diritto canonico, norma suprema del comune credere ed operare. Se non che la "chiesa" buddhista non ha mai potuto raggiungere una piena e vera universalità e unitâ. Non l'universalità, perché per la sua concentrazione individualistica e speculativa il buddhismo ha trovato dapprima terreno adatto solo nell'India; e poi ha potuto bensì largamente diffondersi in altri paesi dell'Estremo Oriente, ma modificando essenzialmente la sua natura. Nella stessa sua forma originaria non ha potuto vivere se non mettendo a lato dei monaci, che praticano completamente i principî del Buddha e sono i veri buddhisti, una classe amplissima di laici, che, sottraendosi a quei principî per vivere, servono pure a rendere possibile la loro osservanza ai monaci. E nemmeno ha raggiunto una vera unità, perché i laici non sono soggetti ad alcuna organizzazione, e la "chiesa" formata dai monaci, mancando di un centro unico, si è divisa in un'infinità di sette tra loro contrastanti (v. buddhismo).
Zoroastrismo. - Anche la "chiesa" iranica ha avuto un fondatore, Zarathustra, che contro l'antica religione nazionale politeistica stabilì quella monoteistica di Ahura-Mazda. A capo di questa egli pose un clero bene organizzato, erede della sua autorità e della sua missione, il quale ha conservato e sviluppato la tradizione da lui proveniente e l'ha fissata nell'Avesta (v.). La professione della legge e della dottrina contenute nell'Avesta era la nota caratteristica e distintiva dei fedeli dagli infedeli, della vera "chiesa" dalle eresie e dalle sette contrarie. Ma sebbene lo zoroastrismo nei suoi principî fondamentali sia universale, in pratica è rimasto sempre una religione nazionale, specie al tempo dei Sassanidi.
Giudaismo. - Gli Ebrei per un buon tratto della loro storia hanno coltivato la religione in senso nazionale, ma infine l'hanno sempre più liberata dai vincoli che la tenevano stretta alla nazione e allo stato. Già secondo la Legge (Genesi, XVII, 10-14), non bastava per entrare a far parte dell'alleanza sacra l'appartenere alla nazione ebraica per la nascita, ma si richiedeva di più la circoncisione; anzi, dopo l'esilio, di fatto si ammise che la circoncisione bastasse per sé. Da ciò venne che la piccola comunità stabilita da Esdra a Gerusalemme andò man mano crescendo per la circoncisione, imposta anche con la forza, fino a occupare tutta la Palestina; traboccando poi, nei due secoli posteriori ai Maccabei, si diffuse con un'attiva propaganda per la "diaspora" (v.) così da comprendere nel suo seno parecchi milioni d'anime delle più diverse provenienze. Il vincolo dunque che univa questa grande moltitudine in una società cosmopolita, profondamente diversa dalla società civile in mezzo a cui viveva, anzi sotto molti aspetti con essa contrastante, non era l'origine nazionale e neppure la lingua ebraica, che generalmente non era più parlata e intesa, ma un vincolo religioso: la fede cioè in un solo Dio, e l'obbedienza alla sua volontà rivelatasi per mezzo di Mosè e contenuta tanto nella legge scritta quanto nella tradizione vivente dei rabbini: ambedue norma suprema di tutta la vita giudaica, che regolava minutamente il diritto pubblico e privato, il complicato rituale di ogni giorno e il culto esercitato da un sacerdozio ereditario nel solo tempio di Gerusalemme, al quale tutti dovevano partecipare con i pellegrinaggi e con la paga dell'obolo annuale. Non si può dire però che la "chiesa" giudaica, o sinagoga, sia riuscita a liberarsi completamente dai vincoli nazionali. Difatti lo stato attuale era riguardato soltanto come provvisorio, e alla fine avrebbe dovuto cedere il posto al "regno di Dio", cioè al dominio di Israele su tutti i popoli, con a capo un nuovo Davide. La circoncisione, che per natura sua è un rito d'iniziazione tribale, è rimasta sempre la porta per cui si entra a far parte insieme della religione e della nazione giudaica; parimente tutta la Legge ha un carattere misto più o meno nazionale, ma in specie la parte che riguarda il dititto, il quale è il fondamento della vita così religiosa come civile. Perciò la propaganda giudaica nel mondo greco-romano incontrò gravi difficoltà, e, dopo la distruzione di Gerusalemme, cessò quasi completamente (v. ebrei: Religione).
Islām. - Sull'esempio della teocrazia giudaica si è formata la "chiesa" dell'Islām, cioè della fede nell'unità di Dio predicata alla gente araba, e quindi a gran quantità di altre genti sopra una vasta estensione dell'orbe terrestre. Essa ha una stretta organizzazione che si fonda sulla rivelazione di Dio per mezzo di Maometto, depositata nel Corano e tenuta viva dalla tradizione dei dottori che predicano nelle moschee, che sono, come le sinagoghe, luoghi insieme di preghiera e d'istruzione religiosa, ed ha anche essa una teologia ortodossa e una giurisprudenza sacra, le cui obbligazioni fondamentali sono la circoncisione e la partecipazione per mezzo di pellegrinaggi al culto centralizzato nel santuario della Mecca. Ma, nonostante l'universalità e l'estensione della sua pfopaganda, l'Islām ha tosto confuso i beni proprî della religione con quelli dello stato nazionale (v. califfo).
Bibl.: P. D. Chantepie de la Saussaye, Lehrbuch der Religionsgeschichte, 4ª ed. a cura di A. Bertholet e E. Lehmann, Tubinga 1925; E. Meyer, Geschichte des Altertums, voll. 3, Stoccarda 1915; W. Bousset, Die Religion des Judentumus im neutestamentlichen Zeitalter, 3ª ed. a cura di H. Gressmann, Tubinga 1926; E. Troeltsch, Religion und Kirche, in Gesammelte Schriften, II, Tubinga 1913.
L'unione delle chiese. - Per tentativi di unione delle chiese s'intendono propriamente, data la loro aspirazione all'ecumenicità, quelli, cercati da dissidenti dalla Chiesa romana dopo la guerra mondiale, che hanno trovato la loro espressione specialmente nelle due conferenze di Stoccolma (1926) e di Losanna (1927). Per l'epoca in cui furono tenute, per il loro carattere, per gli scopi che esse si prefissero, per lo spirito, si direbbe, pacifista, che animò le loro discussioni, queste due conferenze possono essere considerate come un'aspirazione sul terreno religioso a qualcosa di simile a quel che è la Società delle nazioni su quello politico (su queste due conferenze v. oltre).
In senso lato possono rientrare nel movimento per la riunione delle chiese tutti quei tentativi, numerosi nel corso della storia della Chiesa (v. sotto), intrapresi allo scopo di eliminare sul terreno religioso le divergenze dottrinali, liturgiche e disciplinari fra cristiani dissidenti dalla Chiesa romana. In generale questi tentativi, spesso non molto posteriori alle crisi che hanno occasionato lo scisma, non rivestono carattere di universalità, perché interessano solo due delle chiese cristiane, una delle quali è sempre la Chiesa romana. L'esito di questi tentativi, oltre che dalle divergenze stesse di ordine dottrinale (così dogmatico come morale), è viziato dalla difficoltà di eliminare altre ragioni di dissenso, di carattere etnico, nazionale e politico.
I concilî di Lione (1274) e di Ferrara-Firenze (1438-1439), che per pochi anni riuscirono a eliminare lo scisma orientale; i tentativi di riavvicinamento fra luterani e cattolici perseguiti durante 25 anni (1675-1700) sotto gli auspici del card. Spinola e del Bossuet per parte cattolica, e di Walter van den Meulen (Molanus) e Leibniz per parte luterana, sono i più noti in questo campo, anche perché è ad essi caratteristico il fatto che la Chiesa romana scende direttamente, per mezzo di suoi rappresentanti ufficiali (concil. di Lione e di Ferrara-Firenze), o indirettamente per mezzo di suoi rappresentanti ufficiosi (trattative Leibniz-Bossuet), sul terreno della discussione. A questo proposito, e appunto per questa caratteristica, non si possono passare sotto silenzio:1. l'invito rivolto da Pio IX (8 settembre 1868) ai prelati orientali dissidenti, e da essi non raccolto, di partecipare al Concilio vaticano "perché alfine cessi lo scisma", come pure l'atteggiamento estremamente conciliante nei riguardi degli orientali assunto da Leone XIII, manifestato soprattutto con le encicliche Praeclara, del 20 giugno 1894, e Orientalium dignitas, del 30 novembre 1894;2. le conversazioni di Malines fra anglicani e cattolici promosse da Carlo Wood visconte di Halifax, esponente dell'"alta chiesa" anglicana, e svoltesi durante quattro anni (1921-1925) a più riprese sotto la presidenza del cardinale Mercier primate del Belgio per discutere un'eventuale riunione fra anglicani e cattolici e i problemi ad essa connessi; occorre notare che la partecipazione cattolica a queste conferenze non fu mai ufficialmente promessa o riconosciuta dalla S. Sede.
Accanto a questi tentativi particolari cui partecipa, formalmente o materialmente la Chiesa romana, occorre rammentare le unioni particolari che si potrebbero chiamare di concentrazione protestante, realizzate fra le diverse denominazioni protestanti. Esse si sono presentate sotto un duplice aspetto: nazionale e confessionale, nel senso che o si tratta di tentativi diretti a riunire in un'unica chiesa a carattere nazionale le diverse denominazioni protestanti di una determinata nazione; oppure la riunione, pur rivestendo carattere prevalentemente nazionale, mira piuttosto a rinsaldare le frazioni già esistenti nell'ambito di una stessa confessione.
Ricordiamo: l'Unione evangelica di Prussia, realizzata fra luterani e riformati da Federico Guglielmo III nel 1817; la ricostituzione, perseguita durante tutto il sec. XIX e realizzata solo nel 1929, della chiesa nazionale presbiteriana di Scozia; l'Alleanza universale delle chiese riformate secondo il sistema presbiteriano (Edimburgo 1877); la fusione, approvata nel 1928 e da attuarsi nel 1933, fra le tre frazioni (wesleiana, primitiva e unita) già esistenti in seno alla Chiesa metodista; la Chiesa unita del Canada, fusione votata nel 1925 e realizzata nel 1928, fra i metodisti, i presbiteriani e i battisti canadesi; l'Unione di Utrecht (1889) fra i vecchi cattolici olandesi e i vecchi cattolici del 1871; la Federazione protestante di Francia (1925); il Concilio federale delle chiese di Cristo in America (1908); la Federazione delle chiese protestanti svizzere (1921); la Federazione delle chiese tedesche (1922); e, recentissimamente (1930), la fusione ancora in via di elaborazione delle chiese di lingua inglese nell'India meridionale. Accanto a queste occorre ricordare le conferenze decennali pananglicane di Lambeth (l'ultima si è tenuta nell'agosto 1930).
Non sono anche mancati tentativi - sostanzialmente infruttuosi - di unione fra anglicani e ortodossi.
Resta a parlare di quelli che sono stati indicati come i due tentativi tipici più recenti di unione delle chiese: le due conferenze, cioè, di Stoccolma (Universal Christian conference on Life and Work) e di Losanna (World conference on Faith and Order); nonché dell'atteggiamento di fronte ad esse assunto dalla Chiesa romana.
La conferenza di Stoccolma (19-30 agosto 1925). - Nel 1914 l'arcivescovo protestante di Upsala e primate di Svezia, Nathan Söderblom, riprendendo un voto espresso nel 1910 dalla Convenzione generale della Chiesa episcopale americana, faceva la proposta di una conferenza per l'unione delle chiese che avrebbe dovuto trovare il suo fondamento più sul terreno pratico che su quello dottrinale. La guerra ritardò la realizzazione del progetto, ma non la sua preparazione, che si volse attiva durante dieci anni con riunioni preparatorie e attraverso movimemi paralleli, in Olanda, Svizzera, Stati Uniti, Inghilterra e Germania. La conferenza, riunita alfine, si propose un programma di "vita e azione", e non toccò quindi di proposito questioni dogmatiche ma piuttosto di ordine morale, sociale, economico e industriale. Il principe reale di Svezia, nel suo discorso di chiusura, ebbe a dire che "scopo della conferenza era stato quello di sviluppare la comprensione reciproca delle chiese, e favorire la cooperazione nella soluzione dei problemi là dove la cooperazione è possibile". In questo senso fu lanciato al mondo un messaggio e, per proseguire il lavoro secondo l'indirizzo tracciato, fu costituito un comitato permanente, diviso in quattro sezioni presiedute rispettivamente dal patriarca ecumenico ortodosso, dall'arcivescovo di Upsala, dall'arcivescovo di Canterbury e dal dott. Parkes S. Cadmann.
La conferenza di Losanna (3-21 agosto 1927). - La preparazione di questa conferenza risale al 1910, e merito principale di averne condotto in porto le trattative laboriosissime spetta all'anglicanesimo e in modo speciale alla Chiesa episcopale degli Stati Uniti: apostoli di essa furono infatti gli anglicani Roberto Gardiner (1855-1924) e C.H. Brent (1862-1929), arcivescovo di New York, il quale fu poi chiamato a presiedere le riunioni. A differenza di quella di Stoccolma la conferenza di Losanna pose in primo piano le questioni dottrinali, nel senso espresso dal preambolo votato all'unanimità durante la prima riunione: "questa conferenza non si propone di formulare le condizioni per una futura riunione delle chiese, bensì solo di prendere atto di punti fondamentali in cui le diverse chiese risultano d'accordo e delle gravi divergenze che tuttora sussistono, e anche di suggerire alcune direttive e orientamenti di pensiero che preparino un accordo più pieno in avvenire". Gli argomenti posti in discussione furono i seguenti: appello all'unità; il Vangelo; la natura della Chiesa; il simbolo della fede comune della Chiesa; il ministero della Chiesa; i sacramenti; l'unità della cristianità e le chiese attuali.
La Chiesa romana, necessariamente assente alle due conferenze citate nonostante fosse stata invitata ripetutamente, dichiarò in più occasioni i motivi della sua assenza e in fine condannava con l'enciclica Mortalium animos (6 gennaio 1928) ogni movimento "pancristiano", ribadendo nettamente il punto di vista cattolico: esservi una sola Chiesa fondata da Gesù Cristo, nella quale e attraverso la quale si è rivelato Dio, cioè la Chiesa cattolica apostolica romana; esservi quindi un solo mezzo per giungere all'auspicata unione: che i dissidenti, "i quali hanno lamentevolmente abbandonato la Chiesa romana, ritornino al padre comune che dimenticherà le ingiustizie già inflitte alla sede apostolica e li riceverà col più grande affetto".
Bibl.: La vastità dell'argomento consiglia di rinviare, per maggiori particolari e per la bibliografia circa i varî episodî accennati, sia alle voci dedicate alle singole confessioni religiose, sia a tutte quelle voci particolari che svilupperanno quanto in questo articolo è appena toccato (v. per es.: lione, concilio di; ferrara, concilio di; leibniz; malines; ecc.). Ci si limita qui a citare tre scritti di carattere generale forniti di un'amplissima bibliografia generale e particolare: articolo Einigungsbestrebungen, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, II, 2ª ed., Tubinga 1928, coll. 72-88; P. André, L'unité chrétienne, Parigi 1930; e, per il punto di vista cattolico, G. Celi, Di un recente invito agli anglicani, ecc., 2ª ed., Roma 1923; C. Journet, L'unité de l'Église, Parigi 1924.
La chiesa come luogo di culto.
Storia dell'architettura. - Nell'epistolario paolino non troviamo traccia di edifici appositi che le comunità cristiane dedicassero al culto: le parole che si leggono in I Corinzî, XI, 22, non più di quelle degli Atti, XX, 9, non possono essere invocate, se pur lo siano state talvolta, per dimostrare l'esistenza di appositi luoghi destinati alle adunanze dei fedeli e alla celebrazione della cena. Le adunanze dei fedeli dovevano nell'età apostolica avere luogo in case particolari, specialmente in quelle vaste stanze del piano superiore che sono sempre state in uso in Oriente. Nel sec. II invece troviamo tracce sicure di chiese, quanto meno in Roma per cui le notizie abbondano più che altrove. Nel 349 secondo Ottato di Milevi ce ne sarebbero state in Roma ben quarantasei. A ogni modo è certo che specialmente a Roma, dopo l'editto di Milano, si svolse intensa l'attività costruttiva e sorsero numerosissimi gli edifizî religiosi (basiliche, oratorî, battisteri, ecc.), nei quali il cristianesimo mostrò di voler adattare ai nuovi usi liturgici l'architettura greco-romana, elaborandone in processo di tempo le forme primitive e mutandole fino alla creazione del tipo completo e originale della chiesa romanica. Le primitive chiese cristiane assunsero infatti il tipo basilicale nella sua duplice espressione: a pianta longitudinale a una o più navate (secondo un tipo diffuso in Occidente e di schietta derivazione greco-romana) e a pianta centrale, circolare o poligonale, derivato dall'edicola circolare (ἡρῷον) dell'Oriente e della Grecia antica nonché dagl'ipogei e dai ninfei romani (per una descrizione completa dei due tipi basilicali accennati, per le discussioni circa la loro derivazione da tipi costruttivi preesistenti, per le loro trasformazioni in Oriente e per la descrizione delle principali basiliche dei due tipi costruite durante l'alto Medioevo, v. basilica).
La chiesa romanica. - Dal sec. V al Mille le chiese italiane, che quasi sole rimangono a testimoniare lo sviluppo o lo svolgimento dell'architettura offrono troppa varietà di particolari stilistici per poter essere considerate unitariamente come espressione di un unico stile; molte furono distrutte nelle invasioni barbariche e quelle che rimangono rivelano le misere condizioni in cui erano cadute le provincie italiche. Per cinque secoli si assiste allo spegnersi graduale delle antiche tradiun oscuro maturarsi di nuove forme dalle quali sorgerà un vero stile nostro.
Di dubbia data è il piccolo oratorio di S. Maria in Valle a Cividale, cui dànno fama gli stucchi di ispirazione orientale. A Roma le chiese (sec. VIII e IX) di S. Maria in Cosmedin, S. Prassede, S. Maria in Aracoeli, ecc. ripetono le forme basilicali. La pieve di Bagnacavallo (sec. IX) deriva direttamente dalle chiese ravennati, i cui artefici trasmisero insegnamenti ai maestri comacini ai quali si devono alcune particolarità di S. Pietro di Toscanella e della chiesa di Nepi, che avranno grande peso nella formazione e nello sviluppo dell'architettura sacra romanica. Archetti pensili, lesene e incavature a nicchie nella sommità esterna delle absidi e, soprattutto, l'uso di coprire il presbiterio con una vòlta piuttosto che con soffitto a travature scoperte si ritrovano infatti nel monumento più importante di questo periodo: il S. Ambrogio di Milano. Appaiono timidamente accenni di pilastri compositi, fatti oltre che per sostenere le arcate longitudinali, anche per sorreggere archi o lesene trasversali; si fanno più numerosi i deambulatorî absidali di derivazione romana. Si rafforzarono i comacini nello studio delle vòlte, gettandole, per quanto di piccole dimensioni, su chiese o battisteri a pianta centrale. S. Satiro a Milano, i battisteri di Agliate, di Biella, di Galliano, mentre ricordano nella pianta frastagliata da piccole absidi alcune costruzioni romane, riprendono l'uso già bizantino delle cupole e delle vòlte con procedimenti tecnici e accorgimenti murali per controbattere le spinte.
Gli ordini monastici, unici ad avere conservato attraverso i secoli delle invasioni barbariche i tesori della cultura grecoromana, fecero a gara nel costruire chiese ed edifici sacri: architetti, usciti da scuole monastiche, percorrono l'Europa, contribuendo allo sviluppo dello stile romanico, applicazione al vecchio schema basilicale romano della copertura a vòlte propria dell'oriente. Per navate di piccole dimensioni fu usata la vòlta a botte rinforzata da archi trasversali: poi fu adottata la vòlta a crociera che permetteva l'apertura di finestre nel sommo delle pareti, ma presentava difficoltà di costruzione, alla quale fu tuttavia ovviato con l'applicazione, importantissima per tutta l'architettura romanica e pei quella gotica, d'uno speciale arco di sostegno negli spigoli della crociera, detto costola o costolone o arco d'ogiva. Fissata la costruzione delle vòlte, la chiesa romanica obbedì a un sistema, un po' rozzo, ma logico per costituire un tutto equilibrato: si ingrossarono i muri dei fianchi, si misero speroni o contrafforti nei punti dove cadevano le intersezioni delle vòlte, i capitelli delle colonne furono scolpiti in modo da poter ricevere i nascimenti delle vòlte e gli archi o costoloni di rinforzo. Anche di questo nuovo membro architettonico si trovano tracce nel modo romano di costruire le vòlte, formate da un'ossatura di archi riempita poi da materiale di concrezione: vere e proprie costole erano in qualche ipogeo e ninfeo romano: sì che si può dire che esso è invenzione del tutto italica. Certamente a costituire lo stile romanico ebbero grande influenza diretta le chiese dell'Armenia e indiretta, perché già trasmessa da secoli, quelle della Siria. Ben presto l'architettura lombarda (come può chiamarsi quella romanica italica) si diffuse per l'Europa e contribuì allo svolgimento di quella francese dalla quale in verità fu superata e dalla quale in breve tempo nacque il nuovo stile gotico.
Nell'Italia settentrionale si può dire che regni fino a tutto il sec. XIII lo stile lombardo personificato dal S. Ambrogio milanese (sec. XI). Qui la larga navata centrale è ricoperta da vòlte quadrate a costoloni di sezione rettangolare; ad ogni vòlta corrispondono due vòlte delle navi minori; massicci piloni compositi a colonne addossate, onde sorreggere i peducci delle vòlte, gli archi trasversali, quelli longitudinali (formerets) e i costoloni, si alternano ai pilastri delle campate minori, fornite al piano superiore di logge o matronei. Il materiale da taglio si alterna col laterizio: l'ornamentazione ad archetti è il motivo generale della decorazione.
Nel S. Michele di Pavia (sec. XII) sull'incrocio dei transetti ricoperti da vòlte a botte s'innalza una grande cupola ottagonale: la facciata, di linee assai semplici a due displuvî, è assai interessante per lo sviluppo dato alle loggette terminali che corrono lungo e sotto la linea del tetto (già in embrione nelle chiese della Siria, nel palazzo di Teodorico a Ravenna, ecc.). I duomi di Parma e di Piacenza (sec. XII) con la navata centrale a campate rettangolari accennano già a minore pesantezza di forme: dal consueto tipo lombardo si scosta il S. Fedele di Como (sec. XI), compromesso tra la forma basilicale e quella a pianta centrale. Il duomo di Modena (1106) aveva le travature del tetto scoperte sostenute da arconi trasversali (come a S. Zeno a Verona. S. Miniato a Firenze, ecc.): da quello derivarono il duomo di Ferrara (1135) e la badia di Nonantola. Ancora forme lombarde si riscontrano nelle chiese piemontesi, non senza che vi s'infiltrino elementi dell'arte provenzale. Grande sviluppo nell'Italia settentrionale ebbero i battisteri ricoperti da cupola (v. battistero). In modo affatto speciale si sviluppò a Venezia l'arte romanica, alleatasi profondamente con quella bizantina. Se il duomo di Torcello, la basilica di Aquileia, il duomo di Caorle (sec. IX) ricordano in qualche modo lo stile lombardo, il S. Marco di Venezia che ripete lo schema dei Ss. Apostoli di Costantinopoli è a croce greca, sormontata da cinque cupole collegate insieme per mezzo di vòlte cilindriche e sorrette da pennacchi; il braccio maggiore ha le tre navate terminate ad abside.
Il resto dell'Italia viene, per accennare a grandi linee, percorso dalle due grandi correnti, lombarda e bizantina, fondendosi or qua or là con le forme classiche mai tramontate specialmente nell'Italia centrale.
Il battistero di Firenze è il modello, cui guardano i costruttori di S. Miniato (1063) specie per alcuni particolari architettonici; in esso, come nella Badia (sec. XII) e nel duomo di Empoli, ha largo sviluppo l'uso delle incrostazioni marmoree, già care agli architetti della Roma imperiale. Queste serene forme fiorentine diedero anche qualche ispirazione a Buscheto per la costruzione (1118) del duomo di Pisa, mirabile per grandiosità di spazî, per l'effetto pittoresco delle cinque navate del corpo centrale innestate alle tre dei transetti, per novità di decorazione a fasce bianche e nere, atte, al contrario delle incrostazioni fiorentine, a rivelare tutte le membrature architettoniche. Grande il numero delle chiese, nei secoli XI e XII, sparse per il Pisano, il Lucchese, nella Garfagnana, nella Sardegna e nella Corsica, che, derivate dal duomo di Pisa, influenzate a volte dall'arte lombarda, sono per lo più a pianta longitudinale, decorate all'esterno con loggette ora praticabili ora cieche, mai prive di fasciature marmoree policrome (duomo e S. Michele di Lucca, S. Giovanni di Pistoia, S. Paolo di Pisa, duomo di Barga, ecc.). Chiese più modeste sorsero nel centro della Toscana: la prima volta si notano influssi oltramontani del sec. XII in S. Antimo, dove il deambulatorio, già usato nei primissimi secoli dell'arte cristiana a imitazione di alcuni edifici romani, ci ritorna attraverso artefici francesi.
Attorno e dentro Roma le chiese romaniche adottarono forme lombarde maturate attraverso le abilità decorative e tradizionali delle maestranze cosmatesche, che trassero nuovi motivi più decorativi che architettonici dal Mezzogiorno italiano. S. Clemente, S. Maria in Trastevere, S. Maria di Castello a Tarquinia, il duomo di Civita Castellana e altre durante i secoli XI e XII furono costruite o ricostruite dai Cosmati con le consuete forme planimetriche basilicali e con grande ricchezza di particolari marmorei e musivi nei portici costruiti davanti alle facciate, di cui magnifico col suo grande arco centrale (motivo già usato in edifici del tardo Impero e ripreso, poi, da alcuni architetti del Rinascimento) quello del duomo di Civita Castellana (1210), e nei chiostri di S. Paolo e di S. Giovanni in Laterano, opere dei Vassalletto.
Nell'Italia meridionale confluirono anche più numerose correnti d'arte che nelle regioni già accennate. Alle varietà lombarde, pisane, romane dello stile romanico italico s'aggiunsero influenze bizantine, musulmane e normanne. Quest'ultime, dovute alla conquista della Sicilia da parte di Ruggiero il Normanno (1061), furono molto meno importanti di quanto finora si è creduto. Lungo la costa tirrenica sono invece evidenti quelle musulmane, fuse alle tradizioni classiche mantenute dall'abbazia di Montecassino.
Archi arabi, cupole musulmane, arcature incrociate di tipo siciliano si trovano nelle chiese di Capua, di Salerno, di Amalfi, di Gaeta. Profili più massicci, originali decorazioni zoomorfe, paramenti a conci squadrati con grande cura, grande uso di ricchissime finestre circolari nelle facciate, campanili appoggiati su un quadriportico ad arconi si trovano in molte chiese romaniche della Puglia (S. Nicola e duomo di Bari, duomi di Bitonto, di Trani, di Ruvo, ecc.), mentre altre (cattedrale di Troia, di Bitonto, di Monte S. Angelo, ecc.) ripetono motivi pisani, come le arcatelle cieche, gli ornati a losanga, le fasce policrome. Caratteristica principale delle chiese abruzzesi è la terminazione orizzontale delle facciate: S. Clemente a Casauria (1176), S. Giusta di Bazzano, S. Giovanni al Mavone. Un esempio anche più cospicuo di quanto possano fondersi diverse tendenze, per creare una nuova forma dello stile predominante nelle vicine regioni, è dato dalla Sicilia, dove il dominio arabo (dal sec. IX al XI) e poi quello normanno formarono attraverso le maestranze locali, non dimentiche dell'arte bizantina, una speciale varietà del romanico, detta siculo-normanna o meglio siculo-musulmana. Suoi principali monumenti sono: S. Giovanni degli Eremiti (1132), la Martorana, S. Cataldo, la cappella Palatina a Palermo, il duomo di Cefalù, con influenze oltremontane, e, soprattutto, il duomo di Monreale (1166-1189).
Non si può tacere che un magnifico sviluppo ebbe l'arte romanica in Francia, specialmente presso le comunità monastiche: ad ogni regione corrispose una data scuola. S. Stefano di Caen (1071) rappresenta quella normanna: capolavoro della scuola borgognona fu l'abbazia di Cluny (1131) con la pianta a croce archiepiscopale con due traverse, munite di deambulatorio, con le riavate coperte da vòlta a botte. Alla ricchezza dell'abbazia cluniacense fecero contrasto le chiese dei cistercierisi fondate da S. Bernardo, spesso ad absidi quadrate fiancheggiate da cappelle rettangolari, di grande importanza per l'origine e lo sviluppo dell'arte gotica italiana (v. cisterciensi). Molto notevoli sono le chiese a cupole del Poitou e dell'Aquitania, tra le quali maggiormente noto è il Saint-Front di Périgueux, molto simile nella pianta, se non derivato direttamente, al S. Marco di Venezia. La Germania medievale adottò quasi sempre il tipo romanico basilicale, variando spesso le terminazioni absidali: i duomi di Magonza, di Worms, di Spira, l'abbazia di Laach (Maria-Laach), ecc., sono magnifici esempî di arte romanica, spesso di carattere francese; mentre nell'Inghilterra, dove era vivo il ricordo delle costruzioni e delle chiese norvegesi e svedesi tutte di legno, gli elementi romanici del continente non spensero del tutto quelli sassoni-normanni locali.
La chiesa gotica. - Meritre nelle chiese romaniche dei secoli XI e XII era minimo il gioco delle spinte e controspinte, dato il poco slancio delle vòlte e dati i grandi spessori delle masse murarie, la vòlta a ogiva, già usata dai romanici in modo statico, offrì il mezzo di creare un'ossatura molto più leggiera e suscettibile perciò di maggiori ardimenti. Portando a mezzo dei costoloni il peso delle vòlte in dati punti, bastava opporre in questi una contropressione per mantenere in equilibrio il sistema: collegati fra loro questi punti con una serie di equilibrî verticali, non occorreva piú unirli orizzontalmente con grosse pareti. I grandi spazî creati fra le sottili membrature dei nuovi colossali scheletri lapidei potevano essere destinati a introdurre la luce; la navata maggiore poteva elevarsi assai più in alto delle minori: la facilità di conseguire grandi altezze favorì l'uso dell'arco acuto, atto meglio che il circolare a slanciarsi, occupando minor spazio, verso l'alto; gli elementi costruttivi per eliminare le spinte delle vòlte presero forma di archi rampanti e offrirono il destro agli scultori, per mascherarne la forma inconsueta e non felice, di adornarli con estreme ricchezze di trafori, nicchie, fiorami, pinnacoli, doccioni. Tutto il sistema prese decisamente un senso audacissimo di verticalismo; negl'ingegnosi giochi marmorei trovò luogo una complicata simbolologia di cui le maestranze, ormai laiche, si tramandavano i soggetti.
Qui è appena possibile accennare alle preziosità stilistiche delle cattedrali francesi del sec. XII (Sens; Notre-Dame, Noyon, Laon, ecc.) e del sec. XIII (Chartres, Bourges della scuola dell'Île-de-France, Reims, Amiens, ecc.). In generale queste chiese hanno tre o cinque navate, transetti a tre navate, coro molto allungato con semplice o doppio deambulatorio fornito di cappelle raggianti: i pilastri sono cilindrici con colonne addossate: le finestre, immense, sono una tessitura di esilissime membra marmoree, tra cui brillano vetri colorati. E dalla Francia il mistico canto dell'arte gotica si propaga in Germania (Ratisbona, Colonia, Lubecca), in Inghilterra (Canterbury, Lincoln, ecc.), in Spagna (Toledo, Burgos, León, ecc.). In Italia, e più specialmente vicino a Roma, i frati cisterciensi della Borgogna prima in S. Maria di Falleri e poi nelle abbazie di Fossanova (ultimi anni del sec. XII) e di Casamari (1217), e in quella di S. Gargano presso Siena, portarono la pianta borgognona ad abside e cappelle absidali rettangolari, l'adozione generale del sesto acuto, colonne alternate a pilastri (S. Martino al Cimino), capitelli di profilo francese, costoloni non più rettangolari, ma tondi o profilati. In S. Andrea di Vercelli (iniziato nel 1219), nella parte superiore del duomo di Ferrara, nella facciata del duomo di Genova sono evidenti influssi di arte gotica forestiera: ma è da notarsi che l'unico monumento sacro di pretto carattere gotico oltremontano - il duomo di Milano - sorge solo alla fine del Trecento, e sorge in quella Lombardia, dove più persistevano le forme romaniche.
Tranne il duomo di Milano le chiese italiane del Duecento non somigliano alle cattedrali francesi e tedesche: di rado da noi si usano gli archi rampanti. L'arte gotica italiana non abbandonò il senso classico di serenità, mantenutosi anche attraverso il primo Medioevo e caratterizzato dalla linea orizzontale; rinunciò alle estreme acutezze dei sesti ogivali; ebbe quasi a disdegno il mascherare con trite decorazioni le possenti membrature costruttive delle chiese; manterme una giusta armonia fra i pieni e i vuoti (v. gotica, arte).
Come per le chiese romaniche, anche per le gotiche si notano variazioni da regione a regione e attaccamenti ai vecchi stili. Così la Liguria non abbandonò le fasce policrome all'uso antico pisano: il Piemonte non sfuggl a influssi francesi. Nel Veneto il S. Antonio di Padova mostra accanto a una facciata lombarda una serie pittoresca di cupole bizantineggianti; nell'Emilia la facciata del S. Francesco di Bologna, dove il deambulatorio, le vòlte esapartite, gli archi rampanti di nudo laterizio ricordano l'arte francese, è ancora di carattere romanico. Due scuole diverse ebbe la Toscana: Siena e Firenze. Il duomo di Siena (c. 1264), pure avendo nel vicino S. Galgano un notevole campione del nuovo stile, non ne fu influenzato. A capo del braccio principale a tre navate s'innalza un esagono che sorregge la cupola a dodici lati: i pilastri sono a pianta cruciforme, allacciati da archi a tutto sesto e decorati a fasce bianche e nere, che tendono ad annullare il senso delle linee verticali: circola appena nella chiesa lo spirito gotico, molto più vivo e sviluppato nella facciata, rivale della sorella d'Orvieto costruita con maggiore organicità. A Firenze Santa Maria del Fiore, iniziata alla fine del secolo XIII da Arnolfo di Cambio, ha il corpo centrale privo di cappelle, a grandi campate quadrate cui corrispondono quelle rettangolari delle navate minori; un ballatoio su mensole ne taglia in linea orizzontale le pareti, come in Santa Croce, iniziata nel 1295. In queste due chiese e in S. Maria Novella (1278), al contrario delle costruzioni oltremontane, sembra che gli architetti abbiano avuto la preoccupazione di rendere quasi invisibili gli organi portanti, si che per l'ampiezza delle campate, per la semplicità delle decorazioni e per la serenità ambientale si ha l'impressione di entrare in chiese a una sola navata: è ancora il senso dell'aula romana che rimane inalterato. Cosi, nel S. Petronio di Bologna, Antonio di Vincenzo con meravigliosa audacia gettò arcate di dolce e largo sesto ad abbracciare gli spazî quadrati (19 metri di lato) della navata principale, cui corrispondono le navate minori e le cappelle poste tra le prime in ltalia (e a Bologna in S. Maria dei Servi) lungo i muri perimetrali della chiesa e dai cui finestroni filtra la luce che illumina la grande basilica.
Le chiese del Rinascimento. - L'arte gotica ebbe tale sviluppo nella Francia, Germania, Inghilterra, ecc., da costituire quasi uno stile nazionale per ognuna di queste regioni, fiorito fin quasi ai giorni nostri. L'Italia, non avendo mai accettato del tutto quelle che erano le vere ragioni tecniche e sentimentali, che costituivano il puro stile gotico del Nord, ebbe ben presto un sentimento di reazione: la voce dell'arte classica, affievolitasi nei secoli XIII e XIV, cominciò, prima timidamente, poi con maggior forza a farsi sentire. Da Firenze, alcuni pochi artisti di genio, con l'intento di far rivivere l'architettura classica ne studiarono le forme principali e i motivi decorativi e, nel riprodurli, credettero di fare modesta opera di copia. Ma, pur riconoscendo quanto gli edifici romani e quelli del primo Medioevo servissero di esempio a quegli architetti, è opportuno e giusto il constatare come la fioritura di edifici sacri e civili, favorita dalle Signorie del Quattrocento, costituisca una vera rinascenza con caratteri suoi particolari e con motivi e movenze e aspetti d'una varietà straordinaria. Alla prima rinascenza toscana, d'ineffabile grazia e serenità, fa seguito quella del Cinquecento e il rinascere delle forme classiche ha tali radici nel nostro suolo italico, che, dopo la parentesi gotica, vivrà vita ininterrotta, pure attraverso le deformazioni geniali del barocco, e si spargerà per tutto il mondo.
Col Rinascimento toscano gli edifici sacri a pianta centrale sorgono di nuovo a contrastare il passo agli edifici a pianta longitudinale che avevano dominato durante il periodo gotico.
Il Brunelleschi, dopo avere iniziato la rotonda di S. Maria degli Angeli (1428) e costruito la cappella dei Pazzi, a pianta centrale, ritorna per le chiese di S. Lorenzo e di S. Spirito alla pianta longitudinale e sommerge nella prima qualche rimembranza planimetrica di S. Croce e nella seconda il ricordo della croce latina mediante una squisita armonia di membrature e un'estatica serenità di luci; i profili architettonici sono di evidenza cristallina; i pulvini rimessi in onore; finissimi accorgimenti, quali in S. Spirito le colonne nelle navi minori addossate al muro delle cappelle, e l'incurvarsi di queste, accrescono maggiormente i giochi prospettici. Ancora più direttamente ispirato all'arte classica romana, ma non per questo meno originale, fu Leon Battista Alberti. Nel rivestire di forme classiche il tempio medievale di S. Francesco a Rimini ricordò le larghe forme dell'arco d'Augusto e triplicandolo formò la facciata: ricordò le possenti nicchie del mausoleo di Teodorico e ne compose il ritmico fianco. L'Alberti si provò anche nello studio di una chiesa a pianta centrale: anzi volle di più e tentò d'innestare alla chiesa dell'Annunziata (Firenze) una grande tribuna circolare che ornamenti posteriori rendono quasi irriconoscibile: a Mantova ideò l'originalissima chiesa a croce greca di S. Sebastiano e, con maggior respiro, quella di S. Andrea a croce latina. D'ispirazione brunelleschiana nei particolari e memore del Pantheon di Agrippa, è la più piccola chiesa a croce greca di S. Maria alle Carceri a Prato (1491) di Giuliano da Sangallo; la stella armonia e serenità si trova nella chiesa della Madonna del Calcinaio (Cortona) a cupola ottagonale, di Francesco di Giorgio Martini. Influssi d'inconsuete chiese a sala usate in Germania sembra guidassero il Rossellino nel costruire la chiesa di Pienza a tre navate di uguale altezza, a pilastri tetrastili, con un'abside poligonale a deambulatorio, con la severa facciata di travertino a triplice ritmo di archi.
I nuovi insegnamenti si sparsero con rapidità nell'Italia settentrionale modificandosi da regione a regione secondo le diversità dei materiali proprî a ogni località e secondo l'attaccamento ai vecchi stili.
Così nell'Emilia, dove imperava il laterizio, tutte le membrature architettoniche vengono sottilmente eseguite in terracotta, riservandosi agli ornamenti di scultura il marmo e l'arenaria. Il color rosso domina le vaste facciate di ampio e calmo respiro delle chiese, sparse dal genio di Biagio Rossetti, che in S. Francesco di Ferrara adottò le volute dell'Alberti per raccordare la parte centrale della facciata ia lati minori e nell'interno coprì le navi minori con eleganti cupolette. A Bologna, mentre S. Michele in Bosco pare dell'architetto ferrarese, sorgono cappelle del tipo toscano, ma la decorazione trionfa sulla linea architettonica e le facciate dello Spirito Santo, della Madonna di Galliera e della "Santa" (o del Corpus Domini) tendono all'esuberanza lombarda. Venezia, appartata e solitaria, accetta solo in parte il Rinascimento toscano e tra un persistente fiorire di gotico sorge quale mirabile fiore di marmo la Madonna dei Miracoli (1486-89), ideata da Pietro Lombardo, dove le preziosità decorative superano di molto la semplice struttura costruttiva. Anche in Lombardia, dove pure il Filarete e il Michelozzi avevano portato il nuovo stile, l'amore per il particolare plasmò le costruzioni della fine del Quattrocento.
Le chiese che il Bramante vi eresse o cominciò: S. Maria di S. Satiro (1482), con la cupola ispirata a quella della cappella Portinari in S. Eustorgio del Michelozzi: il duomo di Pavia (1488); S. Maria delle Grazie (1492); la S. Maria di Abbiategrasso (1497), mostrano la ricerca, da parte dell'architetto urbinate, di nuovi partiti architettonici, quale il variare degli spazî tra pilastro e pilastro (trovata ritmica), il curvare a esedra le pareti e il flettere a grandi archi le superficie, ecc.: ma il tutto è come nascosto dalla trita decorazione lombarda di lesene, balaustre, patere, cornici, candelabri, ecc. Ma il contatto diretto con i monumenti romani spogliò le membrature bramantesche da inutili superfetazioni; nel 1502 sorge la piccola chiesa circolare di S. Pietro in Montorio circondata da un portico di sedici colonne di granito di stile dorico purissimo; nel 1506 Bramante aveva già preparato il disegno per la nuova basilica di S. Pietro, scegliendo il tipo a pianta centrale (v. bramante; vaticano).
Anche il rifacimento del tempio di Loreto (1468-1520 circa) sbocciò in un compromesso tra i due tipi di chiesa: il braccio inferiore, a tre navate, della croce latina si collega con sforzo al corpo absidale, pure a tre navate, i cui bracci portano ognuno tre absidi semicircolari all'esterno e poligonali all'interno, dominate dalla cupola (v. loreto). Ben più organiche e, forse, le più mirabili espressioni del potente senso classico cinquecentesco sono le due chiese di Todi e di Montepulciano, ambedue a pianta centrale e a croce greca, ambedue sviluppate con gli ordini classici. Ancora memore di qualche finezza decorativa quattrocentesca la Consolazione di Todi (1508-1524), in cui tre grandi absidi curve chiudono i bracci della croce d'ispirazione bramantesca: uscito di getto dal nitido disegno del Sangallo il S. Biagio di Montepulciano.
Per tutto il Cinquecento il carattere architettonico più monumentale che ornamentale, dovuto in gran parte al Eramante e ai Sangallo, non è più abbandonato. Baldassarre Peruzzi è bramantesco nel Duomo (1514) e in S. Nicolò (1493-1522) di Carpi, se pure quest'ultimo è a lui dovuto. Lo stesso Michelangelo, così insofferente di freni artistici, così nuovo in ogni suo atteggiamento, prende origine dal Bramante e dai Sangallo; così la cupola di S. Eligio degli Orefici (1509) di Roma, disegnata da Raffaello, ricorda quella di S. Bernardino d'Urbino costruita forse da Francesco Martini con linee bramantesche: della stessa influenza è la chiesa a croce greca di S. Maria della Rosa a Chianciano (1565) dovuta a Baldassarre Lanci, urbinate. Per la grandiosa basilica genovese di S. Maria di Carignano, l'Alessi (1552) ebbe in mente la disposizione planimetrica di S. Pietro di Roma ideata dal Bramante e modificata da Michelangelo.
In diversa misura gl'insegnamenti bramanteschi furono portati nel Veneto dal Sansovino e dal Palladio; inconsuetamente parco di aggetti il primo nel disegno dell'interno di S. Francesco della Vigna (1534) a Venezia, a una sola navata; basato il secondo quasi esclusivamente su motivi di grandi mezze colonne e pilastri corinzî o compositi formanti l'ossatura degli edifici nel S. Giorgio Maggiore (1565-80) di Venezia, a tre navate con cupole, a croce latina rovesciata, e nel Redentore pure di Venezia (1577-1592) a una sola navata con i transetti terminati a semicerchio. Lo stesso desiderio di animare gl'interni delle chiese con sole linee architettoniche, disdegnando quasi i particolari decorativi, si ritrova in molte chiese della prima metà del Cinquecento: citiamo la scenografica S. Giustina (1521-22) di Padova (disegno di Andrea Briosco modificato da Alessandro Leopardi) a tre navate e a croce latina con cupole; il duomo di Padova, forse ideato da Michelangelo, costruito da Andrea Da Valle e Agostino Pighetti (1551-1577); S. Maria di Porto di Ravenna (1553), nella cui navata centrale Bernardino Tavella alternò colonne a pilastri compositi; la chiesa di S. Benedetto Po (Abbazia di Polirone), di forme gotiche, che Giulio Romano nel 1539 rivesti con linee classiche: S. Spirito di Bergamo (1521), disegnato da Pietro Isabello, infiorato qua e là di trite decorazioni lombardesche, ecc.
La chiesa della Controriforma e del periodo barocco. - A mezzo il Cinquecento ancora a Roma si sviluppa un nuovo tipo di chiesa la cui essenza planimetrica, già passata e tradotta in atto, per esempio, dall'Alberti nel S. Andrea di Mantova e dal Lombardo nel S. Salvatore di Venezia (1506-1534), è fissata nella forma di aula a una sola navata luminosissima, per lo più coperta di vòlta a botte, fiancheggiata da piccole cappelle quasi nascoste tra enormi piloni di divisione, terminata all'altezza del presbiterio da una cupola, che non è più il motivo centrale, come nelle chiese della Rinascenza, verso il quale convergono tutte le linee dell'edificio, ma è quasi la prosecuzione della vòlta della navata. Al posto dei giochi prospettici formati dalle molteplici navate delle chiese gotiche e di quelle della prima Rinascenza, il largo spazio della sola navata principale si apre come la grande aula centrale delle basiliche a vòlta, delle terme, ecc., o come una sala da teatro: planimetria suggerita da ragioni pratiche, qual'era il bisogno di avere un'aula unica per la predicazione, che dopo il concilio di Trento prese tanto sviluppo. E se le prospettive avranno largo sviluppo, non più con vere e proprie architetture, ma con finzioni pittoriche gettate nelle curve delle vòlte, il popolo in massa assisterà alle funzioni, volutamente rese visibili nei larghi e luminosi presbiterî: l'accresciuto fervore religioso dato dalla Controriforma, la potenza dell'ordine dei gesuiti, la progressiva tendenza alla grandiosità e alla ricchezza in tutto ciò che era relativo a funzioni, pompe, cerimonie, tendenza che trovò terreno ideale nelle nuove aule, facilmente intonantisi alle sempre più ricche funzioni liturgiche e al sorgere di nuove sacre musiche, resero questo nuovo tipo della Controriforma talmente popolare che non fu mai più abbandonato.
L'esempio più completo e forse più ricco è quello del Gesù a Roma, iniziato dal Vignola nel 1568 e compiuto da Giacomo della Porta nel 1575, in cui, al contrario delle chiese del Bramante, del Sangallo, del Palladio, ecc., gli spazî fra linea e linea architettonica, sono quasi presi d'assalto dai pittori, scultori, stuccatori, indoratori, mosaicisti, ecc.
Per le facciate delle chiese la Controriforma adottò e fissò un tipo già usato nel Quattrocento, e cioè il tipo a doppio ordine. Gl'immediati precursori della facciata a due ordini sono i Sangallo: Antonio il Vecchio in S. Biagio di Montepulciano, Antonio il Giovane nel progetto di S. Pietro e Guidetto Guidetti in S. Caterina dei Funari (1560-64). Il Vignola, Giacomo della Porta, il Lunghi, il Mascherino, Carlo Maderno, il Rainaldi, ecc., ne fissano e sviluppano i motivi predominanti, che consistono nella divisione della fronte in due parti: una inferiore, corrispondente in larghezza alla navata centrale e alle cappelle laterali e in altezza all'ordinanza verticale della nave centrale, e una superiore, corrispondente alla sopraelevazione curva della nave centrale raccordata con l'inferiore per mezzo di volute a S usate già dall'Alberti. Ad alcune facciate ben presto s'affiancano i campanili e in modo tipico il Vignola fa sporgere il corpo centrale delle facciate e sviluppa un portale mediano che a sua volta, come piccola parziale facciata, racchiude la porta principale della chiesa. L'ordinanza architettonica delle due parti è costituita da lesene per lo più corinzie, ora semplici ora accoppiate; negli spazî tra lesena e lesena s'aprono porte, finestre, riquadri, nicchie con statue. Le variazioni apportate al tipo descritto si susseguono nella seconda metà del Cinquecento con grande rapidità, mentre senza scosse, senza bruschi trapassi, già accennato da Michelangelo e da Giulio Romano, s'inizia il magnifico periodo di architettura detta comunemente barocca e che trova il suo massimo sviluppo nel Seicento. Al contrario della prima Rinascenza che, per reazione e di colpo, oppose al mistico verticalismo gotico e al fiorire dei complicati tabernacolini, odiati dal Vasari, il ritorno alla serena linea orizzontale e alle ordinanze classiche, l'architettura barocca non risponde alle leggi di un vero stile: non è che una variazione di quello classico, con esagerata tendenza alla linea curva, non è che un frutto della fantasia vivissima di alcuni architetti, per i quali l'edificio poté essere reso pomposo e impressionante per strani atteggiamenti di masse. Vi fu quasi una gara nel piegare le inerti masse murarie alle più bizzarre linee curve, alle più vivaci espressioni dinamiche senza che per gli edifici religiosi nessuna liturgia o sacra usanza lo imponesse; vi fu vera gioia creativa a tradurre in pietre i nervosi schizzi tracciati in una specie di ebbrezza architettonica. Molti nuovi partiti più non rispondono alla logica della tecnica costruttrice, ma, pur nella loro bizzarria, corrispondono pienamente al secolo della fastosità e della magnificenza.
A Roma nasce e da Roma si sparge in tutta Europa il gusto barocco. Il tipo del Gesù viene elaborato e arricchito specialmente nei particolari e nelle suppellettili (altari, confessionali, ciborî, organi, cantorie, candelieri, ecc.), che come innumerevoli strumenti di una grande orchestra uniscono le loro piccole voci ad amplificare la tumultuosa sinfonia creata dalle arti maggiori. Vignolesco fu il Maderno nella facciata di S. Susanna (1603); ligio alla Controriforma e ubbidiente a ragioni pratiche e a ordini ricevuti fu nel tentativo di ridurre a forma basilicale la creazione michelangiolesca di San Pietro; e della grande cupola di questo si ricordò nel disegnare quella di Sant'Andrea della Valle (1650 circa). Non del tutto libero da ricordi della Rinascenza è Pietro da Cortona nella pianta di S. Luca (1640) a croce greca ad absidi semicircolari, mentre del tutto nuova, per le movenze, è la facciata a duplice ordine secondo il canone cinquecentesco, ma incurvata verso l'esterno, quasi per voler sfuggire alla stretta dei piloni angolari. E incurvata verso l'esterno con maggior grazia, perché annunciata da un grazioso portico dorico semicircolare, è la parte superiore della facciata di Santa Maria della Pace (1655). Più che nelle chiese Lorenzo Bernini (v.) profuse la sua fantasia in opere decorative e scultorie: la facciata di S. Bibiana (1627) ha un senso assai corretto più da villa che da tempio: tranquille e serene sono le linee delle chiese di Castelgandolfo (1661) e dell'Ariccia (1664): piccolo capolavoro di armoniosa grazia è S. Andrea al Quirinale (1678), dove il partito del piccolo portico unico semicircolare è un ingegnoso pretesto per ostentare l'araldica del mecenate. Di molto maggiore novità sono le chiese del Borromini (v.), di cui l'arte sfugge a una definizione precisa, ritrovandosi in essa elementi classici e orientali, aspirazioni di verticalismi gotici, appassionate preziosità di particolari, preludi a quelle variazioni del classico che si chiameranno Luigi XVI e Impero. Carlo Rainaldi in S. Maria in Campitelli (1657), Carlo Fontana in S. Maria dei Miracoli (1663), e, uscendo fuori di Roma, Lorenzo Binago a Milano (S. Alessandro, 1602), G.B. Lantana a Brescia (Duomo, 1604), Baldassarre Longhena a Venezia nella mirabile chiesa della Salute a pianta ottagonale (1631-56), cui aggiungono fascino le grandi volute che fanno da contrafforti alla bella cupola, il Magenta a Bologna con i disegni del duomo, di S. Salvatore e forse di S. Paolo (1611), ecc., rappresentano mirabilmente con le loro nobili costruzioni il sec. XVII e il suo sviluppo religioso, mentre unico erede delle bizzarrie del Borromini fu Guarino Guarini (S. Lorenzo, 1687 e Cappella della S. Sindone a Torino). L'influenza dei grandi architetti del seicento dura anche per grande parte del sec. XVIII: basti ricordare le opere di Alessandro Galilei (facciata di S. Giovanni in Laterano, 1734), quelle di Filippo Iuvara (Basilica di Superga iniziata nel 1717, la chiesa di Venaria del 1724 incompiuta, ambedue a croce greca, la facciata di S. Cristina a Torino, 1715-1718), quelle di Ferdinando Fuga (facciata di S. Maria Maggiore, 1750), ecc.
Dall'Italia le forme barocche si sparsero per tutta l'Europa e non vi fu reggia che non chiamasse architetti italiani, dalla Francia alla Germania, dall'Austria alla Russia.
La chiesa settecentesca. - A mezzo il Settecento le ornamentazioni tendono a diminuire di fastosità e di grandiosità e ad aumentare di graziosità. Le decorazioni di stucco, con piccoli motivi di ricci, conchiglie, viticci contorti, salienti sulle pareti, coronanti mobili e quadri, insinuantisi nelle ancone degli altari, nei confessionali, in tutte le suppellettili sacre, sembrano quasi stilizzazione di lievi spume di mare e di ondeggiamenti di flore. Ma tutto ciò rimane allo stato di decorazione: le chiese non mutano di planimetria e di ordinanze architettoniche: non si può parlare d'uno stile architettonico rococò.
Il fascino di alcune chiese settecentesche, come S. Filippo Neri e S. Michele dei Leprosetti di Bologna, consiste nella leggiadria degli ornati, non certamente nelle linee costruttive. Per opere di maggior mole si ricorre anche a Roma: sempre in Bologna, per il grandioso santuario di S. Luca e per la chiesa gesuitica di S. Ignazio (ora Biblioteca dell'Accademia di belle arti), C. F. Dotti e Alfonso Torreggiani guardano alle chiese seicentesche romane, non senza un ritorno alla semplicità palladiana nel lasciare grandi spazî nudi nelle vólte e nelle cupole, nell'usare colonnati esterni architravati, nel riprendere i frontoni triangolari non spezzati.
Ben presto le decorazioni rococò cedono il campo a quelle fiorite durante il regno di Luigi XVI, in cui, quasi per reazione, la linea retta torna ad imperare e, frutto di nuovi appassionati studî archeologici (scavi di Ercolano e Pompei), vengono di moda i trofei scolpiti e le armature, i festoni, le greche, aprendo la via a un diverso modo di architettare, così come si preparava nel campo letterario e sociale la grande Rivoluzioue. Campione prezioso di tale momento di transazione tra le sbrigliate architetture barocche e quelle dell'Impero è la chiesa romana del Priorato di Malta, in cui le decorazioni del Piranesi (1765) ondeggiano tra una voluta semplicità lineare e l'affastellarsi di esuberanti motivi araldici.
La chiesa neoclassica. - Molto prima che sorgesse l'Impero napoleonico, in Italia e in Francia gli architetti con veloce trapasso erano tornati alle norme classiche, quasi per ricondurre sulla via retta le menti traviate dal barocco. Non più ordini sovrapposti, non più aritmiche aperture di fornici, porte e finestre, non più sovraccariche decorazioni; i modelli sono il Partenone e il Pantheon per l'antichità e gli edifici del Palladio per il Cinquecento: questa ennesima variazione dello stile greco-romano si chiamerà neo-classico o "Impero" e, pure avendo prodotto monumenti insigni e grandiosi, peccherà di freddezza e di uniformità.
Quasi sempre un grande pronao architravato a molteplice ordine di colonne coronato da un frontone triangolare precede la chiesa, spesso a pianta con cupola centrale; ricordiamo la Madeleine di Parigi, la Gran Madre di Dio di Torino (1818, Ferdinando Bonsignore), il tempio di Possagno, del Canova (1819-30), S. Salvatore di Terracina (Antonio Sarti), la Pieve di San Marino (1826, Antonio Serra), S. Francesco di Paola di Napoli (cominciato nel 1817, Pietro Bianchi), ecc. E bene spesso analogo pronao precede teatri, ville, edifici municipali. Cosimo Morelli, che svolse la sua attività nella seconda metà del Settecento, nelle cattedrali d'Imola (1765), di Fossombrone (1772-1784), di Fermo (1789), di Macerata (1771-90), ecc., si mantiene rigidamente fedele alla pianta rettangolare perimetrale, sviluppando grandemente il presbiterio e l'abside a detrimento dei transetti. Maggiore varietà di motivi architettonici ebbe Giuseppe Valadier nel disegnare la palladiana facciata di S. Rocco a Roma (1831 circa), l'armonico duomo di Urbino (1790), la facciata di S. Pantaleo a Roma (1805), la chiesetta ottagonale di Frasassi (1825 circa), la facciata di Sant'Andrea delle Fratte a Roma (1826).
La chiesa moderna e contemporanea. - Il neo-classico resistette fino al romanticismo, che fece tornare di moda lo stile gotico. Dalla metà circa del sec. XIX s'inizia l'eclettismo e da allora si possono seguire le diverse preferenze degli architetti per gli antichi stili e le creazioni, spesso notevoli, di chiese neo-bizantine, neo-romaniche, neo-gotiche: rarissimi sono gli esempî di nuove chiese ispirate alla Rinascenza, al Cinquecento e al Barocco. Luigi Poletti, mentre attende alla ricostruzione sontuosa della basilica di S. Paolo a Roma, disegna in maniera trecentesca S. Filippo di Nocera Umbra: Giuseppe. Sacconi alterna studî appassionati per suppellettili gotiche e modelli di (purissimi motivi greco-romani. L'apostolato di Violletle-Duc e del De Fleury in Francia, di Camillo Boito, di Alfredo d'Andrade, di Alfonso Rubbiani in Italia a pro' degli antichi monumenti contribuì ancor più al sorgere d'infinite chiese gotiche e romaniche, di cui molte sono grette imitazioni senza alcuno spirito d'arte. Diventarono di moda, e lo sono ancora purtroppo, le costruzioni e i rifacimenti di stile: ricordiamo ad es. la misera facciata di Santa Croce (1857-64) e quella più ricca di S. Maria del Fiore (1876-1887). Molte vecchie chiese, nelle quali ciascun secolo aveva lasciato una qualche sua traccia, furono da restauratori irrispettosi ricondotte al loro preteso stato primitivo, distruggendosi così infinite opere d'arte.
L'ispirazione sapiente ad antichi templi e antichi stili ha prodotto invece monumenti pregevoli, quali il Sacro Cuore di Parigi, riassunto di tutta l'architettura romanica francese; S. Spiridione di Trieste (1870 c.) con decorazioni bizantineggianti, S. Anselmo (1900) a Roma di carattere romanico romano, il Sacro Cuore di B0logna (1912) ispirato nella pianta a S. Sofia, ecc.
Quanto all'architettura religiosa contemporanea, tentativi di chiese schiettamente moderne s'incontrano solo fuori d'Italia dalla bizzarra Sacra Famiglia di Barcellona del Gaudi alle chiese razionalistiche di cemento armato dei fratelli Perret (Raincy Montmagny) e di Carlo Moser (Basilea), da quelle del Fahrenkamp a Mülheim e del Böhm a Magonza alla Högalidskyka, del Tengboma, a Stoccolma, in cui le membrature architettoniche sono prive di qualsiasi decorazione e la bellezza interna è affidata al gioco degli spazî e delle linee. (V. tavv. V-XII; v. inoltre le voci dedicate ai singoli stili nonché ai singoli artisti citati nel testo).
Bibl.: Oltre le storie generali dell'arte del Venturi, del Toesca, del Michel, del Lübske, dello Springer, del Kuhn, del Batissier, oltre le storie dell'architettura del Choisy, del Viollet-le-Duc (Dictionnaire), del Fergusson, del Fletcher, del Ramée, dello Schnaase, del Melani, si citano come opere generali: Cahier e Martin, Mélanges d'archéologie, Parigi 1846-57; L. Chateau, Histoire et caractères de l'architecture en France, Parigi 1864; E. Förster, Geschichte der italienischen Kunst, Lipsia 1869-78; I. Quicherat, Mélanges d'archéologie, ecc., Parigi 1886; J. Burckhardt, Der Cicerone, Basilea 1855; E. Bertaux, L'art dans l'Italie méridionale, Parigi 1904; Dehio e Bezold, Die kirchliche Baukunst des Abendlandes, Stoccarda 1905; J. A. Brutails, Précis d'archéologie du moyen âge, Parigi 1908; Cabrol e Leclercq, Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de liturgie, Parigi 1914; C. Enlart, Manuel d'archéologie française, Parigi 1919; C. A. Cummings, A history of architecture in Italy, Boston 1927; T. F. Bumpus, The cathedrals and churches of Italy, Londra 1926.
Per le chiese romaniche: F. Dartein, Étude sur l'architecture lombarde ecc., Parigi 1865-82; E. Corroyer, l'architecture romane, Parigi 1888; G. T. Rivoira, Le origini dell'architettura lombarda, Roma 1901; L. Bréhier, Les églises romanes, Parigi 1905 (trad. it. Roma 1908); R. de Lasteyrie, L'architecture religieuse en France à l'époque romane, Parigi 1912; C. Ricci, L'architettura romanica in Italia, Stoccarda 1925; Martin e Enlart, L'art roman en Italie, Parigi 1924; M. Salmi, L'architettura romanica in Toscana, Milano 1926.
Per le chiese gotiche: E. Corroyer, L'architecture gothique, Parigi 1891; C. Enlart, L'architecture gothique en Italie, Parigi 1894; A.K. Porter, The construction of lombard and gothic vaults, 1911; M. Hasak, Der Kirchenbau des Mittelalters, 2ª ed., Lipsia 1913 (in Handbuch der Architektur); R. De Lasteyrie, L'architecture religieuse en France à l'époque gothique, Parigi 1926-27.
Per le chiese della Rinascenza e del Cinquecento: H. von Geymüller, Die Architektur der Renaissance in Toscana, 1885-1908; A. Wölfflin, Renaissance und Barock, Monaco 1888; J. Durm, Die Baukunst der Renaissance in Italien, Lipsia 1914 (in Handbuch cit.); W. I. Anderson, The Architecture of the Renaissance in Italy, Londra 1909; G. Giovannoni, Chiese della metà del Cinquecento in Roma, in L'Arte, 1912 e 1913; G. Gromort, Histoire abrégée de l'architecture de la Renaissance en Italie, Parigi 1913; J. Baum, Baukunst... der Frührenaissance in Italien, Stoccarda 1920; C. Ricci, L'architettura del Cinquecento in Italia, Torino 1923; P. Schubring, Die Architektur der italienischen Frührenaissance, Monaco [1924]; J. Burckhardt, Geschichte der Renaissance in italien, 7ª ed., Esslingen s. N. 1924.
Per le chiese barocche: C. Gurlitt, Geschichte des Barock-stiles Stoccarda 1887-89; H. Wölfflin, Renaissance und Barock, Monaco 1888; S. Fraschetti, Il Bernini, Milano 1900; C. Ricci, Architettura barocca in Italia, Bergamo 1912; M. S. Briggs, Baroque architecture, Londra 1913; A. Telluccini, L'arte dell'architetto Filippo Iuvara in Piemonte, Torino 1926; A. Munoz, L'architettura barocca a Roma, Milano 1927; D. Frey, ARchitettura barocca, Roma 1929; E. Hempel, Francesco Borromini, Roma 1926.
Per le chiese del sec. XIX: Rollin-Villard, History of modern Italian art, Londra 1878; C. Boito, Questioni pratiche d'architettura, Milano 1913; G. Giovannoni, Questioni di architettura, Roma 1921; G. Gambetti, Cosimo Morelli, Imola 1926; M. Piacentini, Architettura d'oggi, Roma 1930 e le riviste: Architettura e arti decorative (Roma); Baukunst (Monaco); L'architecture (Parigi), ecc.
Diritto canonico. - Storia. - La disciplina giuridica relativa alle chiese si forma lentamente, in gran parte a opera dei concilî locali; e per buona parte la storia di tale disciplina è quella stessa della formazione di un regime giuridico della proprietà ecclesiastica, sinché vi ritroviamo l'azione regolatrice e accentratrice di papa Gelasio I, che difende le chiese contro le usurpazioni dei loro fondatori, e nella lettera ai vescovi della Lucania, del 494, sembra volere che non possano essere consacrate e dedicate nuove chiese senza l'autorizzazione pontificia (il principio generale è invece nel senso che necessiti il consenso del vescovo). Anche le falsificazioni dello pseudo-Isidoro cooperano alla formazione di questa disciplina, che ha per oggetto, oltre ai principî ora accennati, il divieto di celebrare messe solenni e di celebrare gli uffici di culto più insigni fuori delle chiese consacrate, le regole sulla consacrazione e sulla reconciliatio in caso di pollutio, l'immunità locale. Graziano nel Decretum dedica a questi argomenti la distinctio I della pars III che ne assume il titolo de consecratione; Gregorio IX nelle sue Decretali i tit. 40 (de consecratione ecclesiae vel altaris), 48 (de ecclesiis aedificandis vel reparandis) e 49 (de immunitate ecclesiarum, coemeterii et rerum ad eas pertinentium, contenente la famosa costituzione Inter alia d'Innocenzo III in materia d'immunità locale) del libro III; Bonifacio VIII nel Liber sextus i titoli 21 (de consecratione) e 23 (de immunitate) del libro III; Giovanni XXII nelle Clementinae il tit. 17 de immunitate ecclesiarum del libro III.
Diritto vigente. - Col termine di chiesa (ecclesia) il Codex iuris canonici designa (can. 1161) aedes sacra divino cultui dedicata eum potissimum in finem ut omnibus Christifidelibus usui sit ad divinum cultum publice exercendum: in contrapposto all'oratorio, luogo destinato al culto divino, ma non precipuamente al bisogno religioso di tutta la popolazione. Le chiese (e con esse gli oratorî e i cimiteri) sono esenti dalla giurisdizione dell'autorità civile, mentre l'autorità ecclesiastica deve potervi esercitare liberamente la sua giurisdizione; inoltre godono del diritto di asilo, sicché il reo rifugiatosi in esse non deve venirne estratto, salvo il caso di urgente necessità, senza il consenso del vescovo o almeno del rettore della chiesa (canoni 1160, 1179). Quanto alla loro proprietà, il diritto della Chiesa non esclude che essa possa spettare a privati o persone giuridiche laicali.
Una nuova chiesa non può essere eretta senza il consenso del vescovo locale, il quale deve accertarsi che non mancheranno i mezzi per condurre a termine la costruzione, per conservare e officiare la chiesa, per assicurare il sostentamento dell'ecclesiastico addettovi, e inoltre che la nuova chiesa non danneggerà quelle vicine già esistenti (can. 1162). La prima pietra della nuova chiesa è imposta o benedetta dal vescovo o da un sacerdote da lui delegato, salvo che si tratti di chiesa conventuale, nel qual caso al vescovo subentra il superiore dell'ordine religioso (canoni 1156,1163). La relativa liturgia è stabilita dal capitolo De benedictione et impositione primarii lapidis pro Ecclesia aedificanda che si trova nella seconda parte del Pontificale romanum.
La costruzione deve aver luogo secondo le forme architettoniche tradizionali e le prescrizioni liturgiche. Le case private adiacenti alla chiesa non possono aprire in essa né porte né finestre. Nella costruzione del tempio è lecito lasciare locali sotterranei puramente profano (can. 1164).
La nuova chiesa, prima che comincino a celebrarsi in essa gli uffici sacri, viene consacrata o benedetta. La consacrazione è un rito sacro di cui è ministro il vescovo o anche l'abate e il prelato per le chiese collegiate, conventuali, parrocchiali; ma possono esserne oggetto solo le chiese fabbricate in muratura, non in legno o in ferro; l'anniversario della consacrazione è festeggiato ogni anno nella chiesa. La benedizione è un rito meno solenne, di cui può essere ministro qualsiasi sacerdote a ciò delegato. Ogni chiesa deve avere un titolo (un mistero, la Vergine, un santo: solo per indulto della S. Sede un beato: canoni 1165,1167).
Circa l'uso delle chiese, il Codex ammonisce (can. 1178): curent omnes ad quos pertinet, ut in ecclesiis illa munditia servetur, quae domum Dei decet; ab iisdem arceantur negotiationes et nundinae, quanquam ad finem pium habitae; et generatim quidquid a sanctitate loci absonum sit. L'ingresso nella chiesa per assistere ai sacri riti dev'essere gratuito (can. 1181), mentre non è invece vietata una tassa d'ingresso nelle chiese che racchiudono opere d'arte, nelle ore in cui non si celebrano funzioni. Normalmente nelle chiese si possono celebrare indistintamente le funzioni sacre; però, per una serie di riti, vi è una chiesa determinata in cui essi debbono aver luogo (ad es., per il matrimonio, la chiesa parrocchiale, di solito quella della sposa), benché per dispensa data dal vescovo o dal parroco possano seguire in altre chiese o oratorî.
Ogni chiesa deve avere almeno un altare consacrato (l'altare maggiore che ha lo stesso titolo della chiesa) e possibilmente delle campane, esse pure consacrate o benedette.
La chiesa è violata se si commetta in essa un omicidio o un grave spargimento di sangue, se venga destinata ad usi empî o indecorosi, se vi vengano sepolti infedeli o scomunicati: la violatio importa divieto di celebrazione degli uffici sacri: essa viene meno con la cerimonia liturgica della reconciliatio (titolo De reconciliatione Ecclesiae et coemeterii, sempre nella seconda parte del Pontificale romanum), previa la rimozione del cadavere dell'infedele o dello scomunicato, nell'ultimo dei casi suindicati (canoni 1172-1177).
Una chiesa non perde la consacrazione o la benedizione se non sia distrutta o non sia caduta la maggior parte delle pareti (can. 1170). La chiesa che non può essere più usata per il culto divino né riparata, può essere dal vescovo adibita in usum profanum non sordidum, trasferendo però i redditi, gli oneri ed eventualmente il titolo parrocchiale ad altra chiesa (canone 1187).
Diritto italiano. - Mentre nel diritto preconcordatario nessuna disposizione generale stabiliva il regime delle chiese, il Concordato stabilisce: a) all'art. 29 lett. a, che sarà riconosciuta la personalità alle chiese pubbliche aperte al culto che già non l'abbiano, comprese quelle già appartenenti agli enti ecclesiastici soppressi: disposizione la cui portata non è ben chiara, e che a nostro avviso non esclude la possibilità pur oggi di chiese in proprietà di enti morali laicali o di persone private; b) all'art. 9, che gli edifici aperti al culto siano esenti da requisizioni e occupazioni, e che salvo i casi di urgente necessità la forza pubblica non possa entrarvi senz'averne dato previo avviso all'autorità ecclesiastica; c) all'art. 10, che non si possa per qualsiasi causa procedere alla demolizione di tali edifici senza previo avviso all'autorità ecclesiastica.
È invece questione non considerata dal concordato e sempre agitata in dottrina quella della cosiddetta extra-commerciabilità delle chiese. L'opinione oggi dominante è che non si possano nel nostro diritto considerare le chiese extra commercium (anche perché vi contrasta l'art. 434 cod. civ. secondo cui i beni degl'istituti ecclesiastici sono soggetti alle leggi civili), ma che sulle chiese aperte al pubblico gravi una servitù di uso pubblico a favore della popolazione; sicché non sarebbe possibile ai creditori della persona o dell'ente proprietario compiere atti di esecuzione su tali chiese, se non a patto di rispettare la loro destinazione. Tale opinione non è però pacifica, e non mancano scrittori che negano l'esistenza di questa pretesa servitù, di cui non è traccia nel diritto scritto. Del pari non v'è accordo tra gli scrittori sul punto se le chiese rientrino tra gli edìfici destinati al culto pubblico che per gli articoli 556 e 572 cod. civ. sono esenti dalla comunione coattiva di muro divisorio.
I comuni hanno l'obbligo delle spese per la conservazione delle chiese destinate al culto pubblico, nell'insufficienza di altri mezzi per provvedervi (art. 329 testo unico 4 febbr. 1915, n. 148 legge com. e prov.).
Bibl.: Chiesa o tempio, in G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XI, Venezia 1841; L. Ferraris, Prompta Bibliotheca canonica, VI, Venezia 1782; F. P. van de Burgt, De ecclesiis, Utrecht 1874; A. Galante, La condizione giuridica delle cose sacre, Torino 1903; S. Many, Praelectiones de locis sacris, Parigi 1905; L. Mortara, Sulla inalienabilità delle cose sacre nel diritto italiano, in Foro ital., I (1888), col. 1189; G. Giorgi, Della condizione giuridica degli edifizi destinati al culto, in Foro ital., I (1896), col. 912; C. F. Gabba, Della commerciabilità delle cose sacre, in Foro ital., I (1890), col. 748; id., Questioni di diritto civile, 2ª ed., I, Torino 1909, p. 97 seg.; T. Santachiara, L'incommerciabilità delle cose destinate al culto pubblico (estr. da Il dir. eccles., Roma 1909); A. Perathoner, Das kirchliche Sachenrecht nach dem C. J. C., Bressanone 1919.
Chiese palatine. - In quasi tutti gli stati nei quali profondi rivolgimenti politici non hanno rotto i vincoli col passato, sussistono ecclesiastici ed edifici di culto che si trovano in una particolare posizione di diritto per essere destinati al servizio del sovrano, di clero palatino e di clero castrense, di chiese palatine e di cappelle militari, che soprattutto in passato si sono spesso confuse per la promiscuità di trattamento giuridico.
Il termine di chiese palatine (uno dei pochissimi nei quali sopravviva la voce palatino nel significato tecnico-giuridico che essa e i suoi derivati ricevettero nel basso Impero) viene da noi usato a designare quelle chiese che si trovano in rapporto di particolarissima dipendenza dal sovrano, e che perciò vengono ad essere (insieme col loro clero) in tutto o in gran parte sottratte alla dipendenza degli ordinarî diocesani. Questo particolarissimo rapporto può avere origine dall'essere o dall'essere stata la chiesa destinata al servizio della reale famiglia, o semplicemente da poteri acquistati sopra di essa dal sovrano.
L'istituto della palatinità aveva una reale importanza nell'ex-regno delle due Sicilie, dove trovava una specie di codice nella bolla Convenit del 6 luglio 1741, e dove al vertice del clero palatino era il cappellano maggiore, con poteri giurisdizionali. In Italia, fino al Concordato, si potevano distinguere: a) le chiese palatine pugliesi; b) le altre chiese palatine; c) le chiese annesse a palazzi o ville già appartenenti alla dotazione della Corona, e che col 1919 avevano cessato di far parte di tale dotazione; d) le chiese e cappelle esistenti nei palazzi reali, che per la maggior parte non davano vita a enti morali e non potevano pertanto dirsi palatine in senso proprio. Le palatine pugliesi erano: anzitutto la basilica di S. Nicola di Bari, la posizione del cui clero era fissata dal punto di vista ecclesiastico da un decreto della Congregazione Concistoriale (6 dicembre 1919) che taceva però della nomina del Gran priore e del clero della basilica; il Santuario di S. Michele a Monte S. Angelo; la Cattedrale di Acquaviva delle Fonti; l'arcipretura di Altamura. Esse erano ricchissime (nel 1889 la loro rendita annua era di circa L. 650.000), ma il loro patrimonio immobiliare era stato in gran parte convertito attraverso vendite e concessioni in enfiteusi a partire dal 1915. Fin dal 1891, conservandosi la personalità giuridica, l'amministrazione del patrimonio era stata accentrata presso l'amministrazione civile delle palatine pugliesi, cui era preposto un delegato nominato con decreto reale su proposta del ministro di giustizia, di cui doveva ottenere l'autorizzazione per tutti gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione. Le rendite erano in parte erogate in beneficenza. Dal 1915 il clero veniva retribuito con assegni fissi.
Il patrimonio delle altre palatine (tra cui era la chiesa di S. Barbara di Mantova, dalla quale traeva titolo e insegne abbaziali il cappellano maggiore del re, che peraltro aveva e ha sede in Roma, presso la chiesa del Sudario, antica chiesa nazionale piemontese e oggi vera cappella di corte) era amministrato dagli economi generali dei benefici vacanti quali regi delegati, con osservanza delle norme amministrative vigenti per le palatine pugliesi, sotto la sorveglianza del Ministero di giustizia che ne approvava i bilanci e autorizzava gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione. In tutte queste chiese si verificava quella che è la caratteristica della palatinità, cioè la cosiddetta collazione straordinaria (non prevista dal Codex iuris canonici, che al can. 147 pone il principio Officium ecclesiasticum nequit sine provisione canonica valide obtineri, ma non espressamente riprovata da questo, che d'altronde ai canoni 4 e 5 fa salvi i diritti quesiti, i privilegi e le consuetudini centenarie contrarie al Codex ma non espressamente riprovate), quanto a dire il conferimento di un beneficio o di un vero e proprio ufficio ecclesiastico da parte del sovrano, senz'alcun intervento dell'autorità ecclesiastica. Per l'art. 29 lett. 9 del Concordato lo stato italiano ha rinunciato ai privilegi di esenzione giurisdizionale ecclesiastica del clero palatino in tutta Italia (salvo per quello addetto alle chiese della S. Sindone di Torino, di Superga, del Sudario di Roma, e alle cappelle annesse ai palazzi di dimora dei sovrani e dei principi reali): il personale ecclesiastico di queste chiese continua dunque a dipendere soltanto dal Ministero della real casa, e a non esser soggetto ai vescovi diocesani. Invece è venuta meno ogni particolare dipendenza dalla Corona delle altre chiese già palatine.
Bibl.: (R. Lambarini), R. Palatine Pugliesi. Relazione del Commissario regio straordinario, Roma 1892; G. Saredo, Le chiese palatine, in Riv. dir. eccles., III (1893), p. 513 segg.; G. B. Ugo, Sulle chiese palatine, estr. dall'Arch. di diritto pubbl., 1894; P. Bianca Papa, Le chiese palatine, Catania 1910; A. C. Jemolo, Le chiese palatine, in Riv. dir. pubbl., II (1915), p. 2 segg.; C. Badii e M. Zacchi, I diritti della Corona sulle chiese palatine pugliesi, Roma 1926.
Chiese private. - Sembra potersi ritenere che con l'espressione chiese private si debbano designare quelle chiese, sulle quali sia da riconoscere un diritto di proprietà privata, ma ciò non è. Il termine, innanzi tutto, non appartiene al diritto canonico, il quale distingue (canoni 1161 e 1188 del Codex) nettamente le ecclesiae e gli oratoria, ma in questa distinzione canonistica (v. sopra) il criterio della proprietà non entra in modo, almeno, fondamentale, essendo essa fondata, invece, sul criterio della destinazione e dell'uso pubblico o privato. In origine solo alla Chiesa, come società di fedeli costituenti il corpo mistico di Cristo, poté appartenere la aedes sacra, come appartennero tutte le cose, sacre e non sacre, a essa donate o da essa, comunque, acquistate: solo il seguito, con la specializzazione del patrimonio ecclesiastico sorsero i varî soggetti giuridici, tra i quali, come fondazione, la chiesa stessa apparisce con una propria autonomia. Ma, accanto a questa normale, organica e costituzionale formazione degl'istituti della Chiesa, poté svilupparsi un intervento dei più ricchi e munifici privati, il quale contribuì efficacemente all'incremento e alla rapida diffusione degli stessi istituti ecclesiastici, di quelli, almeno, che dal centro diocesano si espandevano nei centri minori.
Se questo elemento privato, però, nei riguardi degl'istituti propri e organici della Chiesa, fu sempre disciplinato con rigore, e man mano escluso e trasformato, lo stesso ebbe largo agio di affermarsi, per l'esplicazione della pietà privata, in istituti sussidiarî, di religione e di beneficenza, che prevalentemente assursero a entità giuridiche autonome, sempre di natura pubblica ecclesiastica, quando provvidero a scopi che la Chiesa fece proprî, ma che rimasero nella cerchia privata e laicale, con più o meno larghi temperamenti di carattere pubblico, quando provvidero a fini che la Chiesa non credette di avocare a sé. Donde la grande e importante cerchia degli enti e istituti laicali, con fine ecclesiastico e con carattere privato. Anche per il raggiungimento di questi fini occorsero e si alzarono edifici, o si destinarono luoghi con carattere sacro, e così sorsero quei sacella, aediculae, sacraria, quelle cappellae che si possono riassumere nel termine, ormai tecnico secondo il Cod. Jur. Can., di oratoria.
Chiese private, nel senso vero e proprio di chiese di esclusivo o prevalente uso pubblico dei fedeli, non costituenti fondazioni a sé, e rappresentanti persino istituzioni vere e proprie, organiche, della Chiesa, possono anche eccezionalmente trovarsi nel campo del diritto canonico, quando s'intenda il termine "privato" per non ecclesiastico, nel senso istituzionale, ma mai tecnicamente privato, cioè individualistico: quali sarebbero talune chiese di monasteri o di confraternite, e talune chiese palatine. Tali sarebbero anche talune chiese monumentali, fondate dai comuni, sulle quali la comunità civica conservò un certo dominio, e taluni santuarî.
Fuori del campo del diritto canonico chiese private, nel senso testé indicato, sono finora esistite su più vasta scala, dovendovisi comprendere tutte le chiese passate al demanio dello stato per effetto delle leggi di soppressione, e da questo mantenute aperte al culto pubblico; le chiese da questo cedute ai comuni con l'obbligo di provvedere alla officiatura; e, sempre nel campo del diritto civile, possono trovarsi chiese di uso pubblico, almeno nominalmente, stricto sensu, private, per effetto delle cosiddette frodi pie (tra le quali, esempio spiccatissimo e molto conosciuto, quello del santuario della Madonna di Pompei). L'anormale condizion giuridica, però, di tutte queste chiese, viene ora sorpassata e sistemata in virtù degli accordi lateranensi.
Gli oratorî, propriamente detti, sorsero fin dai primi secoli della Chiesa, anche con carattere di proprietà privata; in essi furono celebrati divini uffici, abusandosene anche, come dimostrano le proibizioni e le norme contenute in canoni di antichi concilî e in disposizioni imperiali. Da quest'usanza, regolata dal diritto canonico, sorsero gli oratorî pubblici o semipubblici, sacella, martyria (per il culto dei martiri), cappellae, non rimanendo però esclusi anche gli oratorî meramente domestici: l'esistenza di altari in questi ultimi, e la celebrazione in essi particolarmente della messa sono proibiti dal concilio di Trento (sess. XXII), ma, ciò nonostante, l'uso se ne è conservato, sotto la disciplina della Chiesa, come dimostrano la bolla Magno cum animo di Benedetto XIV, che prescrisse la necessità all'uopo d'uno speciale indulto pontificio, e il can. 1195 del Cod. Jur. Can., che conferma tale disposizione.
Bibl.: Tutti i trattati di diritto canonico e di diritto ecclesiastico, i dizionarî di erudizione e le enciclopedie alle voci Chiesa, Oratorio, Cappella; tra i più comuni: L. Ferraris, Prompta bibl. can., VI, Venezia 1782, pp. 424450; G. Moroni, Dizionario di erudizione, XLIX, Venezia 1848, pp. 40-44; G. Cassani, in Digesto italiano, VI, i, Torino 1888, pp. 989-94; A. Galante, in Enciclopedia giuridica italiana XII, ii, Milano 1915, p. 574 seg. - Monografie: P. Lambertini (Benedetto XIV), De Sacrificio missae, Bologna 1740 e nelle varie edizioni delle Opere; S. De Bonis, De oratoriis publicis; J. B. Gatticus, De oratoriis publicis et domesticis et de usu altaris portatilis ecc.; F. Brixia, De oratoriis domesticis, tutti in J. A. Assemani, Commentarius theol. can. criticus de Ecclesiis ecc., Roma 1766; G. L. Vesner, De altaribus portatilibus, Jena 1695; Traité des chapelles domestiques, in Analecta juris pontificii, 1858; van Gameren, De oratoriis publicis et privatis, Lovanio 1861; Craisson, Oratoires privés ou chapelles domestiques, in Revue des sciences eccles., XLIV (1881); Arndt, Die Rechtsverhältnisse der Oratorien, in Archiv für kathol. Kirchenrechts, LXXII; Parayre, Des chapelles domestiques, in Canoniste contemporain, XVII, XX; A. Galante, La condizione giuridica delle cose sacre, Torino 1903; A. C. Jemolo, I santuari, in Rivista di diritto pubblico, 1913.
Storia della Chiesa: dalle origini al concilio di Nicea.
Ambiente e diffusione geografica. - Presupponendo qui nota la distribuzione politica e amministrativa dell'Impero e dei paesi limitrofi, e inoltre la storia evangelica con il contenuto dell'insegnamento di Gesù (v.) e dei suoi primi discepoli, basterà soltanto accennare alle particolari condizioni, le quali, nonostante le gravi opposizioni in altri campi, favorirono la diffusione del cristianesimo, nei primi tre secoli. Anzitutto, l'unità conferita al mondo antico dall'Impero romano: tenuto compatto dalla legge, dal sistema amministrativo, dalle milizie, dalla lingua (latina e, più diffusamente, greca), dalle vie di comunicazione, pur nella varietà dei costumi e gradazione di civiltà. Inoltre nell'Impero erano penetrati largamente i culti orientali e la religione degli Ebrei: questa mantenne sempre caratteri particolarissimi d'intransigenza di fronte agli altri culti, e, per quanto disseminata ovunque, di unità.
Il metodo della diffusione fu essenzialmente la propaganda orale. La cosa, quand'anche non ci fosse attestata e quasi codificata da S. Paolo (p. es., Romani, X, 14-17) apparisce evidente dalla scarsità stessa della primitiva letteratura cristiana, la quale non può ritenersi davvero un fedele specchio, e tanto meno considerarsi come il principale mezzo, della penetrazionè cristiana. Se i propagatori si volsero di preferenza alle classi meno abbienti, non trascurarono le altre: già ai tempi apostolici compaiono dei cristiani non solo nel governo e nell'amministrazione delle provincie, ma fin nel [a casa imperiale. Per quanto il cristianesimo nascente amasse conservare, sopra alcuni punti centrali, una disciplina di discrezione, non tenne mai ad essere e ad apparire una società segreta, con gradi di rivelazioni successive: un cristiano conosceva tutta la sua religione. Nessuna distinzione fra uomini e donne, schiavi e liberi, poveri e ricchi: tutto era per tutti. I luoghi dove la predicazione si svolgeva, furono dapprima le sinagoghe, ma ben presto, avvenuta l'inevitabile scissione, furono le case private; le comunità cristiane già sull'inizio del sec. II dispongono di locali di loro pertinenza. Non sempre si trattò di vere e proprie missioni nel senso che si dà oggi a questa parola: troviamo, sulle coste occidentali e mediterranee, dei cristiani, prima che si pensasse a spedirvi dei missionarî dai centri maggiori quali Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Roma. Paolo s'incontrerà in cristiani dove meno li sperava. Le origini delle prime chiese litoranee, e non soltanto litoranee, dell'Italia meridionale, delle Gallie, della Spagna, son legate a fedeli ignoti, fattisi a loro volta propagatori della nuova religione; e fedeli in gran parte orientali, che per la grande facilità delle vie marittime, visitavano spesso, specie se commercianti, i maggiori porti del Mediterraneo. Tale frequenza di orientali in Occidente culminerà nei secoli IV-VII dell'era cristiana, ma già nelle origini era notevolissima. Titolari di sedi vescovili in Occidente sono assai spesso degli orientali. Perfino le cristianità celtiche e della Britannia Maior, così inferiore come superiore, tradiscono negl'inizî, rassomiglianze maggiori con centri ecclesiastici orientali che non con quelli occidentali.
Volendo dar qualche nome sulla carta dell'Impero, dietro la traccia delle migliori testimonianze antiche controllate dai più autorevoli studiosi moderni, possiamo notare il cristianesimo, già nel primo secolo, a Gerusalemme, Damasco, Samaria, Lidda, Joppe, Saron, Cesarea, Antiochia di Siria, Tiro, Sidone, Tolemaide, Pella, Tarso, Salamina e Pafo di Cipro, Perge di Panfilia, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listri, Derbe, luoghi della Galazia e della Cappadocia, Efeso, Colossi, Laodicea, Gerapoli di Frigia, Smirne, Pergamo, Sardi, Filadelfia e Tiatira di Lidia, Troade, Filippi e Berea in Macedonia, Tessalonica, Atene, Corinto e dintorni, Creta, Roma, Pozzuoli, in Bitinia, nel Ponto, in Alessandria e - quasi con certezza - nella Spagna.
Nel sec. II il cristianesimo comincia a guadagnare, se non le campagne, i centri minori; sicché apparisce più esteso e intenso nelle regioni citate; inoltre compare nella Mesopotamia, nell'Africa romana, nelle Gallie, sulle coste occidentali della penisola Balcanica, sui confini con la Germania: e, quasi dappertutto, con chiese prosperanti e numerose, a ogni modo ben definite, tanto da poter formare una rete, se non fittissima, assai forte in tutto l'Impero. Per il sec. III e per il IV, resta difficile in poche parole stringere tutta la conquista pacifica del cristianesimo: basti notare che a Nicea le chiese si presentano organizzate non solo ciascuna in sé, ma anche qua e là raccolte in provincie; e l'esistenza di chiese è attestata per la Palestina, Fenicia, Celesiria, Edessa con la Mesopotamia, Persia, Partia, India, Arabia, tutto l'Egitto, la Libia e Cirenaica, la Cilicia e tutta l'Asia Minore sino all'Armenia compresa, la penisola Balcanica, le coste del Mar Nero, l'Italia, la Gallia, il Belgio, la Germania e la Rezia, l'Inghilterra, la Spagna e l'estremo litorale africano in Occidente.
Vita interiore: liturgiai gerarchia. - Tanta diffusione, che sin dal principio apparve straordinaria e che già gli apologisti del sec. II chiameranno per sé stessa un prodigio, non si comprende se non si ha l'occhio agli elementi interni della nuova religione: la vita cristiana dei singoli e della comunità, la costituzione sociale della Chiesa.
La persona stessa di Cristo, nella sua vita, azione e predicazione, come risultava narrata dai primi biografi e presentata dagli scritti apostolici, in specie dalle epistole paoline e dal Vangelo di S. Giovanni, s'imponeva per le sue caratteristiche di Essere tanto sovrumanamente trascendente, quanto umanamente reale e storico. Il divino e l'umanò in Cristo erano per il cristiano non soltanto accordati, bensì riuńiti, anche se il modo dell'unione sfuggiva; Cristo fu dal principio amato come un fratello che fosse vissuto fra gli uomini, e adorato come Dio incommensurabilmente al di sopra degli uomini. La sua vita, commemorata negli avvenimenti principali, particolarmente nella Morte e Resurrezione (Pasqua), costituì come il primo embrione di anno liturgico. Una controprova della realtà divina e umana di Gesù, i primi cristiani l'avevano, oltre che nelle profezie, nei prodigi e nei molteplici carismi (v.), i quali accompagnarono tutta la primitiva predicazione.
La dottrina stessa predicata da Gesù, e poi dai discepoli, aveva in sé elementi tanto nuovi quanto forti di attrazione. In essa era la "buona novella" della redenzione e salvezza universale, dell'amore e della misericordia, dello spirito e della santità, dell'autorità e della saggezza interiore; vi era la condanna recisa di un politeismo ormai babelico. Per i proseliti del giudaismo, significava la snazionalizzazione e sublimazione di quanto conteneva di meglio la loro fede; per tutti che sentissero lo stimolo di una vita non solamente animale, la formula risolutiva della propria umanità in ciò che ha di buono e di cattivo, con la tecnica della propria cultura interiore. Dava infine all'unità, che la filosofia e l'Impero avevano cominciato, un coronamento sovrumano: e proclamava fratelli tutti gli uomini, senza distinzione di ceti, di regioni, di tempi.
La vita intima della Chiesa nei primi tre secoli si può desumere da quei documenti che ci ricordano le primitive adunanze cristiane. Porta della Chiesa era il battesimo; rito necessario per quanti volessero entrarvi, perché nel lavacro esteriore simboleggiava e compiva un'interiore abluzione, equivalendo secondo l'espressione di Paolo a una reale rigenerazione e risurrezione, con cui il neofito mondato, veniva trasportato e sollevato a far parte del gran corpo mistico del Salvatore, la Chiesa.
Fin dagl'inizî (cfr. p: es. Atti, I, 5; VIII, 36 segg.; X, 46 segg. e XI, 16 segg.; XIX,1-8) con il battesimo si accompagnava il conferimento dello Spirito mediante l'unzione e l'imposizione delle mani (cresima). Il battesimo, celebrato solennemente nell'adunanza della Pasqua (e più tardi nella Pentecoste, e più tardi ancora nell'Epifania), veniva amministrato dal vescovo e dai diaconi in forma di triplice immersione nel nome delle tre Persone divine. Precedeva un periodo d'istruzione, in un primo tempo occasionale, poi, createsi le comunità regolari e specialmente in epoca postnicena, disciplinata nel catecumenato: tale istruzione culminava, poco innanzi al battesimo, nella comunicazione del mistero eucaristico e dell'intero insegnamento cristiano. Con il battesimo e la cresima si usò in antico amministrare insieme l'eucaristia ai nuovi cristiani. Per la prassi della celebrazione pasquale v. pasqua.
L'eucaristia, centro della vita mistica cristiana, così del singolo come della comunità, si celebrava tuttavia assai spesso nell'anno, in ogni adunanza che s'indicesse, accompagnata, secondo il parere dei più, dal banchetto che aveva il nome simbolico di agape (v.). Il giorno dell'adunanza, per lo più il primo della settimana (v. domenica) si ritenne ben presto giorno festivo, anche per il ricordo della Resurrezione, e surrogò il sabato giudaico. Dell'eucarestia si usò far partecipi anche gli assenti.
Al cristiano incombevano obblighi personali di vita moralmente irreprensibile. Le sue colpe, già sin dagl'inizî, appariscono deferite al giudizio della comunità (cfr. p. es. II Corinzî, II, 5-7); via via si creò al riguardo tutta una disciplina penitenziale, di vivissima importanza, tanto più che ben presto qua e là le sue determinazioni sollevavano dissensi, polemiche e scismi. Oltre a obblighi individuali, il cristiano doveva professarsi tale nella famiglia, avendo dato la Chiesa al matrimonio interpretazione sacramentale per bocca di Paolo, e intervenendo nella cerimonia nuziale con la benedictio e la oblatio che Tertulliano ci ricorda. Notissimi i casi famigliari recisamente risolti da Paolo, senza il menomo dubbio sulla sua autorità. Nelle sue occupazioni statali e nelle più varie mansioni civili, il cristiano doveva portare un senso più elevato e rigoroso di vita e di azione. Spettacoli e divertimenti pagani costituivano per lui, anche se non un pericolo per la fede, un'insidia per il costume.
Particolari cure erano date ai cristiani che morivano. Quanti avevano incontrato la morte per rimanere testimonî (martyres) di Cristo. ebbero nei vasti sepolcreti cristiani peculiari attenzioni: la loro memoria s'incominciò assai per tempo a unire alle memorie del Cristo e degli apostoli. Nelle primitive comunità, sin dall'epoca più remota, si notano tra i fedeli alcuni che, pur non facendo parte di speciali e superiori categorie, vissero una vita più severa, nel celibato e in più assidua preghiera e assistenza sociale ai fratelli. Al termine del sec. III, su questo terreno germinerà il monachismo. Da notare, fra le pratiche di rigore e di ascesi, il digiuno diffuso fra tutti i fedeli, e di obbligo almeno per due giorni della settimana.
Elemento di coesione fu la gerarchia. Nella parola stessa di Cristo è già una fondamentale determinazione in riguardo: la preminenza di Pietro nel collegio apostolico e cristiano; dagli Atti e dalle Lettere canoniche chiaro apparisce che le nascenti comunità di fatto, erano governate. Appena dopo, negli scritti dei cosiddetti Padri apostolici, balza, con sufficiente nettezza e differenziata, la gerarchia, senza importare novità: il vescovo, i preti, i diaconi; l'episcopato monarchico nel seno di una comunità, se pure rappresenta per alcuni studiosi razionalisti uno stadio posteriore della gerarchia, è già testimoniato nelle lettere di Ignazio: segno che i varî tipi di organizzazione unitaria o collegiale sarebbero coesistiti, seppure in luoghi differenti (v. vescovo). Un cenno del primato romano è rilevabile nella lettera di Clemente romano ai Corinzî. Categorie di privilegio costituirono, nelle origini, i "carismatici ", cioè i fedeli dotati di straordinarî doni dello Spirito; le vedove che, rinunziando alle seconde nozze, servivano la comunità; le diaconesse; le vergini. Più in là ebbero speciali prerogative i "confessori", cioè quelli che avevano sofferto per testimoniare di Cristo e i "continenti", cioè coloro che vivevano nel celibato. Il celibato ecclesiastico ha le sue prime manifestazioni già in questi anni.
L'episcopato appare in origine raccolto in circoscrizioni determinate dall'evangelizzazione; sul principio pare che i vescovi dei grandi centri reggessero da soli, attraverso preti e diaconi, le chiese di intere regioni. Ma già si disegna, dall'inizio, una certa prevalenza di talune sedi: sia di fondazione apostolica, come Gerusalemme (fino al'70), Antiochia, Corinto, Efeso, Roma; sia per la particolare importanza delle città (come Alessandria o Cartagine); sia perché centri di evangelizzazione e "madri" delle altre chiese (come Lione); sia per tutte o per alcune di queste ragioni. I vescovi spesso si raccolsero in sinodi; e data la facilità delle comunicazioni, l'unità della fede e il sentimento dell'unicità della Chiesa, non fu difficile raggiungere, nella vita ecclesiastica, una quasi totale uniformità, almeno sui punti di maggior rilievo: cosicché allato alle verità e ai riti fondamentali e tradizionali si venne creando una disciplina ecclesiastica,
La singolare autorità della sede romana, spesso dalle varie chiese sollecitata o respinta, in ambedue i casi attestata, ebbe un riconoscimento imperiale, quando Aureliano si pronunciò a proposito della controversia circa il possesso della sede antiochena contesa fra Paolo di Samosata e Malchione, sentenziando che il vescovo genuino doveva essere quello riconosciuto dai vescovi d'Italia e di Roma: in seguito a questo giudizio Paolo fu cacciato.
Dissidî ed eresie. - L'ambiente greco-romano era saturo di ideologie, che senza posa si disfacevano e sorgevano nell'accogliente seno dell'Impero: sette filosofiche, comunità misteriosofiche, scuole letterarie pullulavano ovunque. Il cristianesimo nascente non poté evitare d'incontrarsi con tali forme di vita; se pure non ne sollecitò l'incontro, è certo che non lo temette. Da contaminazioni e compromissioni della dottrina cristiana, consumate per opera di menti ansiose e irrequiete, nacquero le prime eresie.
Avvenuta la separazione della Chiesa dal giudaismo, le nostalgie giudaiche non subito né da tutti furono sapute vincere. Esse ci appaiono, nel paese che fu culla del cristianesimo e nei maggiori centri della diaspora, di due tipi: uno, popolare e proprio della chiesa locale di Gerusalemme, degenerato poi, per voluto isolamento, in comunità separata dalla grande chiesa; superiore, l'altro, e di cultura, tutto intriso di filosofemi filoniani e di ascesi. Contemporaneamente, sul ceppo giudaico e sul vigoroso innesto evangelico, prende a prosperare tutto un fogliame tra mitico e filosofico, che preannunzia la gnosi propriamente detta. I nicolaiti e Cerinto; i disseminatori di "favole", contro cui Paolo afferma i capisaldi della soteriologia ed ecclesiologia cristiana; gli asceti che, sotto specie di continenza, finivano in realtà a far ribollire gl'istinti peggiori; i commessi viaggiatori di predicazione libera, che appariscono per esempio nelle lettere di Ignazio; tutta insomma la ricca fioritura eretica dei primi anni, se per le radici si riattacca al giudaismo e a correnti orientali, per tutto il resto è cosa ellenistica, che esploderà nei tempi adrianei.
In Egitto, regione di incrocio religioso e culturale, compaiono sotto Traiano i grandi corifei della gnosi alessandrina: Basilide, Carpocrate e Valentino, quest'ultimo vissuto anche in Roma (v. gnosticismo). I caratteri peculiari della sua predicazione fanno di Marcione un isolato, secondo alcuni, dai sistemi gnostici tradizionali. Ad ogni modo gnosticismo e marcionismo rappresentano la prima grande crisi che dovette attraversare il cristianesimo antico. Comune a queste tendenze era il ripudio del creato, del creatore e della legge dell'Antico Testamento; e, nello sforzo di porre Cristo come apparizione del Dio buono e supremo, il depauperamento, nella sua persona, di ogni realtà umana.
Il montanismo, di origine frigia, più che di induzioni filosofiche e interpretazioni esegetiche, si valse di stati mistici e rivelazioni profetiche: guadagnò ben presto l'Asia, mettendo il dissidio nelle chiese locali: noverò simpatie in Africa, a Lione e persino in Roma; ma fu per tempo tagliato fuori dalla Chiesa. Il suo più illustre rappresentante africano fu Tertulliano. Il suo più forte argomento di attrazione tra le folle fu il profetismo e nelle classi coltivate la rigidezza morale della vita. Comparso nella seconda metà del sec. II, ai principî del sec. III era già in declino.
Nello stesso tempo va posta la questione della Pasqua, che le chiese d'Asia celebravano, con i giudei, il 14 del mese di Nisan, mentre la chiesa di Roma e le altre la celebravano la domenica seguente. Notevoli in Roma le controversie trinitarie e penitenziali di questa fine del sec. II, così viva e così mossa; ma non è qui il luogo di indugiarvisi. Basti ricordare Ippolito, l'avversario di Callisto e il maggior teologo d'allora in occidente, e Novaziano.
Il dissidio della primitiva teologia cristiana sopra la natura dell'incarnazione del Verbo, e i suoi rapporti essenziali, con la divinità da una parte, e con la natura umana dall'altra, era destinato, nel progresso degli anni e della cultura, ad acuirsi, sino a dilacerare, prima, l'unione della Chiesa, e poi frantumarla. La scuola di Alessandria, con Clemente alessandrino e specialmente con il gigante del primo pensiero teologico cristiano Origene; la scuola di Antiochia con Paolo di Samosata e Luciano antiocheno avviarono a termini più decisi le discussioni già sorte in antecedenza; ma le trassero su basi malfide, se non false addirittura.
Non è possibile terminare questo rapido schema senza accennare alle correnti millenaristiche (v. millenarismo) e agli scismi che seguirono le diverse persecuzioni, massime quella dioclezianea. Le sanzioni penitenziali, a cui sottoporre i reduci dell'apostasia che tornavano alla Chiesa passato il pericolo, provocarono a Roma assai gravi contese: così pure in Africa. In Egitto lo scisma di Melezio di Licopoli ebbe origini identiche: il donatismo (v.) nacque precisamente da incolpazioni di apostasia che si rimandavano l'un l'altro chiese e vescovi.
Attacchi e apologie. - Se, intorno e dentro il cristianesimo e la Chiesa, molti e varî erano gli argomenti di richiamo, di attrazione, di persuasione; se circa la vita intima e le manifestazioni sociali delle prime cristianità si creò spesso un alone di simpatia; non è men vero che nella nuova dottrina e società c'era abbastanza per disorientare cosi i singoli come la massa, dato che non tutti comprendevano che si trattava di un orientamento nuovo della vita interiore, né sospettavano della sua profondità ed altezza. Naturale quindi, per il fatto della sua stessa così rapida diffusione, che nelle varie classi sociali apparissero dapprima i segni de l'indifferenza e del disprezzo, e poi quelli dell'odio e della persecuzione.
Dagli apologisti apprendiamo quali fossero i motivi di tanta avversione pubblica e privata: accusa di ateismo, di pratiche non solo arcane ma anche abbominevoli e delittuose, di ostinazione superstiziosa e di fanatismo invincibile innanzi alla morte, di intransigenza nel pensiero e nella morale; e più tardi, con i primi rovesci dell'Impero, e nelle occasioni di pubblici disastri, l'accusa di empietà insieme con quella di ciò che oggi si direbbe disfattismo inoltre, di aver minato le basi religiose, morali e militari dell'Impero. Il quale Impero, gia nel sec. II, si accorge di avere nel suo seno un'organizzazione crescente assai forte, più forte della sua, benché senza esercito; e tale che per molta parte della sua vita, si riteneva non solo indipendente ma superiore ad essa, e capace di poterla giudicare e condannare. L'organizzazione gerarchica della Chiesa c'era anche per qualche cosa; Costantino, che per primo riconoscerà legalmente, avrà e si dará più da fare con i vescovi, che non con i suoi rappresentanti politici, civili, militari.
Nei tempi apostolici si raccomando ai cristiani che non dessero assolutamente appiglio alcuno a scontentezze, a lamenti, a prosecuzioni giudiziarie: inoltre, mostrassero sincero lealismo verso le autorità costituite. Ma quando, come si vedrà, il solo nome di cristiano dette fastidio e destò preoccupazioni e rancori, non rimase altro che difendere questo nome e la vita che implicava. Sotto Adriano troviamo le prime apologie: a lui diresse la sua Quadrato; all'imperatore Antonino si rivolsero Aristide di Atene e Giustino; a Marco Aurelio s'indirizzarono Melitone di Sardi, Apollinare di Gerapoli, e Atenagora. Inoltre Origene e quasi tutti i primi scrittori cristiani dovettero replicare alle accuse che, in nome della civiltà e della filosofia greco-romana, rivolgevano al cristianesimo i rappresentanti della cultura del tempo, retori e filosofi. La Lettera a Diogneto, l'Ottavio di Minucio, i libri ad Autolico di Teofilo, quelli del siro Taziano contro gli Elleni, ecc., appartengono a questa categoria di apologie. Tertulliano si rivolge insieme ai poteri costituiti e all'opinione pubblica, e resta il principe dei primi apologisti (v. apologetica: Gli apologeti antichi). Nei grandi scrittori ecclesiastici, una parte dell'opera loro è sempre apologetica; tanto più che il cristianesimo, adulto, dové misurarsi con forme di vita religiosa assai diffiuse, quali il mitraismo e il manicheismo, e con correnti filosofiche tutt'altro che rudimentali: fra queste, dapprima lo stoicismo, e poi il neoplatonismo, che, incerto in Ammonio Sacca, raggiunse il suo pieno in Plotino, ed ebbe in Porfirio un espositore e maestro quanto scaltro e risoluto, altrettanto rispettoso dell'elemento religioso, ma insieme ferrato di cultura e di filosofia.
Persecuzioni. - Ma la propagazione del cristianesimo non fu opera degli apologisti, ne la loro difesa fu di molta efficacia contro la profonda ignoranza delle campagne e la non meno rofonda incomprensione sprezzante delle città. D'altronde, assai per tempo, l'Impero stesso si mise in linea contro la nuova religione, un po' per tutte le ragioni suesposte, un po' per andare incontro all'opinione pubblica, e molto per la prevenzione contro un culto straniero che non si lasciava amalgamare nel sincretismo religioso dominante; molto ancora per la sua prodigiosa diffiusione, che in certi momenti apparve un incubo per i poteri centrali: infine perché nel cristianesimo non era dissimulata la condanna di troppe cose, molto care e molto intime all'organizzazione civile e famigliare dell'Impero.
La Chiesa nascente ebbe a soffrire da parte dei poteri costituiti fin dal principio. Gesù morì suppliziato e avesa promesso ai suoi persecuzioni; negli Atti e nelle Lettere degli apostoli son tutt'altro che infrequenti episodî di persecuzione popolare e giudiziaria, fin anche di morte. La professione di cristianesimo, tranne intervalli più o meno lunghi, avrà sempre la prospettiva di sofferenze e martirio. Spesso erano sommosse popolari: spesso insidie e calunnie di gruppi particolari, specialmente religiosi; qualche volta si trattava di vendette individuali, realizzate con la denunzia ai magistrati municipali o alla polizia dei governatori di provincia e dell'imperatore stesso, quando non erano essi i primi a muovere l'inquisizione giuridica. Quale sia stata con precisione la figura di reato in cui si faceva rientrare la professione di cristianesimo, non è oggi chiaro (v. persecuzioni); certo è che tale professione, provata o anche solo indiziata, costituiva reato perseguibile con le pene maggiori: confisca di beni, esilio, morte. Accenni storici, di apologisti e dei rari documenti (specialmente papiri, atti di martiri, editti imperiali), ci manifestano soltanto l'ondeggiamento dei poteri costituiti, che pur non sempre volendo iniziare la repressione, mai volevano abolirla. Situazione incresciosa per gli uomini di diritto e di governo, ma assai più incresciosa e ricca di amare sorprese per le comunità cristiane.
Claudio, la cui lettera agli Alessandrini, del 41 d. C., si preoccupa dei disordini provocati dai giudei (secondo G. de Sanctis, appunto inseguito alla propaganda cristiana: opinione tuttavia combattuta: v. alessandria), più tardi Iudaeos impulsore Chresto (Χριστός o Χρηστός) assidue tumultuantes Roma expulit (Svetonio, Claud., 25). Nerone, col pretesto dell'incendio famoso e della congiura di Pisone (anno 64 o 65) fece vittime cristiane e precisamente in quanto cristiane. Un cenno di Svetonio e di Dione Cassio, messo accanto a induzioni archeologiche sicure, attestano, nella famiglia imperiale e nell'alto patriziato, dei martiri sotto Domiziano (anno 95). La lettera di Plinio il Giovane a Traiano e la risposta imperiale (anno 112) ci mettono di fronte a una consuetudine giuridica avversa ai cristiani che trova conferma nel rescritto di Adriano a Minicio Fundano. La situazione, ancora indecisa in teoria, che dette tristissimi frutti e specialmente negli ultimi anni di Marco Aurelio, ebbe una prima precisazione circa l'anno 200 da Settimio Severo: un editto imperiale che vietava il proselitismo cristiano. Della persecuzione che ne seguì si hanno attestazioni in Egitto, in Africa e altrove. L'attività apologetica di Tertulliano va posta in questo tempo. Seguirono, sotto Alessandro specialmente, tempi più sereni, anche per lo sforzo da parte della famiglia imperiale di acclimare il cristianesimo in quel sincretismo religioso che proprio allora ebbe il suo più vivo splendore. Ma il successore di Alessandro, Massimino, rimise in vigore le vecchie prevenzioni, e l'editto di Settimio le aggiunse precisazioni nuove contro i vescovi e gli edifici della chiesa.
Decio per primo si propose un'azione, quanto chiara altrettanto decisa ad andare fino in fondo, contro il cristianesimo che egli riteneva nemico non solo dell'Impero ma del costume romano; e obbligò, per tutto l'Impero, quanti fossero anche solo sospetti di cristianesimo, a fare atto di adesione al paganesimo: nei singoli centri, compresi i minori, un'apposita commissione rilasciava dei certificati. I renitenti erano tormentati sino a che cedessero, e non cedendo, giustiziati; se contumaci, i loro beni venivano confiscati. Le misure imperiali, curate severamente nell'esecuzione, dapprima gettarono lo scompiglio nelle chiese e provocarono defezioni in massa; ma ben presto le costrinsero ad organizzare misure contrarie, non di resistenza, ma di assistenza, d'incoraggiamento, di onore per quanti soffrivano. Nel novembre del 251 Decio mori in guerra; ma fin dalla primavera dello stesso anno la persecuzione aveva avuto un rallentamento dí stanchezza; non si trattò dunque che di un paio di anni scarsi, nei quali le autorità romane (non sempre, a dir vero, entusiaste) poterono fare molti cattivi cristiani, ben pochi pagani, e specialmente una nuova corona di martiri. Sinoo a Valeriano fu sempre regime di persecuzione, sia pure stanca e saltuaria: Treboniano Gallo aveva infatti emesso un editto nuovo; Valeriano medesimo, dopo qualche anno di resipiscenza, nd 257 e 258 pubblicò due editti perentorî e severissimi. Con Gallieno parve tornasse la pace; Aureliano nel 275 volle turbarla, ma fece appena in tempo, perché mori poco appresso. Diocleziano aprì per la Chiesa antica il periodo più pauroso della sua storia: le prime avvisaglie si ebbero nel 302 con l'ingiunzione del sacrificio pagano per tutti i soldati, pena la radiazione dall'esercito; nel febbraio del 303 seguì un editto con nuove apecificazioni; poi ne vennero altri, finché nel 305 la persecuzione dilagò su tutti i cristiani, senza distinzione. Data la divisione in quattro parti dell'Impero, in Occidente i giorni penosi durarono meno, ma in Oriente non ebbero interruzione se non per il breve periodo della malattia di Galerio, dopo la morie del quale Massimino riprese le ostilità. Soltanto l'editto famoso di Licini0 e Costantino, Milano 313, donò, ormai per sempre, salvo gli anni di Giuliano, la pace alla Chiesa; anzi le creò una situazione legale, in cui più che tolleranza si notava quasi privilegio. Cosl l'ultima persecuzione sanguinosa della cristianità, la più vasta e fiera, si chiuse con la vittoria legale del cristianesimo: vittoria che si estendeva non solo ai fedeli, ma anche alle proprietà delle chiese. Tali proprietà, indiscutibili sin dagl'inizî del sec. II, non è chiaro sotto quale figura giuridica fossero per l'innanzi acquistate e godute.
La Chiesa alla conquista del mondo classico.
Costantino. - Quando convocò il concilio di Nicea (325), Costantino non ignorava il valore politico del suo atto. Dodici anni prima, nell'emanare, insieme con Licinio, il famoso decreto di Milano, egli certo, oltre che da un sentimento religioso, era guidato anche dalla preoccupazione, generale e caratteristica del mondo antico, di non staccare la religione dalla politica, anche a Costantino, come a tutti gli uomini di stato, si era imposto il problema dell'esistenza di una comunità religiosa, che diceva di voler aiutare l'Impero con le preghiere, ma negava la sua collaborazione allo stato in tutti i campi della vita civile. Fallita la politica persecutríce, non rimaneva aperta se non l'altra via; attrarre cioè i cristiani nell'orbita dello stato, mediante una serie di concessioni intese ad ottenerne altre dall'altra parte. Su questa via del resto si erano già posti, prima di lui, Massenzio e Galerio.
Anche le contingenze dovevano spingerlo ad abbracciare questo partito: tra esse, il bisogno di assicurarsi il possesso dell'Africa, dove i cristiani erano, se non in prevalenza, certo numericamente fortissimi. l'intervento di Costantino nella controversia donatista (v. donatismo) che travagliava la Chiesa africana, anche se non portò all'unità del cristianesimo africano, ci mostra quali vantaggi l'imperatore seppe trarre dalla situazione: i vescovi, incaricati di pronunciare un giudizio in materia spirituale, ubbidiscono all'ordine dell'imperatore che li convoca e li considera già alti ufficiali dello Stato; e l'imperatore stesso interviene direttamente nelle questioni interne della Chiesa e, in un supremo tentativo di raggiungere lo scopo, convoca le parti davanti al suo tribunale e punisce gli scismatici.
Intanto, trascinato dalla rivalità con Licinio, Costantino largheggiava in favori; una serie di misure esonerava il clero dagli obblighi più gravosi; concedeva alle chiese il diritto di ereditare, riconosceva le sentenze rese dai vescovi e così via. Sconfitto Licinio e unificato l'Impero, le manifestazioni di favore al cristianesimo aumentano ancora, come le limitazioni poliziesche del culto pagano. L'unità religiosa dell'Impero, tanto essenziale anche all'unità politica, sarà fondata sul monoteismo. Ma, a questo scopo, occorre che la Chiesa sia una. Invece, essa è divisa. Ario la minaccia con la sua predicazione che aggrava il vecchio contrasto tra l'episcopato egiziano e quello asiatico-palestinese. L'imperatore interviene. Ma il sinodo da lui convocato non ha solo per compito, nelle intenzioni di Costantino, di dirimere questa controversia: esso deve costituire l'organo supremo di governo della Chiesa, il consiglio del principe per gli affari ecclesiastici, parallelo in certo qual modo al consiglio che lo circonda e assiste negli affari civili. Le decisioni del concilio riceveranno valore di legge dal principe che lo ha convocato e che si proclama vescovo "per gli affari esterni" (v. costantino).
Così il concilio di Nicea inaugura veramente un periodo nella storia della Chiesa; e non solo perché con esso, contrariamente all'opinione diffusa, la controversia ariana piuttosto incomincia, che finisce. Ché, attraverso la risonanza acquistata per il fatto stesso d'essere giudicato da così solenne consesso, attraverso gli esilî dei protagonisti e i maneggi dei vescovi cortigiani, per l'incerto contegno che Costantino stesso assumerà in processo di tempo e, più, per l'atteggiamento nettamente filoariano di Costanzo, il contrasto, teologicamente importantissimo ma fino allora ristretto a piccola parte del mondo cristiano, si allarga, con conseguenze gravissime. Si manifestano ora i primi segni di quell'incomprensione tra Oriente e Occidente, che condurrà al dissidio (v. arianesimo).
Cristiani e pagani. - Il mondo parve, con Costanzo, conquistato all'arianesimo quando sopravveniva la reazione pagana di Giuliano l'Apostata. Attuata con sottile abilità, mediante una serie di misure in apparenza blande, in sostanza gravissime, essa non era destinata a lasciar traccia. Ma questo tentativo più clamoroso di rivincita del paganesimo è solo il primo di una serie.
Lungo tutto il corso del sec. IV assistiamo ai tentativi di riscossa di quello che si può ben chiamare il partito pagano: esso appoggia i suoi candidati al trono imperiale, come Eugenio; ha, specialmente in Roma, i suoi storici, filosofi, uomini di stato, poeti: Ammiano Marcellino e Simmaco, Vezio Agorio Pretestato e Macrobio, Eutropio e Rutilio Namaziano. I fedeli cultori delle grandi memorie di Roma domandano invano a Graziano che sia rimessa nella curia la statua della Vittoria e restituito alle vestali il patrimonio confiscato, e già incolpano i cristiani di tutte le sventure della patria.
Ma la legislazione antipagana e in favore del cristianesimo continuerà: nulla è più interessante del seguire, attraverso il Codice teodosiano (XVI, 10), questa legislazione imperiale la quale viene ora limitando contro il paganesimo, che non tralascia di protestare, quella libertà religiosa, che Costantino aveva data al cristianesimo, ormai posto in condizione di privilegio. E questa cresciuta influenza non si rivela soltanto nel diritto pubblico. Se il Codice teodosiano presenta per lo storico un particolare interesse, la compilazione giustinianea rappresenta un'altra tappa di questa evoluzione del diritto sotto l'influsso delle idee cristiane.
Teologia e ascetismo. - Ma la vittoria del cristianesimo non significa distruzione dell'antica civiltà: essa conserva ancora il suo fascino, l'educazione retorica imprime il suo suggello sugli spiriti: sant'Ambrogio, sant'Agostino e più san Girolamo citano e prendono a modello i classici. Non minore influenza ha la filosofia: il bisogno di giustificare razionalmente la nuova fede, di costruire una teologia, che è in certo qual modo l'erede del pensiero antico, si fa già sentire nell'epoca precedente. Sant'Agostino non si sottrae all'influsso del neoplatonismo e, se l'arianesimo si può considerare come un tentativo di rivincita del pensiero greco nel seno stesso del cristianesimo, anche i suoi avversarî non riusciranno a liberarsi da certi principî né a rinnovare il modo stesso di porre i problemi. L'Occidente, e in parte Alessandria, verso la fine del sec. IV, respingono sdegnosamente la teologia origeniana, ma coloro stessi che la condannano, primo san Girolamo, specialmente nell'esegesi biblica non riescono a sottrarsi del tutto al suo fascino. Ma in Occidente sant'Agostino (v.), soprattutto con le sue dottrine della grazia e della Chiesa, per quanto non sia anch'egli senza precursori, è il teologo più grande e originale di questa età; e le sue idee domineranno il Medioevo.
Dopo la pace costantiniana, l'ascetismo vigoreggia e si diffonde straordinariamente in proporzione al raffreddarsi della pietà fra i numerosi convertiti di recente: non solo in Oriente, in Egitto, in Siria e in tutta l'Asia Minore, ma altresì in Occidente, dove ha propagandisti sant'Atanasio, esule a Roma, e poi san Girolamo, sant'Ambrogio, san Martino di Tours, san Felice di Nola, san Cesario d'Arles, Cassiano e san Vincenzo di Lérins, la vita ascetica si organizza in modo sempre più regolare. Non mancano gli avversarî dell'ascetismo e anche le deviazioni in senso eterodosso sotto l'influsso delle dottrine filosofiche e classiche o di quelle dualistiche propugnate nell'ascetismo extracristiano: la Chiesa li condanna mentre, d'altro canto, essa cancella le ultime tracce del millenarismo, che non ricomparirà altro che sporadicamente.
Le lotte cristologiche. - Le difficoltà che avevano dato origine alla controversia ariana si riproducevano sopra un altro terreno e mentre le lotte trinitarie cessavano, incominciavano quelle cristologiche (v. cristologia). Si riconosceva, infatti, nel Cristo l'uomo e il Verbo consustanziale a Dio Padre: ma quali erano i i rapporti fra le due nature? Il concilio di Costantinopoli del 381 colpirà Apollinare di Laodicea non tollerando limitazioni della perfetta umanità del Redentore. Ma la questione rimane insoluta, mentre s'accentua il dissidio tra le scuole rivali d'Antiochia e d'Alessandria e tra i grandi patriarcati. Teodoro di Mopsuestia insiste nella distinzione delle due nature nel Cristo, ciascuna delle quali mantiene, secondo lui, le proprie caratteristiche. Nella violenta polemica fra Nestorio, discepolo di Teodoro e patriarca di Costantinopoli, e Cirillo d'Alessandria, il primo parla di due "ipostasi", si dubita dai moderni in quale senso precisamente, se cioè suscettibile di un'interpretazione in senso non eterodosso (come sarebbe se ipostasi" valesse qui "sostanza, essenza, natura"); il secondo parla di una sola ipostasi, nel senso di "persona": papa Celestino poi e il concilio ecumenico di Efeso (431) condannano Nestorio. Ma questi, che non accetta la dottrina definita nel concilio, ha una scuola: la chiesa che ormai prende nome da lui fiorisce fuori dell'Impero, a Edessa, a Nisibi, protetta dall'Impero persiano. Di lì si diffonderà per tutta l'Asia, fino all'India e alla Cina; solo gli eventi politici la confineranno poi nel Kurdistān (v. nestoriani). Ma, nella linea dell'insegnamento di Cirillo, si può giungere all'esagerazione opposta a quella di Nestorio: il passo è compiuto da Eutiche, per il quale, dopo l'Incarnazione, c'è nel Cristo una sola natura. Il Tomo di san Leone Magno e il concilio di Calcedonia (451) lo condannano; la dottrina cattolica è formulata nel solenne consesso distinguendo le due nature nell'unica persona. Però la chiesa monofisita s'organizza, in Egitto dove assume carattere di chiesa nazionale con l'adozione della lingua indigena (v. copti) e donde si dirama in Siria, in Armenia, in Georgia, a Cipro, e un po' per tutta l'Asia anteriore (v. monofisiti), non senza perdere, nel corso dei secoli, qualche gruppo, che ritorna alla comunione con Roma (v. uniati).
L'azione degl'Imperatori. - I tre Capitoli. - Per ottenere il ritorno dei monofisiti e dell'Egitto all'unità della Chiesa si faranno tentativi disperati. Sotto Zenone, l'accordo tra Pietro Mongo, patriarca di Alessandria, e Acacio di Costantinopoli, condurrà alla condanna di Nestorio e di Eutiche, tacendo però di Calcedonia, nell'editto d'unione (Henotikon) emanato dall'imperatore Zenone; questo (483) suscita lo scisma dei cosiddetti acefali e, condannato da Roma, provoca una lunga controversia tra papi e imperatori. Giustino I e poi Giustiniano cercheranno di riavvicinarsi a Roma, non senza motivi politici, specialmente il secondo, che si prepara alla riconquista dell'Occidente. Ma se Giustino abbandona l'Henotikon, se Giustiniano condanna, spintovi dall'"apocrisario" romano Pelagio, l'origenismo, se questi tenta d'indurre l'imperatore ad agire con energia contro il monofisismo egiziano, influenze di corte sospingono invece in senso contrario l'imperatore incerto fra le contrastanti esigenze di Roma e dell'Oriente. Teodoro Askidas, patriarca di Cesarea, riesce a convincere Giustiniano a prendere una via di mezzo: senza condannare né rinnegare apertamente Calcedonia, scuotere l'autorità del concilio e dare un colpo - almeno in teoria - al nestorianesimo. L'imperatore condannò (544) i Tre Capitoli (v.). Ma la Chiesa latina si ribellò al tentativo imperiale di dettar norme di fede e se il papa Vigilio oscillò tra l'accettazione e la resistenza, l'episcopato dell'Africa riconquistata protestò per bocca di Facondo d'Ermiana e in Italia lo scisma che ne nacque fu non ultima causa dell'opposizione al rinnovato dominio bizantino e della sua caduta di fronte all'invasione longobarda.
Se gl'interventi degl'imperatori in questioni di fede non bastassero, il nome di melchiti "seguaci dell'imperatore"), dato agli ortodossi fedeli a Calcedonia e all'imperatore in terra monofisita, basterebbe a caratterizzare il cristianesimo dell'Impero d'Oriente. Il sovrano è, nel nuovo regime cristiano, se non il successore, l'"uguale degli apostoli" (ἰσαποτολος). Convoca i concilî ecumenici e ne approva le deliberazioni, esilia e imprigiona coloro che i suoi sinodi condannano, pumsce gli eretici in virtù di un proprio diritto, redige formule d'abiura ed emana professioni di fede obbligatorie per i sudditi. È il cesaropapismo più rigido, che trova ostacolo solo nell'incoercibile reazione delle coscienze e nella meditata resistenza del vescovo di Roma.
La gerarchia. - Il papato. - Di fatto la sede apostolica ottiene un riconoscimento del proprio primato sempre più largo. Papa Milziade (311-314) è chiamato a giudicare dei donatisti; Giulio (337-352) interviene nella controversia ariana; poi l'esilio e la debolezza di Liberio (352-366) segnano un triste momento nella storia del pontificato romano, che si risolleva con Damaso (366-384) a nuovo splendore. Innocenzo (401-417), Zosimo (417-418), Celestino (422-432) intervengono nella controversia pelagiana e cercano di rendere effettivo il primato della chiesa romana su quella dell'Africa. Leone Magno riesce ad imporre le proprie decisioni dommatiche, facendole approvare da un concilio ecumenico; sulle sue orme procedono tutti i suoi successori, fino al più grande tra i papi di questo periodo, S. Gregorio Magno.
Vescovi e patriarchi. - L'affermazione del primato romano non fu tuttavia incontrastata, mentre fu facilitata da altre rivalità, e procedette parallelamente al rinsaldarsi dell'intera organizzazione ecclesiastica. L'autorità del vescovo - eletto dal popolo - è ormai indiscussa. In seno al clero si vengono distinguendo sempre più i presbiteri, investiti di funzioni propriamente sacre, e i diaconi, che il concilio di Nicea dichiara inferiori ai primi, mentre tuttavia la loro importanza si accresce con l'estendersi delle opere di beneficenza e assistenza e dei poteri civili del vescovo; questi, che ha quasi senza eccezione il privilegio della predicazione, trova anzi il suo più valido cooperatore, spesso il suo successore, nell'arcidiacono. Gli uffici si moltiplicano; si fa strada l'advocatus o defensor ecclesiae, incaricato di tutelarne i diritti e di rappresentarla in giudizio. A poco a poco, soprattutto in Occidente, si viene affermando il principio del celibato del clero, o quanto meno dell'obbligo della continenza. Il vescovo deve, secondo il concilio di Nicea, essere confermato dal metropolitano e consacrato da almeno tre vescovi della provincia. La quale è la provincia civile: il concilio di Nicea riconosce la giurisdizione del vescovo di Alessandria sull'Egitto, la Libia e la Pentapoli e conserva i diritti di Antiochia e delle altre sedi, che diverranno poi i patriarcati; fa solo una speciale posizione onorifica al vescovo di Aelia (Gerusalemme), e vieta i trasferimenti dall'una all'altra sede: provvedimento presto violato. Ma il concilio di Sardica lo conferma, mentre stabilisce il diritto d'appello al metropolitano per il presbitero, a Roma per il vescovo. A Costantinopoli viene confermata l'organizzazione dei grandi patriarcati, Alessandria, Antiochia, Efeso, Cesarea di Cappadocia, Eraclea in Tracia; ma si sottrae alla giurisdizione di quest'ultima la sede di Costantinopoli, la Nuova Roma, cui spetta il secondo posto subito dopo l'antica. Questa disposizione è confermata a Calcedonia, dove si riconosce al vescovo di Costantinopoli il diritto di consacrare i metropolitani del Ponto, dell'Asia e della Tracia; ma il canone 28, che vede nella posizione speciale di Roma la giustificazione del primato, non è accolto da Leone Magno, fermo nel motivare il privilegio nella sua sede in base all'istituzione apostolica.
La vita cristiana. - Nicea regola definitivamente, generalizzando l'uso occidentale, la questione della data della Pasqua; impone di non elevare né al sacerdozio né all'episcopato il catecumeno recente, mentre Sardica fissa un vero e proprio cursus di funzioni prima dell'episcopato: regole, queste ultime, non sempre rispettate. I catecumeni sono distinti dai fedeli. La penitenza è pubblica, ma qua e là cominciano a spuntare i presbiteri penitenzieri. La festa del Natale (25 dicembre) si viene distinguendo da quella dell'Epifania (6 gennaio); la domenica è dappertutto iiconosciuta come giorno festivo. L'opera di assistenza e di beneficenza compiuta dalla Chiesa si estende, si moltiplica, ingigantisce. Basilio il Grande costruisce a Cesarea quasi una nuova città di ospizî (la "Basiliade"); ospizî sorgono in Terrasanta e a Roma. Basterà accennare alle chiese monumentali e caratteristiche che sorgono un po' dovunque: dedicate ai martiri, ai santi (e si sviluppa, a fianco dell'ascetismo, tutta una letteratura agiografica) e alla vergine, la ϑεοτόκς (deipara), oggetto di culto sempre più vivo. Allo stesso modo, comune è la fede nell'intercessione dei santi, intensi l'attesa del miracolo e il culto delle reliquie; mentre l'antica religione si viene spegnendo, benché sia dura a morire. Il popolo accorre ancora in folla ai giuochi del circo, quando gli vengono elargiti; e solo al tempo di papa Gelasio, in Roma, alla licenziosa festa dei Lupercali subentra la cerimonia cristiana della Purificazione.
La conquista del mondo germanico.
I Barbari. - Il celebre episodio di Leone Magno che arresta i barbari, per quanto svisato dalla tradizione, indica peraltro quanto grande fosse il timore riverenziale che la religione di Cristo incuteva ai barbari, anche pagani; e finché rimasero tali, questo timore poté essere anche superstizioso. Conviene naturalmente distinguere, fra gl'invasori dell'Impero, popolo da popolo. Anche quando la forza dell'Impero è spossata, l'evangelizzazione dei barbari si compie di pari passo con la loro romanizzazione, cioè col loro passaggio a una civiltà superiore, che viene depauperandosi ma insieme e appunto perció riesce loro più facilmente assimilabile. E non deve meravigliare che la diffisione del cristianesimo tra le popolazioni germaniche s'accompagnasse con un decadimento della speculazione teologica e con l'abbassarsi del livello morale dei fedeli: anche talune costumanze e credenze del vecchio paganesimo rimasero allo stato di "sopravvivenze" per alcuni secoli nel folklore e nei canti popolari. Ma accanto a queste ombre nel quadro, occorre guardare a ciò che i barbari vennero acquistando, da una Chiesa depositaria ormai dell'antica civiltà e della tradizione romana, oggetto per tutti d'ammirazione e di rispetto. Erede di Roma la Chiesa è non solo in questo, ma nelle tendenze universali e nella capacità di adattamento. Per opera della Chiesa, la distanza tra invasori e vinti diminuisce gradatamente; per opera della Chiesa, i cui ministri lo adotteranno come legge personale, il diritto romano riporta le sue prime vittorie. E alla Chiesa si deve in gran parte se si modificò gradatamente presso i Germani la concezione dello stato e dei diritti e doveri del sovrano, se i rapporti di diritto pubblico furono raffigurati in modo meno semplicisticamente privatistico e se in essi penetrò maggior senso di umanità e di responsabilità. Possiamo appena segnalare, a questo proposito, l'influsso esercitato dal pensiero di sant'Agostino.
La Britannia. - All'estremo occidente la Britannia romana mandava già tre vescovi al concilio di Arles e, a Roma, alla fine dello stesso sec. IV, Pelagio la cui eresia, predicata in patria da Agricola, spinse papa Celestino I a inviarvi in missione i santi vescovi Germano di Auxerre e Lupo di Troyes, così come in Irlanda il vescovo Palladio. Ma l'evangelizzazione nella Gran Bretagna poté appena sfiorare la popolazione indigena, mentre quella dell'Irlanda dal 432 in poi fu opera di S. Patrizio, che considerava già come apostati i Pitti della Scozia. La diffusione del cristianesimo vi si svolse lenta e in forme che diedero alla chiesa celtica un carattere particolare, non solo per gli usi speciali (computo pasquale, tonsura) ma per l'organizzazione: la chiesa irlandese è tutta monastica, e monaci celti sono i missionari che, nel sec. VI, incominciano a evangelizzare la Scozia, mentre l'isola maggiore è invasa dagli Anglosassoni.
L'arianesimo. - Convertiti da Ulfila verso la metà del sec. IV, i Visigoti e i Vandali accettavano, col tipo di testo biblico in uso a Costantinopoli, le formule ariane. L'arianesimo, sconfitto entro l'Impero, diventò così retaggio dei barbari, in una forma rozza e semplicistica adatta alle loro menti; e la differenza di religione rese difficile la fusione delle diverse stirpi. I Vandali ariani passano, nel 429, dalla Spagna in Africa e perseguitano i cattolici fino alla riconquista di Giustiniano. Ariani sono i Visigoti, i Borgognoni, i barbari comandati da Odoacre; ariani, infine, gli Ostrogoti di Teodorico, per quanto questi, che aveva come consigliere Cassiodoro, non perseguitasse i cattolici e sapesse bene destreggiarsi nei contrasti fra l'imperatore e il papa, reagendo solo quando l'accordo, ristabilito da Giustino, diventò una minaccia per lui.
Il cattolicismo. - La riscossa del cattolicismo si veniva tuttavia preparando: il Natale del 496 Clodoveo, re dei Franchi, riceveva il battesimo cattolico. Il suo popolo ne seguì l'esempio. Poiché il re borgognone era rimasto ariano, il regno dei Franchi è il solo regno cattolico: Bisanzio vede in esso un rivale da contrapporre a Teodorico e la Chiesa gode delle vittorie di Clodoveo come di altrettante vittorie sue. A loro volta, i Visigoti mutano tattica nei riguardi del cattolicesimo; ma il loro regno della Gallia è percosso dai Franchi. Nel 516 il cattolico Sigismondo, figlio di Gundobaldo, eredita il regno borgognone, assorbito a sua volta dai Franchi nel 534. Il regno dei Visigoti si conserva nella Spagna, dove Toledo è già riconosciuta nel 527 quale sede metropolitana del paese. Qui i re ariani non perseguitano la Chiesa; anzi, parecchi Goti sono cattolici: e a conservarli tali contribuiscono anche i matrimonî con principesse franche. Anche il piccolo regno svevo, nella Galizia dove perdura il priscillianismo, si fa cattolico, grazie all'azione svolta da S. Martino di Braga. Ma il visigoto Leovigildo si annette (585) il regno svevo, tenta di realizzare, imponendo l'arianesimo a tutti, l'unione religiosa; la quale si compie, ma in senso cattolico, sotto Reccaredo. La chiesa visigotica s'organizza con una gerarchia nazionale, con l'importanza legislativa e politica riconosciuta dai re ai concilî, sia provinciali, sia nazionali. Questi, convocati dal re, si riuniscono a Toledo il cui vescovo (XII concilio, 681) assiste il re nella scelta degli altri vescovi e li consacra. Cattolica è la cultura, Isidoro di Siviglia e Braulio di Saragozza; finché sopravviene l'invasione musulmana.
La chiesa franca. - Anche nella chiesa franca, dove un vero e proprio patriarcato nazionale non si forma, per le continue spartizioni del regno, la scelta dei vescovi è fatta dal re. Ma la vita morale di alcuni prelati è apertamente scandalosa; per di più i beni della Chiesa in continuo accrescimento fanno gola a parecchi: durante le guerre civili che funestano il regno merovingico, i vescovati vengono dati e tolti, il re cousidera i suoi vescovi alla stessa stregua dei conti, e Carlo Martello distribuirà a titolo di "precario" la maggior parte delle terre ecclesiastiche ai suoi fedeli.
Il monachismo. - Ma fin dalla fine del sec. VI un nuovo elemento penetra nella vita religiosa delle Gallie: le fondazioni monastiche irlandesi. Colombano si stabilisce in Borgogna, vi fonda Luxeuil. A differenza dei monaci indigeni laici e sottomessi ai vescovi, i monaci Scotti amministrano i sacramenti, sono tenacissimi nel mantenere le loro usanze peculiari, destinate all'abbandono, e la teoria e la pratica dell'indipendenza del vescovo, largamente accolta nelle carte di fondazione del sec. VII (Solignac, Rebais, Saint Bertin, ecc.) e da Roma nel discusso privilegio di esenzione, che sarebbe il primo del genere, accordato da Onorio I a Bobbio nel 628. Luxeuil diventa in breve un centro, da cui i monaci si diramano ovunque. Colombano stesso, esiliato, fonda San Gallo e Bobbio. A fianco della sua regola si trova quella di S. Benedetto (v.), da cui la prima viene integrata, poi gradatamente sostituita.
San Gregorio Magno (590-604). - È appena possibile ricordare qui l'azione politica e amministrativa svolta da Gregorio Magno durante i tempi peggiori dell'invasione longobarda. Nella storia della Chiesa universale il suo pontificato ha maggiore importanza per il fatto che questo papa, il quale contestò a Giovanni il Digiunatore, patriarca di Bisanzio, l'uso del titolo di patriarca "ecumenico", sentì che il distacco dell'Oriente dall'Occidente era ormai inevitabile e che questo avrebbe dovuto d'ora in poi fare da sé: nel campo religioso comprese profondamente il concetto dell'universalismo cristiano e, come aveva stretto la pace con i Longobardi che sotto Agilulfo e per opera di Teodolinda iniziarono la loro conversione al cattolicesimo, così ovunque cercò di stringere relazioni amichevoli con i nuovi regni, di attrarli nell'orbita della Chiesa, di farne tanti stati cattolici, sostegni del primato romano.
Conversione degli Anglosassoni. - Iniziativa di Gregorio Magno fu la celebre missione di sant'Agostino di Canterbury (v.) nella Britannia anglosassone, dove gli asceti irlandesi non avevano ottenuto grandi risultati. Al contrario i monaci romani inviati da Gregorio Magno raccolsero presto ottimi frutti. Nonostante i contrasti tra i missionarî romani e i vescovi celti e le conseguenti, spesso gravissime crisi, nonostante le lotte intestine tra i varî regni dell'eptarchia anglosassone, le missioni romane giunsero al loro scopo e a tre quarti di secolo di distanza dall'invio di Agostino, Teodoro di Tarso, il secondo fondatore della chiesa anglosassone, pacificati gli animi, poteva celebrare il sinodo di Hertford (673). La scuola di Canterbury, da lui fondata, doveva creare poi tutte le altre che avrebbero diffuso per tutta Europa la cultura, onde trasse vanto la rinascenza dell'epoca carolingica. Il venerabile Beda dimostra già, tra il sec. VII e l'VIII, l'alto grado di cultura ragiunto dagli Anglosassoni. E la chiesa inglese dipende soltanto da Roma, a cui è strettamente legata (v. anglosassoni, III, p. 327).
Roma e l'Oriente.- Con l'Impero bizantino e con la sua Chiesa i papi sono almeno due volte in aspro e lungo conflitto. La prima è la controversia monotelita (v. monoteliti), ancora un'eco delle dispute cristologiche. Sotto l'imperatore Eraclio, il patriarca Sergio di Costantinopoli fa ancora un tentativo per conciliare all'Impero i dissidenti monofisiti: egli, pur ammettendo nel Cristo duplice natura, afferma in lui un'unica azione (ἐνέργεια: onde "monoenergismo") e, di conseguenza, unica volontà ("monotelismo"). Papa Onorio (v.), interpellato allorché il monaco Sofronio, grande avversario teologico di Sergio, è assunto al patriarcato di Gerusalemme (634), risponde con la famosa lettera fonte di tante controversie. E viene promulgata (638) l'Esposizione della fede ("Εκϑεσις Πίστεως), preparata in nome dell'imperatore perché venga accolta dai varî patriarchi. Insistere su di essa, mentre l'Islām inizia la conquista dei territorî abitati dai monofisiti, e gli Slavi s'affacciano alla penisola balcanica, sembra inutile. Tuttavia gl'imperatori, forse appunto per eliminare una tra le cause di debolezza, vogliono attuare l'unità religiosa; Costante II mira all'Occidente, vuole imporre il suo Typos monotelita, fa processare il papa Martino I, e il dissidio si trascina finché il concilio di Costantinopoli (VI ecumenico, 681) affermerà l'esistenza in Cristo di due volontà, e la subordinazione dell'umana alla divina; ma il concilio cosiddetto "trullano" (v.) del 692 tenterà d'imporre alla Chiesa occidentale idee e costumi bizantini in fatto di organizzazione e di disciplina. Il papa Sergio I resiste e il popolo di Roma si solleva e scaccia il protospatario imperiale Zaccaria.
Meno d'un quarantennio dopo, allorché Leone III saurico risolleva il prestigio dell'autorità imperiale, scoppia (726) l'altra controversia intorno al culto delle immagini. Ma il tentativo offende la pietà dei fedeli. Il patriarca di Costantinopoli, il "sincello" Anastasio, riesce tuttavia ad ottenere l'adesione dei vescovi al decreto imperiale; il figlio di Leone III, Costantino V Copronimo, fa approvare da un suo concilio, nel 753, la dottrina iconoclastica; ma i papi resistono senza piegare, sostenuti dalla popolazione italiana irritata anche dall'aumento delle imposte (v. iconoclastia).
I papi e l'Occidente. - E il sec. VIII vede una successione di grandi pontefici, da Gregorio II a Stefano III, benché la loro azione sia più notevole nel campo diplomatico che in quello religioso. Tuttavia, a Gregorio II (715-731) spetta in gran parte il merito dell'evangelizzazione della Germania, compiuta da S. Bonifacio (v.), nominato da Gregorio III (731-741) arcivescovo e vicario pontificio. E a Bonifacio si rivolgono i Franchi, perché riformi la loro cihiesa: quei Franchi che cominciano ad apparire ai pontefici come un popolo destinato da Dio a proteggere la Chiesa contro Longobardi e Bizantini: ed è superfluo ricordare qui le vicende che condussero alla formazione d'uno Stato della chiesa (v. oltre) e all'incoronazione imperiale di Carlomagno, che doma e converte i Sassoni e debella l'adozionismo spagnolo, ma tenta d'imporre al papa Adriano l'iconoclastia, condannata dal II concilio di Nicea (VII ecumenico, 787). Con Carlomagno si riaffaccia il cesaropapismo. Egli reintegra e giudica Leone III, affermando essere compito del papa il pregare per la vittoria dell'imperatore, cui spetta difendere la Chiesa di Cristo. Il sovrano si preoccupa non soltanto delle scuole, ma del canto, della liturgia, della predicazione, che si comincia a fare in volgare, della vita monastica e di quella del clero secolare ("canonici regolari" istituiti già, sotto Pipino, da Crodegango di Metz nella sua diocesi). La rinascenza della cultura che si attua sotto di lui per opera principalmente di ecclesiastici, e che continuerà sotto Lodovico il Pio, esercita la sua azione anche sulle scienze sacre (ricorderemo solo Alcuino e Teodolfo d'Orléans con le loro recensioni della Bibbia latina).
Chiesa e Impero nella "cristianità" medievale.
La decadenza (814-1046). L'Impero. - Con la morte di Carlomagno ha inizio un processo che si considera generalmente come di sfaldamento dell'Impero e di formazione dei futuri regni nazionali. Ludovico il Pio ebbe forse, almeno fino a un certo punto, il concetto dell'unità dell'Impero, ma non ravvivato da una vera coscienza imperiale: più che tutto operò in lui il sentimento dell'unica civitas Dei identificata sempre più con la Chiesa, di cui l'Impero non è che l'espressione giuridico-politica. L'imperatore si sente esecutore degli ordini divini, ministro della Chiesa e protettore del pontefice: perciò gli occorre il perfetto funzionamento della vita ecclesiastica e la regolarità dell'elezione papale. Di qui la constitutio romana dell'824, che, mantenendo le autonomie locali, subordina però Roma e il territorio pontificio all'alta sovranità dell'imperatore e conferma a questo il diritto di vigilare l'elezione del papa, obbligato a prestare giuramento di fedeltà.
I papi. - Pure, mentre l'Impero si sfascia e la società si disorganizza, l'autorità del papato e le sanzioni morali della Chiesa sono ancora ascoltate e hanno la loro efficacia, anche pratica. Gregorio IV (827-844) è portato da Lotario a Colmar, arbitro dell'Occidente: fautore dell'unità dell'Impero, indurrà i vescovi ad abbandonare Lodovico il Pio. Per suggerimento di Agobardo, questo papa afferma che l'autorità spirituale, sulle anime, è superiore a quella di qualsiasi potestà di questo mondo. Ma il papa sa già quale minaccia costituiscano i musulmani; malgrado le difese da lui preparate, questi, due anni dopo la sua morte, nell'846, saccheggiano San Pietro. Leone IV (847-855) cercherà di proteggere almeno la tomba del principe degli apostoli; ma né lui né il suo predecessore Sergio II (844-847) riescono ad impedire la spartizione dell'Impero e le rivalità fra i re. Né riuscì a eliminarle realmente Nicolò I (858-867), il più grande tra i papi di quest'epoca, al quale le questioni politiche si presentarono complicate da quella morale, giuridica e dommatica del divorzio di Lotario II. Come legiferava in materia canonica, come manteneva il prestigio della sede apostolica e affermava la sua superiorità sui re e vescovi dell'Occidente, questo papa nel sinodo romano dell'864 proclamò solennemente la deposizione di Fozio elevato da Michele III e dal Cesare Barda al patriarcato di Costantinopoli in luogo d'Ignazio.
Adriano II (867-872) vede Ignazio ristabilito sulla cattedra da Basilio il Macedone e Fozio condannato nel concilio di Costantinopoli (VIII ecumenico, 869-870): ma egli deve soprattutto preoccuparsi dei Saraceni. Deve anche ammettere che la nuova chiesa dei Bulgari abbia un arcivescovo proprio, dipendente da Costantinopoli. Roma vede le manovre d'Anastasio bibliotecario; e Giovanni VIII (872-882), che per difendersi contro le incursioni degl'infedeli e dei duchi di Spoleto tenta di conservare in vita l'Impero, deve subire il ritorno di Fozio, la condanna (879) dell'ottavo concilio ecumenico e poi (880) dell'aggiunta del Filioque nel Credo e del primato romano. I successori sono deboli, e devono destreggiarsi tra i varî imperatori o pretendenti all'Impero: come il predecessore Stefano V (885-891), papa Formoso (891-896) invocherà, contro Guido di Spoleto, il soccorso di Arnolfo re di Germania, incoronato imperatore nell'896; ma Lamberto sfogherà l'ira della sua casa contro il papa, costringendo Stefano VI (896-897) a condannarlo nel macabro e celebre "concilio del cadavere".
Con i pontefici che seguono, per il corso di un secolo, il papato perde d'autorità. Il "console" Teofilatto, e più ancora la moglie, Teodora, e le figlie, Teodora minore e Marozia, soprattutto questa ultima, spadroneggiano e intrigano fino a Giovanni XI (931-936), figlio (secondo Liutprando) di lei e di Sergio III (904-911). Con la rivolta di Alberico "principe dei Romani" assistiamo a qualche tentativo di riforma. Ma proprio Alberico, che pure ha chiamato a Roma Oddone di Cluny, tenta di fare del pontificato un feudo ereditario nella famiglia, facendo proclamare futuro pontefice il proprio figlio, che fu Giovanni XII (955-963). È questo papa che incorona a Roma Ottone di Germania (2 febbraio 962); ma, poiché Ottone conferma la costituzione di Lotario, trama contro di lui e ne è deposto. Rientra poco dopo in Roma; e da questo momento incomincia il contrasto tra un imperatore che vuole esercitare i suoi diritti e un'aristocrazia romana, a capo della quale è Giovanni Crescenzio figlio di Teodora minore e la famiglia di lui, che considera il papato come cosa propria. Ottone II fa nominare Pietro di Pavia, il primo papa che cambi nome, Giovanni XIV (983-984). Sotto Giovanni XV (985-996), Arnolfo d'Orléans nel concilio di Verzy (991) proclama che l'indegnità morale dei papi rende del tutto ingiustificata la pretesa della chiesa di Roma a considerarsi superiore alle altre. La situazione non muta sotto i papi di Ottone III: Gregorio V (996-999), che ha da combattere l'antipapa Giovanni XVI, e Silvestro II (999-1003), il famoso Gerberto, cacciato da Roma. I papi che seguono, fino a Sergio IV (1009-1012), sono scelti dalla nobiltà, nella quale scoppiano i primi dissensi tra i Crescenzî e i conti di Tuscolo. Tra i candidati delle due fazioni in lotta, l'arbitro è ora Enrico II di Germania il quale sceglie Benedetto VIII (1012-1024) e ottiene da lui la corona imperiale, il 14 febbraio 1014.
Ottone I aveva fatto grandi donazioni e concesso immunità alle chiese; aveva fondato, elemento della sua politica orientale, l'arcivescovado di Magdeburgo (968). Come lui, Enrico II "il santo" si appoggia, contro i grandi signori sempre malfidi, sui feudatarî ecclesiastici: gli occorre perciò un episcopato ligio, e il re interviene nelle nomine. Ma Enrico II è un fautore della riforma della Chiesa: ne aiuta la propagazione nei monasteri della Germania, sceglie i vescovi degni, fonda, per assicurare l'evangelizzazione dei Vendi, la sede di Bamberga. Imperatore e papa nel sinodo di Pavia (1018) tentano di moralizzare il clero; quando entrambi muoiono, nel 1024, al papa succede tuttavia il fratello Romano "senatore dei Romani": un laico che, divenuto Giovanni XIX, incorona Corrado II. A Giovanni XIX succede il nipote Teofilatto, Benedetto IX (1032-1044), più probabilmente papa per ann(os) XII, anziché puer ann(orum) XII, che minacciato dall'antipapa Silvestro, abdica, esigendo una forte somma, in favore del padrino Giovanni Graziano, Gregorio VI; e questi paga, in vista della riforma da attuare.
Enrico III trova così tre contendenti: a Sutri, fa eleggere Sigieri di Bamberga. E dalle mani di Clemente II, Enrico riceve, il Natale del 1046, la corona imperiale.
Il clero. - In mezzo alla società feudale, la Chiesa sente a sua volta l'influsso del feudalesimo, specialmente nelle campagne. Anche nell'elezione del vescovo è sempre minore la partecipazione del popolo. In Germania, dove i feudatarî ecclesiastici possono essere opposti ai grandi signori laici, s'afferma l'influenza regia; in Francia quella dei grandi campagna, le chiese private, sorte sul territorio feudale, sono alla mercé del signore; gli uffici ecclesiastici vengono spesso ceduti al migliore offerente. I disordini morali sono gravissimi, il clero concubinario o incontinente rappresenta la maggioranza (basterà ricordare la lotta sostenuta da Raterio di Verona o i vani tentativi di riforma e gli abati avvelenati, a Farfa); le famiglie degli ecclesiastici considerano i beni della Chiesa come proprî e la simonia, conseguenza del regime feudale cui sono soggette le nomine, rappresenta senza dubbio il peggior male del tempo.
Prodromi di riforma. - Pure, non tutto, nel quadro, è così nero. L'Italia, dove la decadenza morale è forse peggiore che altrove, vede i monasteri greci di san Nilo in Calabria e all'inizio del sec. XI un rifiorire dell'ascetismo anacoretico con Fonte Avellana e gli eremitaggi di San Romualdo, da uno dei quali, Camaldoli, doveva poi uscire un nuovo ordine monastico; con Vallombrosa, fondata sul modello di Camaldoli da S. Giovanni Gualberto, e con quella che fu poi la Badia di Cava. Nel 910, con la fondazione di Cluny,. si apre un nuovo capitolo nella storia dell'ordine benedettino (v. Cluniacensi).
Anche la vita intellettuale non si spegne del tutto. Accanto ad Agobardo di Lione, Incmaro di Reims, Raterio di Verona, Anastasio bibliotecario, converrà ricordare anche Raterio, Ratrammo di Corbie, Rabano Mauro e la loro controversia circa il modo della presenza di Cristo nell'eucaristia, nonché le dottrine predestinazionistiche di Godescalco di Fulda. E basterà fermare, senza uscire dal campo teologico, i nomi di Giovanni Scoto Eriugena (v.) e di Gerberto d'Aurillac. La tradizione della cultura classica si mantiene, anzi l'idea romana riacquista vigore, specialmente sotto Ottone III. Il diritto romano, raccomandato da Leone IV a Lotario, è riconosciuto come diritto territoriale in Roma da Corrado II. Ad esso attingono alcune delle collezioni canoniche, che si moltiplicano dalla fine del secolo IX in poi; mentre dalla Francia si diffondono le collezioni delle false decretali. Nell'instabilità della vita politica, gli spiriti si rivolgono alla Chiesa, che, nonostante tutto, presenta ancora a questa società corrotta e violenta un alto ideale e inculca principî etici più elevati..
Diffusione del cristianesimo. - Le perdite fatte nel bacino del Mediterraneo di fronte all'avanzarsi dell'Islām sono compensate dalla conquista di altre popolazioni, che in questo periodo entrano a far parte della vita europea. Anscario predica fra i Danesi, impiantando le prime chiese, e dopo la pace di Chippenham (878) ammmistra anche al re Guthrum il battesimo. In Germania, la cristianizzazione degli Slavi è un caposaldo della politica orientale dei diversi re; nella Penisola balcanica Boris I re dei Bulgari oscilla alquanto tra Roma e Costantinopoli, finché quest'ultima prevale. Cirillo e Metodio svolgono opera tra i Moravi, che Roma riesce a tener stretti a sé, e la Germania e gli Slavi di Boemia inviano i primi missionarî ai Magiari il cui re Stefano II riceve, nel 1001, il diadema benedetto da Silvestro II. Anche Miesco, duca di Polonia, si converte al cattolicesimo; poco dopo si converte la Russia, prevalentemente sotto l'influenza bizantina.
La lotta per le investiture e la Crociata (1046-1123). - L'epoca della riforma della Chiesa incomincia con la cacciata di Gregorio VI che ne è fautore, e con la nomina di un papa scelto dall'imperatore. Enrico III designa ancora Damaso II (17 luglio - 9 agosto 1048), poi un suo parente, Brunone di Toul. Ma Leone IX ritiene necessaria un'elezione canonica a Roma, dove conduce Ildebrando, il seguace fedele di Gregorio VI; e Ildebrando porta seco in Roma le idee sulla riforma della Chiesa e sulla superiorità del potere spirituale, che si sono venute maturando e divulgando nella Lorena, dov'è più aspro il contrasto tra vescovi e signori laici, e che trovano la loro espressione nei trattati e nelle collezioni canoniche redatte tra i familiari del papa: condanna ripetute volte la simonia, scomunica e depone vescovi e arcivescovi colpevoli o disubbidienti; come condanna Berengario di Tours che nega la transustanziazione. Tra gli stessi uomini di fiducia del papa, tuttavia, c'è discrepanza tra chi, col card. Umberto, considera nulli gli atti dei vescovi simoniaci e chi, con S. Pier Damiani, li considera validi. Ma intanto Michele Cerulario, il patriarca "ecumenico" di Costantinopoli, e Leone arcivescovo di Ochrida riprendono ad accusare la chiesa latina, per il Filioque e per parecchi osservanze (v. azimo) e Leone IX protesta, sostenendo vigorosamente i diritti della sede romana: con la bolla di scomunica, deposta dai legati papali sull'altare di Santa Sofia il 15 luglio 1054 (tre mesi dopo la morte del papa) e con la scomunica lanciata a sua volta da Michele, il 20, la separazione della chiesa orientale da Roma è consumata (v. ortodossa, chiesa).
Vittore II (1054-1057) prosegue l'opera del predecessore e tenta, attraverso la riconciliazione con l'abbazia di Montecassino, una nuova politica verso i Normanni, invano attaccati dal predecessore; ma la morte gl'impedisce di attuarla. L'imperatore è ora il fanciullo Enrico IV: Federico di Lorena è eletto papa dai Romani, il 2 agosto 1057, e solo parecchi mesi dopo Stefano IX annuncia la sua elezione alla corte. Il nuovo papa chiama intorno a sé uomini quali Pier Damiani, continua la politica dei predecessori sia nei riguardi della riforma, sia nella nomina di vicarî papali per i varî paesi e nella conferma o concessione di privilegi alle sedi metropolitane, legate così e subordinate a quella di Roma. Dopo l'elezione dell'antipapa Benedetto X (1058) a opera di Gerardo conte di Galeria, dai cardinali, riuniti a Siena, è eletto Niccolò II, cui Leone di Benedetto cristiano apre le porte di Roma. Egli conclude la pace coi Normanni e nel sinodo lateranense del 1059 emana il famoso decreto sull'elezione papale, che riduce i diritti dell'imperatore a nulla o quasi: e che venne perciò falsificato da parte imperiale. Alla morte di Nicolò II (1061) Gerardo di Galeria e i vescovi lombardi contrarî alla riforma s'accordano con l'imperatore che, il 28 ottobre 1061, a Basilea, investe Cadalo (Onorio II), mentre già il 30 settembre i cardinali vescovi avevano eletto Alessandro II (Anselmo da Baggio), legato alla pataria milanese, che comincia a distinguere tra la cura delle anime, ufficio esclusivamente ecclesiastico, e il scovi dell'Italia settentrionale, quali Benzone d'Alba. Ma in Inghilterra, dove il papa ha benedetto l'impresa di Guglielmo il Conquistatore, la riforma procede, favorita dal re, diretta da Lanfranco. Quando Alessandro II muore, il 21 aprile 1073, il popolo proclama in S. Pietro in Vincoli Ildebrando: l'elezione tumultuaria è presto resa regolare e Gregorio VII incomincia la sua azione. Superfluo rievocare qui anche i momenti più drammatici del suo pontificato e delle sue relazioni con Enrico IV fino alla definitiva diritti spettanti al successore di Pietro e l'azione pratica che egli svolse, con energia che ogni difficoltà sembrava rianimare (v. gregorio vii e investiture, lotta delle). Quello che importa ora è notare come Gregorio VII non trascuri nessuna parte della cristianità, estenda a ogni paese la sua azione, che non è solo di riformatore del clero e del costume ecclesiastico, ma di assertore dei diritti preminenti dell'autorità spirituale sulla civile: in Francia c in Inghilterra, in Spagna e nell'Ungheria, nella Polonia, nella Russia che il papa cerca di ridurre a feudo della Santa Sede, nei territorî occupati dai musulmani e in particolare nel Marocco dove incoraggia e sostiene l'opera missionaria; infine in Oriente, dove il progetto d'una lotta comune contro i Turchi fallisce, per l'avversione alla riunione ecclesiastica con Roma.
Sotto Vittore III (1086-87), i più ferventi seguaci di Gregorio VII restano freddi e diffidenti. Ma sei mesi dopo la sua morte, è eletto uno di loro, Urbano II (1088-1099), che col tempo e col migliorare della situazione politica sua e della contessa Matilde di Toscana si sente sempre più forte; allora il legato papale in Francia scomunica il re Filippo I che ha rapito Beatrice, moglie di Folco d'Angiò; il nuovo arcivescovo di Canterbury, sant'Anselmo d'Aosta, tiene testa a Guglielmo il Rosso d'Inghilterra; sicuro della sua potenza spirituale, ora che Alfonso VI ha ripreso Toledo, ridivenuta sede primaziale e che Ruggiero I ha ultimato la conquista della Sicilia, il papa, concluso il fidanzamento della figlia del Normanno con Corrado, può preparare il disegno d'un'azione che ad un suo cenno unisca tutte le forze della cristianità contro il Turco. Al sinodo di Piacenza (1095), che regola la questione delle ordinazioni fatte da vescovi scismatici, sono presenti gli ambasciatori dell'imperatore d'Oriente Alessio I Comneno, che invoca aiuto dai cristiani dell'Occidente. E il 27 novembre, nel concilio di Clermont viene bandita solennemente la crociata. Il rinvigorito sentimento religioso la fa accogliere con uno scoppio d'entusiasmo.
Anche delle crociate (v.) non è nostro compito narrare le singole fasi né esaminare cause ed effetti: qui va segnalato soltanto l'enorme incremento che il papato ne ricavò moralmente; mentre una sapiente politica finanziaria mette a disposizione dei papi e delle necessità della Chiesa mezzi materiali sempre maggiori. E questa accresciuta autorita morale del papato si manifesta in più modi: cosi nel sinodo di Bari (1098), al quale prende parte sant'Anselmo, che vi ribatte le asserzioni dei Greci, Guglielmo il Rosso viene scomunicato. Ma Urbano II muore in Roma, il 29 luglio 1099, quattordici giorni dopo l'ingresso dei crociati in Gerusalemme.
Pasquale II (1099-1118) vede chiarirsi la situazione. A Enrico IV il ribelle secondogemto Enrico dà il colpo di grazia. Continua così la politica, destinata a diventare tradizionale per il papato, che in Germania si difende contro l'oltracotanza imperiale appoggiandosi sui vassalli ribelli, sciolti dal giuramento di fedeltà. Ma, divenuto re, Enrico V non trascura di continuare la serie degli antipapi, con Maginulfo (Silvestro IV, 1105-1111). Filippo di Francia, riconciliato con la Chiesa, si limita a concedere le temporalità, rinunciando all'investitura; Enrico I d'Inghilterra rinuncia (1107) all'investitura con l'anello e il pastorale, mentre il papa e Sant'Anselmo ammettono l'omaggio al re. Più dure, le relazioni con Enrico V. Pasquale, che concentra tutta la sua attenzione sulla questione dell'investitura formale, si adatta, se l'investitura regia dev'esserne la conseguenza immediata, a rinunciare a tutti i beni della Chiesa ("concordato di Sutri", del febbraio 1111); ma clero e baroni si ribellano, e impediscono l'incoronazione imperiale. Fatto prigioniero da Enrico, Pasquale cede e gli lascia anche le investiture; liberato, si pente, si ritratta solennemente, nel sinodo del 1112, cerca di giustificarsi. Intanto la morte della contessa Matilde di Toscana apre la questione dell'eredità. Dopo la breve parentesi di Gelasio II, Calisto II (Guido di Vienne, al quale Pasquale II aveva scritto per giustificarsi; 1119-1124) riprende le trattative, ma nel concilio di Reims di nuovo fa condannare le investiture laiche di vescovadi e abbazie e scomunicare Enrico V. Il papa è mediatore tra Francia e lnghilterra. Due anni dopo l'antipapa Gregorio VIII (1118-1121) cade nelle mani del pontefice, e i nobili tedeschi si accordano con l'imperatore. Nuove trattative conducono, il 23 settembre 1121, al famoso concordato di Worms (ratificato dal concilio lateranense del 1123) con cui si fa finire la prima delle grandi lotte tra il papato e l'impero. Se l'imperatore può ritenersi soddisfatto per avere ottenuto finalmente la pace, anche all'interno, senza dover rinunciare alla politica che ricerca l'appoggio dei grandi feudatarî ecclesiastici vero vincitore è il papa, che rivendicando il principio dell'elezione da parte del clero e del popolo è riuscito in realtà ad affermare la sua superiorità sui vescovi. L'elezione del papa è liberata almeno in teoria da interventi imperiali o da fazioni locali; della curia romana fanno parte ecclesiastici di ogni regione e su tutte l'autorità del papa si esplica con un vigore e una continuità che mostrano come il pontificato abbia fatto più d'un passo verso il riconoscimento definitivo del suo potere: la Chiesa si regge ormai secondo un suo proprio diritto, ha organi centrali e permanenti di governo, organizzazione e configurazione supernazionale. Per contro, v'è nella maggiore indipendenza del clero il pericolo che questo possa tendere a straniarsi alquanto dalla vita del popolo: mentre il dominio temporale e le ricchezze del clero offriranno pretesti agli eretici, non sempre osteggiati vigorosamente dai re. Senza che forse ne abbiano esatta coscienza, quello che spiace a eretici e a sovrani è in fondo lo stesso carattere supernazionale della Chiesa.
Riforma disciplinare e attività intellettuale. - L'opera della riforma monastica continua, e continua la fondazione di nuovi ordini; frequente il caso di quelli che dalla primitiva forma anacoretica passano alla cenobitica, o cercano almeno di contemperare l'una con l'altra. Così Cava, onde monaci partono per fondare Monreale e altre colonie, ritorna alla vita cenobitica sul modello benedettino; cosi l'ordine francese di Grand-mont, fondato da S. Stefano nel 1075 a Muret presso Limoges, e divenuto cenobio al tempo della sua costituzione definitiva sotto Adriano III; qualcosa di simile, cioè una vita comune in località tuttavia deserta e quasi inaccessibile, si verifica con l'ordine certosino. Roberto d'Arbrissel fonda l'Ordine di Fontevrault per raccogliere a preghiera coloro che non possono prendere parte alla crociata militare.
Cluny ha esteso sempre più il suo dominio, accresciuto la sua potenza, la ricchezza, le costruzioni, e i papi ne cercano l'appoggio e il consiglio; ma nella gloriosa abbazia - che vede eletto abate, nel 1122, Pietro il venerabile - è venuto meno l'entusiasmo iniziale. Non vi alberga certo il vizio, ma la grandiosità delle funzioni tende a prendere il posto del fervore iniziale; il decoro, l'ordine, la compostezza a sostituirsi all'antico rigore e alla rinuncia. Con la fondazione di Cîteaux (1098) per opera di Roberto di Molesmes e con l'incremento dato ad essa dal terzo abate, Stefano Harding, autore della Charta caritatis (1119), si cerca di ovviare a ciò: prosegue nella via della riforma Bernardo, che nel 1115 ha fondato Chiaravalle. In breve, i cisterciensi si diffondono in tutta Europa, specie là dove sono terre da dissodare o risanare, sostenendo una delle prime parti nella rinascita economica, oltre che nell'artistica (v. cisterciensi).
Al monachismo si ricollega la vita intellettuale che, mentre le scuole episcopali decadono alquanto, ha ora i suoi centri principali in grandi monasteri: Fulda, San Gallo, soprattutto Bec, dove S. Anselmo succede a Lanfranco. S'incomincia a studiare le basi razionali del dogma, a disputare intorno agli universali; e già si affermano nuovi centri di cultura, nuovi maestri. Abelardo erra di scuola in scuola, per stabilirsi poi a Parigi, presso Guglielmo di Champeaux. Una certa presunzione gli farà anzi credere che, precisamente per sottrarsi al confronto con il più abile discepolo, Guglielmo abbia deciso di ritirarsi, nel 1108, nell'eremo di San Vittore. È un'altra casa di chierici regolari che sorge, fondata sulla regola cosiddetta agostiniana: come parecchie in questa età, dai canonici di S. Giovanni in Laterano a Roma ai premonstratensi di S. Norberto (1120), a quelle che si fondano in Inghilterra e in Francia, dove Ivone di Chartres ne incoraggia lo stabilimento. E l'autore della Panormia può bene essere preso a simbolo dello sviluppo del diritto canonico, che incomincia a non contentarsi più di semplici compilazioni disordinate, mentre a giustificazione della potestà imperiale viene addotto il risorgente diritto romano.
Ma non mancano eresie: la reazione contro la vita scostumata del clero si accompagna, in taluni ceti, e più nelle città che ormai sono più che avviate a trasformarsi in liberi comuni, a un senso generale di rivolta contro alcune istituzioni che sembrano non conformi alla purezza dell'insegnamento evangelico. Spuntano in tutta Europa, dalla Bulgaria alla Francia meridionale, dalla Lombardia alla Fiandra, i predicatori che auspicano il ritorno alla povertà e alla purezza primitiva e nella Chiesa e nella corruzione del clero scorgono l'opera dell'Anticristo: ché l'eresia medievale è fondata sopra un più o meno rigido dualismo e tutti, qual più qual meno, pauliciani, bogomili, patarini, catari, seguaci di Pietro di Bruys, di Tanchelmo, di Arnaldo da Brescia, vengono da contemporanei e da moderni, in maniera diversa e non senza oscillazioni e incertezze nei particolari, ma nel complesso indubbiamente a ragione, ricollegati col manicheismo antico. (Per Berengario di Tours v. sopra).
Da Onorio II a Bonifacio VIII (1124-1303). - Con il concordato di Worms, incomincia una nuova epoca, durante la quale il papato coglie i frutti della sua resistenza e della vittoria. La Chiesa domina veramente la vita spirituale, si afferma potentemente nella materiale. L'Impero tenterà di risollevare il capo, affermerà i suoi diritti, cercherà di rendersi interprete di uno spirito nuovo, spregiudicato e antiecclesiastico. Per contro, la Chiesa dà una nuova prova della sua capacità di assorbire il buono anche da movimenti all'inizio o potenzialmente avversi, e di saper dominare i suoi nemici, che del resto, in quest'epoca tutta dominata da preoccupazioni religiose, non sono dei miscredenti o dei puri razionalisti. Ma movimento degli spiriti e attività pratica condurranno gli uomini ben più in là che il papato non possa concedere. Gli stessi alleati della Chiesa nella lotta antimperiale rappresentano forze nuove; borghesia da una parte e sovrani dall'altra non solo si sottraggono a ogni sovranità, anche puramente teorica, dell'Impero universale, ma cercano di scuotere la tutela che la Chiesa esercita su di loro. Tra i due grandi contendenti, essi saranno i veri vincitori.
L'epoca di San Bernardo (1124-1154). - La potente personalità del grande abate di Chiaravalle domina di fatto il periodo che giunge sino all'elezione di Adriano IV, un anno dopo la morte del santo. Se Bernardo riuscì ad aver ragione dello scisma che divise, alla morte di Onorio II (1124-1130), i consensi della cristianità fra Pietro Pierleone (Anacleto II) e il candidato dei Frangipane, Innocenzo II (1130-1143), creando l'alleanza tra il papa e Lotario di Supplimburgo contro Anacleto, i Normanni di Ruggiero II e il competitore di Lotario, Federico di Svevia; se in seguito a questa alleanza Lotario poté essere incoronato imperatore, il 4 giugno 1133, rinunciando di fatto a intervenire nelle elezioni dei vescovi, non minore importanza ebbe l'azione di Bernardo nella lotta contro i Normanni: nonostante la sconfitta del papa, Bernardo seppe trarre dalla sua Ruggiero II che si vide confermato dalla Santa Sede il titolo di re concessogli da Anacleto: l'abate di Chiaravalle vi guadagnò l'apertura dell'Italia meridionale ai cisterciensi.
Ma il popolo romano insorge contro il papa, e questa volta in nome delle libertà comunali. Arnaldo da Brescia, condannato nel II concilio lateranense (X ecumenico, 1139), si pone contro San Bernardo e dà una nuova forza al movimento comunale con la sua predicazione che non si limita a criticare la corruzione del clero; mentre Bernardo prepara al maestro di lui, Abelardo, la condanna del concilio di Sens (1140). Così Eugenio III (1145-1153), che succede a Celestino II e a Lucio II (contrastati da Giordano Pierleoni), l'ordine cisterciense sale sulla cattedra di San Pietro e San Bernardo registra la voce corrente che il vero papa sia lui. Eugenio III può ritornare a Roma nel 1145, ma deve presto lasciarla nuovamente per stabilirsi a Viterbo.
Intanto l'attenzione del papa è rivolta alla crociata, che San Bernardo predica e fa predicare, ma il risultato disastroso di essa viene risentito anche da Eugenio III e da San Bernardo. Preoccupato di ritornare a Roma, Eugenio oscilla incerto, ma alla fine invita il nuovo imperatore tedesco Corrado di Hohenstaufen a scendere in Italia, dove potrà essere arbitro tra lui e i Romani. Ma il 15 febbraio 1152 Corrado muore a Bamberga; il 4 marzo, viene eletto Federico di Hohenstaufen. Con lui il papa stipula, a Costanza, nel marzo 1153, l'alleanza contro i Normanni; ma l'8 luglio muore a Tivoli; e il 20 agosto muore San Bernardo. Con ciò termina l'epoca della grande diffusione dell'ordine cisterciense, segnata anche dal sorgere degli ordini militari: cavalieri di S. Giovanni (1114), templari (1128) e l'ordine di Calatrava (1147); ché gli effetti della seconda crociata si son fatti sentire soprattutto in Europa, con la presa di Lisbona.
Da Adriano IV a Innocenzo III (1124-1197). - Il Barbarossa sale al trono con la ferma intenzione di risollevare il prestigio dell'autorità imperiale: perciò, intende farsi sentire nell'elezione di vescovi e abati; vuole un episcopato fedele, e l'ottiene imponendo la sua volontà, nella questione del vescovato di Magdeburgo, se non ad Eugenio III, ad Anastasio IV. Ma Adriano IV (l'inglese vicolò Breakspear; 1154-1159) è l'uomo fatto per tener testa al Barbarossa. Di fronte a un papa che desidera il suo aiuto contro Romani e Normanni, ma si sente superiore a lui, il Barbarossa sente il bisogno d'assicurarsi il possesso dell'Italia settentrionale, dove le città lombarde alzano il capo. Quando Adriano IV accetta la pace proposta da Guglielmo, si rafforza nella curia il partito siciliano, a spese dell'imperiale, capeggiato dal cardinale Ottaviano di Santa Cecilia, e in Germania si ritiene violato il patto del 1153. La disputa intorno ai beneficia concessi dalla Chiesa all'imperatore si chiude, per quanto il papa spieghi che il termine non ha il senso tecnico del diritto feudale, con una riconciliazione solo apparente: il Barbarossa ha già manifestato la sua teoria, sostenuta dai romanisti bolognesi, dell'assoluta indipendenza dell'impero. Di essa, le decisioni di Roncaglia (1158) non sono che corollarî, dedotti attraverso il diritto romano e il barbarico.
Così i comuni lombardi cercano di trar profitto dalla lotta tra impero e papato. Ma con mutato spirito in confronto della pataria, con deciso sopravvento delle ragioni politiche sul senso religioso. Anche quelli alleati del papa sono con lui in profonda divergenza di principî e d'interessi. Federico è ora arbitro fra i due competitori, il cardinale Ottaviano (antipapa Vittore IV) e Rolando Bandinelli (Alessandro III, 1159-1181), il canonista già discepolo di Abelardo. Ma si sa che il sinodo da lui convocato a Pavia dovrà riconoscere il primo. Lo scisma è aperto, le scomuniche s'incrociano. Alessandro III, quando l'imperatore distrugge Milano, si rifugia in Francia e riesce a farsi riconoscere da tutta Europa, a eccezione della Germania.
Lo scisma continua, dopo la morte di Ottaviano (1164), con l'elezione del nuovo antipapa, Guido vescovo di Crema (Pasquale III). E Alessandro, poco sostenuto dai Francesi, già in contrasto con Enrico II d'Inghilterra per la lotta del re con Tommaso Becket, sente che la sua vera forza è in Italia. Ritorna a Roma, dove Federico ha fatto canonizzare, dall'antipapa, Carlomagno: l'accordo tra Guglielmo II di Sicilia, Manuele Comneno e Venezia presenta al papa il miraggio d'una riconciliazione tra le chiese d'Oriente e d'Occidente. Ma base della resistenza a Federico sono ancora le indomite città lombarde. Papa e Lega raddoppiano l'attività diplomatica, mentre l'autipapa Calisto- III (1168-1178) ha scarso seguito e Federico, nell'assicurarsi l'eredità dei Guelfi, si aliena Eurico il Leone. Il Barbarossa torna in Italia nel 1174: è la campagna dell'assedio di Alessandria e di Legnano (29 maggio 1176). Sconfitto, Federico si preoccupa di dividere i nemici, di riacquistare prestigio mediante l'accordo col papa: a questo scopo sono rivolti i preliminari di Anagni, l'incontro e la pace di Venezia. Ma già a Ferrara, i Lombardi si sentono abbandonati; con loro, non si conclude che una tregua.
Alessandro III, invece, trionfa: il papa può convocare il terzo concilio lateranense (XI ecumenico, 5-19 marzo 1179) che, tra l'altro, impone di considerare eletto un papa solo se ha ottenuto i due terzi dei voti.
Ma Roma resta infida e i Lombardi insoddisfatti. Lucio III (1181-1185) deve nel 1184 trasferirsi a Verona dove, durante la visita del Barbarossa, emana, il 4 novembre, la bolla che, completando le misure prese da Alessandro III nel sinodo di Tours (1162) e nel III concilio lateranense, impone ai vescovi di ricercare gli eretici e a tutte le autorità laiche di aiutare in questo la Chiesa. È l'inquisizione episcopale, primo passo verso le altre.
Ma il milanese Urbano III (1185-1187) riprende, da Verona e da Ferrara, la lotta contro il Barbarossa; il successore, Gregorio VIII (1187), nel suo breve pontificato ristabilisce l'accordo, prepara la crociata contro il Saladino e il proprio ritorno a Roma. Coglie i frutti di questa politica Clemente III (1187-1191) che riesce a veder partire gli eserciti crociati. Celestino III (1191-1198) incorona Enrico VI che, conquistato il regno di Sicilia nel 1194, tenta di far pace col papa, sia offrendogli, ma senza esito, contro l'abbandono dei beni ecclesiastici, cospicue rendite da parte di ogni chiesa, sia preparando la crociata; ma la morte lo coglie in Messina, il 28 settembre 1197. L'8 gennaio successivo, Celestino muore. Gli succede Lotario dei conti di Segni, Innocenzo III.
Innocenzo III (1198-1216). - Con Innocenzo III il papato sembra raggiungere l'apogeo di sua grandezza. L'azione del pontefice si fa sentire, spesso decisiva, su tutta l'Europa, e ai principî da lui sostenuti, quelli stessi del Dictatus papae, tutti, prima o poi, s'inchinano. Eppure proprio al tempo di questo grande pontefice incominciano a manifestarsi più evidenti le nuove forze e i nuovi ideali che favoriscono la costituzione di regni nazionali in Occidente.
Tutore del piccolo Federico, erede dell'Impero e del trono di Sicilia, il papa vuole tuttavia impedire l'unione delle due corone. Tra i due contendenti all'Impero, Ottone di Brunswick e Filippo di Svevia, egli non si pronuncia definitivamente. Svolge una prudente politica di attesa, dominata anche dall'avversione per Filippo Augusto di Francia, la quale lo porta finalmente all'urto con Ottone che, rimasto solo, riprende la politica degli Hohenstaufen. Allora, riavvicinatosi al re di Francia, il papa spera in Federico II che viene eletto imperatore. Alla rivalità tra Francia e Inghilterra s'aggiunge il contrasto tra Innocenzo III e il re inglese, Giovanni Senzaterra, che non vuole riconoscere l'arcivescovo di Canterbury, Stefano Langton, consacrato dal papa. Giovanni, scomunicato, para il colpo, si sottomette, cede il regno al papa, dal quale lo riottiene come feudo. Riaccostatosi a Ottone, l'inglese è sconfitto da Filippo Augusto e Federico II a Bouvines (27 luglio 1214). A Federico II è così assicurata l'eredità paterna.
Filippo Augusto può ora intervenire nella Francia meridionale, dove, a impedire la propaganda degli Albigesi, Innocenzo III aveva mandato, fin dal 1198, le missioni cisterciensi, poi incoraggiato l'opera di Domenico di Guzmán (v.), finalmente bandito la crociata, che aveva subito assunto un colorito politico, a vantaggio momentaneo di Simone di Montfort e del figlio di lui, e definitivo, dal 1215, del re di Francia. L'altra e più vera crociata, quella diretta contro i musulmani, si conclude con la creazione dell'effimero Impero latino d'Oriente e gli acquisti dei Veneziani in Dalmazia. Quanto all'Inghilterra, effetto della battaglia di Bouvines è il maggior malcontento dei nobili, onde Giovanni, fallitogli il tentativo di trarre dalla sua l'alto clero con il Langton, è costretto a concedere la Magna Charta, che invano il papa dichiarerà nulla e che il suo legato, Gualone, dovrà confermare. E se gli Albigesi sono estirpati e Amalrico di Bena e Davide di Dinant condannati, l'incendio dell'eresia non è del tutto estinto e qualche focolare sopravvive: poveri lombardi e poveri di Lione non rinunciano alla loro propaganda e il fermento dell'eresia che dice di volere il ritorno alla vita evangelica, afferma la povertà necessaria, si nutre di torbide e inebrianti speranze apocalittiche, durerà a lungo. E i comuni italiani della Lombardia, della Toscana, dell'Umbria (Narni e Orvieto) troppo spesso mostrano poco rispetto per l'autorità del pontefice, manomettono i beni e violano la libertà della Chiesa.
Nel 1215 Innocenzo III può sembrare il dominatore dell'Europa. La Francia meridionale, focolaio d'eresia, è sommersa, a Costantinopoli risiede un patriarca latino, il pupillo del papa è assicurato sul trono imperiale, Inghilterra, Aragona, Léon, Portogallo, Ungheria si sono dichiarati vassalli del papa e ne riconoscono l'autorità, il cristianesimo si diffonde nell'Europa nord-orientale, i Mori di Spagna hanno subito la sconfitta di Las Navas de Tolosa, e la riconquista è in pieno sviluppo. In Roma, il papa è sovrano incontrastato, e il senatore gli presta omaggio; nella campagna, ai confini e dentro il Regno, nelle Paludi Pontine e lungo le valli del Sacco e del Liri, il papa ha stabilito per la sua famiglia feudi potenti. Innocenzo convoca il quarto concilio lateranense (XI ecumenico, 11-30 novembre 1215). Vi si condannano di nuovo le eresie, vi si stabilisce l'ordine tra i patriarcati, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, sotto il primato di Roma, si legifera sulla procedura dei tribunali ecclesiastici, sugl'impedimenti matrimoniali, sulla predicazione, per assicurare l'istruzione religiosa del popolo, sulla disciplina degli ordini monastici, soggetti alle regole benedettina o agostiniana. Il concilio prescrive ancora, tra l'altro, l'obbligo della confessione al proprio sacerdote almeno una volta l'anno, e della comunione nel tempo pasquale. Infine, il papa bandisce una nuova crociata.
Ma se la crociata degli eserciti fallisce, incomincia ora, con l'ordine francescano, la crociata missionaria. Con S. Francesco, quel principio dell'assoluta povertà di cui gli eretici s'erano serviti per la loro propaganda antiecclesiastica viene non solo proclamato, ma attuato, nel seno della Chiesa e da uomini che in primo luogo inculcano l'ubbidienza al pontefice. Alla predicazione tra il popolo v'è già chi provvede. E la gloria del pontificato d'Innocenzo III è appunto il sorgere dei due ordini mendicanti, domenicano e francescano, con i quali, e soprattutto col secondo, la Chiesa ritrova il contatto diretto col popolo; gloria di questo papa, in cui s'è visto forse troppo esclusivamente il politico e il giurista, l'aver saputo intuire la forza e la tenacia di Domenico di Guzmán, l'aver porto benigno orecchio al figlio di Pietro Bernardone d'Assisi.
Da Onorio III a Innocenzo IV (1216-1254). - Con i successori d'Innocenzo III, il contrasto con l'Impero, che è questione di principî, si estrinseca sempre più in forme politiche. Il papa è diventato ormai anche un sovrano temporale, e la sicurezza del suo dominio e dello stato appaiono condizioni indispensabili al libero esercizio della sovranità spirituale. Ma anche il centro dell'azione di Federico II è in Italia. Assicurata l'elezione canonica dei vescovi, imposto un più alto livello di moralità al clero e rintuzzati gli eretici, i pontefici mirano a stabilire un equilibrio politico e ad assicurare l'indipendenza dello stato papale staccando il regno meridionale dall'Impero (dove i principi laici, d'altra parte, si fanno sempre più potenti, a danno dei vescovi, mentre si destano a nuova vita le città). E ancora si tratta di consolidare i principi latini e la chiesa latina in Oriente, contro musulmani e Bizantini a un tempo. A quest'azione in Oriente serve come punto d'appoggio il regno dell'Italia meridionale; che, anche per questa ragione, importa tener distinto dal regno di Germania. Le energie del papato si concentrano perciò nella lotta contro Federico II: contrasto d'importanza capitale per i comuni italiani, che vogliono guadagnarvi libertà, influenza politica, estensione di traffici e dominio delle vie; mentre, appunto per questo, si combattono tra loro, come si combattono nell'interno del comune partiti e classi sociali, presentandosi come guelfi e ghibellini, partigiani del papa e dell'imperatore.
La Germania partecipa a questa lotta solo in quanto le conseguenze che essa ha per l'imperatore interessano i principi territoriali. Il re di Francia ne approfitta, ché l'Impero non può agire all'esterno, per rafforzare il potere monarchico perfezionando l'amministrazione, estendendo gradatamente il suo potere nel Sud, combattendo quel suo incomodo e riottoso vassallo che è il re d'Inghilterra; Enrico III, a sua volta, è assorbito, nell'interno del regno, dalle lotte con i baroni e il parlamento. L'elemento inglese si rifà luce, e si prepara la resistenza al papa, sotto Edoardo I.
Onorio III (1216-1227) succede a Innocenzo III, ma solo in parte alla sua grandezza politica. Esige da Federico II il mantenimento dell'impegno di staccare il regno di Sicilia dall'impero e riprende l'idea della crociata. Ma Federico II non si mosse e la crociata organizzata dal papa, quella cui partecipò, predicando, san Francesco, si risolse in un disastro.
Gregorio IX (1227-1241) è papa di ben altra energia che il predecessore. Il protettore dei Minori, che diede loro la regola definitiva, è, come papa, il codificatore delle Decretali e l'organizzatore dell'università parigina (1231); ammette l'aristotelismo ma purgato e corretto a servizio della teologia, è il primo organizzatore dell'inquisizione regolare (1229). Egli impone a Federico la partenza e, quando le navi ritornano in porto, ritiene l'asserita malattia un pretesto e non minaccia più: scomunica. L'imperatore scomunicato parte (1228) e non combatte, non si contenta neppure di predicare, a dir vero, come san Francesco; ma tratta. Se scopo della crociata è procurare ai pellegrini il libero accesso ai Luoghi santi, egli l'ottiene. E ritorna in Italia, dove al papa non resta che perdonar Federico e concludere una pace non svantaggiosa, abbandonando i Lombardi al loro destino.
Gli avvenimenti di Germania ritardano ancora la lotta contro i Comuni, ai quali il papa si associa nuovamente: fatte collegare insieme anche Genova e Venezia, scomunica l'imperatore per la seconda volta (20 marzo 1239) e convoca un concilio solenne. La sconfitta della flotta genovese che trasporta i prelati (3 maggio 1241) impedisce che il concilio si tenga e Federico assedia Roma, dove Gregorio IX muore, il 21 agosto 1241. Celestino IV, eletto il 25 ottobre, muore dopo 16 giorni di pontificato e solo 18 mesi e mezzo dopo, il 24 giugno 1243, viene eletto Innocenzo IV (1243-1254).
È il degno successore dell'indomito Gregorio. Rifugiatosi a Lione, vi bandisce il concilio (XIII ecumenico, 1245) dove al fianco del papa presidente siede l'imperatore latino di Costantinopoli, Baldovino II. È un colpo di più al prestigio dello scomunicato Federico, pur difeso da Taddeo di Suessa. Il concilio lo depone; in Germania, benché i signori laici non l'abbandonino, gli è sollevato contro l'antiré Enrico Raspe, quindi, con minor seguito, Guglielmo d'Olanda. In Francia, la nobiltà è irritata dai provvedimenti finanziarî della curia. In Italia la guerra continua, insomma la partita sembra tutt'altro che perduta per Federico; ma il 13 dicembre 1250, a Ferentino di Puglia, egli muore, lasciando Enzo nella prigione di Bologna, Manfredi a sostenere in Italia l'onore della casa sveva e della causa ghibellina, e in Germania Corrado IV, che muore nel 1254, come il papa.
Da Alessandro IV a Bonifacio VIII (1254-1294). - L'Impero resta vacante; e Manfredi, capo del partito ghibellino in Italia, riesce a sbarazzarsi di ogni avversario nel Regno; ma alla morte di Alessandro IV (1254-1261) il famoso conclave di Viterbo elegge il francese Urbano IV (1261-1264) che, incapace anche lui di sostenersi a Roma, cerca contro i ghibellini l'aiuto della monarchia francese e accorda a Carlo d'Angiò l'investitura del Regno di Sicilia. La morte impedisce a questo papa, sollecito del culto del sacramento eucaristico, di vedere realizzato il suo piano, ripreso dal successore Clemente IV (1265-1268), francese anch'egli, sotto il quale avvengono e la battaglia di Benevento e la decapitazione di Corradino. Egli cerca di aumentare ancora le risorse finanziarie della curia, ormai sempre bisognosa di denaro, vede i Paleologi da Nicea avanzare alla riconquista dell'impero di Bisanzio; spinge Luigi IX di Francia e Edoardo I d'Inghilterra all'ultima crociata, che finisce miseramente sulle rovine di Cartagine e a S. Giovanni d'Acri (1270-71).
A Gregorio X (1271-1276) il pensiero della crociata e la ricerca di chi la guidi fa risorgere nell'animo l'ideale dell'impero, vincolo morale e politico tra i popoli dell'Europa, esecutore della volontà della Chiesa. Poiché tra i varî pretendenti nessuno gli sembra accettabile, il papa si rivolge ai principi elettori ai quali la Chiesa, si dice, ha delegato il proprio diritto di nomina: il 1° ottobre 1273 è scelto Rodolfo d'Asburgo, il quale, come i suoi successori immediati, si disinteressa dell'Italia.
Qui, la potenza di Carlo d'Angiò è ormai pericolosa per il papa, malsicuro nella stessa Roma, dove pure Gregorio X è ritornato. E un altro pericolo, dopo il ritorno dei Paleologi a Costantinopoli, è rappresentato dalle ambizioni dell'Angioino in Oriente. Ma nel II concilio di Lione (XIV ecumenico, 1274) avviene la riconciliazione fra le due Chiese. Michele Paleologo riesce a far accettare il primato romano, il diritto di appello al papa, la menzione di lui nella liturgia; nella quarta sessione del concilio, il 6 luglio, è proclamato il ritorno della chiesa di Costantinopoli all'unità cattolica e all'obbedienza del pontefice; i Greci si associano al canto del Credo con il Filioque. Nelle sessioni precedenti si era trattato di materie disciplinari e del conclave per l'elezione del papa. Poi, si pensa alla crociata. Il papato è all'apice della sua potenza,
Ciò nonostante, le vecchie ragioni di dissenso politico risorgono presto, e la rapida successione di tre papi (Innocenzo V, Adriano V, non consacrato né incoronato, Giovanni XXI) in meno di due anni impedisce che si provveda. Gli altri pontefici non durano neppur essi molto a lungo, e mostrano il contrasto che regna nel collegio dei cardinali, tra il partito francese e i rappresentanti del patriziato romano. Nicolò III, cupido di far prosperare i suoi "orsatti" (così Dante, Inferno, XIX, 71), ottiene che Carlo rinunci al vicariato di Toscana, dove colloca un legato papale; Martino IV (1281-1285), Onorio IV (1285-87) e Nicolò IV (1288-1292) vedono la guerra del Vespro. L'ultimo di essi, francescano, tenta invano di suscitare una crociata.
Il conclave di Perugia gli dà come successore l'eremita Pietro del Morrone. È il semplice e spirituale Celestino V (5 luglio-13 dicembre 1294), che tra l'altro protegge e riorganizza la sua comunità dei "celestini", ma diventa presto facile preda della politica di Roberto d'Angiò. Poi abdica, e riesce eletto Benedetto Caetani.
Bonifacio VIII (1294-1303). - Questo papa, fatto segno alle invettive degli spirituali, come Iacopone da Todi, irritati per la revoca delle misure prese da Celestino V plenitudine simplicitatis e per l'imprigionamento di lui nel castello di Fumone, riprende il programma di Gregorio VII e d'Innocenzo III, con energia paragonabile alla loro e in tempi tanto più difficili. Basterà menzionare qui, nella maniera più succinta, gli avvenimenti più memorabili del suo pontificato, dalla lotta contro i Colonna al Giubileo del 1300, dalla sua politica nei riguardi degli Angioini di Napoli e degli Aragonesi di Sicilia al contrasto con Edoardo I d'Inghilterra e a quello celeberrimo con Filippo IV di Francia; allo "schiaffo di Anagni" il papa sopravvive appena.
Organizzazione. - Se la Chiesa antica è principalmente cittadina, quella del Medioevo è invece, in prevalenza, Chiesa di campagna. Non che le città non sopravvivano, specialmente in Italia e che non ne sorgano anche di nuove; ma il carattere stesso della società feudale conduce alla fondazione di chiese nei possessi rurali, e la lotta delle investiture non riguarda esclusivamente i vescovati. Abbiamo assistito agli sforzi del papato per garantire la libertà delle elezioni ed estinguere la simonia. La lotta stessa conduce a un rinsaldarsi della gerarchia, onde sono sottoposte al vescovo le parrocchie rurali e dei villaggi e quelle cittadine, sorte nei varî quartieri, intorno alla cattedrale; e sottoposti i singoli vescovi al loro metropolitano, che è legato papale. Cosi l'ingerenza del papa nella nomina dei vescovi si fa sempre maggiore.
A questa estensione di poteri corrisponde il moltiplicarsi delle funzioni e degli uffici della curia romana. E si cominciano a distinguere i cardinali di curia da quelli ai quali la dignità è stata conferita per onorarli, ma che non per ciò cessano d'essere vescovi d'una diocesi e la cui ingerenza negli affari d'ordine pratico è certo molto minore. Si formano le congregazioni, si organizza in Roma la cancelleria papale e la Dataria; il camerlengo e l'ufficio della "camera apostolica" accentrano nelle proprie mani l'amministrazione finanziaria. Occorre chi riferisca intorno agli appelli che vengono presentati e si dà forma a quel tribunale che sarà poi la Sacra romana rota.
Anche tra il clero regolare i principî dell'organizzazione e della gerarchia fanno progressi. Le vocazioni per le antiche forme di vita monastica diminuiscono, i cisterciensi vedono la loro propagazione rallentarsi; si diffondono invece e crescono rapidamente di numero i frati mendicanti, alle cui prediche il popolo accorre in massa. Si stabiliscono nelle università: anche l'ordine francescano si volge all'alta cultura e all'insegnamento teologico superiore e, nonostante le lotte interne tra gli spirituali e coloro che vogliono un'interpretazione meno rigida della regola (più oscura e difficile a intendersi storicamente è, fra le due correnti, la figura di frate Elia), continua a fiorire e invia missionarî fino in Cina, dove Giovanni da Corvino è consacrato vescovo di Pechino.
All'affermazione vittoriosa del papato e al rinsaldarsi dell'organizzazione procede parallelo lo sviluppo del diritto canonico; a Bonifacio VIII spetta la pubblicazione del Libro sesto, che completa le Decretali di Gregorio IX, glossate e commentate dai "decretalisti", mentre i "canonisti" o "decretisti" illustrano l'opera di Graziano. Il diritto della Chiesa si contrappone a quello degli Stati. La bolla Dolentes, di Innocenzo IV (1254), prova il mutamento subentrato dai tempi dei regni barbarici, quando i chierici, a qualunque nazione appartenessero, volevano vivere secondo il diritto romano: il papa vieta, eccetto che in Italia, d'insegnare le leggi secolari, si tamen hoc de regum et principum processerit voluntate. Già Onorio III (bolla Super speculam, 1219) deplora che si trascurino le scienze sacre.
La cultura. - Eppure gli studî fioriscono. Osteggiato o guardato dapprima non senza sospetto, l'aristotelismo è entrato ormai in tutte le università, a servigio della teologia, modiflcandone l'esposizione. È l'epoca aurea della teologia, regina delle scienze, quella che va da Alberto Magno a s. Tommaso d'Aquino, da Alessandro di Hales a S. Bonaventura, da Ruggiero Bacone a Giovanni Duns Scoto. Non è questo il luogo in cui si possa tentar di delineare, sia pure sommariamente, il carattere del grande sforzo medievale di dare una sistemazione delle scienze e una risposta ai massimi problemi (v. scolastica): basti l'averlo ricordato e il segnalare ancora come non manchino maestri eterodossi e specialmente l'averroismo perduri, in qualche centro, nonostante le condanne. Fiorisce in Germania la mistica speculativa di dubbia origine di maestro Eckhart (v.), del quale Giovanni XXII dovrà condannare 28 proposizioni riconoscendo insieme la sua sottomissione alla Santa Sede, e quindi quella di Taulero, del beato Susone, di Ruysbroeck; in Italia, quella della beata Angela da Foligno e quindi del beato Giovanni Colombini. E in Italia, la letteratura ascetica vanta i nomi dei domenicani Giordano da Ripalto, Jacopo Passavanti, Domenico Cavalca. Risuonano per le campagne e le città dell'Umbria e della Toscana le laudi delle compagnie di disciplinati; non mancano manifestazioni escatologiche eterodosse che si possono ricondurre alla predicazione di Gioacchino da Fiore e troveranno espressione ancora a mezzo il sec. XIV; l'Italia settentrionale vede i discepoli del Segarelli e di Fra Dolcino, in attesa che sia contro di loro bandita la crociata. Ma il popolo fedele accorre ad ascoltare la predicazione in volgare e a leggere le versioni volgari della Bibbia, assiste in folla alle sacre rappresentazioni, riempie le grandi cattedrali gotiche; alla liturgia che s'arricchisce e si fa più espressiva, anche teologi quali Tommaso d'Aquino e Bonaventura da Bagnorea recano il loro contributo. Per contro, spunta già una cultura di miscredenti scettici, che nella corte di Federico II ha il suo centro più noto.
La Chiesa da Bonifacio viii alla riforma protestante.
L'epoca dei papi di Avignone. - Il papato. - Nonostante qualche tentativo francese di sua rivalutazione, è da ritenersi definitivo il giudizio della storia, che considera questo come un periodo di decadenza e di umiliazione per la Chiesa, sopra la quale non poteva in qualche modo non riverberarsi quel cotale asservimento del suo capo visibile a un particolare Stato.
La politica cosiddetta di pacificazione propria del breve pontificato di Benedetto XI (1303-13) rappresenta già la prima fase dell'umiliazione pontificia. All'indomani dello schiaffo di Anagni, è l'assoluzione generale da tutte le scomuniche incorse dai mandatarî di Filippo il Bello (il solo Nogaret escluso), il rinnovamento di tutti i privilegi della corona di Francia. Clemente V (1305-1314) nel 1309 si fissa ad Avignone, e l'anno di poi si lascia piegare ad aprire il processo di eresia contro la memoria di Bonifacio VIII: lo condurrebbe forse a termine se nel 1311 Filippo il Bello non preferisse rinunciarvi, ottenendo dal pontefice un riconoscimento della buona fede e delle buone intenzioni che animarono lui ed i suoi amici. Ma la pagina più triste del pontificato di Clemente V rimane sempre il processo dei Templarî: umiliazione dell'autorità ecclesiastica, che lascia il posto alla secolare in un processo contro un ordine religioso, per accuse inerenti alla fede e al costume; umiliazione del papato, che sopprime l'ordine senza condannarlo, né sentirne i rappresentanti, sotto la minaccia del re di Francia, non osando neppure impedire l'audace speculazione finanziaria del re, che si dichiara creditore e si fa pagare dall'ordine degli Ospedalieri di S. Giovanni prooclamato erede; pagina atroce per l'abuso di torture e roghi.
Il papato rimasto deserto un biennio nelle contese di un interminabile conclave, risolleva le proprie aspirazioni, durante i 18 anni del pontificato di Giovanni XXII (1316-34); ha un accorto politico in Clemente VI (1342-52), che fa concludere la tregua tra Francia e Inghilterra (1343), e trova a Lodovico il Bavaro un rivale in Carlo di Lussemburgo; perde anche le ultime vestigia del suo diritto di supremazia sull'Impero allorché con la bolla d'oro del 13 gennaio 1356 Carlo IV, da men d'un anno coronato a Roma, trasporta esclusivamente a sette elettori il diritto di elezione dell'imperatore, non parlando né di conferma del pontefice né di suo diritto alla nomina di vicarî all'Impero vacante.
Urbano V (1362-1370) si porta a Roma (1368), ma nonostante le preghiere dei Romani e di S. Brigida ritorna dopo meno di tre anni alla patria francese; Gregorio XI (1370-1378), francese anche lui, dopo tre ambascerie dei Romani e le preghiere di S. Caterina da Siena, eseguisce finalmente il proposito concepito nel momento della sua elezione e il 17 gennaio 1377 ritorna in Roma. Con lui dunque ha termine il periodo avignonese; ma il valore nazionale italiano della figura del pontefice è diminuito dal ricordo della sua lotta contro Firenze, dello strazio operato dai mercenarî del cardinale Roberto da Ginevra là dove non potevano le armi spirituali.
Eresie e controversie dogmatiche. - L'ordine francescano, così attivo nel sec. XIII, nel secolo seguente si mantiene sul primo piano, e ciò che dà maggior risalto al quadro delle controversie dogmatiche è ancora l'inquietudine di quella minoranza di francescani cne mentre vuol essere più prossima alle idealità del fondatore, e professa di proseguire il suo ideale di povertà e di purezza,non sente tuttavia il precetto, che pur si legge nel testamento di S. Francesco, di obbedienza alla suprema autorità della Chiesa.
Il concilio di Vienna, mentre condanna gli errori dei begardi e delle beghine di Germania (l'uomo perfettamente affrancato da ogni regola morale: affermazione non nuova, che ancora molte volte la Chiesa dovrà colpire), condanna gli errori dogmatici dei fraticelli: che il battesimo cancelli il peccato originale ma non infonda la grazia; che ogni uomo sia costituito da una forma (principio di attività) vegetativa e sensitiva, e un unico intelletto e anima ragionevole informi il genere umano (teoria di derivazione averroista).
Ma è alla corte di Ludovico il Bavaro che si raccolgono gli spirituali ribelli capeggiati da Guglielmo Occam, uno dei più arditi polemisti del secolo in difesa della sovranità statale e per l'abbassamento del papato (Clemente VI però ne otterrà la sottomissione). L'imperatore fa acclamare, in Roma, il 12 maggio 1328, l'antipapa Nicolò V (Pietro da Corbaria, francescano). Occam insegna che la legge cristiana è legge di libertà: papa e concilio sono fallibili: il privilegio dell'infallibilità copre soltanto la Scrittura e i dogmi accettati dall'universalità dei fedeli. Ma dove meglio fa mostra di sé la tradizione degli spirituali francescani è nella questione della povertà; nell'affermazione che assolutamente nulla possedessero Cristo e gli apostoli, che assolutamente nulla deve possedere il francescano, e che in questo totale spossessamento sta la pienezza della perfezione evangelica. La teoria inoltre viene a contenere un'implicita riprovazione a quei capisaldi della struttura sociale che la Chiesa ha ognora protetto: onde venne la condanna, pronunciata con la Cum inter nonnullos del 12 novembre 1323, in cui si dichiara eretica l'affermazione che Gesù e gli apostoli non disponessero delle cose menzionate come loro dalla Scrittura.
Papato e Impero. - I rapporti fra papato e Impero hanno a momento culminante la lotta fra Giovanni XXII e Lodovico il Bavaro, che dànno occasione a una gran fioritura di scritti polemici, attraverso i quali le correnti antiecclesiastiche del pensiero medievale si ricollegano a quelle analoghe del pensiero moderno.
Il papa impone la rinuncia all'Impero a Lodovico il Bavaro, che col manifesto di Sachsenhausen accusa il pontefice di eresia e usurpazione dei diritti dei principi elettori. Le ragioni del papa sono sostenute dallo spagnolo Alvaro Pelayo e dall'italiano Agostino Trionfo, che riaffermano nel pontefice il padrone assoluto dell'universo, senza limitazione di poteri. Delle opere dovute ai fautori di Ludovico il Bavaro resta la più famosa il Defensor pacis di Marspiana la via a tutte le tesi antipapali, di esaltazione della supremazia statale, di attacco ai principî di rigida disciplina e di accentramento monarchico della Chiesa. Ma naturalmente non è sorta dal nulla; il suo presupposto, una coscienza nazionale e più ancora statale, che scorge nello Stato il fine ultimo, già si trova nella Francia di Filippo il Bello, affiora in Pietro du Bois, in Pietro Flote, in Guglielmo di Nogaret.
Il sentimento europeo e la Chiesa. - I segni d'una mentalità nuova, i primi chiarori del Rinascimento, non si scorgono che a stento in quest'epoca, e piuttosto negli uomini di lettere e in qualche scrittore politico, che non nelle masse. In gran parte d'Europa, in tutto il Nord, a lungo ancora rimarranno immutate le caratteristiche del Medioevo. Le preoccupazioni religiose, pur nella loro forma prettamente medievale (così la passione per le controversie teologiche, che riesce ad infiammare vaste cerchie), hanno ancora il primo posto. Pure in Cola di Rienzo sarebbe difficile dire se più prevalgano le visioni della classicità o i sogni dei fraticelli, di cui si è compenetrato nel monastero di Monte Maiella.
Come già due o tre secoli innanzi, malgrado la forte fede religiosa, l'opinione pubblica non resta indifferente a quelli che le sembrano abusi della prima sede. Sorgono e si sviluppano nel sec. XIV le questioni che possiamo chiamare finanziarie. Nel 1319 sono istituite per il periodo di tre anni, e poi sempre rinnovate, le annate, cioè il prelevamento a favore delle necessità della Santa Sede dei frutti del primo anno di un beneficio vacante: e l'istituzione, come sempre avviene in cotal genere di provvedimenti, è subito impopolare. Le esigenze di denaro dei papi destano dappertutto malcontento: l'accennata bolla d'oro di Carlo IV è appunto un'eco del sentimento tedesco; l'Inghilterra, invitata da Urbano V a pagare l'annuo tributo promesso da Giovanni senza Terra e da molti anni non più corrisposto, rifiuta: Edoardo II investe della questione il parlamento (1367), che giudica nullo l'impegno di Giovanni.
Il grande scisma. Papi, antipapi, concilio. - Urbano VI (1378-1389), il primo papa eletto dopo il periodo avignonese (e l'ultimo papa preso fuori dal collegio dei cardinali), il primo italiano dopo sette francesi, volle riformare con grande rudezza, abbattendo la simonia, l'abuso delle pensioni, reprimendo la deserzione delle sedi da parte dei vescovi, il lusso dei cardinali: e non nascose il suo intento di rendere impossibile un ritorno dei papi ad Avignone col rafforzare l'elemento italiano nel sacro collegio. Da qui la rivolta dei cardinali francesi, l'inizio dello scisma con l'elevazione ad antipapa (Clemente VII) del cardinale Roberto di Ginevra.
Ma nella storia della Chiesa il grande scisma ha caratteristiche peculiari. Non mancano infatti scrittori di perfetta ortodossia cattolica, particolarmente i Francesi, portati a esaltare le figure degli antipapi avignonesi, i quali ritengono sia improprio in questo caso il nome di scisma, trattandosi piuttosto di errore di persona del vero pastore, giacché papa ed antipapa avevano entrambi un "titolo colorato". Ciò è invero discutibile, se si guarda alle origini dello scisma e alla regolarità dell'elezione di Urbano VI. Certo si è che la Chiesa cattolica ha concesso gli onori degli altari - riconoscendone pertanto invincibile l'errore - a partigiani degli antipapi (S. vincenzo Ferrer, il beato Pietro di Lussemburgo, Santa Coletta) e ha considerato questo del grande scisma come un peculiarissimo periodo, durante il quale, necessitate ipsa impellente, poterono ritenersi per buoni e validi istituti, principî giuridici, ecc., poi condannati (in particolare, i poteri assunti dal concilio di Costanza).
Il grande scisma segnò certo un arresto temporaneo, nulla più, in quella progressiva affermazione dell'autorità pontificia di fronte a tutti gli organi della Chiesa, in quel diretto assoggettamento e intima sottomissione di tutti i vescovi al papa, che è il tratto saliente della storia della Chiesa nell'età moderna.
Invero si diffonde e diviene in questo periodo generale l'idea che il concilio ecumenico sia l'organo supremo della Chiesa, e abbia quindi un potere sul papa: teologi pii, come Pietro d'Ailly e Giovanni Gerson, propendono a credere che la costituzione essenziale e imperitura della Chiesa poggi sull'insieme dei fedeli rappresentati dal concilio, e che la subordinazione della Chiesa al papa rappresenti un fatto contingente (teoria conciliare: di cui sono assertori il cardinale Zabarella, Corrado di Gelnhausen ed Enrico di Langenstein). Ma la teoria conciliare dà luogo a dottrine diverse; per d'Ailly il concilio non è infallibile, mentre è tale per lo Zabarella; Gersone vuole ammettervi anche i parroci, e fa posto nella universalità della Chiesa all'autonomia delle chiese nazionali.
Fra le controversie dei canonisti, l'opinione cattolica deplora universalmente lo scisma e ne invoca la cessazione.
Il concilio convocato a Pisa dai cardinali si riunisce il 25 marzo 1409, malgrado l'opposizione del papa Gregorio XII e dell'antipapa Benedetto XIII: li dichiara decaduti entrambi, ed elegge Alessandro V, cui succede nel 1410 l'ispiratore del concilio, il cardinale Baldassarre Cossa (Giovanni XXIII). L'imperatore Sigismondo convoca per il 1° novembre 1414 il concilio a Costanza, e Giovanni XXIII lo indice e lo inaugura.
Nel 1415 il concilio afferma la propria superiorità sul papa, dichiara di tenere immediatamente da Dio il suo potere, depone Giovanni XXIII e Benedetto XIII. Gregorio XII convoca il concilio per legittimarlo, e si dimette; il 14 novembre 1417 è eletto papa Martino V (il cardinale Ottone Colonna) che può dirsi il papa della cattolicità pacificata, quantunque Benedetto XIII non ceda e morendo (1422) cerchi ancora prolungare lo scisma, sicché sino al 1429 si ha un antipapa sostenuto dal solo Alfonso d'Aragona.
Le eresie. - Nel periodo del grande scisma si spargono le dottrine dei fraticelli, aspiranti a un cristianesimo senza templi, senza clero, senza liturgia; nell'Europa centrale sorgono profeti e serpeggia un movimento spiritualista diretto a ridurre il clero alla povertà evangelica e le doltrine valdesi penetrano nella Germania meridionale, nei paesi renani, e si diffondono in tutta la Germania e sino in Prussia, Polonia, dominî austriaci.
Ma questo periodo vede anche due forti distruttori nel campo della teologia, due negatori del dogma cattolico, a ragione additati come precursori della Riforma: Giovanni Wicleff e Giovanni Hus.
Il primo insegna nel Trialogus (1383) che gli effetti dei sacramenti sono dovuti soltanto ai meriti delle persone che li ricevono (negazione dell'efficacia ex opere operato): che ogni superiore ecclesiastico o temporale in stato di peccato mortale decade dalla sua autorità: che ogni cosa avviene per necessità e la libertà è mera illusione, posto che la nostra sorte è già predestinata: che la Chiesa, rappresentata dalla comunione (interiore) dispersi; egli nega la tradizione: nega come sacramenti la cresima, la confessione, l'estrema unzione, l'ordine sacro: non riconosce le indulgenze: vuole la Chiesa ridotta alla primitiva povertà. La sua dottrina energicamente repressa nei suoi discepoli (Lollardi), ma si è già diffusa in Inghilterra e in Boemia. Giovanni Hus s'inspira alla dottrina di Wicleff: nessun intermediario tra Cristo e l'uomo, nessuno ha diritto di comandare se non è senza peccato. Viene a Costanza con un salvacondotto dell'imperatore Sigismondo, ma il 6 agosto 1415 è condannato come eretico, degradato, consegnato al braccio secolare e bruciato (a giustificazione si addurrà che il salvacondotto lo preservava soltanto contro ogni violenza arbitraria). Le sue dottrine rimarranno sempre diffuse tra i cèchi dissidenti da Roma, che ancora ne venerano ed esaltano la memoria.
I riformatori. - Nel generale disordine del periodo è sempre viva l'aspirazione a un miglioramento dei costumi, a una riforma del clero, a un'eliminazione degli abusi dell'episcopato.
In Italia è particolarmente insigne l'opera rivolta a riaccendere il fervore religioso, a esaltare il culto del nome di Gesù, svolta da S. Bernardino da Siena. Tra quanti operarono per la riforma della vita regolare, è da ricordare l'olandese Gerardo Groot (1340-84) fondatore dei "fratelli della vita comune"; S. Francesca Romana, popolarissima in Roma, nel 1425 v'iniziò la congregazione delle oblate di Tor de' Specchi.
Tutto il Quattrocento del resto vede tra i domenicani e i francescani insigni predicatori, che riscuotono l'ammirazione delle folle, convertono peccatori famosi, pacificano fazioni avverse. I più celebri furono, nell'epoca immediatamente successiva a questa, i minori S. Bernardino da Siena e S. Giovanni da Capistrano.
Martino V (1417-1431). - Martino V dovette attendere tre anni dalla elezione per poter entrare in Roma (30 settembre 1420). La necessaria opera di rinsaldamento del dominio temporale, quella di miglioramento delle sorti di Roma, la costituzione di un esteso dominio feudale dei parenti Colonna, distrassero dalla riforma il pontefice, intento del resto con vigile cura alla difesa delle immunità ecclesiastiche come alla repressione dell'eresia boema.
Peraltro la riforma, la limitazione dei bisogni dell'alto clero e della curia romana, e pertanto l'attenuazione o l'eliminazione dei tributi ecclesiastici, costituivano il grande desiderio del tempo. Molti l'attendevano dal concilio ecumenico, da cui era già uscita la cessazione dello scisma. Martino V, nonostante ondeggiasse dubbioso circa l'opportunità di convocare un concilio, obbedendo a una deliberazione di Costanza, indisse un concilio a Pavia nel 1423, indi, sopravvenuta la peste, lo trasferì a Siena e lo sciolse. Con chiaroveggenza, ebbe invece fede nei concordati: ne conchiuse uno senza limite di tempo con l'Inghilterra, e altri per la durata di 5 anni con la Francia, la Germania e la Spagna.
Eugenio IV (1431-1447). - Eugenio IV, illibato, non nepotista, ebbe agitato e infelice il principato politico come quello religioso. Il primo vide l'invasione del Fortebraccio, la rivoluzione del maggio 1434, la fuga del pontefice a Firenze: ed ebbe fosche pagine, la decapitazione di Giacomo da Vico, Palestrina distrutta, Zagarolo rasa al suolo, la prigionia e la misteriosa uccisione di Giovanni Vitelleschi. Il secondo sperimentò il ribelle atteggiamento dei conciliarî di Basilea, i quali, aderendo a tendenze antipapali, non tennero conto dello scioglimento del concilio, ingiunto dal pontefice; il che non permise a Eugenio di riconoscerlo come legittimo.
Il concilio di Basilea e il risorgere dello scisma. - Si ridestarono le non mai spente nostalgie avignonesi del clero di Francia. L'arcivescovo d'Arles, il beato card. Luigi Aleman, era l'anima del concilio; ma si staccavano dal papa per aderire ai Padri di Basilea anche cardinali italiani e spagnoli, il Capranica, Brando, Cervantes, Roccatagliata; dotti prelati, come Nicolò da Cusa ed Enea Silvio Piccolomini, difendevano i diritti e le ragioni del concilio. Questo, mentre confermava i decreti sulla sua superiorità, sopprimeva (9 giugno 1435) le annate e tutte le tasse pagate alla Santa Sede. Eugenio IV, che aveva intanto dovuto riconoscere la regolarità del concilio, da Firenze protestava contro il grave colpo recato all'economia della Santa Sede con la soppressione di ogni tributo, e il 18 settembre 1437 ordinava la traslazione del concilio a Ferrara.
Si iniziava allora il periodo più drammatico, il risorgere dello scisma. Gran parte dei componenti il concilio, sostenuti dal re d'Aragona e dal duca di Milano, non lasciavano Basilea; anzi dichiaravano contumace il papa, il 26 giugno 1438 lo deponevano e l'8 luglio nominavano pontefice Amedeo di Savoia (Felice V).
Ma gli appoggi ai basileesi scemavano man mano; Francia ed Impero, dapprima neutrali, si schierarono per Eugenio IV; le figure più eminenti del concilio, Nicolò da Cusa ed Enea Silvio Piccolomini, rifuggivano dall'antipapa. Nel 1448 Federico III cacciava da Basilea i Padri, che si ritirarono a Losanna; nel 1449 Felice V abdicava, e il concilio gli nominava come successore Nicolò V; con ciò il concilio finiva.
Le "compattate" di Praga. - I Padri di Basilea riuscirono ad addivenire ad un compromesso con gli ussiti moderati di Boemia, stabilendo nei compactata di Praga nel 30 gennaio 1433 l'uso del calice per quanti ricorioscessero la presenza reale sotto ciascuna delle due specie, la punizione dei peccati mortali pubblici dal potere civiltà (gli ussiti chiedevano la punizione di tutti i peccati mortali), la libertà di predicazione, purché sotto la vigilanza dei vescovi, il diritto della Chiesa di possedere (negato dagli ussiti intransigenti). Il papato tollerò per circa 30 anni le compattate, ma non le sanzionò mai.
La riunione con gli orientali. - Uno dei fattori che valse a rialzare l'autorità del papa, scosso dal dissenso con i Padri di Basilea, fu la riunione con le chiese orientali. Giovanni VII Paleologo giungeva a Venezia il 28 febbraio 1438; attraverso complicate trattative svoltesi a Ferrara e a Firenze si giunse a un atto di unione promulgata il 6 luglio 1439. Ma il sentimento generale greco era quanto possibile ostile ai latini: l'unione non restò che sulla carta: gli stessi principali Greci venuti in Italia ritornarono allo scisma. L'unione non ebbe effetto gran che migliore per quanto tocca la Russia; il metropolita Isidoro, che ritornava come cardinale e legato del Settentrione, fu posto in carcere: all'unione aderì soltanto Kiev e le diocesi suffraganee, non Mosca. Il 22 novembre 1439 veniva conchiusa l'unione con gli Armeni, il cui decreto è notevole per la dottrina dei sacramenti che esso contiene; nel 1443, con una parte dei giacobiti; subito dopo con i maroniti e i caldei.
La Chiesa nel primo Rinascimento. - La seconda metà del Quattrocento è contrassegnata nella storia della Chiesa dal rafforzarsi della posizione dei papi, anche per i valorosi campioni del loro primato che scendono nella polemica letteraria: dalla preoccupazione per i continui progressi dei Turchi e dall'incessante sforzo dei papi per riunire in una crociata le forze europee, sforzo la cui inefficacia mostra l'attenuato senso religioso, la fine delle aspirazioni cavalleresche che in altri tempi tanto avevano potuto: dal successo sia pur parziale del papato sullo spirito di autonomia diffuso nel clero di molte nazioni, e dalla politica di accordi con gli stati: dal penetrare della cultura e delle forme classiche nella vita della Chiesa, e dalla progressiva decadenza dei costumi, notevole nella stessa curia romana.
Cresciuta autorità del papato. - Al rafforzamento della posizione della Santa Sede giovano uomini di penna e uomini d'azione. Giovanni di Torquemada, con la Summa, Roderico Sancio, Pietro del Monte, vanno ricordati per i loro scritti: mentre Nicolò da Cusa e S. Giovanni da Capistrano furono pensatori e scrittori, e al tempo stesso riformatori del clero, dei conventi, del popolo, nelle loro legazioni e missioni europee. Ma giova pure quello stesso asservimento del clero al monarca che si verifica in tutti gli stati dove il potere centrale continua a rafforzarsi, asservimento che avrebbe potuto costituire un pericolo per il papato: di fatto, si mostra ognor più palese l'impossibilità di organi ecclesiastici di governo universale della Chiesa diversi dal papato, l'impossibilità che i concilî, non retti dal papa, siano altro che una gara di supremazia tra le corone: dilemma per cui o la Chiesa deve mantenere e rafforzare la sua costituzione monarchica tutta imperniata sulla persona del papa, o scindersi in una serie di chiese nazionali tra cui i legami si attenuerebbero sempre più, mentre forse sparirebbe l'unità della dottrina.
Questa evidenza spiega come vengano ormai meno tra gli avversarî della supremazia del papa sui concilî quelle figure di cattolici pii, quali un Gersone o un Aleman, il cui dissenso proveniva in gran parte dallo scisma degli antipapi, non dall'avversione al papato, e alla cui memoria anche i cattolici più ortodossi s'inchinano.
Vani sforzi per la crociata. - La lotta contro il Turco, quale si svolge in Ungheria, nei Balcani, sul Bosforo, ha i bagliori di una grande epopea. La vittoria a Niš dell'esercito crociato del re Vladislao e di Giovanni Hunyady, le rotte di Varna (dove muoiono re Vladislao ed il cardinale legato Cesarini, quegli che era stato il saggio consigliere di Eugenio IV a Basilea) e di Kosovo (1448); la caduta e il sacco di Costantinopoli (29 maggio 1453); la vittoria cristiana a Belgrado (luglio 1456) cui segue la morte per pestilenza del grande Giovanni Hunyady e di S. Giovanni da Capistrano; le prodezze di Giovanni Castriota in Albania, e di Mattia Corvino in Bosnia; la vittoria di Stefano il grande voivoda di Valacchia sui Turchi a Rakowitz (10 gennaio 1475) sono i tratti salienti dell'epopea: cui fa singolare contrasto l'indifferenza della cristianità occidentale. Venezia, pavida, conchiude dapprima il trattato d'amicizia col sultauo (18 aprile 1454); rimane ognora riluttante a dare opera attiva alle crociate; nel 1479 con la pace di Stambul accetta la perdita di Croia, Scutari, Eubea e Lemmo. L'imperatore Federico III non si perita a portare la guerra civile in Ungheria, l'antemurale della cristianità, facendosi dichiarare re dai magnati e contrapponendosi così a Mattia Corvino. Il malvolere è dappertutto generale: ovunque il papa tenti levare tributi per la crociata, s'innalzano proteste. I papi appaiono tenaci nel loro sincero desiderio di non assistere passivi al trionfo della mezzaluna; mirabile per quanto osa e per quanto riesce con scarsi mezzi a concretare, è Callisto III; vera vittima dell'idea della crociata è Pio II che muore ad Ancona, dov'è giunto malato e sfinito, pei imbarcarsi sulla flotta veneziana e assumere la direzione della guerra santa.
Costumi del clero. - Le aspirazioni a una riforma del costume, a un'eliminazione degli abusi, non ricevono soddisfazione. Spesso i papi preparano piani di riforme, elenchi di abusi da sradicare (uno particolareggiato ne è allestito agl'inizî del pontificato di Pio II), ma nulla di notevole è mai attuato. Manca in realtà fra gli stessi alti dignitarî della Chiesa la possibilità o la volontà di un'efficace e duratura riforma.
Gli stessi papi sono lungi dall'essere perfetti: Callisto III (1455-1458) è parzialissimo per i suoi Spagnoli, e Pio II (1458-1464) per i suoi Senesi: entrambi nepotisti, e più di loro Sisto IV (1471-1484), che le avventure dei nipoti e congiunti compromettono più di una volta (clamorosamente nella congiura dei Pazzi). Sisto IV sceglie spessissimo i cardinali tra uomini di corte o d'armi, talora straordinariamente giovani. Innocenzo VIII tiene presso di sé il figlio Franceschetto Cybo, elevandolo ad alte fortune: l'elezione sicuramente simoniaca del 1492 porta al soglio pontificio Rodrigo Borgia (Alessandro VI, 1492-1503); pur depurata dalle turpitudini aggiunte dalla leggenda, la sua figura e la storia del suo pontificato sfuggono, a giudizio degli storici più devoti al papato, a ogni possibilità di riabilitazione.
Rapporti con gli Stati. - Nei rapporti con gli Stati, notevoli le alterne vicende relative alla Francia. Il successo papale del 1461, l'abolizione della Prammatica di Bourges, compiuta dal re provocando gli sdegni dei parlamenti e delle università, è presto scontato; perché, quando il re si vede deluso nella speranza che il papa si dichiari per le pretese angioine sul regno di Napoli e gli abbandoni la collazione dei più importanti benefici, fa rivivere pressoché per intero il contenuto della Prammatica con i decreti del 1463-4. Luigi XI dà opera per la convocazione di un concilio e per la contrapposizione di un antipapa a Sisto IV. In Germania i contrasti tra Niccolò da Cusa e il duca Sigismondo del Tirolo terminano in compromessi da cui non esce certo accresciuta l'autorità pontificia (1457-1464). Nella grande assemblea tenutasi a Coblenza nel 1479 dal clero delle metropolitane di Magonza, Treviri e Colonia, risuonano innumerevoli lagnanze contro i balzelli romani, i privilegi dei Mendicanti, tutti gl'istituti su cui poggia la forza materiale della Santa Sede.
Più importante, come deciso preludio della riforma protestante, il quadro delle vicende boeme: gli utraquisti appaiono sempre più saldi nella loro dottrina, e non osservano i patti convenuti con i Padri di Basilea, non la condizione accettata che i sacerdoti ricordassero ai fedeli essere Cristo presente sotto ciascuna delle due specie, non la dottrina cattolica intorno al purgatorio, all'efficacia delle preghiere pei trapassati, alle indulgenze, alle immagini.
Quando il re Giorgio di Poděbrady, desideroso di divenire re dei Romani, cerca portare il popolo all'ortodossia, freme la rivolta: e il re deve garantire il rispetto alle compattate; più tardi si dichiara solennemente utraquista. Intanto Pio II cancella e cassa le compattate, non essendo necessaria la comunione sotto le due specie (31 marzo 1462); Paolo II scioglie i Boemi dal vincolo di fedeltà al re Giorgio (8 dicembre 1465), e depone questi e i suoi successori (concistoro 23 dicembre 1466). Mattia Corvino, campione della cattolicità, rompe guerra a re Giorgio e nel maggio 1469 viene eletto re di Boemia. Ma non riesce a schiacciare gli utraquisti. Il successore di Giorgio, il polacco Vladislao, eletto re di Boemia nel maggio 1471, deve promettere di mantenere le compattate.
Il Rinascimento e il pensiero politico e filosofico. - Lo spirito del Rinascimento contribuisce alla decadenza religiosa e morale dell'alto clero e della curia romana. Con la sua rievocazione delle memorie classiche, con il suo mito del principe che incarni in sé l'eredità di Ottaviano Augusto, contribuisce a far sorgere per la prima volta nemici al papato, tali non per sentimento anticattolico o per avversione agli abusi, ma perché il dominio temporale dei papi contrasta con la tradizione classica, con quell'aspirazione al principe condottiero, all'unificatore che inizî una monarchia italica. Machiavelli n'è l'esempio più insigne.
Lo spirito del Rinascimento importa ancora, più che la decadenza della scolastica, iniziatasi già alla fine del sec. XIII, il progressivo disinteressamento del laicato per la teologia. Il disprezzo degli spiriti, avvezzi alle frasi ciceroniane, per le locuzioni barbare dei dottori scolastici, vi avrà la sua parte; ma molto più può l'attrattiva che esercitano sulle menti colte i grandi filosofi dell'antica Grecia. Il neoaristotelismo, che già nel sec. XIV s'è affermato in Italia e ha ora il suo centro nell'università di Padova, giunge ad ammettere la coesistenza di due verità indipendenti, e talora opposte, una ragionata e l'altra rivelata (averroismo; v.); il neoplatonismo, con Marsilio Ficino sembra concepire il cristianesimo come un vasto sincretismo, con Pico della Mirandola vuole mostrare l'intimo accordo di tutti i principî pagani tra loro e con la mistica e la scolastica cristiana, in prima linea mettendo le dottrine arcane della Cabala.
Tutti protestano ossequio alla Chiesa. Ma in alcuni esso è solo formale, e parte di questi pensatori è, forse inconsciamente, già fuori del cristianesimo. Inoltre, come avviene quando si scardinano credenze tradizionali, in molti, non protetti da soda istruzione e forte persuasione religiosa, si apre il varco alla miscredenza.
In Germania il Rinascimento dà maggior posto alle scienze e ha una più intensa tendenza religiosa, che lo porta a volgersi allo studio delle fonti cristiane, per trovarvi difformità con il cattolicesimo qual'è praticato: Erasmo da Rotterdam, prete e religioso, insegnerà esservi più di un santo fuori del calendario della mai sorpassata dalla santità cristiana. Non a torto dirà il Denifle che non Lutero produsse i nuovi tempi, ma i nuovi tempi produssero Lutero. Non mancano naturalmente cattolici ferventi, ortodossi, e operai infaticabili della salvezza delle anime. Ma spesso un fremito d'inquietudine percorre anche le manifestazioni del cattolicesimo più puro: da un secolo si parla di riforma, mentre il livello morale del papato e dell'alto clero è ancora disceso, e il confronto fra il modello divino che ogni cristiano deve proporsi e la realtà, ferisce i cuori sinceramente religiosi.
La figura del Savonarola e la storia fiorentina che in lui si compendia rivelano appunto quest'angoscia profonda degli spiriti più religiosi di fronte alla realtà. Ma il Savonarola, quando profetizza sventure, esprime la sorda inquietudine che tormenta l'animo dei cristiani della sua generazione: dopo il suo martirio, i profeti il V Concilio lateranense (XVIII ecumenico; v. sotto) nel 1516 dovrà vietare le profezie di calamità o in ordine all'imminenza del giorno del giudizio.
Il periodo di Giulio II e di Leone X (1503-1521). - Mali della Chiesa e aspirazioni concilari. - La fine del Quattrocento e i primi 30 anni del secolo seguente segnano forse nella storia il periodo in cui le preoccupazioni della difesa del principato civile hanno più turbato l'azione religiosa e diminuito il prestigio del papato. Le preoccupazioni per i due confini dello Stato, per le vicende del regno di Napoli considerato come dominio feudale, e per le Marche e le Romagne che non si vogliono usurpate da Venezia, sono grandissima parte della politica italiana ed europea dei papi. Tale politica semina nella penisola nuovi germi di rancore e avversione verso i pontefici e indebolisce il prestigio del papato; in ogni paese infatti il clero resta fedele al suo re, le scomuniche e gl'interdetti né commuovono né sono osservati cosi generalmente come prima; fra gli stessi cardinali i papi vedono erigersi contro dei ribelli.
Questo diminuito prestigio; i mali e le miserie che gravano su tutta l'Europa per le continue guerre; i nuovi successi del Turco ai danni della Polonia e di Venezia, tra la cieca indifferenza di quasi tutto il popolo cristiano; la mancanza dell'invocata riforma; così nel "capo" come nelle "membra", rafforzano le non mai spente aspirazioni verso il concilio.
Nell'abboccamento di Savona tra Luigi XII e Ferdinando il Cattolico si parla di riforme ecclesiastiche: nel 1510, da un lato Luigi XII indice un'assemblea del clero nazionale ad Orléans; dall'altro l'imperatore Massimiliano minaccia la promulgazione in Germania di una legge analoga alla Prammatica sanzione francese, la soppressione delle annate, e chiede l'istituzione in Germania di un legato permanente che giudichi ogni questione religiosa. Luigi e Massimiliano fanno convocare dai cardinali loro aderenti il "conciliabolo di Pisa" (il priore certosino Zaccaria Ferreri ne sarà il principale campione letterario) che s'inaugura il 1° novembre 1511, si trasferisce a Milano, sospende Giulio II (21 aprile 1512), delibera di trasferirsi ad Asti, poi a Lione, e finisce ingloriosamente nel 1513, con la conciliazione tra Luigi XII e Leone X.
Come antidoto, Giulio II aveva convocato il V Concilio lateranense per il 19 aprile 1512: apertosi il 3 maggio, con prelati numerosi ma quasi tutti italiani, impiegò il primo periodo della sua attività a polemizzare con lo pseudo-concilio di Pisa-Milano; aggiornatosi e riapertosi il 3 dicembre del 1512, fu interrotto ancora due mesi appresso dalla morte del papa. Leone X ottenne l'adesione del re di Francia al concilio; la cui opera si protrasse sino al 1517, dando luogo a qualche decisione notevole per il dogma e il diritto, ma per la riforma fu pressoché nulla.
Stati e Chiesa. - Frutto saliente della riconciliazione con la Francia, operata da Leone X, fu invece il concordato del 1516, rimasto in vigore cosi a lungo, e modello dei concordati posteriori. Il concordato, stipulato tra l'opposizione delle università e dei parlamenti francesi, stabiliva la nomina dei vescovi da parte del re, ferma l'istituzione da parte del papa; conservava in teoria le annate, riducendole però per la Francia pressoché a nulla; lasciava la S. Sede supremo giudice di appello, acconsentendo essa a non conoscere in prima istanza se non le sole causae maiores.
In genere Leone X fu largo di concessioni agli stati cattolici, e mite nella difesa dei privilegi ecclesiastici. Egli fu politico accorto, ma, se in questa materia il successo misura la grandezza, non fu un grande politico: le esitazioni e i mutamenti del 1514-15 non accrebbero certo il prestigio del papa neppure come principe italiano; la guerra d'Urbino esaurì le finanze e screditò il pontefice, giacché l'impresa apparve compiuta con una finalità nepotista; nel desiderio di sbarrare a Carlo d'Asburgo la via dell'impero, il pontefice fallì interamente.
Ancor più infelice la politica di Clemente VII (1523-1534) sul cui quadro domina l'orribile episodio del sacco di Roma.
Leone X e la Riforma protestante. - Sul pontificato di Leone X grava l'accusa di non aver saputo compiere in tempo la riforma interna che da decennî tutta l'opinione europea reclamava; di avere anzi accresciuto con le proprie predilezioni umanistiche e tendenze l'allontanamento del clero e del papato da quell'ideale di purità e austerità che nel popolo cristiano non era morto; di non avere compreso agl'inizî la gravità della rivolta luterana. Al sopravvenire d'una delle più gravi crisi toccatele nella sua storia, mancò alla Chiesa cattolica la guida occorrente. Che Leone X non avesse la chiaroveggenza del pericolo incombente sulla Chiesa, nessun dubbio. Ma l'alto clero non sembra fosse più chiaroveggente del papa. E d'altronde, per quanto sia oltremodo pericoloso fare simili affermazioni, si può dire che nessun papa avrebbe potuto deviare nella sostanza gli eventi. Guardando al sorgere della Riforma protestante, pressoché coevo in tanta parte d'Europa, in regioni abitate da popoli di razza, cultura e tradizioni diverse, si ha l'impressione di trovarsi di fronte a uno di quei fenomeni lentamente maturati, frutto di cause così diverse ma così intense e concomitanti, che nessuna possente individualità sarebbe in grado di arrestarli. D'altronde guardando alla Chiesa appare - e lo stesso pontificato di Adriano VI (1522-1523) sta a mostrarlo - che nessun pontefice avrebbe avuto la possibilità d'imporsi a chi di riforma non voleva sapere, e per il capo della Chiesa sentiva di tanto sminuita l'antica devozione: è del 1513 la sottomissione degli ultimi cardinali scismatici; del 1517 è la congiura dei cardinali che attentano alla vita del papa; il successore di Leone si troverà di fronte un cardinal Soderini reo convinto di tradimento, che, appena morto Adriano VI, i cardinali faranno trar fuori di Castel S. Angelo e ammettere in conclave. Questo il sacro collegio del tempo; i sensi di reverenza dell'episcopato, quanto meno transalpino, erano in proporzione.
La Riforma protestante. - La Riforma, o rivoluzione protestante, è movimento di estrema complessità, in cui confluiscono elementi diversissimi, ma nelle sue origini prime, essa è movimento religioso. Le ragioni nazionali del movimento (spirito di autonomia nazionale, avversione antiromana del popolo e del clero tedesco, aspirazione a chiese nazionali, su cui fortemente imperasse il sovrano territoriale) non furono che secondarie, e talora fu proprio il protestantesimo ad accentuare e valorizzare quelle tendenze che si ama designare come sue cause. Quanto alle forze economiche, è certo che la Riforma protestante, come ogni rivoluzione, ebbe i suoi profittatori, che i beni ecclesiastici destarono molte cupidigie, sicché poterono essere ragione culminante di qualche conversione principesca o dell'atteggiamento d'alcuni ceti (in particolare la piccola nobiltà). Ma non è meno certo che la storia mostrava già esempî non rari di secolarizzazioni attuate senza adesioni all'eresia, e che la preoccupazione economica se non era affatto estranea non era neppure il primo movente così agl'iniziatori della Riforma come ai maggiori uomini di essa, come alle masse popolari. Del resto, intorno alle cause, al carattere, alle conseguenze anche politico-economiche, ecc. del movimento riformatore, v. riforma.
Gli eventi esteriori della Riforma sono troppo noti perché abbiano bisogno di essere qui ricordati: rapidissimo è il suo propagarsi: gli animi sono già da tempo preparati ad accoglierla. Alla morte di Clemente VII già gran parte dell'Impero, gran parte della Svizzera, la Svezia sono perdute (la Danimarca e la Norvegia passeranno alla Riforma nel 1536-37); pericolante la Francia; non immune l'Italia. Quanto all'Inghilterra, essa è separata da uno scisma; ma non è arduo prevedere che la separazione da Roma non rimarrà sul terreno della costituzione della Chiesa, bensì si trasporterà anche su quello dottrinale. Il pontificato di Giulio III (1550-1555) sarà consolato dall'illusione che l'Inghilterra sia ritornata all'ovile; ma Paolo IV (1555-1559) vedrà il crollo dell'opera della regina Maria e il definitivo stabilirsi della Chiesa di Stato anglicana. Le speranze riposte in Maria Stuart per una restaurazione del cattolicismo in Scozia svaniscono con le sue tragiche vicende (v. anglicana comunione; calvino; calvinismo; lutero; luteranismo; riforma; e gli articoli relativi alle varie denominazioni).
Il Turco. - La prima metà del Cinquecento vede continuare i progressi del Turco. Il 21 dicembre 1522 i Giovanniti perdono Rodi; Ungheria e Polonia, antemurali della cristianità, sono dilaniate da fazioni interne: il 28 luglio 1526 cade Petervaradino; il 10 settembre Solimano entra in Buda. Vienna è assediata, ma non cade.
Il giovane imperatore Carlo V sembra subire il fascino del nome di crociata; alla testa di Spagnoli, Portoghesi, Tedeschi e Italiani, nel 1535 conquista Tunisi; ma l'atteggiamento della Francia e di Venezia impedisce di passare da quell'impresa a una guerra generale contro il Turco. L'alleanza di Francesco I con gl'infedeli mostra a qual punto sia tramontato l'ideale cavalleresco cristiano; nel 1537 le navi turche al comando del Barbarossa compaiono nelle acque italiane con a bordo l'inviato francese, approdano nella rada di Castro e cominciano a saccheggiare le Puglie; e neppure allora Paolo III osa scomunicare il re; teme di vedere la Francia passare alla Riforma. Impero, Ungheria, Venezia e papa conchiudono nel 1538 la "lega santa" contro il Turco: ma le sue vicende sono miserrime, e la pace del 1540 segna nuove perdite di Venezia.
La Controriforma.
La Riforma protestante porta una lacerazione che più non si salderà nel corpo della cristianità, ma promuove per reazione un risanamento religioso: la cosiddetta Controriforma (v.) cattolica.
L'opera interna. - Con Paolo III (1534-1549) s'inizia la riforma della curia romana, di cui sono indizio le ottime elezioni di cardinali pii, religiosi e zelanti, nel 1535 e nel 1536. Venti anni più tardi Paolo IV combatte soprattutto la simonia, i cumuli di benefici, i varî espedienti legali escogitati dall'avidità dei prelati: ma l'opposizione dei cardinali e della curia, e la guerra con la Spagna, gli sono di non piccolo ostacolo. La riforma della curia dovrà procedere lentamente e per gradi, e solo alla fine del sec. XVIII potrà dirsi compiuta. Ma, tenuto presente ciò, bisogna pur constatare, guardando al sec. XVI, che sulla via della riforma e del miglioramento del costume si sono compiuti progressi ben rapidi in pochissimi lustri: regnando Paolo III apparirebbero impossibili scene ed episodî ch'erano normali, non pur sotto Alessandro VI, ma sotto Leone X.
Nuovi notevoli passi sono compiuti da S. Pio V (1566-1572), con i suoi provvedimenti per la degna nomina dei vescovi e dei parroci, per la residenza dei vescovi, per l'eliminazione di ogni forma di simonia. Sisto V nel 1587 dà la sistemazione definitiva al collegio dei cardinali: l'anno appresso dà alla curia quell'assetto fondato sulle congregazioni cardinalizie ch'essa ancor oggi conserva.
Quei cenacoli di schietto fervore e di zelo cattolico che mai erano scomparsi, divengono ora centri di diffusione, e da loro partono direttive e muovono correnti che hanno ampia propagazione nel cattolicismo. Tale l'Oratorio del divino amore esistente in varie città, di cui è particolarmente noto l'istituto romano. A questa confraternita appartenevano il prete Gaetano da Thiene, e l'arcivescovo (e insigne diplomatico pontificio) Gian Pietro Carafa, allorché decisero di creare quelli che furono poi i teatini. Ad opera di Antonio Maria Zaccaria sorgono i barnabiti. Sotto il pontificato di Gregorio XIII il fiorentino Filippo Neri, l'apostolo della rinnovazione morale di Roma, fonda la congregazione dell'Oratorio. Un altro membro dell'Oratorio del divino amore, Gian Matteo Giberti vescovo di Verona, riforma rapidamente e con grande severità il clero e il popolo della sua diocesi. Altri vescovi qua e là lo imitano. Risorgono i sinodi diocesani, e in quest'epoca altro non curano che la riforma ecclesiastica. Col 1564 s'inizia la memoranda opera di Carlo Borromeo nella diocesi milanese.
Nei vecchi ordini religiosi cominciano i movimenti di riforma, spesso contrastati non solo da quanti non vogliono rinunciare agli abusi, ma pur da quanti temono che ciò importi lo spezzarsi dell'unità degli ordini. Il frutto più noto è il sorgere dei cappuccini, filiazione francescana dovuta a Matteo da Bascio. Segue la riforma dei carmelitani spagnoli, ad opera di Teresa d'Avila e di Giovanni della Croce.
Ma il fatto saliente è la costituzione della Compagnia di Gesù (1534-1540). Questo nuovo ordine comprende meravigliosamente sin dagli inizî qual'è l'argine che è possibile opporre alla Riforma, e con una mirabile investigazione e conoscenza dell'animo umano concreta tutti i mezzi e tutti gli strumenti, anzitutto per formare sé stesso come una milizia perfetta, quindi per attuare dovunque una missione di direzione spirituale delle anime. La Compagnia di Gesù, e quanti in seno al clero regolare e al secolare camminano sulle sue tracce, si rende conto del diminuito fervore religioso, del senso tutto umano del bene e della giustizia che è nelle coscienze dei contemporanei, della necessità di non chiedere sacrifici troppo gravi a un'umanità non sufficientemente assetata di Dio per accettarli. Da questa comprensione deriva l'avversione a ogni forma, per quanto attenuata, di predestinazionismo, a ogni concezione che restringa i poteri del libero arbitrio e renda la giustizia divina non del tutto consona a quella che è l'idea umana di giustizia; deriva la compassione di fronte ai peccatori, la preoccupazione di non fare apparire come troppo difficile la conquista della salvezza. Accettando quella che è l'esperienza secolare della Chiesa, la Compagnia identifica le sorti della Chiesa con le sorti del papato e come sua prima direttiva pratica pone l'assoluta e immediata obbedienza al papa. L'ordine acquista subito un ascendente grandissimo: già a mezzo il secolo con San Pietro Canisio dà il segnale della riscossa cattolica in Germania, in Austria, in Boemia.
Ma la restaurazione agisce con la parola e con l'opera. Essa si propone la condanna degli errori, la determinazione della retta dottrina, la conversione degli eretici: ma si propone anche la conculcazione e sconfitta degli eretici induriti, il ristabilimento della unità con mezzi anche militari, come i tempi comportavano.
Alla determinazione della dottrina cattolica in tutti i punti in cui essa è stata oggetto di attacchi da parte degli eretici, all'individuazione e condanna degli errori protestanti, e al tempo stesso all'eliminazione degli abusi nella disciplina e nel costume ecclesiastico, dà opera per 18 anni il concilio di Trento. La sua storia è il quadro migliore delle correnti e tendenze spesso contrastanti del mondo cattolico contemporaneo. Ma essa sta anche a mostrare quanto, in poco più di un secolo, il papato avesse guadagnato di ascendente e di potere: i papi, che erano stati pressoché vinti a Costanza e a Basilea, sono qui dominatori.
L'opera conciliare è coronata dall'altra, svolta subito dopo dai papi, per delega del concilio stesso, con l'Indice tridentino del 1564 che sostituisce quello di Paolo IV e fissa le regole generali in materia di proibizioni di libri, con il catechismo romano (1566), con la riforma del breviario (1568), con quella del messale (1570).
All'attuazione delle misure del concilio di Trento per la formazione del clero nei seminarî veglia con cura Pio V. In Italia numerosi seminarî sorgono già tra il 1564 ed il 1570, primo quello di Roma: in Germania sorgono tra il 1564 ed il 1571 quelli di Eichstädt, Würzburg, Breslavia, ma i vescovi spesso mandano i loro chierici alle scuole rapidamente fiorenti dei gesuiti; in Spagna sono eretti nel 1570 i seminarî di Mondoñedo e Tarragona. Invece in Francia ancora nel 1620 non esisteva alcun seminario. Gregorio XIII (1572-1585) è il promotore dei seminarî nel settentrione d'Europa e il creatore di quelli nazionali in Roma, dove spesso sotto la direzione dei gesuiti e comunque sotto il diretto controllo del papa, si formano i futuri elementi direttivi: con Gregorio acquista reale importanza il Collegio germanico; egli fonda quello per l'Ungheria che poi subito unisce al germanico, quello inglese, quello greco, quello maronita, quello armeno, tutti ancor oggi esistenti: egli è il costruttore del Collegio romano, il fondatore dell'Università Gregoriana.
Per combattere l'eresia è data nuova forza all'Inquisizione, creandosi in Roma un'autorità centrale per tutti i paesi (Licet ab initio, 21 luglio 1542): nessuno, in qualsiasi autorità costituito, è sottratto all'autorità dei cardinali inquisitori e dei loro delegati; è in potere di questi infliggere prigione, morte, confisca dei beni.
Più di ogni altro persuaso della necessità per la Chiesa di reprimere l'eresia, più di ogni altro sospettoso, sino a vedere nei più santi principi della Chiesa dei possibili eretici larvati, sarà Paolo IV. Più lucido nella sua visione, ma convintissimo che rimedio appropriato per l'eresia sia il rigore, che l'Inquisizione sia lo strumento di salvezza che bisogna in ogni modo tutelare, è Pio V; onde parecchie esecuzioni furono compiute sotto il suo pontificato, secondo la legislazione del tempo, come quelle di Pompeo de Monti, di Pietro Carnesecchi, di Aonio Paleario, di altri molti.
Sul terreno politico, la Santa Sede non ristà dall'insistere presso l'imperatore e gli altri sovrani, perché diano opera alla repressione e punizione degli eretici. Carlo V non era mai stato partigiano della decisa repressione, e anche dopo la vittoria sugli smalcaldici del 1546 aveva tradito le speranze della Santa Sede. Sotto questo riguardo suo figlio, e in genere i sovrani della generazione successiva alla sua (tolto Massimiliano II che si riavvicina alla figura dello zio), danno molto maggiore soddisfazione a Roma.
Così lo zelo dei pontefici per la repressione dell'eresia trova soddisfacimento completo nella Spagna di Filippo II. Questi nutre tendenze cesareopapiste che offendono e inquietano Pio V, il quale non può ammettere che il re osi sindacarlo nelle sue mansioni di supremo giudice della fede. Ma il papa approva la repressione del duca d'Alba nei Paesi Bassi (1568). Del pari, allorché considera le cose di Francia, non ammette concessioni per gli eretici, si oscura a ogni voce di componimento.
Sisto V (1585-1590) sente molto le mortificazioni che la Spagna infligge alla Santa Sede, l'abbassamento della dignità del papato per opera d'un re che si arroga di essere egli nel mondo il tutore degl'interessi cattolici. Sisto V, terribile come principe, ha di fronte all'eresia quella relativa mitezza che deriva da una visione realistica delle possibilità cattoliche in Europa. Desidera che la Francia non sia annientata dalle guerre di religione, affinché possa essere ancora un contrappeso alla Spagna: vede possibile un avvento dei Borboni al trono di Francia, purché si convertano al cattolicismo. Clemente VIII è il continuatore e realizzatore di questo indirizzo politico, che ha la sua conclusione nell'assoluzione pontificia di Enrico IV il 17 settembre 1595.
La riconquista cattolica del mondo tedesco, o almeno l'opposizione a ulteriori successi della Riforma, trova sotto Pio V deciso appoggio in alcuni principi: Alberto V di Baviera, l'arciduca Ferdinando II del Tirolo, l'abate di Fulda, Baldassarre di Dernbach.
Le missioni. - L'attività missionaria in America si svolge dapprima a opera soprattutto di francescani e domenicani: nel 1549 i gesuiti penetrano nel Nuovo Mondo, in Brasile, e rapidamente acquistano il primo posto nell'attività missionaria. Nel Guatemala, nel Perù, nel Messico sono fondati numerosi vescovati a partire dal terzo lustro del secolo, e nel 1545-47 già sono erette tre provincie ecclesiastiche, con centro in Messico, Lima e San Domingo:
Nel primo periodo dell'attività missionaria in America cade l'apera dei vescovi Zumarraga, Bartolomeo de Las Casas, Garces (i due ultimi domenicani) volta a difendere gl'Indî contro il giogo degli Spagnoli, e l'intervento di Paolo III (1543) volto a impedire che gl'Indî siano assoggettati a schiavitù: intervento che raggiunge però scarsi effetti, anche perché l'organizzazione ecclesiastica nel Nuovo Mondo è soggetta a un ferreo controllo da parte del potere civile.
Nelle Indie orientali, a Goa, approda nel 1542 il gesuita San Francesco Saverio, che inizia e svolge una mirabile attività missionaria, coronata da rapidi successi, attività che non dimentica di assumere le difese degl'indigeni contro la crudeltà dei Portoghesi. Francesco Saverio volge quindi con frutto , la sua opera al Giappone, e sta per iniziarla in Cina allorché nel dicembre 1552 la morte lo coglie. Il suo continuatore in Giappone, il confratello Alessandro Valignani, approdandovi nel 1579 vi trova 180.000 cristiani: e nel 1585 un'ambasceria giapponese giunge a Roma, e nel 1588 è eretto il primo vescovato in Giappone. Lentissima invece s'inizia l'opera di penetrazione in Cina, a opera del gesuita Matteo Ricci.
Per contro, le vittorie e i progressi del Turco non cessano. La lega dei principi cristiani, conclusa dopo un lunghissimo lavorio diplomatico, trionfa a Lepanto il 7 ottobre 1571. Ma l'enorme giubilo per la vittoria non è pari ai risultati di questa.
Il Seicento e il Settecento.
Confrontati col Cinquecento, sono due secoli di relativa calma per la vita della Chiesa, che non ha a subire alcuna scossa pari per gravità alla Riforma protestante, né alcuna evoluzione interiore simile per importanza alla Controriforma.
La speranza di espellere il protestantesimo dall'Europa e ricostituire l'antica unità, è ormai svanita: si lotta soltanto per contrastargli il terreno, e riguadagnare qualcuno dei paesi perduti.
Così in Francia, sebbene sia svanito ormai il pericolo di vedere la Riforma vittoriosa, il clero e quei cattolici che si sentono eredi spirituali del partito dei Guisa, non hanno tregua finché con la revoca dell'editto di Nantes (1685) non vedono tolta la tolleranza accordata ai calvinisti, e questi spinti sulla via dell'esilio.
In Inghilterra gli ultimi tentativi per una restaurazione cattolica svaniscono, e perde il trono Giacomo II, che con maggiore abilità politica avrebbe potuto conservarlo, recando a un tempo miglioramenti alla posizione dei suoi sudditi cattolici.
Nel nord d'Europa il cattolicesimo non ha più basi, neppure per un tentativo di riconquista.
Dove ancora si lotta, è nell'Europa centrale. I molteplici tentativi contro Ginevra, rocca del calvinismo, falliscono tutti. All'opposto la fortuna è propizia ai cattolici in Boemia e sul Reno. Il grande artefice della riconquista è Ferdinando II. Alla vittoria delle forze cattoliche nella battaglia della Montagna Bianca (8 novembre 1620) segue una risoluta reazione cattolica; infine il 31 luglio 1627 sono banditi dalla Boemia tutti i non cattolici. Una simile reazione si svolge in Moravia e in Slesia (v. Trent'anni, Guerra dei).
Il popolo e il clero. - Nella vita interna della Chiesa i progressi di ordine morale e le riforme disciplinari, attuati sotto l'impulso della Controriforma, non vanno perduti. Il costume e la dottrina del clero continuano a migliorare: il collegio dei cardinali è in certi momenti un vero cenacolo di dotti, e opere culturali insigni escono dal clero e dalle congregazioni religiose. Sempre più cresce l'influenza del clero sul popolo; in Italia e in Spagna il clero dà il tono a tutta la vita morale e intellettuale, dirige pensiero e opinione.
Il clero regolare ha ormai dappertutto una posizione prevalente di fronte al secolare; le discussioni teologiche si svolgono precipuamente tra gli ordini religiosi.
Degli antichi ordini, il domenicano, conservando una reale importanza, esercita non mediocre influenza sui più alti organi della Chiesa: esso rappresenta in teologia e in morale la scuola tomistica. L'ordine francescano è il più dimiso e popolare, ma la sua azione è limitata in gran parte in seno al popolo. Opera notevole compiono soprattutto nel campo dell'insegnamento i nuovi ordini sorti con la Controriforma, teatini, barnabiti, somaschi, scolopî; nell'alta cultura ecclesiastica acquista grandi benemerenze la congregazione di S. Mauro, formatasi nel 1618 con la riunione di varî monasteri benedettini francesi. S. Francesco di Sales fonda nel 1610 ad Annecy le visitandine o ordine della Visitazione, approvato nel 1618 da Paolo V: nello stesso anno 1618 S. Vincenzo de' Paoli fonda le Figlie della Carità.
Ma tra gli ordini religiosi si estende ampiamente la Compagnia di Gesù, nell'insegnamento, nell'organizzazione di università, seminarî, scuole innumerevoli, nell'attività missionaria, nell'esercitare la cura delle anime, nell'acquistare la direzione spirituale particolarmente dei ceti dirigenti, anche di sovrani, e al tempo stesso anche nel compiere opera di predicazione e di eccitamento del fervore religioso fra gli strati più umili: iusigne anche (se pur qui non possa parlarsi di primato) per l'attività culturale, come ad esempio per l'opera dei bollandisti (v.).
La Compagnia di Gesù, fedelissima al papa, libera dai legami nazionali, incontra fin dalle origini violente opposizioni, da parte del clero secolare e soprattutto dei vecchi ordini religiosi. Le si rimprovera di trasformare la religione, adattandola al gusto del secolo, di costruire una teologia tutta accomodata alla ragione umana, di predicare una morale rilassata, che aiuta l'uomo a frodare Dio con le sottili distinzioni tra ciò che è o non è peccato (casistica), che lo autorizza a seguire il proprio piacere sol che sia dubbia la illiceità del suo comportamento (probabilismo), di seguire una pratica religiosa atta a distogliere i peccatori dalla penitenza, col concedere sempre loro l'assoluzione, con l'ammetterli sempre ai sacramenti. Queste opposizioni si fanno sordamente sentire presso una parte del clero e del laicato colto, particolamente nelle università e oltr'Alpe anche tra la magistratura. Segno più cospicuo e più noto di quest'avversione antigesuitica è il movimento giansenista, diffusosi in Francia e nelle Fiandre a partire dal quinto decennio del sec. XVII e che sopravvisse sino agl'inizi dell'Ottocento, penetrando anche in Italia (v. giansenismo). Le molteplici opposizioni che vengono talvolta anche dal seno della Chiesa non prevalgono però mai sui gesuiti, che nonostante tutto cio vengono protetti dai papi.
Stati e Chiesa. - Il periodo non è dei più felici per i rapporti della Chiesa con gli Stati. Quelle tendenze cesareopapiste ch'erano state proprie a Filippo II e all'Inquisizione spagnola devota al suo re e animata oltre tutto da un geloso nazionalismo, si diffondono in tutti gli Stati cattolici. Luigi XIV biasimerà talvolta il papa della sua indulgenza per i giansenisti. Embrione dello Stato moderno, che vuol essere signore delle proprie direttive etiche, si afferma già il monarca che vuol essere giudice di quanto sia opportuno per la vita religiosa dei sudditi, per l'organizzazione della Chiesa nei proprî dominî.
Dappertutto il papato deve combattere con gli Stati che vogliono ridurre i privilegi dei chierici in materia d'imposte e di esenzione dalla giurisdizione laicale, che vogliono controllare ogni comunicazione del clero e del popolo con la Santa Sede, non lasciare pubblicare alcun atto pontificio senza il loro consenso, ingerirsi largamente nell'elezione dei vescovi. Episodio più noto di queste lotte tra Stato e Chiesa, è l'interdetto fulminato su Venezia da Paolo v nel 1606, e in cui la repubblica trovò il suo polemista e sostenitore nel servita Paolo Sarpi. Episodio dimostrativo dello spirito di autonomia del clero in certi Stati e del suo distacco da Roma, l'assemblea del clero gallicano del 1682 che vota i quattro famosi articoli in antitesi con il principio della supremazia papale, mentre un grande vescovo, per tanti riguardi benemerito della causa cattolica, il Bossuet, ne scrive l'apologia.
A partire dalla metà del sec. XVIII, uno spirito nuovo, intessuto di elementi diversi, ma tutti repugnanti sia ai principî cattolici sia a quelli stessi basilari del cristianesimo (la fede in un Dio personale, la credenza nella rivelazione) comincia a penetrare fra i ceti colti di Francia, Germania, Austria e poco appresso d'Italia.
Alla freddezza religiosa, che in ogni epoca è stata propria di larghe cerchie, subentra l'incredulità conclamata, l'irrisione dei principî della fede, la critica distruttrice. L'incredulità non si arresta al laicato, fa ampie conquiste in seno al clero; preti e frati non sono affatto rari nelle logge massoniche del Settecento. Gl'increduli o libertini abbondano nelle corti sicché le censure pontificie inspirano sempre minor timore. Questo nuovo atteggiamento dei principi si palesa nella persecuzione mossa ai gesuiti, la quale s'inizia in Portogallo nel 1758 con vera crudeltà, ed è poi proseguita dai principi di casa Borbone (Francia, Spagna, Parma e Napoli) che sopprimono nei loro stati la Compagnia, espellendone tutti i membri. Il conclave del 1769 si svolge sotto la pressione morale delle dinastie borboniche, e Clemente XIV deve nel 1773 sopprimere la Compagnia, pur nulla disapprovando della sua dottrina e della sua opera.
Ma nell'Impero, sotto Giuseppe II, il principio cattolico della supremazia papale soffre ancor più aspre offese. Tutta la Chiesa è regolata dal sovrano come istituto di Stato; principî dogmatici condannati da Roma sono insegnati in facoltà teologiche statali; vescovi, appartenenti a grandi famiglie patrizie tedesche, si uniscono ai professori universitarî nell'insegnare le dottrine antiromane, nel deprimere i poteri del papa, le facoltà di nunzî. Ancor più oltre si va nella Toscana di Pietro Leopoldo; non meno offensiva per la supremazia pontificia è la politica ecclesiastica del regno di Napoli, anche se ivi non fiorisca sotto la protezione dello Stato alcuna dottrina ereticale.
Controversie nelle missioni. - Anche l'attività missionaria risente dei turbamenti che travagfiano la Chiesa in Europa. Le missioni sono esse pure terreno di lotta tra i gesuiti e i loro avversarî. Le menti, le "riduzioni" del Paraguay (si accusano i gesuiti di avere ivi instaurato a proprio profitto uno stato teocratico, di 280 mila Indî), i riti cinesi e malabarici (li si accusa di avere in Cina come nel Malabar ecceduto nell'accordare il cristianesimo con i sentimenti delle popolazioni locali).
L'Ottocento e il primo trentennio del nostro secolo.
Il clero. - La rivoluzione francese portò in Francia una persecuzione violenta e sanguinosa del clero, un tentativo di creazione di chiesa scismatica. Il clero perdette privilegi e beni in tutti i paesi in cui s'instaurarono governi dipendenti dalla rivoluzione.
Ma questi effetti immediati furono ben largamente compensati da altri, in sommo grado benefici per la Chiesa. Anzitutto il rinsaldarsi della disciplina ecclesiastica: in pochi anni si compiono progressi che non si erano compiuti in secoli; al finire del pontificato di Pio VII sono inconcepibili atteggiamenti ed episodî (come il sinodo di Pistoia del 1786) quali aveva visto papa Braschi. La persecuzione ha stretto la Chiesa intorno al suo capo: l'esito della chiesa statale creata con la costituzione civile del 1790 scoraggerà da ogni ulteriore tentativo di scisma. Il trionfo papale ha la sua manifestazione nel Concilio vaticano (XX ecumenico, 1869-70), dov'è proclamato il dogma dell'infallibilità pontificia, accolto da tutta la cattolicità, con eccezioni numericamente trascurabili (v. vecchi cattolici). Si attenuano del pari le controversie e gelosie tra ordini religiosi, tra scuole teologiche, tra clero secolare e clero regolare, per tutto il Settecento così violente. Nei rapporti tra capitoli e vescovi, tra pastori del primo e del second'ordine, si verifica la stessa evoluzione. Nell'Ottocento s'instaura la disciplina della Chiesa quale noi conosciamo, contrassegnata dall'obbedienza assoluta dell'inferiore verso il superiore.
Connesso con il rinsaldarsi della disciplina è un ulteriore miglioramento del costume: il clero, non più protetto dalle forze dello stato, non più circondato da una venerazione tradizionale, al contrario fatto oggetto di osservazione malevola, dev'essere puro, non deve porgere bersaglio ai rimproveri. Si nota anche un più schietto fervore religioso: il clero non deve soltanto mantenere consuetudini religiose, deve riconquistare delle anime, deve confutare, polemizzare, respingere accuse. Il reclutamento del clero migliora: i vescovi non sono più assunti nella quasi totalità dal patriziato, ma sono spessso sacerdoti che hanno percorso tutti i gradini della carriera ecclesiastica e conoscono tutte le esigenze della cura d'anime. I mutati costumi e le diminuite ricchezze della Chiesa eliminano una folla di preti senza vocazione, che con la loro vita abbassavano il decoro del ministero sacerdotale. Le distruzioni rivoluzionarie hanno diminuito la molteplicità delle congregazioni religiose, e il grande numero dei loro membri.
I papi. - Il papa della rivoluzione, Pio VI (1775-1799) chiude un'epoca di umiliazioni e di sconfitte per il papato: egli aveva ancora dovuto reggere la Chiesa sotto la pressione dei principi, tenendo ferma la soppressione della Compagnia di Gesù che pur desiderava veder ristabilita, umiliandosi inutilmente a Giuseppe II: il suo sacrificio, la morte in prigionia, sembra propiziatorio per il papato.
Pio VII (1800-1823) è il papa del concordato del 1801 e dell'incoronazione di Napoleone, che desta non poco scandalo tra i fautori della legittimità; ma è anche il papa che affronta la prigionia piuttosto dl cedere a Napoleone su punti essenziali della costituzione della Chiesa, e la Restaurazione trova enormemente accresciuto il prestigio papale, cui giova anche la profonda bontà di papa Chiaramonti. Egli è il restauratore della Compagnia di Gesù, che rapidissimamente riprende la sua posizione preminente. Pio IX (1846-1878) è agl'inizî il papa liberale, più tardi lo strenuo oppositore del liberalismo, il disgraziato difensore del potere temporale; Leone XIII (1878-1903) è il papa dalla vasta intelligenza, che si rende conto di tutte le tendenze del secolo e dell'importanza della questione sociale, il promotore degli studî ecclesiastici; ma l'incertezza, la mutabilità dei piani, la mancanza di direttive costanti, rendono effimeri, più appariscenti che reali, i suoi successi diplomatici. Pio X (1903-1914) è il riorganizzatore della curia, l'artefice dell'opera di codificazione del diritto della Chiesa, il papa della lotta antimodernista. Benedetto XV (1914-1922) regge con mano saldissima la Chiesa durante la guerra mondiale, tenendo fermo il principio dell'internazionalità della Santa Sede.
Lo spirito del secolo. - Il periodo immediatamente precedente la rivoluzione ha forse segnato l'apice dell'indifferenza e incredulità tra le classi colte. Già il divampare della rivoluzione produce una reazione. Ma più tardi è una vera ondata di misticismo, un ritorno al fervore religioso, che si manifesta negli elementi giovani, in piena reazione con quello ch'era stato il sentire della generazione precedente. Il romanticismo austriaco e tedesco è l'espressione della generazione che segue quella fiorita sotto Giuseppe II; gl'Inni sacri del Manzoni ci mostrano un'Italia colta ben diversa da quella non pur dell'Alfieri, ma del Foscolo e del Monti. Peraltro la reazione non è completa né definitiva. L'incredulità guadagna terreno tra i ceti più umili delle popolazioni; pochi sono i paesi che, come la Spagna e il Portogallo, riescono a serbarsi fin oltre la metà del secolo interamente cattolici.
L'Ottocento vede l'antitesi tra cattolicismo e liberalismo. L'ideale liberale di uno Stato che consenta tutte le confessioni, a cui sia indifferente il sentire del cittadino in materia religiosa, che abbia un proprio sistema di direttive morali, che consideri come proprie funzioni quelle che per secoli sono state mansioni della Chiesa quali l'istruzione e la beneficenza, che sottragga alla Chiesa il matrimonio per erigerlo in istituto civile, offende profondamente il sentire della maggior parte dei cattolici. E il liberalismo spesso è anche malevolo o persecutore; non tollera i conventi, vuol spogliare la Chiesa dei suoi beni e sottometterne tutta la vita a un regime di polizia. La Chiesa più volte, e in particolare nel Sillabo di Pio IX (1864), condanna i capisaldi dottrinali del liberalismo.
Non mancano tuttavia cattolici (cattolici-liberali) i quali pensano che la Chiesa non debba volgersi con nostalgia al periodo pre-rivoluzionario, non debba sognare il risorgere dell'alleanza fra trono e altare. Questi cattolici desiderano la Chiesa libera, separata dallo Stato, vivente secondo il diritto comune; essi fioriscono soprattutto in Francia e nel Belgio, ma già nel 1832 Gregorio XVI con l'enciclica Mirari vos ne condanna la dottrina, in quanto essa si oppone ai principî della fede e della morale cristiana.
Sulla fine del secolo e agl'inizî del Novecento, un altro movimento, che col cattolicesimo-liberale ha qualche somiglianza di movenze, si manifesta in tutti i paesi cattolici (ma un movimento del tutto analogo e parallelo si svolge contemporaneamente nei paesi protestanti). Il modernismo scaturisce dalla preoccupazione di eliminare l'antitesi tra la dottrina scolastica, ch'è ancora quella della Chiesa, e la filosofia moderna; tra gl'insegnamenti tradizionali della Chiesa in materia di storia biblica di libri inspirati, di fonti della rivelazione, e i risultati della critica storica; tra la dottrina sociale della Chiesa, che accetta e protegge l'ordine tradizionale, e i postulati della dottrina e gl'impulsi delle aspirazioni socialiste. Il modernismo, lavorando più in profondità che in estensione, vorrebbe rinnovati persino concetti basilari del cattolicismo, l'idea di dogma, la dottrina dei sacramenti, il concetto della persona del Cristo. Pio X fa scopo principale del suo pontificato la distruzione di questo moto ereticale, ripetutamente condannato, col decreto del S. Officio Lamentabili sane exitu e con l'enciclica Pascendi dominici gregis, rispettivamente del 3 luglio e dell'8 settembre 1907.
I rapporti con gli Stati. - La Chiesa aveva sempre insegnato che che non vi sono forme di governo le quali siano inconciliabili con il cattolicismo. L'Ottocento vede una larga applicazione di questi principî. Malgrado le forti nostalgie del clero per il vecchio regime, il papato rifiuta di fare sua la causa del legittimismo: in Francia (a partire dagl'inizi fino alla chiusa del secolo), nelle nuove repubbliche americane sorte dalla ribellione di colonie spagnole, dovunque se ne presenti l'occasione, la Chiesa è disposta a riconoscere e appoggiare qualunque forma di governo, purché assicuri protezione ai principî cattolici.
Il concordato del 1801 fissa all'indomani della Rivoluzione le basi di accordo con un paese che non ha più impronta confessionale, che ha una costituzione profondamente diversa da quella tradizionale della monarchia; l'accordo regge per 104 anni la vita della Chiesa in Francia. Numerosi sono lungo il secolo i concordati: memorandi quello di Terracina del 1818 col regno di Napoli, e quello del 1855 con l'Austria, che distruggono le tracce rispettivamente del giurisdizionalismo borbonico e del sistema giuseppino.
In quasi tutti gli stati la Chiesa nel corso di questi 130 anni subisce traversie: talora vere persecuzioni, come in Polonia dopo i moti del 1831 e del 1863; particolarmente gravi la crisi nei rapporti con la Prussia intorno al 1873 (Kulturkampf; v.), e quella nei rapporti con la Francia, dopo il 1902 e soprattutto dopo l'abrogazione de] concordato nel 1905. In compenso i progressi dell'idea di tolleranza e uguaglianza religiosa beneficano i cattolici nei paesi di maggioranze acattoliche: cosi in Inghilterra, con l'emancipazione dei cattolici (1829).
Ma più importante, perché svolgentesi nella storica sede del papato, è il conflitto con la nuova Italia che aspira alla sua unificazione, e con l'Italia unificata: conflitto che s'inizia sin dal 1848, e instaura un'antinomia tra l'idea di patria e quella di religione che tormenta i cuori di nobilissimi Italiani, anche superato il periodo acuto della lotta aperta. I pontefici dal loro canto non accettano la situazione loro fatta dalla legge 13 maggio 1871, che na inteso assicurare loro l'indipendenza spirituale in luogo dello Stato perduto, e protestano continuamente contro di essa.
Gli anni della guerra mondiale e quelli immediatamente seguenti vedono un aumento del prestigio della Santa Sede; tutti i paesi vanno a gara nello stringere relazioni diplomatiche con essa: anche la Francia, ove da oltre un decennio dominavano correnti ostilissime, anche la Gran Bretagna, che non aveva tenuto relazioni diplomatiche con Roma dopo lo scisma. Numerosi concordati sono conchiusi dopo la fine della guerra; la situazione della chiesa francese è regolata nel 1924, con un compromesso tra la legge di separazione del 1905 ch'è tenuta ferma, e il punto di vista della Santa Sede, che non accetta soluzioni in cui non sia fatto salvo il principio gerarchico, l'assoluta supremazia del vescovo pur nell'amministrazione dei beni ecclesiastici. Ma evento più saliente di ogni altro è la soluzione della questione romana e l'accordo tra lo Stato italiano e il concordato dell'11 febbraio 1929.
Il cattolicismo fuori d'Europa. - L'Ottocento e il Novecento vedono continuare i progressi delle missioni, contrastati però nei paesi dell'Estremo oriente da correnti nazionaliste e xenofobe; a queste si cerca in un primo periodo di far fronte con la protezione della diplomazia, ed eventualmente delle forze militari europee (la Francia esercita il compito di protettrice degl'interessi cattolici nei paesi non cristiani); in un secondo momento dando opera alla formazione di un clero indigeno, aprendo agl'indigeni anche l'episcopato, facendo concessioni alle usanze locali in tutto quanto non sia dottrina né rito, come negli abiti ecclesiastici e nello stile delle chiese, affinché il cattolicesimo cessi dall'essere considerato come istituzione europea anziché universale. La Santa Sede non allaccia dirette relazioni diplomatiche con la Turchia, l'Egitto, la Cina, il Giappone (per non menzionare se non i maggiori Stati non cristiani che interessano l'azione cattolica): ma, dove possa, invia delegati apostolici cui spetta la vigilanza e la direzione dell'episcopato, del clero e del laicato, e che sono i fiduciarî della Santa Sede per regolare quanto può interessare la vita della Chiesa. Trasporta però a Roma, facendone un ufficio della congregazione De Propaganda Fide, l'Opera per la propagazione della fede, sorta in Francia
Grande influenza conserva la Chiesa nei paesi dell'America del Sud, quasi tutti caldamente cattolici; ma notevoli sono i progressi dell'idea cattolica negli Stati Uniti; il principio della separazione della Chiesa dallo Stato, dell'incompetenza statale a regolare materie ecclesiasiche, attuato dalla grande repubblica, consente al cattolicismo splendide affermazioni, anche nella cultura.
Bibl.: La storiografia eclesiastica si fa incominciare di solito con Eusebio di Cesarea, la cui Storia ecclesiastica contiene numerosi documenti e frammenti di più antichi scrittori (Papia, Egesippo, Giulio Africano ecc.). A essa fanno corona le monografie sulla Vita di Costantino e sui martiri di Palestina e la Cronaca. Continuatori di Eusebio si possono considerare gli storici dei secoli IV e V, Socrate, Sozomeno, Teodoreto, Filostorgio, seguiti poi da Evagrio scolastico, Giovanni di Efeso ecc. In Occidente, la Storia di Eusebio fu tradotta in latino e continuata da Rufino d'Aquileia, l'avversario di S. Girolamo, che a sua volta tradusse e continuò la Cronaca; da Socrate, Sozomeno e Teodoreto, Cassiodoro trasse la sua Historia tripartita. Tralasciamo qui di proposito gli scrittori orientali (v. anche oriente cristiano) e le storie locali minori; non è possibile invece non accennare alle opere storiche di chiaro carattere apologetico, quali, da un lato, l'Historia contra Paganos di Paolo Orosio (ispirata da concetti agostiniani), dall'altro, il De mortibus persecutorum di Lattanzio. Questo carattere apologetico si riscontra del resto in tutti gli scritti di carattere storico del cristianesimo. Anche il bisogno essenzialmente religioso di delineare, in base a varî schemi, un'"economia della salvezza" si manifesta nella storiografia cristiana, specialmente nel Medioevo; come le aspirazioni del tempo, il bisogno di fornire argomenti alla controversia teologica e di reagire contro l'illuminismo, il razionalismo ecc., o di difenderli, si manifestano nella storiografia, anche ecclesiastica, dell'Umanesimo, della Riforma, della Controriforma, ecc. Su tutto ciò, v. storiografia, e gli articoli dedicati ai singoli movimenti, o ai personaggi più importanti, ai quali rinviamo per tutte le indicazioni bibliografiche di carattere particolare. Aggiungeremo soltanto qui che, naturalmente, non v'è documento, letterario, artistico, ecc., dell'età cristiana, o immediatamente anteriore il quale non abbia la sua importanza anche per la storia della Chiesa. Buone e utili raccolte sono: H. Denzinger e C. Bannwart, Enchiridion Symbolorum, 15ª ed., Friburgo in B. 1922; M. J. Rouët de Journel, Enchiridion Patristicum, 5ª ed., Friburgo in B. 1922; C. Kirch, Enchiridion fontium hist. eccl. antiquae, 4ª ed., Friburgo in B. 1923.
Le opere degli scrittori cristiani si trovano riunite, generalmente, in collezioni, quali: J. P. Migne, Patrologia graeca, Parigi 1857-66, voll. 166, e Indice, Parigi 1912; id., Patrologia latina, Parigi 1844-55, voll. 221 (ambedue ristampe di precedenti edizioni); A. Mai, Scriptorum veterum nova collectio, Roma 1825-1838, voll. 10; id., Spicilegium romanum, Roma 1839-1844, voll. 10; id., Nova Patrum bibliotheca, Roma 1844-54, voll. 7; J. B. Pitra, Spicilegium solesmense, Parigi 1852-58, voll. 4; edizioni moderne sono nelle varie collezioni di apocrifi (v.), di Padri apostolici (v.), di apologisti (v. apologetica); nel Corpus Scriptorum ecclesiasticorum latinorum, Vienna 1866 segg.; in Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, Lipsia 1897 segg.; in R. Graffin e F. Nau, Patrologia orientalis, Parigi 1906 segg.; in B. Carra de vaux, J.-B. Chabot, I. Guidi, H. Hyvernat, Corpus scriptorum christianorum orientalium, Parigi 1903 segg.
Più accessibili le note collezioni di testi in lingue originali o in versioni: H. Lietzmann, Kleine Texte, Bonn 1908 segg.; H. Hemmer e P. Lejay, Textes et documents pour l'étude historique du christianisme, Parigi 1904 segg.; P.-L. Couchoud, Textes du christianisme, Parigi 1927 segg.; J. A. Robinson, Textes and studies, Cambridge 1891 segg.; A. J. Mason, Cambridge patristic texts, Cambridge 1904 segg.; Texts for students, della Society for promoting christian knowledge (S. P. C. K.), Londra; A. Harnack e altri, Texte und Untersuchungen, Lipsia 1883 segg.; G. Vizzini, Bibliotheca sanctorum patrum, Roma 1901, segg.; G. Rauschen, Florilegium patristicum, Bonn 1904 segg.; E. Buonaiuti, Testi cristiani antichi, Roma 1921-1925, voll. 12; Studi e testi, editi dalla Biblioteca Vaticana, Roma 1900 segg., voll. 52; Bibliothek der Kirchenväter, Kempten 1911 segg., ecc.
Per il Medioevo e l'età moderna, tutte le grandi collezioni; in primo luogo: i Monumenta Germaniae historica, Hannover 1826-1897, Berlino 1877 segg.; le Fonti per la storia d'Italia, Roma 1895 segg. e la nuova edizione dei Rerum Italicorum Scriptores, Città di Castello-Bologna 1900 segg. a cura dell'Istituto storico italiano; le edizioni dei "registri" papali in Bibliothèque des Écoles françaises d'Athènes et de Rome, parigi 1883 segg. (Gregorio IX, Innocenzo IV, Alessandro VI, Urbano IV, Clemente IV, Gregorio X, Giovanni XXI, Niccolò III, Martino IV, Onorio IV, Niccolò IV, Bonifacio VIII, Benedetto XI); il Liber pontificalis, ed. L. Duchesne, Parigi 1886-92, voll. 2; e ed. T. Mommsen (incompiuta), in Monumenta Germaniae hist., Berlino 1898; le grandi opere di consultazione, talune ormai antiquate, come: B. Hauréau, Gallia christiana, 2ª ed., parigi 1715-1785, continuaz., Parigi 1856 segg.; L. Duchesne, Les fastes épiscopaux de l'ancienne Gaule, 2ª ed., Parigi 1907-15, voll. 3; E. Flórez e continuatori, España sagrada, Madrid 1747-1879, voll. 51; F. Ughelli, Italia sacra, Venezia 1717-22, voll. 10; L. Duchesne, Les anciens évêchés de la Grèce, in Mélanges d'archéol. et d'histoire, XV, Roma-Parigi 1895; P. F. Kehr, Italia pontificia, Berlino-Roma 1906 segg.; A. Brackmann, Germania pontificia, Berlino 1910 segg.; F. Savio, Gli antichi vescovi d'Italia dalle origini fino al 1300, I, Piemonte, Torino 1898; II, Lombardia, i, Milano 1913, ii, 2, Bergamo 1929; F. Lanzoni, Le antiche diocesi d'Italia, Faenza 1927, voll. 2; P. Gams, Kirchengeschichte von Spanien, Ratisbona 1862-79, voll. 5; id., Series episcoporum ecclesiae catholicae, Ratisbona 1873; C. Eubel, Hierarchia catholica Medii Aevi, Münster 1898-1901, voll. 2; A. Hauck, Kirchengeschichte Deutschlands, 4ª ed., Lipsia 1929, voll. 4; P. Jaffé-A. Potthast, Regesta pontificum romanorum, Berlino 1874-1888, voll. 4; P. Fabre, Étude sur le Liber Censum de l'Église romaine, Parigi 1892; K. Vöeken, Kirchengeschichte Polens, Berlino-Lipsia 1930, ecc. ecc. Gl'Istituti delle varie nazioni esistenti in Roma, hanno pubblicato studî e documenti sulle relazioni dei varî paesi con la Santa Sede.
Notizie sugli scrittori cristiani si trovano, naturalmente, nelle diverse storie letterarie; per l'epoca antica, speciali, più recenti e attendibili: O. Bardenhewer, Geschischte der altkirchlichen Literatur, Friburgo in B. 1913 segg.; P. de Labriolle, Histoire de la littér. latine chrétienne, 2ª ed., Parigi 1920; A. Puech, Histoire de la litt. grecque chrétienne, Parigi 1928-30, voll. 3. V. anche patristica. Per i papiri, alcuni molto importanti, C. Wessely, Les plus anciens monuments du christianisme... sur papyrus, in Patrologia Orient., XVIII; H.I. Bell, Jews and Christians in Egypt, Londra 1924; e le diverse collezioni (v. papirologia).
Per i monumenti archeologici le varie collezioni epigrfiche (v. epigrafia); in particolare, G. B. De Rossi e A. Silvagni, Inscript. christ. Urbis Romae, Roma 1857-88, Perugia 1916; G.B. De Rossi, La Roma sotterranea cristiana, Roma 1864-67 e 1887-98; id., Bullettino di archeologia cristiana, Roma 1863-1894, continuato dal Nuovo bullettino, Roma 1895-1922 e dalla Rivista di archeologia cristiana, Roma 1924 segg. Per la letteratura agiografica, le varie pubblicazioni dei Bollandisti (v. acta sanctorum; martirologio); per la liturgia: L. Duchesne, Origines du culte chrétien, 5ª ed., Parigi 1920; F. Cabrol, Le livre de la prière antique, Parigi 1900; H. Leclercq e F. Cabrol, Monumenta ecclesiae liturgica, Parigi 1900 segg.; P. Batiffol, Histoire du bréviaire romain, 3ª ed., Parigi 1911 (v. anche liturgia); per i concilî (v.): G. D. Mansi, Sacror. Concil. nova et ampliss. collectio, Venezia 1759 segg., e le continuazioni; E. Schwartz, Acta conciliorum oecumenicorum, Strasburgo 1914 segg.; J. Hefele e H. Leclercq, Histoire des conciles, Parigi 1907 segg.; fino al tridentino, e P. Richard, Concile de Trente, ivi 1930; per i concordati V. Nussi, Conventiones... inter S. Sedem et civilem potestatem, Magonza 1871 e v. concordato; per la storia dei dogmi (v.): J. Tixeront, Histoire des dogmes, Parigi 1905-24, voll. 3; R. Seeberg, Lehrbuch der Dogmengeschichte, Lipsia 1917 segg.; per le raccolte di bolle pontificie (bollarî) v. bolla; per gli ordini religiosi, v. le voci singole; per la storia dei rapporti fra la Chiesa e lo Stato, v. sotto Chiesa e Stato.
Fra le storie generali della Chiesa, recenti, segnaliamo: F. R. Rohrbacher, J. Chantrel e Chamard, Annales ecclésiastiques, pour faire suite à l'histoire universelle de l'église, Parigi 1897; K. Bihlmeyer, Kirchengeschichte auf Grund des Lehrbuches von F. X. von Funk, 3ª ed., Paderborn 1926 segg.; J. H. Kurtz, Handbuch der Kirchengeschichte für Studierende, 14ª ed. a cura di N. Bonwetsch e P. Tschackert, voll. 2 (4 parti), Lipsia 1906; Handbuch der Kirchengeschichte für Studierende, ed. da G. Krüger, G. Ficker, H. Hermelink, E. Preuschen, voll. 4 (con l'indice), Tubinga 1911-13; J. Hergenröther, J. P. Kirsch, Handbuch der allgemeinen Kirchengesch., Friburgo in B. 1925 segg.; F. Mourret, Histoire générale de l'église, Parigi 1909 segg.; nuova ed., ivi 1920 segg.; K. Müller, Kirchengeschichte, 2ª ed., Tubinga 1924; J. Wellhausen, A. Jülicher, A. Harnack, N. Bonwetsch, K. Müller, A. Erhard, E. Troeltsch, Geschichte der christlichen Religion, 2ª ed., Lipsia-Berlino 1922 (in Die Kultur der Gegenwart, I, iv, voll. 2); H. v. Schubert, Grundzüge der Kirchengeschischte, Tubinga 1930; oltre a numerose opere minori e manuali scolastici, cattolici e protestanti.
Su singoli punti o periodi, specialmente per la Chiesa antica, v.: A. Harnack, Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten 3 Jahrh., 3ª ed., Lipsia 1915 (trad. it., Torino 1906); L. Duchesne, Histoire ancienne de l'église, Parigi 1906 segg. e ristampe, voll. 3 (trad. it. Milano-Roma 1908 segg.); id., L'église au VIe siècle, Parigi 1925; P. Batiffol, Le catholicisme des origines à Saint Léon, 4 parti, Parigi 1909 segg.; Manuale introduttivo alla storia del cristianesimo, I: Il cristianesimo antico, Foligno 1925; A. Kidd, History of the Church to A. D. 461, Oxford 1922; G. Guignebert, Le christianisme antique, Parigi 1921; id., Le christianisme médiéval et moderne, Parigi 1922; L. Duchesne, Les premiers temps de l'état pontifical, 2ª ed., Parigi 1904; U. Berlière, L'ordre monastique, 4ª ed., Maredsous-Parigi 1930 (trad. it., Bari 1929); F. Rocquain, La papauté au Moyen Âge, Parigi 1881; id., La cour de Rome et l'esprit de réforme avant Luther, Parigi 1893-1897, voll. 3; L. v. Pastor, Geschichte der Päpste seit dem Ausgang des Mittelalters, Friburgo in B. 1886 segg. (tard. it., nuova ed., Roma 1925 segg.); i varî volumi che costituiscono la Bibliothèque de l'enseignement de l'histoire ecclésiastique, Parigi 1897 segg.
Opere di consultazione: A. Baudrillard, collaboratori e continuatori, Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésisatique, Parigi 1909 segg.; A. Vacant, E. Mangenot, E. Amann, Dictionnaire de théologie catholique, Parigi 1903 segg. (ristampa 1923 segg.); F. Cabrol e H. Leclerq, Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de liturgie, Parigi 1924, segg.; J. B. Jaugey, Dictionnaire apologétique de la foi catholique, 3ª ed., Parigi 1899, 4ª ed. a cura di A. d'Alés, Parigi 1909 segg.; A. Hauck, Realencyklopädie für protestantische Theologie und Kirche, Lipsia 1896-1913, voll. 24; H. Gunkel e L. Zscharnack, Die Religion in Geschichte und Gegenwart, 2ª ed., Tubinga 1927 segg.; Smith e Wace, Dictionary of Christian biography, Oxford 1877 segg., in parte antiquato ma ancora utile.
Principali riviste viventi, oltre le riviste storiche generali (buon notiziario in Archivio della soc. rom. di st. patria) quelle dedicate ai singoli ordini religiosi, o prevalentemente teologiche: Revue des sciences religieuses, Strasburgo 1921 segg.; Recherches de science relig., Parigi 1910 segg.; Revue bénédictine, Maredsous 1884 segg.; Revue d'histoire et de philosophie relig., Strasburgo 1921 segg.; Revue d'histoire ecclésiastique (con ricchi bollettini bibliografici), Lovanio 1900 segg.; Journal of theological studies, Oxford-Londra 1899 segg.; Journal of religion, Chicago 1920 segg.; Harvard theological Review, Cambridge Mass. (U. S. A.), 1908 segg.; Zeitschrift für die neutestamentl. Wissensch. und die Kunde, der älteren Kirche, Giessen 1900 segg.; Zeitschrift für Kirchengeschichte, Gotha 1876 segg.; Theologische Literaturzeitung, Lipsia 1876 segg. (bibliografia, con ampio notiziario e ricchi supplementi bibliografici); Archiv für Reformationsgeschichte, Lipsia 1903 segg.; Revue de l'Orient chrétien, Parigi 1896 segg.; Oriens christianus, Lipsia 1901 segg.; Ricerche religiose, Roma 1925 segg.
Lo Stato della Chiesa.
Lo Stato della Chiesa (Stato pontificio, Patrimonio di S. Pietro) è quello che si costituì, con centro Roma e il Lazio, verso la metà del sec. VIII, sotto la sovranità temporale del vescovo di Roma quale successore di S. Pietro nel governo religioso della Chiesa cattolica.
Il periodo delle origini: 728-784. - Le prime notizie su un ducatus romanus risalgono agli ultimi decennî del sec. VII. Comprendeva, a nord, tra il mare e il Tevere, la Tuscia suburbicaria; al centro, fra il Tevere e l'Aniene, residui dell'antica Valeria; a sud, sin quasi a Gaeta, una parte considerevole della Campania; ed era organizzato, come gli altri ducati bizantini, con a capo un duca, e, sotto questo, una serie di dignitarî civili, fra cui il praefectus urbis. Sino alla lotta contro le immagini, il duca e il prefetto erano inviati da Costantinopoli: ma dal 727 in poi la nomina loro e degli altri iudices de mılitia appare in mano di un'aristocrazia locale, il cui organo principale era pur sempre il senato di Roma, ormai spogliato della sua antica funzione politica, ma rimasto come organo dell'amministrazione cittadina.
L'influenza politica di questa aristocrazia senatoria, formante il vero e proprio stato maggiore dell'exercitus romanus, anch'esso ormai indigeno, sugli affari interni della città e del ducato, e specialmente sull'elezione papale, andò sempre più crescendo nel sec. VIII; e la caduta dell'esarcato nelle mani dei Longobardi, liberandolo da ogni controllo superiore, l'avrebbe resa padrona di fatto del ducato (come avvenne per le città della Campania greca, Napoli, Gaeta, Sorrento, Amalfi, e per Venezia), se a Roma, accanto al senato e all'exercitus, non ci fossero stati il venerabilis clerus e i proceres ecclesiae, ossia i dignitarî e i funzionarî formanti la curia del vescovo; e se, soprattutto, il duca non avesse qui avuto un troppo pericoloso rivale nel vescovo, forte, oltre che della sua autorità religiosa, ingigantita dal prestigio sin d'allora goduto presso tutto il mondo cattolico, della somma di poteri giurisdizionali politici e amministrativi avuti in concessione da Giustiniano in poi. Di qui, negli anni tra l'inizio dell'iconoclastia e la caduta dell'esarcato (736-751), la tortuosa politica dei papi Gregorio II e III e Zaccaria, oscillante tra la necessità di arrestare l'invasione longobarda e il bisogno di procurarsi un appoggio contro le pretese dell'elemento civile e militare indigeno. Parve, un istante, che questo appoggio potesse esser fornito dagli stessi re longobardi, mediante il fascino religioso esercitato su essi dai papi, cui riuscì di far restituire a sé stessi, come successori di S. Pietro nel governo della Chiesa, anziché all'esarca o al duca di Roma, le terre occupate ai confini del ducato: onde la donazione fatta da Liutprando, nel 728, di Sutri, e, pochi anni dopo, l'altra, di Bieda, Orte, Ameria e Bomarzo. Nelle quali donazioni, concepite come restituzioni, era implicito il presupposto, da cui i papi muoveranno tra poco per mostrare le ragioni del nuovo stato: la coincidenza della romana respubblica con l'insieme dei diritti spettanti a S. Pietro e, per esso, al vescovo pro tempore della chiesa romana. Ma le cose cambiarono, quando re Astolfo, rappresentante dell'intransigente nazionalismo longobardo, occupata nel 751 Ravenna e l'esarcato, accampò minaccioso nel ducato romano.
Per impedire che Astolfo, realizzando più ampie conquiste nella penisola, riducesse la capitale del mondo cattolico a città longobarda e il suo vescovo a vescovo longobardo, occorreva un protettore che, avendo la forza, sfuggita a Bisanzio, di respingere Astolfo, operasse nell'interesse del clero e del papato, contro l'aristocrazia indigena di Ravenna o di Roma. Il protettore fu trovato in Francia, nell'iniziatore della dinastia carolingia. Né fu dilficile a Stefano II, recatosi a consacrare la nuova dinastia franca, ottenere da Pipino la promessa di scendere in Italia a cacciare Astolfo dai territorî bizantini, per restituirli al vescovo di Roma, come iustitia spettante a S. Pietro. Procedimento che ha fatto nascere, fra le tante, l'ipotesi che proprio allora, o poco prima, fosse fucinato in Roma il documento mirante a crearne la giustificazione: il Constitutum Constantini. Secondo questo documento, Costantino, trasportando la capitale a Bisanzio per non esercitare podestà terrena là dove sedeva il vicario di Cristo, avrebbe addirittura donato a papa Silvestro, oltre una serie di facoltà e privilegi, "romanam urbem et omnes Italiae seu occidentalium regionum provincias loca et civitates". Frase destinata, nella sua indeterminatezza geografica, a rivendicare al vescovo di Roma il dominio delle provincie italiane, non ancora attratte nell'orbita longobarda o prossime a sfuggirle. Del che offre conferma il patto strettosi a Kiersy, tra Stefano II e Pipino (promissio carisiaca), secondo il quale, in caso di vittoria franca, la Corsica, le città e terre a mezzodì di una linea fra Luni e Monselice (oltre la Tuscia longobarda e l'Esarcato, la Venezia, l'Istria e l'Emilia), e i ducati di Spoleto e di Benevento, avrebbero dovuto annettersi al ducato di Roma, considerato come già appartenente alla Chiesa. L'impegno non fu mantenuto che in minima parte, avendo Pipino, nel 756, ristretta la donazione alle sole città e terre dell'Esarcato e della Pentapoli, strappate con due non facili campagne ad Astolfo. Ma quando, dopo un ventennio, comparve in Italia, su invito di papa Adriano I, il figlio di Pipino, Carlomagno, a por fine al dominio longobardo, questi non esitò a richiamare in vita il patto di Kiersy, promettendo alla Chiesa quasi tutta l'Italia peninsulare, a sud della linea fra le foce della Magra e l'Adriatico.
Lo Stato della Chiesa da Adriano I a Gregorio VII: 774-1073. - Neppure Carlomagno realizzò totalmente la promessa. La vastissima donazione del 774, rispettata per il territorio più prossimo a Roma, per l'Esarcato e per la Pentapoli, rimase per tutto il resto lettera morta. Solo si venne, verso il 781, a una specie di compromesso tra Adriano e Carlo: mentre il papa rinunziava a ogni dominio diretto sui ducati di Tuscia e di Spoleto (non alla pretesa, rimasta puramente teorica, su Benevento), Carlo garentiva alla Chiesa i possessi patrimoniali nel Beneventano e arrotondava il dominio risultante dalla donazione del 756 con la cessione di un gruppo di città della Campania longobarda (Sora, Arpino, Arce, Capua, Teano, Aquino), della Sabina, e di alcuni centri della Tuscia longobarda (Viterbo, Orvieto, Soana, Roselle). Ed è questo, in sostanza, non quello del 774, il complesso territoriale, che vediamo riconosciuto e confermato ai pontefici nei tre privilegi imperiali in loro favore, di cui, sino alla netà del sec. XI, ci è conservato il testo (di Ludovico il Pio, nell'817; di Ottone I, nel 962; di Enrico II, nel 1020): ove s'isolino, in questo, le parti che sembra si debbano ritenere genuine, dai brani che si ha motivo di ritenere ad arte interpolati più tardi. Ma neppure su tutto questo complesso territoriale la Chiesa riuscì a mantenere a lungo il proprio dominio. Ben presto le città della Campania longobarda concesse da Carlomagno passarono a far parte del principato di Capua. Su molte terre della Tuscia meridionale e dell'Umbria settentrionale (per esempio su Perugia), la sovranità pontificia non tardò a ridursi a pura forma, essendosi tra il sec IX e il X affermata su di esse la signoria del marchese di Toscana. Nell'Esarcato e Pentapoli, infine (unificate più tardi, in tutto o in parte, nella designazione di Romagna), la sovranità pontificia urtò con la concorrente e prevalente autorità dell'Impero e del regno italico che nella seconda metà del sec. IX accennò ad assorbire la Romagna, e con le aspirazioni dell'arcivescovado di Ravenna, tendente a rivendicare su di esse l'esercizio dei diritti già proprî dell'esarcato bizantino. Sicché, di tante terre donate a S. Pietro, solo quelle più vicine a Roma e al Lazio poterono, nei primi secoli del Medioevo, considerarsi in effettivo possesso della Chiesa e dei papi. Di lì, fin dalla metà del sec. VIII, affluirono al palazzo del Laterano, centro dell'amministrazione pontificia, tutti i tributi e i pubblici redditi dovuti prima all'imperatore d'Oriente, e per lui al palatium di Ravenna; e anche cominciò a far capo al papa tutta l'organizzazione politica e amministrativa dello stato.
Ma anche nell'ambito di questi territorî, il papa sin dall'inizio trovò concorrenti o rivali. Innanzi tutto, il popolo e il senato di Roma. La sua sovranità non distrusse ogni traccia di assemblee popolari o di populares conventus, e tanto meno tolse di mezzo il Senato, di cui può aversi per certa la persistenza, durante i secoli della Roma papale, non come designazione generica dell'aristocrazia cittadina, ma proprio come corpo chiuso, dotato di competenze deliberative ed elettive non chiare. Ciò significa che gli elementi ecclesiastici non riuscirono ad avere il sopravvento, nel Senato e nelle assemblee popolari, sugli elementi civili, l'aristocrazia, il popolo, l'esercito. Tra i due elememi, il conflitto rimase latente, pronto a scoppiare, anche violentemente, a ogni occasione. Di qui la necessità di far ricorso a un'autorità superiore, estranea, capace di tenere a freno questi concorrenti e rivali interni. Essa fu, dapprima, il re franco, con l'autorità indeterminata di patricius romanorum, conferita a Pipino da Stefano II; poi, dopo il Natale del 799, con poteri più precisi e fascino maggiore, l'Impero d'Occidente, rinato per mano di Leone III nella persona di Carlomagno. Specialmente le violenze che, con pericolo di scisma, accompagnarono la morte di Pasquale I e l'elezione di Eugenio II (824) costrinsero a invocare l'intervento del protettore; e si ebbe la costituzione di Lotario dell'824, specie di carta costituzionale dello Stato della Chiesa, che si risolveva in una concreta limitazione della sovranità del papa. L'elezione pontificia era in essa proclamata libera da ingerenze estranee e affidata ai soli Romani, con partecipazione anche dei laici; ma l'eletto doveva, prima di essere consacrato, prestare giuramento al messo dell'imperatore e al popolo. L'imperatore, poi, si riservava il diritto di ammonire e ispezionare i magistrati e i funzionarî del papa, nonché di riformarne le sentenze e le decisioni e di esercitare, attraverso un suo missus residente in Roma, un continuo controllo sull'insieme degli affari interni. Pare anzi che la competenza giudiziaria del messo imperiale nella stessa Roma superasse spesso, nella seconda metà del sec. IX, i limiti previsti dalla costituzione dell'824. Tuttavia, questo compromesso tra le due sovranità rappresentava per lo stesso clero una garanzia indispensabile. Quando infatti, dopo il crollo della dinastia carolingia, vennero a mancare un protettore e il suo rappresentante in Roma, l'aristocrazia laica, prevalendo di fatto nel senato ed esercitando le più alte cariche dello Stato, ridusse pressoché a nulla la sovranità del pontefice. Fu la cosiddetta età ferrea del papato (888-1059). La famiglia di Teofilatto, conte di Tuscolo, che cumulava in sé, al principio del sec. X, le dignità di consul, dux, magister militum, sacri palatii vesterarius e, come senator Romanorum, era arbitro del senato, fornì all'aristocrazia laica di Roma una successione di capi, spesso di alto rilievo (si ricordi Alberico II, arbitro dello Stato), che, con alterne vicende tra i due rami rivali dei Crescenzî e dei Tusculani, presiedettero, per circa un secolo e mezzo, ma specialmente dalla fine del sec. IX, col titolo di patricius, ai destini dello Stato della Chiesa. Per quasi tutta la prima metà del sec. X, la nomina stessa del papa fu nelle mani del tiranno di Roma. Nel 955, con l'ascensione alla tiara del figlio di Alberico, Ottaviano (Giovanni XII), parve che il titolare del papato riassumesse in sé il dominio temporale: ma Giovanni XII lo esercitò più nell'interesse dell'aristocrazia laica che in quello del clero, anche se poi, chiamando a Roma Ottone I a cingervi la corona imperiale (26 febbraio 962), egli stesso si sia trovato a dover porre un freno alla crescente strapotenza dell'elemento laicale nello Stato pontificio e nello stesso governo della Chiesa, e a richiamare in vita l'assetto fissato dalla costituzione di Lotario dell'824.
Tuttavia si vide subito che l'interpretazione che Ottone I dava al patto dell'824 faceva del protettore quasi un padrone. Dal 963 in poi, Ottone I pretese che nessun papa potesse essere eletto e ordinato se non scelto dall'imperatore, con che l'elezione pontificia passava dall'influenza locale, indigena, romana, a un'influenza straniera, con grave pregiudizio del clero. E cosi fu sino a che l'impero rimase agli Ottoni (962-1002). Si ebbero anche due papi, uno cugino (Gregorio V), l'altro amico (Silvestro II) di Ottone III. Il quale tentò di fare addirittura l'ultimo passo: sostituire alla mediata la sovranità immediata, riducendo il papa alle funzioni esclusivamente spirituali. Ma col successore Enrico II, e, ancor più, col primo imperatore salico, Corrado II, l'Impero tornò ad essere assente da Roma, e l'aristocrazia romana riafferrò il potere. Dal 1012, per oltre 30 anni, la famiglia dei Tusculani, atteggiantesi a luogotenenti imperiali, riuscì a ridurre il papato e lo Stato della Chiesa a una specie di feudo domestico. Sennonché, quando papa Benedetto IX, che aveva a 12 anni ereditato il papato dallo zio Giovanni XIX, osò cederlo per denaro, come proprietà privata, all'arciprete della Chiesa romana, Giovanni Graziano (Gregorio VI), suscitando uno scisma, quegli elementi del clero romano fra cui fermentavano aspirazioni di riforma ecclesiastica, invocarono nuovamente l'intervento imperiale. Ed Enrico III, proclamandosi patrizio dei Romani, avocò a sé il diritto di designare e presentare all'assemblea romana il candidato alla tiara, esercitandolo finché visse, con l'appoggio dei sostenitori della riforma e imponendo ai Romani ben quattro successivi papi forestieri (Clemente II, Damaso II, Leone IX, Vittore II).
Ma anche contro questo stato di cose non tardò a nascere opposizione; la quale nulla aveva di comune con quella dell'aristocrazia romana, ora appoggiata contro l'imperatore dal marchese di Toscana e dai Normanni, ma muoveva da quello stesso partito della riforma ecclesiastica che da prima sembrava appoggiarsi all'imperatore. Massimo interprete di questo partito, Ildebrando da Soana, consigliere intimo degli ultimi papi, col suo vasto programma di liberare l'autorità spirituale del papato e, insieme, il governo temporale dello stato pontificio, tanto dalla tirannide laicale e aristocratica quanto dalla tutela imperiale. Cogliendo l'occasione della quasi contemporanea scomparsa di Enrico III, che lasciò per qualche tempo l'Impero a una reggenza femminile, e di papa Vittore II, che parve riaccendere le speranze di riscossa dell'aristocrazia romana (1056-57), Ildebrando capovolse la situazione, imponendo alla reggenza e alla nobiltà romana, con l'aiuto del marchese di Toscana e dei principi normanni, guadagnati alla causa della riforma, un papa riformatore, Nicola II (1059). Primo atto suo: il decreto che trasferiva la designazione del papa ai soli cardinali vescovi. I diritti tradizionali della corona germanica erano così di fatto annullati, nonostante le espressioni di riguardo alla persona dell'imperatore. Nel 1073, lo stesso Ildebrando diventava Gregorio VII. E poiché in Germania Enrico IV aveva afferrato con saldissime mani le redini dell'Impero, fu inevitabile il conflitto. Ma Gregorio VII ne spostò e allargò il significato e la meta, inserendo il problema costituzionale dello Stato della Chiesa, nel più vasto e complesso dei rapporti tra i due governi supremi del mondo cristiano, tra la Chiesa e l'Impero: la lotta per le investiture (v.) era già cominciata.
Lo Stato della Chiesa da Gregorio VII a Innocenzo III: 1073-1198. - Durante l'età gregoriana, già prima della lotta per le investiture, ma in intima connessione con lo svolgersi di questa, si ebbero i primi risoluti tentativi della S. Sede per consolidare e ampliare il suo dominio territoriale. Ma, per le condizioni stesse in mezzo a cui il tentativo fu compiuto, si mirò non solo a ricuperare i territorî, quali l'Esarcato e la Pentapoli, incontestabilmente ceduti alla Chiesa, ma anche ad acquistare altri territorî, quali la toscana, il ducato di Spoleto, e in genere, tutta l'Italia meridionale e insulare, la cui rivendicazione non trovava sufficiente appoggio nel testo genuino dei privilegi imperiali. E questo appoggio si cercò allora nel testo della falsa donazione costantiniana o attraverso la manipolazione o interpolazione dei privilegi genuini esistenti; ma con esito assai scarso. Nel sud, è vero, i cittadini di Benevento, cacciati i duchi Pandolfo e Landolfo, trasferirono il dominio della città e territorio a papa Leone IX (1051); e i principi normanni di Aversa e di Puglia si fecero investire da Nicola II del principato di Capua, del ducato di Puglia e Calabria e, quando la conquistassero agli Arabi, della Sicilia, dando inizio a quella che sarà poi per secoli la sovranità feudale della S. Sede sul Regno di Sicilia. Ma sostanzialmente sterili riuscirono invece le pretese avanzate nell'età gregoriana sulla Toscana e su Spoleto. E in fondo, lo stesso uso invalso verso la metà del sec. XII, da parte della Chiesa, di designare col nome di Patrimonium Sancti Petri il territorio da Acquapendente e, poco dopo, da Radicofani a Ceprano (antico ducato romano, più la Sabina e qualche acquisto verso la Toscana meridionale e verso la Campania, e quasi tutta l'Umbria sino al Trasimeno), dimostra che, sino alla fine di quel secolo, questo era, nella stessa coscienza della Chiesa, il vero e proprio Stato pontificio. E se ne ebbe conferma dalla pace conclusa, nel 1177, a Venezia, tra Federico Barbarossa e Alessandro III, in forza della quale vennero restituiti a S. Pietro solo i territorî che, entro i confini del patrimonio, erano stati occupati dall'Impero durante la lotta precedente, mentre questo si tenne il ducato di Spoleto, la marca di Ancona, la Romagna e la Toscana.
Ma di quel patrimonio, la Chiesa aveva ormai conquistata la piena e assoluta sovranità. Già dalla fine del sec. XI, nessun imperatore e nessun rappresentante tedesco si era più ingerito nell'amministrazione dello Stato romano; e se il Barbarossa ebbe qualche pretesa, nel 1177 vi rinunciò espressamente. Più ancora: l'elezione del papa era ormai libera da ogni diretto controllo o intervento imperiale. Già nel concordato di Worms (1122), al regolamento delle investiture episcopali e abbaziali, si era aggiunta la frase: exceptis omnibus quae ad romanam eccleasiam pertinere noscuntur. Cioè l'lmpero aveva tacitamente accettato il decreto del 1059. Ma con la proclamazione, poi, del III concilio lateranense (1179), al tempo di Alessandro III, che solo ai cardinali spettava di nominare il papa, cioè, anche, il sovrano temporale del Patrimonio di San Pietro, si venne a togliere, insieme col consenso del clero e del popolo, ogni occasione d'intervento ai partiti, alle fazioni e, per conseguenza, agli imperatori.
Naturalmente, l'autorità di questo sovrano temporale, sulle terre di S. Pietro, per quanto ormai assoluta e incontrastata in teoria, non era di fatto più effettiva e reale di quanto fosse contemporaneamente, quella del re d'Italia e sacro imperatore romano, sulle terre del Regno e dell'Impero. Anche il patrimonio fu, in questo periodo, uno Stato in cui la volontà del sovrano si faceva valere solo sin dove lo permettessero la potenza, in parte legittima, in più gran parte usurpata, di feudatarî, spesso ribelli e in armi contro il proprio signore, e la vastissima autonomia, già, più in fatto che in diritto, conquistata ed esercitata dalle comunità cittadine e rurali. Anche a Roma, sebbene vi si fosse affermato quasi ovunque il predominio dei funzionarî ecclesiastici sulle antiche organizzazioni civili, le vicende della lotta per le investiture avevano condotto ad un acuirsi del disordine e dell'anarchia. Avrebbero anzi, secondo una ipotesi recente, condotto, durante uno degli episodî più gravi di quella lotta tra il 1083 e il 1084, a un fugace affermarsi, in Roma, d'un vero e proprio governo comunale e all'origine dell'istituto del consolato, divenuto poco dopo tradizionale in tutte le città italiane. Questa ipotesi non è ancora dimostrata; ma fu certo un moto di origine popolare quella rivoluzione del 1143 dalla quale si suole far tradizionalmente cominciare la storia del comune autonomo di Roma. Dopo un breve e violento tentativo di resistenza dei papi Lucio II ed Eugenio III, connesso con l'episodio di Arnaldo da Brescia, la Santa Sede cedette, e col patto del 1145 Eugenio III investì il Senato, trasformatosi in senso democratico, di una larghissima autonomia amministrativa e politica. La tendenza del Senato ad allargare la sfera delle facoltà riconosciutegli e ad estendere, in danno della sovranità pontificia, la giurisdizione del comune di Roma su gran parte del Patrimonio, e lo sforzo dei papi per contenere e limitare l'espansione interna ed esterna dell'autonomia, diedero per tutto il secolo origine a conflitti, spesso violenti e tenaci, tra il sovrano e la città capitale del suo stato: ma l'autonomia del comune di Roma superò ogni crisi, e ricevette definitiva conferma, presso a poco sulle stesse basi del 1145, nel patto del 1188 tra Clemente III e il Senato. Contemporaneamente, si delineavano nelle provincie, circoscrizioni territoriali (Marittima, Sabina, Tuscia, Patrimonio, Campagna), sotto comites, duces o consules. Ma anche là dove non si fosse affermato, di diritto o di fatto, il dominio del senato di Roma, la sovranità pontificia incontrava dovunque limiti nelle signorie feudali dall'aristocrazia romana, nella resistenza di signorotti locali, nelle autonomie urbane o rurali.
Lo Stato della Chiesa da Innocenzo III a Clemente V: 1198-1305. - Sul finire del sec. XII, una grave minaccia all'indipendenza politica della S. Sede e alla consistenza del patrimonio si annunciò con l'unione del regno di Sicilia al Regno d'Italia e all'Impero, dopo che Enrico VI, figlio del Barbarossa e marito dell'erede della monarchia normanna, Costanza, fu incoronato imperatore nel 1191, e re di Sicilia nel 1194. Ma la morte repentina di Enrico VI, nel 1197, capovolse a un tratto la situazione in favore della Chiesa. L'ascesa poi di Innocenzo III (1198) segnò l'inizio della seconda e più violenta offensiva messa in opera dalla S. Sede, mediante la serie di recuperationes, allo scopo d'impadronirsi, approfittando della crisi determinata dalla morte di Enrico VI e dalla minorità del figlio Federico II, di quei territorî dell'Italia centrale, il cui possesso le appariva più necessario a rompere il cerchio creatole attorno dalla riunione del regno di Sicilia e dell'Italia settentrionale nel titolare della corona imperiale. La nuova offensiva apparve destinata a successi più ampî e duraturi che non quella dell'età gregoriana, a causa della lotta fra i due candidati all'impero (Filippo di Svevia e Ottone di Brunswick), la quale permise a Innocenzo III di far dipendere il proprio riconoscimento o appoggio all'uno o all'altro candidato o titolare della corona imperiale dal loro consenso a staccare dall'Impero e dal Regno italico i territorî pretesi dalla S. Sede. In prima linea, il ducato di Spoleto e la marca di Ancona, che Ottone di Brunswick s'indusse, per due volte (1201 e 1209), a promettere, per ottenere dapprima la propria conferma e la scomunica dell'avversario, poi, morto questo, la propria incoronazione. Ma i due diplomi non eran stati approvati dalla dieta dell'Impero; e ciò diede pretesto a Ottone di non tener l'impegno. Innocenzo III lo scomunicò e gli suscitò contro la lega di principi, che proclamò re di Germania il giovane Federico II. Questi si affrettò a riconoscere tutte le pretese territoriali già invano garentite alla Chiesa dal suo avversario. Giurò anche, al papa, di non tenere per sé il regno di Sicilia, ma di darlo al suo primogenito. Ma appena scomparso Innocenzo (1216), egli mostrò di non esser disposto a mantenere la promessa. Il conflitto, latente durante il papato di onorio III, a cui Federico II confermò nel 1219, col consenso della dieta, la cessione della marca di Ancona e del ducato di Spoleto, scoppiò violentissimo con Gregorio IX e divenne con Innocenzo IV (1241-54) un duello a morte tra Chiesa e Impero. Nel 1239 Federico II rispondeva alla scomunica lanciatagli dal papa, rioccupando Spoleto e Ancona e conservandole saldamente come terre d'Impero sino alla morte (1250); e così fece per oltre un quinquennio il figlio Manfredi.
Ma era in gioco ben più che il possesso di Ancona e Spoleto. Sin dai primordî della sua esistenza, lo Stato della Chiesa non si era mai trovato a superare un momento così grave come quello seguito alla vittoria ghibellina di Montaperti (1260), che, dando in mano a Manfredi, già capo dei Ghibellini dell'Italia settentrionale, anche la Toscana, lo rese quasi padrone di tutta la penisola. Il ghibellinismo aveva implicita una tendenza unitaria, poco conciliabile con l'esistenza dello stato pontificio, e gia portava in sé il germe della prossima tesi dantesca: invalidità giuridica e storica della donazione costantiniana, riduzione del papato alla funzione religiosa. Si riprodusse perciò, nella seconda metà del sec. XIII, quello stato di forza maggiore, che, cinque secoli prima, di fronte all'avanzata della monarchia longobarda, aveva indotto il papato ad affidare la difesa del potere temporale a un protettore straniero. Anche questa volta francese, per opera di papa Urbano IV, pur esso francese. E dalla battaglia di Benevento (1266) in poi, il ducato di Spoleto e la marca di Ancona fecero parte dello Stato della Chiesa, mentre la dinastia angioina riconfermava sul Regno di Sicilia la sovranità feudale della S. Sede. Pochi anni dopo, Niccolò III avanzava improvvisamente la pretesa essere territorio di S. Pietro anche la Romagna, sebbene il nuovo re di Germania e designato all'impero, Rodolfo d'Asburgo, ne avesse, consenziente il predecessore di Niccolò, Gregorio X, preso pacificamente possesso come di terra imperiale. Dopo qualche resistenza, un diploma imperiale del 1278, approvato dai principi, staccava per sempre la Romagna dalle terre d'Impero. Rimaneva, nel programma di rivendicazioni territoriali, la Toscana. E sforzi in tal senso non mancarono, specialmente con Bonifacio VIII, fra il'200 e '300. Ma fallirono per la resistenza delle città toscane e, soprattutto, per il conflitto che sorse tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello.
Un'ampia e larga striscia dell'Italia centrale, tra il Tirreno e l'Adriatico, che separava il nord e il sud della penisola e comprendeva Lazio, Umbria, Marche, Romagna, sino al Po (a non contare la dipendenza feudale del Regno di Sicilia), era, dunque, sullo scorcio del sec. XII, ormai giuridicamente unita sotto la sovranità del pontefice, si da costituire, nel crescente frazionamento politico dell'Italia, uno dei più vasti e complessi stati italiani. Dopo Innocenzo III, poi, esso si era venuto organizzando su basi, almeno in apparenza, solide, e si era soprattutto intensificato il processo di ecclesiasticizzazione dei principali organi centrali e provinciali di governo. Da ciò la crescente importanza, anche nei rapporti temporali, del collegio cardinalizio, già dalla seconda metà del sec. XIII avviato a diventare il principale ausiliario dell'amministrazione e della stessa sovranità pontificia. E un cardinale viene posto alla testa degli uffici burocratici, o delle cancellerie, cui è affidato il normale disbrigo degli affari. Da ciò, anche, l'enorme cumulo di cause sottoposte all'esame del Consistorium dei cardinali, giornalmente o settimanalmente convocato sotto la presidenza del papa, a sgravio del quale, sulla fine del sec. XIII, apparve l'istituzione degli auditores, scelti fra i cardinali, i vescovi e i cappellani pontifici: punto di partenza per la formazione, nel 1300, della rota romana, come corte suprema dello stato. Alla fine del sec. XIII risale anche la Dataria, per la preparazione degli atti di grazia, richiesti in foro externo.
Ma l'unità d'indirizzo, ormai raggiunta al centro dello Stato della Chiesa, mancava pur sempre alla periferia. Anzi, l'acquisto dei nuovi territorî aggravò questa mancanza. Lo sforzo dei papi per affermare su essi la propria diretta sovranità urtò con le preesistenti condizioni di fatto, cioè con l'autonomia, già riconosciuta o tollerata dall'imperatore, e talora con una quasi assoluta indipendenza. La sovranità pontificia dovette, perciò, venire a patti. Sicché, per quanto il dominio della Chiesa, sulle recenti e sulle antiche provincie, avesse la propria base giuridica negli atti di donazione o di conferma degl'imperatori, esso non poté dirsi, su parecchie città romagnole, umbre o marchigiane, veramente iniziato, se non dopo una formale manifestazione di volontà del comune o dei suoi organi, risolventesi spesso in poco più di una dichiarazione di fede politica guelfa o di un riconoscimento dell'alta sovranità della Chiesa (come p. es. dalla metà del sec. XII o nel 1198 per Perugia, e nel 1278 per Bologna). Né maggior valore ebbero gli atti di sottomissione dei numerosi tiranni di cui nella seconda metà del sec. XIII pullulava anche la Romagna. Questa varietà e disformità di condizioni politiche e giuridiche tra regione e regione, anche se da secoli spettanti alla Chiesa, si rifletteva naturalmente sull'organizzazione delle provincie (Campagna, Marittima, Patrimonio, Sabina, Ducato di Spoleto, Marca d'Ancona, Romagna, quali, governate ancora da comites; altre, specialmente le più recenti e, in seguito, quasi tutte, affidate a presidi o rettori. Erano essi di nomina pontificia (per lo più ecclesiastici), investiti della piena giurisdizione civile e criminale e avevano la responsabilità del mantenimento dell'ordine nella provincia e della sua fedeltà a S. Pietro. Li assistevano di regola quattro giudici, per le materie ecclesiastiche, per le cause di appello, per i processi criminali e per quelli civili di prima istanza, e un certo numero di consiglieri scelti in varî modi fra gli abitanti della provincia. Cardini dell'amministrazione locale erano dovunque i comuni e i feudi, distinguendosi le terre appartenenti alla Chiesa in soggette immediatamente e mediatamente. Le prime avrebbero dovuto ricevere dalla Santa Sede i rettori provinciali, i podestà o castellani: ma la regola subiva infinite e diversissime eccezioni, per l'impossibilità di ritogliere o annullare le autonomie preesistenti.
Questa struttura feudale dello stato e questo regime di autonomia trovavano tuttavia l'espressione più caratteristica, anche qui, nei parlamenti. Frequente fu, sin dai primi anni del sec. XIII, e si rese normale nella seconda metà del secolo con l'annessione delle Marche e della Romagna, la riunione periodica o straordinaria di parlamenti provinciali, sotto la presidenza dei rettori e con l'intervento della rappresentanza dei tre ordini. Il voto del parlamento era richiesto per l'imposizione e ripartizione di oneri finanziarî e per qualsiasi materia interessante le popolazioni, ogni qualvolta si volesse modificare il diritto vigente.
Quanto alla città di Roma, la vittoria ottenuta dall'energia d'Innocenzo III, non solo rivendicando definitivamente alla sovranità pontificia la prefettura urbana, ormai quasi ereditaria nella famiglia dei conti di Vico, ma piegando la stessa autonomia del comune con l'avocazione al pontefice della nomina e investitura del senatore unico, si rivelò ben presto, dopo la morte d' Innocenzo, più apparente che reale. Perché la nomina pontificia del senatore non impedì che sotto i suoi successori la città di Roma assumesse sempre più i caratteri di una repubblica quasi indipendente, che trattava da pari a pari col proprio sovrano, costringendolo a risieder quasi sempre fuori di Roma, o a negoziare coi delegati del comune le condizioni del proprio ritorno in sede; moveva guerre e stringeva accordi con altri comuni, non meno soggetti alla sovranità del pontefice; pretendeva conquistare e tenere, in nome degli antichi diritti del popolo romano, città e terre del Patrimonio. Si giunse persino, nel 1234, a proclamare con un decreto senatorio essere il popolo di Roma proprietario della Tuscia e della Campania e a inviare giudici del senato a prenderne possesso. Ne segui la scomunica e una vera e propria guerra tra i Romani e il papa Gregorio IX, cui riusci, dopo due anni, di tornare a Roma e rimanerne padrone sino alla morte.
Ma la prolungata assenza da Roma e dall'Italia del suo successore, Innocenzo Iv, e la crescente penetrazione di spiriti ghibellini fra i partiti romani offrirono al popolo l'occasione di riafferrare in pieno, strappando al pontefice la nomina del senatore, la propria autonomia. E poco dopo il 1250, sì estese a Roma il sistema, già in uso presso tutti i comuni italiani per la nomina del podestà, di affidare la dignità senatoria a un forestiere. Il mutamento costituzionale coincise con una violenta reazione democratica contro il predominio del patriziato. Seguirono alcuni anni di torbidi e di rapide alternative tra restaurazionì patrizie e conati di battaglia per guelfi e ghibellini. Aspirò a quell'ufficio, nel 1261, lo stesso Manfredi, ma prevalsero i Guelfi: nel 1261 con Riccardo di Cornovaglia; nel 1262, con Carlo d'Angiò, che tenne il senatorato sin dopo la battaglia di Benevento. Dopo, fu la volta di Arrigo di Castiglia, per volontà del partito democratico (1267). Infine, nuovamente Carlo d'Angiò, per un decennio. Fino a che, scaduto il decennio, Niccolò III, temendo per la indipendenza politica del papato e per la stessa esistenza dello stato ecclesiastico, riconfermò nel popolo romano il diritto di eleggere il senatore e vietò che la dignità senatoria potesse affidarsi a sovrano o principe straniero. Subito dopo il parlamento conferiva a Niccolò III, non come a papa, ma come a cittadino romano e membro della famiglia Orsini, la carica di senatore a vita, insieme col diritto di affidarne, anno per anno o semestre per semestre, l'esercizio a uno o due prosenatori o vicarî da lui nominati. Lo stesso conferimento si ebbe con i papi successivi, fino a quando, morto Bonifacio VIII e non ancora eletto il successore, la borghesia romana tentò una specie di colpo di stato antinobiliare, creando una magistratura di 15 anziani (i per regione) con un capitano del popolo, chiamato da Bologna, ed eleggendo a senatore un milanese che governò Roma per un anno, insieme con la Consulta degli anziani e col capitano.
Lo Stato della Chiesa da Clemente V a Giulio II (1305-1503). - Con il trasporto della curia pontificia ad Avignone, deciso nel 1308, si aprì un periodo, durato sin al 1377, che risultò fra i più funesti non meno alla Chiesa in generale che, in particolare, allo Stato pontificio. Si arrestò il processo di assestamento e di organizzazione unitaria dello Stato della Chiesa, parzialmente iniziato nella seconda metà del'200; i pontefici, lontani e, sino a Urbano VI, tutti francesi, e i loro legati, anch'essi quasi sempre francesi, perdettero ogni possibilità di controllo sulla vita interna dello stato e si lasciarono sopraffare dalle forze centrifughe e disgregatrici. Le quali agirono con particolare violenza sulla città di Roma, materialmente danneggiata e avvilita moralmente dalla perdita dell'unico segno che le fosse rimasto dell'antica grandezza, e perciò anche più di prima irrequieta e prona ai disordini e ai partiti estremi.
E si ebbe una sequela di rivoluzioni democratiche e di restaurazioni patrizie, alle quali i papi avignonesi ora assistettero quasi passivi, ora reagirono pur con qualche tendenza a favorire le rivendicazioni democratiche contro le prepotenze della nobiltà. Cosl fu nel 1347, nella prima fase del moto di Cola di Rienzo, prima che questi, avocando al popolo romano l'esercizio diretto del potere temporale c proponendo di estendere la cittadinanza romana a tutti gl'Italiani, assumesse un'attitudine decisamente rivoluzionaria. Avvenne allora il crollo del dittatore: ma per effetto di un rivolgimento interno dei partiti romani, risoltosi nella immediata ripristinazione dei due senatori patrizî, fino a che nel 1358 papa Innocenzo VI pose fine al sistema dei due senatori patrizî e restaurò il senatore unico e forestiero. Contemporaneamente il popolo istituì, accanto al senato pontificio, il consiglio dei 7 riformatori della repubblica, sul tipo dei priori di Firenze. Due anni dopo il cardinale Albornoz confermava, in nome del pontefice, la nuova magistratura popolare, rafforzata contemporaneamente dall'istituzione di una nuova milizia, tutt'affatto democratica, la cosiddetta felix societas balestrariorum. Il governo democratico dei riformatori e dei banderesi, confermato nuovamente nel 1362 da Urbano V, resse qualche anno, per lo più insieme coi senatori forestieri, talora anche da solo, le sorti della città.
Quanto alle provincie, può dirsi che, dal principio del sec. XIV sin quasi alla fine del sec. XV, in quasi tutto lo stato pontificio ogni comune si sia governato a suo modo. Onde i rettori o vicarî della Santa Sede in provincia non ebbero di regola poteri più larghi di quelli di certi vicarî imperiali sulle terre dell'Impero. Rispettati come rappresentanti dell'alta sovranità pontificia, urtarono sempre contro resistenze irriducibili e vittoriose riscosse, ogni qualvolta tentarono di esercitare effettivamente e troppo a lungo il potere. Tanto più che erano in gran parte stranieri. L'anarchia fu perciò, durante il periodo avignonese, generale e insanabile, non solo nelle Romagne e nelle Marche, ma nello stesso Patrimonio e nelle vicinanze di Roma. Nell'agro romano, spadroneggiavano gli Orsini, i Colonna, i Savelli, i Frangipane, i Caetani; i Prefetti di Vico dominavano Civitavecchia, Viterbo, Orvieto, Corneto, Terni; i da Varano erano signori di Camerino; i Montefeltro, di Urbino e Cagli; i Malatesta, di Rimini, Pesaro, Fermo, Sinigaglia, Ancona, Ascoli; gli Ordelaffi, di Forlì e Cesena; i Manfredi, di Faenza; gli Alidosi, di Imola; i da Polenta, di Ravenna e Cervia. Ferrara, su cui nel 1309 Clemente V era riuscito, a costo di una guerra con Venezia, a ripristinare il dominio diretto della Chiesa, era di nuovo tornata, nel 1317, in saldo possesso degli Estensi; Bologna era passata dalla soggezione alla Chiesa, alla Signoria dei Pepoli e da questa a quella dei Visconti; altre città, come Perugia, Cesena, Todi, Assisi, oscillavano continuamente tra il governo comunale e la signoria.
Un arresto a questo disgregamento fu posto per qualche anno dal cardinale Egidio Albornoz, inviato in Italia nel 1353 da papa Innocenzo VI. Con un'azione politica e militare moderata ed energica, condotta in due riprese (1353-57; 1358-67), il cui frutto più durevole fu il riordinamento amministrativo, compiuto col concorso del parlamento delle Marche e suggellato dalle Costituzioni che ebbero nome da lui e durarono in vigore sino al 1816, l'Albornoz riportò l'ordine e la disciplina in gran parte dello stato, sin quasi a ricuperarne le membra disperse e a riunirle in un solo corpo, con istituti di governo uniformi. Ma tutto ciò egli ottenne solo in quanto, dopo avere costrette le autonomie locali a riconoscere dalla sovranità pontificia il legittimo esercizio di ogni potere, le riconobbe a sua volta, legittimando, col conferimento del vicariato apostolico "in temporalibus", il potere già da esse di fatto conquistato ed esercitato, secondo un sistema da lui reso normale, e seguito poi da tutti i pontefici sino alla fine del sec. XV. I tiranni, affermatisi nei comuni delle Marche, delle Romagne, e dell'Umbria, esercitarono così, in nome del papa sovrano, una somma di poteri che appariva formalmente conferita dal popolo.
La restaurazione fornita dall'Albornoz parve render possibile, verso la fine del 1367, un ritorno, almeno temporaneo, del papa Urbano V in Roma. Il giubilo dei Romani, nell'illusione che il ritorno fosse definitivo, fu tale da indurli a sacrificare al pontefice gran parte dell'autonomia così a lungo e tenacemente custodita e difesa, col permettergli di riformare il governo della città. Sicché col 1367 ha inizio il tramonto della repubblica medievale di Roma. Ma la decisione di Urbano V, a soli due anni dal suo ingresso a Roma, di ricondurre la S. Sede ad Avignone e poco dopo il repentino sferrarsi delle cupidigie viscontee e fiorentine, alleate ai danni dello Stato pontificio nella violenta guerra degli Otto Santi (1375-1378), riportarono le cose al punto in cui le aveva trovate l'Albornoz nel 1353. La gravità della crisi indusse nel 1377 Gregorio XI a ritornare definitivamente in Roma, ma l'anno dopo la violenza esercitata dalla folla romana sul conclave per imporre la nomina di un papa italiano (Urbano VI) provocò la ben più grave iattura dello scisma.
Così avvenne che per circa un quarantennio lo Stato della Chiesa fu coinvolto nelle vicende diplomatiche e belliche dello scisma e si alternarono momenti d'impotenza di fronte a repubbliche ribelli o a tirannidi militari e tentativi di restaurazioni pontificie. Due volte parve che lo Stato della Chiesa dovesse crollare. E fu, la prima volta, quando Gian Galeazzo Visconti di Milano, signore di Pisa, Siena, Lucca, Perugia, Assisi, Spoleto, stava per occupar Firenze, il cui possesso gli avrebbe aperto la via verso il Lazio e Roma. La morte di Gian Galeazzo nel settembre 1402 e il subitaneo sfacelo del dominio visconteo restituirono le terre occupate al pontefice romano, Bonifacio IX, che, già da qualche anno padrone di Roma, poté chiudere gli occhi (1404) convinto che ormai tutto lo stato fosse tornato in saldo possesso della S. Sede. Ma gli era appena successo sulla cattedra romana Innocenzo VII, che una più grave minaccia all'integrità dello Stato della Chiesa si annunciò, con la politica aggressiva, favorita dalle vicende dello scisma, del giovane re di Napoli, Ladislao. Il quale, dopo avere imposto al debole Innocenzo un proprio protettorato sulla città, nonché la sua nomina a rettore della Campagna e della Marittima e di Gonfaloniere della Chiesa, osò, morto Innocenzo e succedutogli l'ancora più debole Gregorio XII, occupare egli stesso, tra il 1408 e il 1409, Roma, facendosene conferire dal popolo la signoria diretta, il Lazio e l'Umbria e, mirando al nord, invase la Toscana, urtando qui anche egli nella resistenza, non tanto dello Stato della Chiesa, quanto della repubblica di Firenze, nonché in quella del concilio riunitosi allora in Pisa per metter fine allo scisma con l'elezione di un nuovo pontefice. La lega seguitane tra Firenze, Siena, Pisa e il papa pisano (prima Alessandro V, poi, dal 1410, Giovanni XXIII) costrinse Ladislao a sgombrare i territorî occupati e a lasciare entrare in Roma (1411) Giovanni XXIII; ma due anni dopo Roma era di nuovo in mano di Ladislao, che, riprendendo la marcia verso il nord, metteva il campo presso Assisi e minacciava Firenze, quando la morte lo arrestò (1414). Sennonché dell'anarchia seguita nell'Umbria e nel Lazio all'improvvisa scomparsa di Ladislao approfittarono i suoi condottieri per crearsi dominî proprî: specialmente Braccio da Montone.
L'elezione di Martino, fatta dal concilio di Costanza, e la fine dello scisma (1417) salvarono lo Stato della Chiesa. Nel 1420 Martino V, dei Colonna, con l'efficace aiuto di Muzio Attendolo Sforza entrava nella sua Roma, ripristinandovi la costituzione già imposta ai Romani nel 1309 da Bonifacio IX e sopprimendo ogni residuo di autonoma vita municipale. La repubblica romana aveva cessato di vivere, e il romano Martino aprì la serie dei papi realmente sovrani di Roma. Pochi anni dopo, anche la prefettura urbana cessò di essere un appannaggio ereditario dei signori di Vico, e tornò in mano dei pontefici, ridotta però a pura ombra: al di sopra del prefetto e dello stesso senatore, il governo della città e del distretto spettava ormai sempre più decisamente al vice-camerlengo della Chiesa. I moti sporadici del sec. XV, come la rivolta del 1436 contro Eugenio IV e la congiura di Stefano Porcari durante il papato di Nicolò V (1435), documentarono la resistenza delle aspirazioni municipalistiche e repubblicane, ma non valsero a modificare il nuovo stato di cose. Nel 1420 anche Bologna era stata, con le armi di Braccio da Montone, ricondotta a ubbidire al pontefice. Meno facile fu restaurare il dominio pontificio sull'Umbria, dove il papa era stato costretto a concedere a Braccio il vicariato di Perugia, Assisi, Todi e altre città; ma anche queste tornarono al papa, quando Braccio morì nel 1424. Anche le terre di Romagna, Visconti, furono restituite entro il 1426.
Ma questi risultati parvero compromessi dal dissidio sorto fra il successore di Martino V e il concilio di Basilea e dal breve scisma provocato da questo con l'elezione di Felice V, di cui approfittarono le fazioni nobiliari per una ripresa di disordini nel Lazio e in Roma, e il duca di Milano per fare invadere di nuovo dai suoi condottieri (Niccolò Fortebraccio, Francesco Sforza e Niccolò Piccinino) lo Stato della Chiesa sin quasi alle porte di Roma: specialmente lo Sforza, protestando di agire per conto del concilio di Basilea, s'impadronì di gran parte delle Marche, costringendo nel 1434 Eugenio IV a nominarlo suo vicario nella marca di Ancona, mentre nel 1437 Bologna si restaurava a libertà. La feroce repressione condotta a Roma e nel Lazio dal rettore di Romagna, vescovo Giovanni Vitelleschi, permise a Eugenio IV di rientrare da padrone in Roma nel 1444: ma la fortuna di liberare lo Stato della Chiesa dalla presenza deflo Sforza, risoltosi a cedere quanto possedeva nelle Marche, meno Pesaro rimasta al fratello Alessandro, e di riaffermare, benché sotto la nascente signoria dei Bentivoglio, la sovranità pontificia su Bologna, toccò nel 1447 al successore di Eugenio IV, Niccolò V. Solo Ravenna rimase in mano ai Veneziani, che l'avevano tolta nel 1441 a Ostasio da Polenta, e che nel 1465 comprarono dai Malatesta anche Cervia.
Lo Stato della Chiesa poté dunque, malgrado le vicende dell'età avignonese e dello scisma, giungere quasi intatto, nei confini già consolidati sin dalla fine del sec. XIII (Roma, Lazio, Umbria, Marche, Romagna, più Benevento, cui Pio II aggiunse, nel 1463, Pontecorvo, nel regno di Napoli; e Comitato Venosino con Avignone in Francia), all'epoca della cosiddetta politica di equilibrio fra gli stati italiani, la quale va dalla pace di Lodi (1454) al 1494, anno della calata di Carlo VIII. In questi decennî esso appare uno dei cinque stati (Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli), costituenti il pernio del sistema politico italiano, intorno a cui gravitavano gli stati minori, e nel cui reciproco equilibrio stava la massima garenzia d'indipendenza della nazione di fronte alle cupidigie straniere; anzi, fra essi è il secondo, dopo il Regno di Napoli, per superficie e popolazione e, forse, l'unico a cui la sovrabbondanza di produzione agricola per i bisogni interni garentisca una relativa indipendenza economica. Ma l'efficacia politica e militare di tale stato non rispondeva affatto all'estensione territoriale. Se i papi potevano ormai considerarsi padroni di Roma; se era riuscito a Pio II di recuperare alla Chiesa quel tratto di territorio umbro, di cui si era durante il papato di Callisto III impadronito Iacopo Piccinino, e a Paolo II di recuperare le città del Patrimonio già un tempo appartenenti ai Prefetti di Vico; si mantenevano di fatto pressoché indipendenti, ancora al principio del'500, i governi signorili dei Baglioni su Perugia, dei Bentivoglio su Bologna, dei Malatesta su Rimini, dei Manfredi su Imola, Forlì, Faenza, degli Sforza su Pesaro, dei da Varano su Camerino. Questi signori avevano titolo di vicarî pontifici. Ma, altrove, i papi erano stati costretti, con la promozione dei signori da vicarî a duchi, a sanzionare l'esistenza degli stati ormai unitarî e monarchici, svoltisi, sulla base della signoria, sulle terre della Chiesa. Così, i conti di Montefeltro avevano ricevuto titolo ducale per Urbino, da Eugenio IV, nel 1443; e gli Estensi per Ferrara, da Paolo II, nel 1474.
Tra i maggiori stati italiani, lo Stato della Chiesa era perciò, alla vigilia della calata di Carlo VIII, politicamente e militarmente il più debole (tranne forse, per certi aspetti, il Regno di Napoli), come quello la cui struttura giuridica e costituzionale appariva tuttora più prossima al tipo dello stato feudale, già quasi superato o in via di superamento presso quasi tutti gli altri stati italiani. Ragione di ciò, innanzi tutto, la natura stessa di quello stato, nel cui capo si fondevano le qualità di sovrano territoriale e di vicario di Cristo immediatamente investito da Dio del governo religioso della cristianità cattolica. Lo sforzo dei papi della seconda metà del sec. XV per avviare anche lo Stato della Chiesa verso le forme della monarchia assoluta incontrò una duplice serie di ostacoli: quelli opposti dalla resistenza del superstite feudalismo, del particolarismo regionale e delle autonomie cittadine, e quelli derivanti dall'origine elettiva della sovranità pontificia, la quale poneva ogni nuovo pontefice in un rapporto d'iniziale dipendenza dal collegio cardinalizio. Questi ultimi si fecero molto sentire specialmente in quella prima metà del'400, in cui le dottrine conciliarî cercavano di trasformare la costituzione della Chiesa da monarchica in oligarchica (v. qui sopra, p. 31). Il pericolo fu stornato, con tutti i mezzi, da una serie di papi energici e spregiudicati, quali furono in genere quelli succedutisi per circa un secolo, da Martino V in poi, sul soglio pontificio. Si ebbe così la pratica del nepotismo, che, già più volte apparso nella vita della Chiesa, specialmente durante i papati di Niccolò III (Orsini) e di Martino V (Colonna), fu da Callisto III (Borgia) e più ancora da Sisto IV (Della Rovere), da Innocenzo VIII (Cybo), da Alessandro VI (Borgia), eretto a vero e proprio sistema di governo. E, in quanto servì di strumento al nascente assolutismo pontificio per deludere le velleità di controllo e di condominio delle alte gerarchie ecclesiastiche e per soggiogare la tenace volontà d' indipendenza e gli istinti ribelli dei baroni feudali, il nepotismo esercitò una funzione necessaria al definitivo consolidamento della monarchia papale e dello Stato della Chiesa. Ma l'indipendenza dell'una e la consistenza dell'altro venivano poi di nuovo messi in forse dalla creazione, entro i territorî dello Stato pontificio, di più o meno vaste signorie dinastiche a favore dei figli o nipoti di pontefici regnanti. La prima decisa affermazione di questa tendenza nepotistica si ebbe quando Sisto IV ritolse la signoria di Imola ai Manfredi e quella di Forlì agli Ordelaffi, per darla al nipote Riario; e non esitò a impegnare lo Stato della Chiesa in una guerra, nella speranza di poter togliere allo stesso scopo Ferrara agli Estensi (1482-84). Ma chi ne fece la molla suprema della politica pontificia fu Alessandro VI, strappando gli antichi possessi ai baroni feudali del Lazio e del Patrimonio, per ripartirli fra i membri della famiglia Borgia, e favorendo con ogni mezzo, anche a costo di vitali interessi della Chiesa e dello Stato, l'impresa del figlio Cesare (1499-1503), ambizioso di crearsi uno stato monarchico nell'Italia centrale. Al principio del 1503, Cesare, gonfaloniere della Chiesa e duca di Romagna, pareva prossimo al trionfo: abbattute le signorie dei Riario a Imola e Forlì, dei Malatesta a Rimini, degli Sforza a Pesaro, dei Manfredi a Faenza, dei da Varano a Camerino, dei Baglioni a Perugia; occupata Cesena, benché già immediatamente soggetta alla Chiesa; Firenze e la Toscana da presso insidiate e minacciate. Ma ancora una volta, una morte repentina non solo salvava Firenze dalla conquista, ma conservava alla Chiesa stessa il suo Stato: poiché il successo del Borgia avrebbe portato alla sua laicizzazione. La morte di Alessandro VI (18 agosto 1503) e la contemporanea malattia di Cesare dimostrarono la labilità dell'edificio. Lo sfacelo fu immediato: molte città riprese dagli antichi signori; altre, Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Rimini, occupate dai Veneziani; la Romagna perduta. Ma ciò che più nocque alla fortuna dei Borgia fu l'avvento di un papa, Giulio II, che riprese, sì, e con formidabile energia, la politica stessa dei Borgia, cioè la spietata distruzione delle signorie e delle autonomie locali nello Stato della Chiesa; ma per restituirle integralmente alla diretta soggezione della Chiesa e per fare del pontefice l'unico e incontestabile padrone del proprio Stato.
Lo Stato della Chiesa da Giulio II a Pio VI (1503-1789). - Con Giulio II (1503-13) ebbe inizio, nella storia più che millenaria dello Stato pontificio, l'unico e brevissimo periodo (durò meno di un trentennio) in cui esso abbia tentato di prendere nelle sue mani le direttive della politica italiana e di partecipare, in condizione di uguaglianza con le grandi potenze dell'Europa occidentale, alla politica mondiale. Il rapido insuccesso del tentativo dipese soprattutto dalla sproporzione tra la grandiosità e difficoltà del compito e l'insufficienza dei mezzi che ai pontefici poteva fornire uno stato come quello, con la sua rudimentale attrezzatura e organizzazione, politica, amministrativa, finanziaria e militare. La consapevolezza di questa sproporzione ci spiega forse come Giulio II, papa quasi per nulla infetto di nepotismo, s'inducesse a far ricorso costantemente a coalizioni europee per lo sviluppo del suo programma: che era di consolidare lo Stato della Chiesa per renderlo predominante in Italia e capace di riunire le forze italiane contro gli stranieri; ci spiega anche le contraddizioni, in cui egli fu costretto a involgersi, servendosi prima, con la lega di Cambrai (1508-10), dei Francesi e degli Spagnoli per costringere Venezia a restituire le terre strappate alla Chiesa dopo la morte di Alessandro VI e quelle già in antecedenza occupate, e poi dei Veneziani e degli Spagnoli, con la prima Lega santa (1511-12), per assoggettare al dominio diretto della Chiesa il ducato di Ferrara e per espellere dall'Italia i Francesi. La Lega di Cambrai raggiunse lo scopo, avendo Venezia dovuto restituire tutte le città occupate, comprese Cervia e Ravenna; ma la Lega santa, se col congresso di Mantova (1512) estese verso il nord lo Stato della Chiesa sino a comprendere, oltre Bologna, anche Reggio, Parma, Piacenza e, a titolo provvisorio, Modena (la massima espansione che esso abbia mai raggiunta), e parve aver liberato l'Italia dai Francesi, non valse a strappare Ferrara agli Estensi, e, quel che fu peggio, lasciò arbitri delle sorti italiane gli Svizzeri e soprattutto gli Spagnoli, alla cui volontà si dovette il ritorno dei Medici in Firenze.
Il programma italiano di Giulio II fu negli anni seguenti, di fronte al riaprirsi della lotta tra Francia e Spagna, ereditato e ripreso dai due papi di casa Medici, e sembrò avere la sua massima estrinsecazione nella Lega di Cognac (1526-27), caldeggiata e ispirata da Clemente VII, contro la strapotenza procurata alla Spagna dalla battaglia di Pavia. Ma l'azione politica e militare di Leone X (1513-21), e, dopo il brevissimo pontificato di Adriano VI, quella di Clemente VII (1523-34), furono, per abuso di duplicità diplomatica e per debolezza di carattere, senza paragone più contraddittorie e incerte che non quella di Giulio II, e soprattutto sempre inficiate negli scopi e nei mezzi dalle preoccupazioni nepotistiche dei due pontefici medicei. Leone X, come non esitò, nel 1516, a ritogliere arbitrariamente il ducato di Urbino a Francesco della Rovere, che lo aveva ottenuto per regolare successione, per darlo al nipote Lorenzo, così non aveva esitato, l'anno prima, a restituire Parma e Piacenza al ducato di Milano, tornato per breve tempo francese, e a promettere di ridare Modena e Reggio al duca di Ferrara, alleato di Francia, per avere in cambio il riconoscimento della signoria medicea in Firenze. Tuttavia fu pronto, nel 1521, ad allearsi con la nascente potenza di Carlo V contro il re di Francia, per riavere in compenso Parma e Piacenza e la promessa di aiuto contro il duca di Ferrara. Parma e Piacenza erano appena rientrate in possesso della Chiesa, che Leone X moriva, mentre il Della Rovere recuperava Urbino, serbando nell'animo un rancore contro la casa Medici, che fu poi motivo non ultimo della dubbia lealtà della sua azione di capitano generale delle forze italiane, durante la guerra della Lega di Cognac, e del disastroso esito di questa fino al sacco di Roma (maggio 1527). A tale conclusione contribuirono, secondo la comune opinione, non meno dell'ostilità veneziana al consolidamento della potenza medicea, rappresentata da Clemente VII, le perenni ambiguità del suo contegno, determinate dalla preoccupazione di non mettere in forse le sorti della sua casa in Firenze.
Le conseguenze del sacco di Roma furono tali da ridurre, almeno per qualche tempo, ad assoluta impotenza lo Stato della Chiesa. Tuttavia non erano ancora trascorsi due anni ed esso, con la pace di Barcellona e il congresso di Bologna, usciva pressoché intatto dalla gravissima crisi. Ciò perché, se Carlo V aveva bisogno della pace e dell'accordo con la S. Sede, di fronte al pericolo turco e all'aggravarsi della rivoluzione religiosa in Germania, Clemente VII s'induceva a dare a Carlo V, in compenso della restituzione coatta dei Medici in Firenze, il riconoscimento della servitù italiana sotto l'egemonia spagnola. Parma e Piacenza (non Modena e Reggio, pervenute, come feudi imperiali, agli Estensi, rimasti a Ferrara come vassalli pontifici) restarono alla Chiesa, sino a quando, nel 1534, un altro papa nepotista, Paolo III Farnese (1532-49), le eresse a ducato indipendente, come feudo ecclesiastico, per investirne il figlio Pier Luigi; Venezia restituì Ravenna e Cervia; ma il papa, incoronando a Bologna Carlo V come re d'Italia e sacro imperatore romano (22 e 24 febbraio 1530), lo consacrò padrone d'Italia.
Col congresso di Bologna, lo Stato della Chiesa uscì definitivamente dal novero delle grandi potenze e discese al rango di piccolo stato italiano, vivente all'ombra del predominio spagnolo: né, per quanto il prestigio spirituale del papato crescesse, dalla metà del sec. XVI in poi, per effetto della Controriforma, valsero a ridargli il valore nei rapporti internazionali i tardivi conati di Clemente VII e di Paolo III a danno di Spagna e il disgraziato intervento di Paolo IV Carafa nell'ultima fase del conflitto francoasburghese, che portò la minaccia del viceré di Napoli, duca di Alba, sin quasi alle porte di Roma (1556-59). La politica dei papi, dopo la seconda metà del sec. XVI, fu, con molto successo, diretta quasi esclusivamente alla rigida applicazione, in tutti gli stati cattolici, dei decreti del concilio di Trento, e alla difesa del cattolicesimo dagli attacchi della riforma protestante e dei Turchi. Ma ormai, nella seconda metà del sec. XVI e nel XVII, l'efficacia politica del papato era del tutto indipendente dallo Stato della Chiesa, e le forti spese imposte ai proprî sudditi da Urbano VIII per le fortificazioni e per l'esercito, nella speranza che le vicende della alleggerire la pressione asburghese sull'Italia, riuscirono vane. I legati dl Alessandro VII assistettero ai congressi di Westfalia (1648), senza poter firmare la pace, data l'esistenza di clausole favorevoli ai luterani e ai calvinisti. Poi, ogni azione del papato scomparve dalla vita politica europea. Delle antiche aspirazioni territoriali rimase solo la tendenza a richiamare sotto la diretta sovranità pontificia, ogni volta se ne presentasse l'occasione, i territorî giuridicamente spettanti a S. Pietro. Così, nel 1598, allo spegnersi della linea legittima degli Estensi, Clemente VIII rivendicò il ducato di Ferrara, come feudo della Chiesa; e nel 1651 alla morte di Francesco Maria II, ultimo dei Della Rovere, Urbano VIII incamerò Urbino. Urbano VIII tentò anche, nel 1647, di annettere allo Stato della Chiesa il ducato di Castro, feudo dei Farnesi, ma fu costretto a rinunciarvi da una lega di principi italiani. L'impresa riuscì, nel 1649, al successore Innocenzo X.
Se però il sogno di Giulio II di fare dello Stato pontificio la base di un'intensa politica estera italiana, di cui fosse centro il papato, era fallito, non fallì il suo programma di politica interna, nello sviluppo del quale eglì lasciò tracce durature e profonde. Con inflessibile energia egli impose la sua autorità così al centro, ove ridusse definitivamente il collegio cardinalizio a supremo organo consultivo ed esecutivo della volontà papale, come alla periferia, ove costrinse ad obbedienza (1505) Perugia, tiranneggiata dai Baglioni, e Bologna, dominata dai Bentivoglio, limitò le autonomie cittadine, frenò i feudatarî della campagna romana. Solo con lui il Patrimonio di S. Pietro cominciò ad assumere l'aspetto di uno stato moderno, governato dal papa sovrano. La brevità del suo pontificato e il sopraggiungere di tempi burrascosi arrestarono o deviarono per alcuni decennî il processo di assestamento e di riorganizzazione così bene iniziato. Ma con Paolo III esso riprese, mentre al grande nepotismo, che ebbe in questo papa il suo ultimo rappresentante, si sostituiva il piccolo, per cui ogni pontefice usava creare cardinale e segretario di stato un nipote, e colmarne un altro di ricchezze e di onori come capo della famiglia. Specialmente benemerito fu il breve papato di Sisto V (1585-90), non solo per la spietata energia con cui egli represse il brigantaggio e le violenze dei nobili, ma anche per avere operato un generale riordinamento nell'amministrazione dello stato, preponendo ai singoli rami di governo, così spirituale come temporale, quindici commissioni cardinalizie o Sacre congregazioni (1588). Assai utile riuscì pure, ai fini dell'assestamento amministrativo, l'istituzione, per opera di Clemente VIII, nel 1592, di una Congregazione del buono governo, composta di tre cardinali, per la sorveglianza e il controllo sulle materie patrimoniali dei comuni immediatamente soggetti, la cui competenza fu poi estesa da Innocenzo XI, nel 1704, alle comunità baronali.
Un radicale peggioramento si ebbe invece nella seconda metà del sec. XVII. Crebbe allora la potenza dell'aristocrazia romana, arricchita di quei nuovi elementi che al piccolo nepotismo dovevano onori e ricchezze: come i Barberini, a Urbano VIII; i Pamphily, a Innocenzo XI; i Chigi, ad Alessandro VII; i Rospigliosi, a Clemente IX; gli Altieri, a Clemente X; gli Odescalchi a Innocenzo XI; gli Ottobuoni, a Alessandro VIII; i Pignatelli, a lnnocenzo XII. Non è meraviglia che Innocenzo XI (1676-89) trovasse l'erario esausto. Egli ebbe il merito di salvare lo stato dalla bancarotta facendo rigide economie e ponendo fine al piccolo nepotismo.
Massimo segno dell'assoluta debolezza politica e del discredito in cui era ridotto lo Stato della Chiesa durante il sec. XVIII, fu la disinvoltura con cui i governi del tempo minacciarono ed eseguirono più volte (come per es., nel 1768) atti di rappresaglia e colpi di forza per estorcere dai pontefici l'acquiescenza alle riforme anticlericali volute dal giurisdizionalismo dominante, sino a imporre, nel 1773, la soppressione della Compagnia di Gesù a Clemente XIV, e a far subire a Pio VI la vana umiliazione del suo viaggio a Vienna presso Giuseppe II. D'altra parte, il sec. XVIII vide pressoché compiuta l'unificazione amministrativa delle provincie, specialmente per l'energia del cardinale Alberoni, per varî anni, sotto Clemente XII (1730-40), legato a Ravenna. Alla vigilia della rivoluzione francese, gli ultimi avanzi delle autonomie medievali erano pressoché ovunque scomparsi: Bologna li perdé del tutto nel 1788. Ma la rivoluzione batteva ormai alle porte: e bastò il primo urto violento tra la Francia rivoluzionaria e lo Stato della Chiesa a dimostrare come questo fosse ormai organicamente incapace di qualsiasi resistenza, e quindi fatalmente avviato a rovina.
Il tramonto dello Stato della Chiesa da Pio VI a Pio IX (1789-1870). - Se il potere temporale non fu abbattuto subito dopo la battaglia di Lodi (maggio 1796), al primo apparire delle colonne repubblicane al di qua del Po, come era proposito del Direttorio di Parigi e come sarebbe stato facile ottenere con poco più di una passeggiata militare, lo si dovette unicamente alle mire segrete del generale Bonaparte, che si limitò a occupare le legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna e ad estorcere all'atterrito Pio VI un ingente tributo di codici e di opere d'arte con l'armistizio del 23 giugno 1796. Pochi mesi dopo, lo Stato della Chiesa era di nuovo alla mercé dell'invasore; e di nuovo Bonaparte apparve generoso, imponendo al papa la pace di Tolentino (19 febbraio 1797), con cui Pio VI cedeva definitivamente le Legazioni, entrate a far parte della Confederazione Cispadana, e poi, dal luglio, della Repubblica Cisalpina; rinunciava ad Avignone e al contado Venosino; permetteva l'occupazione d'Ancona sino alla pace generale. Lo Stato della Chiesa era così, per la prima volta dal sec. XIII, mutilato col consenso del pontefice. E già intanto gl'intrighi dell'ambasciata francese in Roma affrettavano una più radicale catastrofe. Una sollevazione popolare, in presenza di truppe francesi, dichiarò decaduto il 15 febbraio 1798, il potere temporale: pochi giorni dopo, mentre l'ottantenne pontefice era tratto prigione a Siena e poi a Firenze, a Roma si proclamava la repubblica, estendentesi alle Marche e all'Umbria. Ma durò assai poco. Nel settembre 1799, cacciati d'Italia i Francesi dalle vittorie della seconda coalizione, truppe napoletane rioccuparono Roma, per riconsegnarla l'anno dopo al nuovo papa, Pio VII Chiaramonti. Poco dopo anche Bonaparte, primo console di Francia, garantiva al papa la conservazione del suo stato. E la pace di Lunéville (9 febbraio 1801) restaurava la sovranità pontificia sul patrimonio, meno le Legazioni, annesse alla Repubblica cisalpina, poi alla Repubblica italiana, infine al Regno d'Italia. Ma il padrone era sempre Bonaparte. Il quale, dopo il concordato del 15 luglio 1801, trascinò il papa, senza nessun compenso, a Parigi, per farsi incoronare imperatore dei Francesi (12 dicembre 1804). Smembrò poi, col senatoconsulto del 2 aprile 1808, il superstite Stato della Chiesa, unendo le Marche al regno d'Italia; infine lo abolì del tutto, coi due decreti da Schönbrunn del 17 maggio 1809, che formavano del Lazio e dell'Umbria due dipartimenti francesi (Tevere e Trasimeno), e di Roma la seconda città dell'Impero. Il rifiuto di Pio VII di cedere alla violenza guadagnò al mite pontefice, con la prigionia, le simpatie dell'opinione pubblica mondiale; ma la relativa indifferenza con cui gli stati cattolici accolsero la scomparsa del potere temporale dimostrava come la convinzione della sua incompatibilità con la vita moderna avesse fatto strada negli spiriti.
La catastrofe dell'impero napoleonico portò naturalmente anche alla restaurazione dello Stato della Chiesa già proclamata nella pace di Parigi del 10 maggio 1814, e consacrata nell'atto finale del congresso di Vienna (9 giugno 1815). Tuttavia Avignone e il Contado Venosino rimasero alla Francia. Ma sullo Stato pontificio gravava ora la protezione dell'Austria, che s'era impadronita del Ferrarese alla sinistra del Po e si riservava il diritto di occupare Ferrara e Comacchio. La sua stessa vita, poi, apparve subito minata, oltre che dall'organica impotenza finanziaria e militare, dall'insofferenza delle popolazioni, che andavano estraniandosi compiutamente da quel regime, nonché dalle società segrete. L'indirizzo grettamente reazionario del governo papale non tardò, sebbene Leone XII (1823-29) e Pio VIII (1829-30) promuovessero il progresso agricolo e industriale, a esasperare gli elementi liberali, numerosi fra la borghesia delle città, specialmente in Romagna, che pullulava di logge massoniche e di vendite carbonare: onde la frequenza di omicidî politici, di congiure e di moti, cui non erano estranei intrighi bonapartistici. Durante il conclave seguito alla morte di Pio VIII, i due figli dell'ex-re di Olanda, Napoleone e Luigi Bonaparte, parteciparono a un colpo di mano tentato dal carbonarismo per proclamare in Roma la repubblica. Il colpo fallì; e il nuovo papa, Gregorio XVI (1831-46), espulse i Bonaparte. Ma la rivoluzione di luglio (1830) e la fiducia che il nuovo governo francese di Luigi Filippo avrebbe fatto rispettare il principio del non intervento, fecero scoppiare a Bologna un'insurrezione (4 febbraio 1831), rapidamente e pacificamente propagatasi nelle Romagne, nelle Marche, nell'Umbria, e persino nel Lazio, con formazione di governi provvisorî, in cui tutte le classi sociali erano rappresentate. Tra il 26 febbraio e l'11 marzo, funzionò a Bologna un'assemblea di deputati delle Provincie Unite, che, proclamata la decadenza del potere papale, deliberò che i singoli governi provvisorî cedessero i poteri a un ministero unico di cui faceva parte Terenzio Mamiani, con a lato una consulta legislativa; regolò l'autonomia dei comuni; stabilì l'uniformità delle leggi; convocò un'Assemblea costituente pel 20 marzo. Ma non si andò oltre i propositi, perché il moto fu violentemente troncato dall'intervento austriaco, che abbandonò alla reazione pontificia quanti, fra i compromessi, non si fossero salvati con la fuga e l'esilio: fra i quali ultimi, il futuro Napoleone III. Da allora, Gregorio XVI governò per mezzo della polizia.
Ma un improvviso incendio scoppiò nel 1846 con l'elezione del suo successore, Pio IX. I suol primi atti, fra cui un larghissimo indulto per i reati politici (16 luglio 1846) e la concessione di una limitata libertà di stampa, sollevarono per tutta l'Italia un'ondata di audaci speranze. Pio IX apparve a un tratto il papa preconizzato da Gioberti e dai neoguelfi, l'inviato da Dio a iniziare il risorgimento italiano; il suo nome diventò il grido della rivoluzione nazionale. E parve che il nuovo papa incoraggiasse il generale delirio, sia istituendo nell'aprile 1847 la consulta di stato e, nel luglio, la guardia civica, sia costringendo con l'energia della sua protesta, sorretta da Carlo Alberto, l'Austria a sgombrare da Ferrara, occupata a scopo d'intimidazione. Ma già tra la fine del'47 e i primi del'48, il moto che Pio IX aveva iniziato ne trascendeva non meno le intenzioni che le possibilità. Trascinato dalla corrente, Pio IX promulgò il 14 marzo '48 la costituzione con due camere, e col collegio cardinalizio come senato inseparabile dal papa, che non poteva sanzionare una legge senza il parere dei cardinali in concistorio segreto; ordinò, prima di Carlo Alberto, che la bandiera pontificia si fregiasse del tricolore; mandò, non appena scoppiata la prima guerra d'indipendenza, sue truppe a guardia del Po; lasciò partire volontarî per l'esercito piemontese. Ma repentinamente, la sua allocuzione del 29 aprile, in cui egli dichiarava di non potere, come pontefice, fare la guerra all'Austria, ruppe l'incanto, svelando come la fiducia in una iniziativa italiana del papato non potesse essere che illusoria. Né tardarono a diventare tesi i rapporti di Pio IX col parlamento, apertosi il 5 giugno, e col ministero costituzionale presieduto da Terenzio Mamiani, che invano si sforzava d'indurre il papa alla guerra, e di mostrare l'incompatibilità tra il governo parlamentare e la sovranità pontificia. La situazione si aggravò dopo il settembre, con la chiamata al potere di Pellegrino Rossi, inviso non meno ai reazionarî, per il suo lealismo costituzionale, che ai liberali, per la sua ostilità al governo di Carlo Alberto e alle trattative iniziate da questo per una lega degli stati italiani contro l'Austria. L'assassinio del Rossi, provocando l'anarchia e costringendo il papa a cedere, sotto la minaccia della plebe tumultuante, il potere al Galletti e ad acconsentire alla convocazione di una costituente, precipitò la crisi. Il 24 novembre, Pio IX, rifugiatosi a Gaeta sotto la protezione del re delle Due Sicilie, revocò ogni concessione, dichiarò nullo ogni atto del nuovo ministero, scomunicò chiunque appoggiasse o permettesse la costituente, invocò l'intervento delle potenze cattoliche contro la Repubblica romana, proclamata il 9 febbraio 1849. E mentre, dopo la rotta piemontese a Novara (23 marzo 1849), Austriaci e Napoletani invadevano, da nord e da sud, il territorio dello Stato della Chiesa, un corpo di esercito francese stringeva d'assedio Roma, difesa da Garibaldi. Strenua fu la difesa; ma, con i primi di luglio, Roma e la sua repubblica cadevano. Pio IX rientrava il 12 aprile 1850, con l'aiuto francese e austriaco, in Roma, dopo avere sin dal settembre precedente dato allo Stato della Chiesa l'assetto costituzionale che lo resse durante il suo estremo ventennio di vita. Monarca assoluto, il pontefice; a capo del governo, un cardinale segretario di stato con un consiglio di ministri, tutti ecclesiastici; un consiglio di stato di 15 membri, in parte laici, come corpo consultivo in materia di legislazione e di finanza, e deliberativo nei conflitti di competenza fra i massimi organi dello stato; lo stato diviso in 5 delegaziorii rette da cardinali e suddiviso in 20 provincie, rette da prelati; la rota romana, la segreteria di giustizia e la sacra consulta, come tribunali supremi; l'esercito, quasi tutto assoldato e reclutato fra stianieri. Unico indirizzo politico: nessuna riforma.
La ripresa della rivoluzione nazionale nel'59 trovò Pio IX irriducibilmente avverso. Ma non appena, dopo la battaglia di Magenta (4 giugno 1859), gli Austriaci ebbero sgombrato Ancona e le Romagne, queste insorsero, affidando la dittatura a Vittorio Emanuele. Un'assemblea, convocata dal commissario del re, deliberò il 1° settembre l'annessione delle Legazioni alla Sardegna: un plebiscito dell'11 e 12 marzo 1860 confermò l'annessione. Tutti gli sforzi dell'imperatore Napoleone III per indurre Pio IX a un compromesso col moto nazionale riuscirono vani. Ma intanto, Garibaldi conquistava all'Italia unitaria la Sicilia e il regno di Napoli e minacciava dappresso Roma. Si ebbe allora l'atto ardimentoso di Cavour: la marcia su Napoli delle truppe sarde attraverso le Marche e l'Umbria. La vittoria di Castelfidardo decise della breve campagna. Le Marche e l'Umbria votarono l'annessione al Regno d'Italia, proclamato il 17 marzo 1861, e al papa non rimase che Roma e il Lazio, difesi dai Francesi. Un profondo dissidio si aprì allora fra l'opinione pressoché unanime del partito nazionale italiano, che chiedeva Roma come capitale del nuovo regno unitario (e come tale la proclamava il Parlamento, per iniziativa di Cavour, il 27 marzo 1861), e Napoleone III, risoluto a garentire l'intangibilità del Patrimonio di S. Pietro. Data l'impossibilità di agire in contrasto con la Francia, il governo italiano stette attendendo dagli eventi l'occasione favorevole. Ma il partito d'azione insisteva per sforzare la situazione con la forza dei fatti compiuti: e Garibaldi tentò nel 1862, salendo dalle Calabrie, un colpo di mano su Roma. Fu arrestato da truppe italiane ad Aspromonte il 29 agosto. Due anni dopo, si venne con la Fraricia a una specie di compromesso, mediante la cosiddetta convenzione di settembre del 15 settembre 1864, con la quale il governo italiano trasportava la capitale da Torino a Firenze, ottenendo in cambio l'impegno francese di sgombrare lo Stato della Chiesa, impegno assolto verso la fine del 1866. E subito il partito d'azione ne approfittò per un nuovo tentativo su Roma, sperando di esser sostenuto dal ministero Rattazzi. Nell'ottobre del 1867 Garibaldi penetrò con volontarî nel Lazio, e giunse sin quasi a poche ore da Roma: ma il 3 novembre fu sopraffatto da truppe pontificie, rafforzate da un corpo francese, immediatamente inviato da Napoleone III. In Roma il governo pontificio sferrò una violenta reazione contro gli aspiranti a novità: ma era evidente che il potere temporale non riusciva a sostenersi che per l'appoggio francese. La guerra franco-prussiana del 1870 e il crollo del secondo impero offrirono l'occasione attesa. Le truppe francesi erano appena ripartite da Civitavecchia e subito il partito d'azione e l'opinione pubblica chiesero a gran voce l'occupazione di Roma. Falliti i tentativi d'intesa, l'11 settembre truppe italiane invasero lo stato pontificio e, superata una breve resistenza, entrarono in Roma per la breccia di Porta Pia, la mattina del 20 settembre 1870. Il plebiscito, tenutosi il 2 ottobre, dava 133.681 voti per l'annessione al regno d'Italia e solo 1507 contrarî. L'annessione fu proclamata da re Vittorio Emanuele II il 6 ottobre; lo Stato della Chiesa aveva cessato di esistere. L'11 febbraio 1929 sorgeva il nuovo stato della Città del Vaticano (v. vaticano, Città del).
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Chiesa e Stato.
Sistemi teorici e dottrine. - Nella vita di tutti i popoli il regolamento dei rapporti fra il sacerdozio e l'autorità civile viene considerato materia di particolare importanza politica. Ma soltanto col cristianesimo e con la Chiesa cattolica in particolare esso assume l'importanza di un problema capitale, e per molti secoli anzi centrale di tutta la politica e della speculazione pubblicistica. I diversi sistemi con i quali tali rapporti possono venire regolati furono classificati teoricamente in un certo numero di tipi o schemi determinati entro cui si fecero rientrare i varî ordinamenti positivi. Sull'eccellenza dell'uno o dell'altro di questi sistemi si sono poi fatte infinite discussioni teoriche. A questo modo di considerare il problema, dominante fino a non molti anni addietro, è subentrato più di recente il concetto del valore tutto empirico di questi tipi non rispondenti a realtà effettive e con i quali si viene a prescindere dai motivi pratici che hanno detemminate le singole legislazioni positive, dell'illogicità di radunare sotto un unico schema sistemi e assetti storici disparati, svoltisi in diverso ambiente (cfr. Jemolo, in Archivio giur., XCVII, 2; Falco, Il concetto giuridico, ecc., V).
La Chiesa cattolica stessa, nei cui riguardi si è posto essenzialmente il problema, pure avendo formulato una dottrina precisa intorno ai rapporti di cui si tratta, ha dovuto conformarsi per vivere alle condizioni della vita pubblica dei diversi stati con i quali aveva a che fare, donde una serie di adattamenti pratici a seconda delle circostanze e degli ambienti politici, religiosi, etnografici, e la necessità di ricorrere (come fu esattamente osservato anche da autori cattolici), per trovare una soluzione ai complessi e varî problemi che andavano e vanno man mano presentandosi, agli espedienti precarî dell'empirismo. Ma è sempre bene tenere presenti, anche per avere un criterio con cui coordinare in quanto possibile i varî ordinamenti positivi, i tipi in cui teoricamente vennero distinti i diversi sistemi di relazioni fra Chiesa e Stato.
Tali rapporti possono concepirsi anzitutto in un sistema di unione fra i due enti; unione che può esplicarsi sia come rapporto di subordinazione della Chiesa allo Stato, o viceversa, sia come rapporto di coordinazione fra i due.
Il sistema di subordinazione della Chiesa allo Stato presenta due manifestazioni principali; il cesareopapismo e il giurisdizionalismo. Con il primo l'organizzazione e il governo della Chiesa si considerano come un ramo dell'amministrazione pubblica, e il capo dello Stato è nel tempo stesso capo supremo della Chiesa, cesare e papa. Col giurisdizionalismo, che rappresenta in sostanza un'attenuazione del cesareopapismo, benché i capi dei singoli stati non si arroghino la qualità di capi della Chiesa e riconoscano anzi la suprema autorità spirituale del pontefice romano, tuttavia essi invadono la sfera d'attività propria della Chiesa per quanto concerne i rispettivi territorî, e pur concedendole per lo più favori e privilegi, affermano su di essa il dominio dello Stato considerandola soggetta a questo per tutto ciò che si riferisce ai rapporti esteriori ecclesiastici. A un tale sistema vennero riportati o riaccostati gli ordinamenti politico-ecclesiastici noti con i più diversi nomi (regalismo, giuseppinismo, ecc.: v. sotto), attuatisi, specie dopo la Riforma, nei diversi stati europei. Il sistema della subordinazione dello Stato alla Chiesa, venne inteso secondo tre principali teorie: rispettivamente della potestas directa (teocrazia o ierocrazia) secondo la quale la comunità ecclesiastica è la sola vera e legittima monarchia, e il suo capo è Cristo, nel cui nome la sovranità è esercitata dal suo vicario in terra, il papa; della potestas indirecta (il papa degli stati, ma solo quello di emanare le leggi che egli creda necessarie per gl'interessi spirituali della Chiesa e di correggere e abrogare con le proprie, le leggi civili che ritenga dannose) e della potestas directiva (teoria talora confusa con la precedente), per la quale il pontefice non può emanare leggi obbligatorie per i cittadini, ma può obbligare gli stati a emanarle; non può abrogare leggi contrarie agl'interessi della Chiesa, ma disapprovarle, nel qual caso i cittadini non saranno più tenuti in coscienza a rispettarle.
Col sistema della coordinazione, Chiesa e Stato sono considerati come sovrani assoluti. La Chiesa nel campo spirituale, lo Stato nel temporale. La prima formulazione di questa dottrina si ebbe in Italia per opera dei legisti di Bologna, specialmente di Azzone, Odofredo e Accursio, di Uguccione da Pisa fra i canonisti, e, con particolare precisione, di Dante nel 3° libro della Monarchia. Nella pratica tale sistema sarebbe attuato mediante i concordati.
In contrapposto ai sistemi basati sull'unione, vi ha quello della separazione fra la Chiesa e lo Stato. La determinazione del concetto giuridico di questo sistema ha dato luogo alle più vive divergenze dottrinali, e questo tanto più di fronte alle grandi diversità tra i varî ordinamenti positivi di stati che si dicono ugualmente separatisti (così degli Stati Uniti d'America, del Belgio, della Francia dopo il 1905, ecc.). Nel senso più comune, a ogni modo, esso implica l'assenza di vincoli giuridici reciproci fra Stato e Chiesa, la considerazione della Chiesa come associazione d'indole privata, autonoma solo nella propria sfera, e la cui azione va soggetta ai limiti posti dal diritto comune dello Stato.
La dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, per fermarsi ai documenti più recenti, può fra l'altro desumersi a contrario dalla 19ª proposizione condannata dal Sillabo di Pio IX: Ecclesia non est vera perfectaque societas plane libera, nec pollet suis propriis e constantibus iuribus sibi a divino suo fundatore collatis, sed civilis potestatis est definire, quae sint Ecclesiae iura ac limites, intra quos eadem iura exercere queat. Dal che appare come la Chiesa debba considerarsi società vera, perfetta, indipendente dallo Stato, con tutte le attribuzioni proprie a tale carattere. Concetti riaffermati dall'enciclica Quanta cura dell'8 dicembre 1864 che accompagna il Sillabo, e nella Immortale Dei (11 novembre 1885) di Leone XIII.
Chiesa e Stato sono società perfette, ciascuna nella sfera che le è propria. L'una e l'altro derivano direttamente da Dio, quindi come lo Stato è autonomo nella sua azione che ha per oggetto i suoi fini temporali, così la Chiesa deve essere completamente indipendente nel campo spirituale, per il raggiungimento dei fini soprannaturali per i quali essa è costituita. La teoria teocratica della potestas directa, sostenuta a partire dal sec. XII da parecchi canonisti, e specialmente da Agostino Trionfo, è perciò ora respinta. Anche le dichiarazioni di Bonifacio VIII nella celebre bolla Unam sanctam, specialmente la clausola finale, che sola contiene la definizione dogmatica, come quelle degli altri papi del Medioevo, s'interpretano dai dottori cattolici piuttosto che come affermazioni della teoria della potestas directi, con riferimento o a quella della potestas indirecta, o alla potestà che storicamente ritenevano derivasse loro sia dalla presunta donazione costantiniana, sia dalle relazioni feudali tra la santa Sede e le nazioni d'Europa. Comunque, la teoria della supremazia diretta della Chiesa, specialmente dopo il concilio di Trento, non trova pressoché più alcun seguito; essa cede il posto, specie sotto l'influenza del Bellarmino (De Rom. Pontif., V, c. 6,7), in dottrina, a quella del potere indiretto e poi a quella del potere direttivo o dichiarativo. Tuttavia il magistero (nonostante talune affermazioni che sembrano richiamare la tesi della potestà indiretta) non si è pronunziato autenticamente tra questi diversi sistemi. La Chiesa in sostanza affermando il principio dell'indipendenza dei due poteri (v. l'encicl. Sapientiae christianae, 10 genn. 1890, di Leone XIII: "neutra paret alteri") sostiene la necessità dell'accordo fra di essi nelle materie temporali che hanno una stretta relazione con le spirituali (materie miste), pur tenendo fermo il concetto della superiorità del fine della Chiesa, per cui essa sta allo Stato come nell'individuo l'anima sta al corpo. La regola teorica dunque posta dalla Chiesa sarebbe quella d'una coordinazione perfetta delle due potestà, nella quale il cattolicismo abbia l'appoggio totale ed esclusivo dei poteri pubblici. Dal che deriva anche la condanna del sistema della separazione. Di fatto però, pure conservando rigorosamente i principî affermati, la Chiesa si è adattata ai diversi ordinamenti, e ha ritenuto potersi tollerare anche il regime separatista laddove esso non si manifesti in forme nocevoli agl'interessi della religione.
Lineamenti storici. - Il mondo antico non conobbe, in genere, distinzione fra il potere religioso e quello civile. Lo Stato assorbiva nella sua organizzazione la vita totale dei suoi sudditi. Suprema espressione, nell'Impero romano, di questa identità, il culto dell'imperatore. Il cristianesimo introdusse un elemento nuovo affermando l'autonomia della -vita spirituale dell'individuo e creando una Chiesa la cui missione era di assicurare il conseguimento della salvezza eterna al di fuori delle organizzazioni politiche o delle frontiere nazionali; onde l'indipendenza dei due poteri, religioso e politico, sino allora indissolubilmente uniti. Nonostante le esortazioni al rispetto e all'ubbidienza verso le autorità costituite (Romani, XIII,1-7; I Timoteo, II, 1-2; I Pietro, II, 13-16), la politica dell'Impero romano doveva necessariamente essere ostile a una religione che vietava ai suoi adepti di sottostare alle esigenze del culto ufficiale, nel che si ravvisava un attentato, più che alla religione, alle istituzioni fondamentali dell'Impero. E si spiegano perciò anche l'accusa di ateismo (v.), mossa in un certo momento ai cristiani, e le persecuzioni contro di essi.
Con l'editto di Milano di Costantino e Licinio (313), veniva giuridicamente riconosciuto al cristianesimo il diritto dell'esistenza. Dalla posizione di tolleranza fatta con tale editto, che lasciava sussistere le istituzioni del paganesimo, si passa man mano a un regime di favore e di protezione esclusiva verso la nuova religione, e gl'imperatori cristiani, facendo del cristianesimo la religione dello stato, assunsero nei confronti della Chiesa cristiana le stesse prerogative esercitate rispetto al culto pagano. La tendenza degl'imperatori a servirsi della Chiesa come di fattore politico, subordinandola allo Stato, e ad arrogarsi le qualità di capi del nuovo culto esercitando l'autorità sovrana anche in materia di fede, può attuarsi in una realizzazione concreta a Bisanzio. Un tale regime, qualificato come tipicamente cesareopapistico, perdurò a lungo nell'impero d'Oriente, soprattutto dopo il distacco della Chiesa greca da Roma, e passò poi, mantenendosi fino ai giorni nostri, anche in Russia, dove lo zar era a un tempo supremo capo dello Stato e della Chiesa. In Occidente invece la Chiesa, stretta attorno al papa, difendeva ben più rigidamente la propria libertà. Ivi incomincia a porsi veramente nella sua imponenza il problema dei rapporti fra Chiesa e Stato, sorge l'antagonismo tra le due potestà, che anima tutta la storia della Chiesa medievale e di cui, con la riforma ecclesiastica, la lotta per le investiture (v.), quelle tra i papi e gl'imperatori Federico I e Federico II e fra Bonifacio VIII e Fil; ppo IV di Francia sono gli episodî più famosi.
Decaduta l'autorità pontificia con il trasporto della sede papale in Avignone e con lo scisma d'Occidente, gli stati sottrattisi alla tutela della Chiesa sostengono le tendenze episcopali, affermate dai concili di Pisa (1409), di Costanza (1411-1418) e di Basilea (1431), contrapponendo a Roma gli episcopati nazionali, e conseguentemente affermano la competenza religiosa propria e dei sovrani. Particolamente importante l'adozione di questi principî da parte della Chiesa gallicana (v.), con la Prammatica sanzione di Bourges (1438). Ma la massima vittoria dello Stato si ebbe nel sec. XVI con la Riforma protestante, che diede ai principi il supremo potere disciplinare ecclesiastico, e con l'affermazione del principio cuius regio illius religio e la costituzione di Chiese nazionali di cui i principi erano autori e rimanevano capi, ridusse la funzione della Chiesa a quella di un mero organo dello Stato, totalmente subordinato.
Negli stati cattolici ciò non poté attuarsi, per il permanere dell'autorità pontificia; però lo Stato, ormai indipendente nelle cose temporali, mentre si professa ufficialmente religioso e si erige a protettore della fede, va sempre più restringendo la giurisdizione della Chiesa, limitando gli acquisti degli enti ecclesiastici, estendendo il proprio controllo sulle persone, sulle leggi, su tutti gli atti in genere della Chiesa, in particolare sulla provvista dei benefici e sull'applicazione delle censure (v. exequatur; placet), cercando infine di esplicare un'ingerenza sempre più larga anche nelle materie spirituali. Vanno così sorgendo e svolgendosi quegli ordinamenti più o meno ispirati a un concetto di subordinazione della Chiesa allo Stato che furono variamente chiamati, a seconda dei paesi, gallicanismo in Francia, regalismo in Spagna, erastianismo in Inghilterra, giuseppinismo in Austria, giurisdizionalismo in molti stati d'Italia, e di cui furono proprî i noti istituti nei quali si esprimeva rispettivamente il doppio carattere, inerente al sistema, di difesa della Chiesa (ius advocatiae) e di armi contro di essa (ius cavendi; placet, exequatur; ius exclusivae; ius appellationis recursus ab abusu; sequestro di temporalità; ius nominandi; ius dominii eminentis; regalia beneficiaria, ammortizzazione).
Non rimaneva alla Chiesa, per salvaguardare la sua posizione almeno nei punti essenziali, che ricorrere a concordati, che concedevano allo Stato certe prerogative in ordine alle istituzioni ecclesiastiche nei suoi territorî, mantenendosi teoricamente i diritti della Curia pontificia e assicurandosene un minimum di esercizio.
Alla rivoluzione francese susseguirono sensibili mutamenti anche nei sistemi di relazione fra Stato e Chiesa. A un'ampia attività concordataria corrisponde un declinare delle tendenze episcopaliste, con le quali si era cercato di contrapporre all'autorità pontificia quella degli episcopati nazionali, dipendenti più direttamente dall'autorità dello Stato. In Francia in special modo, benché gli articoli organici (1802) emanati per la messa in vigore del concordato del 1801 richiamassero formalmente le libertà della Chiesa gallicana, l'episcopato era ormai passato al sistema papale. In Germania venivano meno i sostenitori del giuseppinismo e gli accordi coi diversi stati si basavano sui principî giuridici elaborati dal concilio di Trento miranti a rinsaldare l'autorità del pontefice. In Austria, dove era andato man mano mitigandosi il regime giuseppinistico, questo cessava totalmente col concordato del 1855 (dichiarato poi decaduto dall'Austria nel 1870). Non è possibile seguire qui, neppure per sommi capi, nel suo sempre più vasto frazionamento, l'evoluzione ulteriore dei rapporti fra i varî stati e la Chiesa. Noteremo in complesso come, se la sistemazione di tali rapporti è oggi affffidata in gran numero di paesi ai concordati, altrove si afferma invece da parte dello Stato la tendenza al distacco, al disinteresse verso la vita ecclesiastica o anche semplicemente verso ogni manifestazione di vita religiosa; tendenza concretatasi nei regimi cosiddetti separatisti e che in realtà non rispondono, in pratica, a un sistema unico e uniformemente attuato, ma ai più disparati ordinamenti, che vanno da un regime di effettiva indipendenza e di libera prosperità della Chiesa, ad uno di più o meno larvata persecuzione.
Le relazioni fra la Chiesa e lo Stato in Italia. - Pure attraverso numerosi contrasti (fra cui il più grave la lotta dell'interdetto fra Venezia e Paolo V nel 1606), fin verso la metà del 1700 l'Italia, era rimasta il paese più devoto alla Santa Sede. In seguito, sotto l'influenza del movimento generale europeo, i varî stati italiani si orientarono verso un regime, detto di giurisdizionalismo confessionista, per il quale mentre la Chiesa cattolica era considerata chiesa ufficiale e godeva di preminenze e di privilegi, lo Stato esercitava su di essa una minuta ingerenza e un controllo rigoroso. Situazione di fatto che talora veniva ammessa dai concordati fra i due poteri, talora era semplicemente imposta con atto unilaterale da parte dello Stato. Tale sistema di giurisdizionalismo si esplicò in particolar modo in Sicilia col caratteristico istituto della Legazia apostolica in Toscana per opera di Leopoldo I che - esortato dal famoso vescovo Scipione de' Ricci - cercò di attuare un vero assetto di Chiesa di Stato spingendo l'intromissione statale fino in materia liturgica, e nel Lombardo-Veneto dove venne applicata la legislazione di Giuseppe II. Solo nel Piemonte regnò, fino al 1848, pieno e cordiale accordo fra Stato e Chiesa, consacrato da parecchi concordati. I contrasti cominciarono in tale anno e si acuirono parallelamente all'emanazione delle varie leggi in materia ecclesiastica, fra cui specialmente notevoli le due leggi Siccardi 9 aprile 1850 (che abrogava il Foro ecclesiastico) e 5 giugno 1850 (sugli acquisti degli enti morali), e le successive leggi soppressive delle comunità religiose ed eversive dell'asse ecclesiastico. Quantunque la celebre formula del Cavour "libera Chiesa in libero Stato" abbia fatto pensare all'instaurazione di un completo separatismo, in realtà il sistema attuato in italia riuniva in sé elementi di separatismo e di giurisdizionalismo insieme, come apparve poi anche nella legge "per le guarentigie delle prerogative del Sommo Pontefice e per le relazioni dello Stato con la Chiesa" (13 marzo 1871, n. 214) con la quale lo stato cercava da un lato di dare una soluzione alla questione romana (v.), e dall'altro di disciplinare nelle linee fondamentali i suoi rapporti con la Chiesa. Questa non volle mai riconoscere la situazione così creata con atto unilaterale dallo Stato italiano; numerosi tentativi per addivenire a un accordo tornarono per lungo tempo infruttuosi. Finalmente la conciliazione veniva raggiunta con i cosiddetti patti del Laterano dell'11 febbraio 1929. Con questi veniva raggiunto il duplice scopo di sistemare per reciproca volontà delle parti la questione romana e di provvedere al regolamento delle relazioni fra la Chiesa e lo Stato per l'avvenire. Si tratta di due obietti ben distinti, regolati il primo dal trattato propriamente detto e annessa convenzione finanziaria, e il secondo dal concordato; tuttavia tali atti hanno indubbiamente una stretta connessione fra loro, oltreché dal punto di vista storico e politico, anche da quello giuridico. Sulla misura e il carattere di tale connessione le opinioni divergono.
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Per la parte storica, oltre le storie della Chiesa, v.: Z. Giacometti, Quellen zur Geschichte der Trennung von Staat und Kirche, Tubinga 1926 (cfr. A. C. Jemolo, in Archivio giurid., XCVII, 2); E. Eichmann, Kirche und Staat, Paderborn 1912-14 (collezione di testi medievali); A. Gasquet, De l'autorité impériale en matière religieuse à Byzance, Parigi 1879; F. Laurent, la Chiesa e lo Stato dopo la rivoluzione francese, in Bibl. di sc. polit. del Brunialti, VIII, Torino 1892; A. Nyssens, La Chiesa e lo Stato nella costituzione belga, ibid.; F. Schaff, Chiesa e Stato negli Stati Uniti, ibid.; A. Crivellucci, Storia delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, I, Bologna 1886; G. Desdevises du Dezert, L'Église et l'État en France depuis l'édit de Nantes, voll. 2, Parigi 1907-09; S. Pivano, Stato e Chiesa da Berengario I ad Arduino, Torino 1908; A. Solmi, Stato e Chiesa da Carlomagno fino al concordato di Worms, Modena 1901; F. SCaduto, Stato e Chiesa dalla fine della lotta per le investiture alla morte di Ludovico il Bavaro, Firenze 1882; id., Stato e Chiesa nelle Due Sicilie, Palermo 1887; id., Stato e Chiesa sotto Leopoldo I, Firenze 1885; A. C. Jemolo, stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del '600 e del '700, Torino 1914.
Sull'Italia in particolare: cfr. P. C. Boggio, La Chiesa e lo Stato in Piemonte, Torino 1854; A. Brunialti, Lo Stato e la Chiesa in Italia, in Bibl. di scienze politiche, VIII; F. Ruffini, Lo Stato e la Chiesa in Italia, in append. alla ediz. ital. di Friedberg, Tratt. di dir. eccl. catt. ed ev., Torino 1893, pp. 90-131; A. C. Jemolo, Elementi di dir. eccl., Firenze 1927, pp. 207-249; V. Del Giudice, Le nuove basi del diritto eccles. ital., Milano 1929 (cfr. A. Volpicelli, in Nuovi studi di econ. e dir., III, 1930, e F. Ercole, in Gerarchia, 1929); M. Falco, La natura giuridica degli accordi lateranensi, in Temi Emiliana, 1929, n. 8.