CHIESA
(X, p. 7; App. II, i, p. 569; III, i, p. 359; IV, i, p. 414; V, i, p. 578)
Chiesa cattolica
di Giuseppe Alberigo
Con Giovanni Paolo ii la C. cattolica si dava, dopo oltre quattro secoli, un papa non italiano, scegliendo un cardinale di un paese periferico, dove il confronto con un regime di socialismo reale era in atto da più di tre decenni. Si compiva così una delle conseguenze del rinnovamento sancito dal Concilio, facendosi più esplicito il policentrismo, che appare una delle caratteristiche della C. cattolica in questo scorcio del secondo millennio. Papa Wojtyła ha fatto dei viaggi, frequenti e prolungati, un'occasione abituale di guida del cattolicesimo e di esercizio del ministero papale, modificando sensibilmente il ruolo che nei secoli post-tridentini ha avuto la Curia romana.
Il rinnovarsi negli anni Ottanta di frequenti conflitti dottrinali tra Roma e diversi teologi, soprattutto del continente americano, sembra fenomeno molto meno rilevante che per il passato, così come è limitatamente rilevante il ruolo del nuovo Codex iuris canonici (1983) e del Codex canonum ecclesiarum orientalium (1990). Incidono più profondamente sul cattolicesimo contemporaneo il processo di secolarizzazione in atto in tutte le culture, la crisi del ministero sacerdotale, i movimenti religiosi interni (Opus Dei, Comunione e Liberazione ecc.), visti con simpatia dal papa, che ne ha consolidato l'esistenza con la creazione (1982) di una "prelatura personale" per l'Opus Dei, che innova discutibilmente l'originaria territorialità della C. locale. Altrettanta importanza hanno assunto la responsabilizzazione dei fedeli laici maschi e, soprattutto, delle donne come guida di molte comunità in Africa e nelle Americhe, il superamento della concezione della C. come corpo separato e chiuso, dell'enfasi trionfalistica come arroganza confessionale, e infine il bisogno di risignificazione della preghiera e del peccato.
Il pontificato ha concentrato il suo impegno e ha raggiunto risultati significativi sul versante esterno alla C., con la conseguenza di un'incidenza via via più ridotta sulle strutture curiali, peraltro riformate con la costituzione apostolica Pastor bonus (1988). Dalla visita alla sinagoga di Roma (1986) alla giornata di preghiera comune con esponenti di altre religioni ad Assisi (1986), dal concorso determinante dato alla scomparsa del socialismo reale nell'URSS e nei paesi satelliti sino alle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele (1993), Giovanni Paolo ii ha superato barriere secolari (come nei confronti degli ebrei e delle religioni non cristiane) e ha rinnovato i fasti di una presenza politica diretta della C. a livello internazionale, posta sotto la parola d'ordine di una "nuova evangelizzazione".
La C. si trova però di fronte ad alcuni dati di fatto che pongono problemi tuttora irrisolti. In primo piano stanno il ruolo della donna nella C. e, più concretamente, le prospettive e gli spazi per l'ordinazione sacerdotale delle donne. Giovanni xxiii nella Pacem in terris riconosceva l'ingresso della donna nella vita pubblica come uno dei "tre fenomeni che caratterizzano l'epoca moderna", accanto all'ascesa della classe lavoratrice e all'indipendenza dei popoli che si affrancano dal colonialismo. La percezione dell'importanza del fenomeno da parte dell'anziano pontefice era dunque evidente. Ma il problema è divenuto via via più drammatico nella misura in cui la possibilità di ordinazione sacerdotale per le donne è diventata un elemento di dissenso tra le C. cristiane e di discussione all'interno del cattolicesimo. I vertici della C. cattolica hanno opposto solo netti rifiuti, escludendo ogni possibilità di modifica della norma che riserva l'ordinazione sacerdotale ai maschi, presentata come di diritto divino. Un documento della Congregazione della dottrina per la fede del 1976 ha certamente impedito ogni ulteriore confronto sul piano ecumenico e forse ha accelerato indirettamente l'apertura in questo senso della C. anglicana. Non è bastato a modificare la situazione di stallo l'affacciarsi nei seminari e nelle facoltà teologiche cattoliche di studenti e poi docenti donne. Anche l'assunzione di crescenti responsabilità all'interno della struttura ecclesiastica, come la guida di migliaia di intere comunità parrocchiali (soprattutto nel continente americano e in quello africano) hanno ulteriormente acutizzato l'esigenza di discutere il problema, che esegeti e teologi non ritengono affatto risolto. Dopo la lettera apostolica Mulieris dignitatem (1988), che non ha affrontato l'argomento, la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis (1994) conclude che la C. non ha la facoltà di conferire alle donne l'ordinazione sacerdotale e che tale conclusione deve essere considerata definitiva da tutti. In realtà il dibattito, soprattutto in America, continua, e non è prevedibile che altre dichiarazioni autoritative possano chiuderlo.
Nell'ambito dell'etica si manifesta una delle massime contraddizioni. L'etica cioè appare sempre più l'unico punto di contatto tra società civile e fatto religioso, così che le strutture politiche chiedono frequentemente appoggi alle religioni e alle C. per il mantenimento dell'ordine esistente. Contemporaneamente, però, sul piano dei costumi morali, soprattutto della morale sessuale (ricca di implicazioni politiche ed economiche, particolarmente a proposito del controllo demografico), la posizione della C. cattolica appare di irrinunciabile e inflessibile rigidità.
La Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo, svoltasi al Cairo (1994) sotto l'egida dell'ONU, ha provocato, soprattutto nella sua fase preparatoria, una tensione abbastanza insolita tra Santa Sede e Stati Uniti, entrambi estensori della bozza su cui sarebbe avvenuta la discussione, e numerosi sono stati gli interventi da parte vaticana per ottenerne la modifica (appelli ai capi di Stato, telefonata diretta tra il papa e il presidente Clinton). La C. cattolica ha denunciato con forza il fatto che la conferenza si preoccupasse soltanto di condurre i paesi ad alto tasso demografico verso indici più occidentali, senza discutere i modelli di sviluppo, gli stili di vita e soprattutto senza affrontare il problema cruciale di una più equa distribuzione della ricchezza sul pianeta. Il richiamo a questo orizzonte, certo più ampio del puro problema dei numeri e con dimensioni più umane, appare un modo storicamente incarnato di predicare l'Evangelo in sintonia con i segni dei tempi.
Resta però sempre difficile da capire l'assoluta rigidità delle norme relative alla morale sessuale per quanto riguarda una realistica possibilità di maternità e paternità responsabile. La Santa Sede, dopo che il documento finale della Conferenza ha recepito il rifiuto dell'aborto come metodo di pianificazione familiare, lo ha sottoscritto, sia pure esprimendo alcune riserve, dimostrando così un'inequivocabile volontà di dialogo. Il dialogo, anche se molto teso, è infatti continuato l'anno successivo alla iv Conferenza mondiale sulla donna (Pechino 1995). La delegazione della Santa Sede, a maggioranza femminile, ha infatti attivamente partecipato ai lavori rinnovando la denuncia di un eccessivo individualismo, la condanna dell'aborto e di tutti i metodi contraccettivi non naturali.
È dunque in atto da parte dell'autorità cattolica una battaglia, forse definibile di retroguardia, nel tentativo di mantenere ancora limitazioni legali, ormai sempre più rare, a fenomeni come l'aborto e il divorzio, mentre è ancora una volta sul piano pastorale, nell'esperienza concreta delle C. locali, che si sperimentano atteggiamenti ispirati alla misericordia evangelica, alla ricerca cioè di soluzioni in spirito di amicizia con l'uomo, facendosi carico delle sue difficoltà e sofferenze reali.
Anche la bioetica, questa nuova scienza che consente all'uomo di intervenire sulla propria natura, va proponendo responsabilità sempre più gravi all'individuo e alla società in ordine a scelte che non erano nemmeno pensabili solo pochi decenni fa. Certamente la C. è interpellata non tanto a dare risposte risolutive su ambiti scientifici in continua evoluzione, ma piuttosto a riaffermare e testimoniare il senso della vita e della morte secondo il piano della salvezza. La sfida per la C. consiste proprio nel riuscire a rispettare e accettare l'evoluzione della scienza anche in questo ambito, evitando condanne precipitose e assolute, da cancellare magari dopo qualche secolo, e nel far maturare, in un continuo dialogo tra storia e fede, criteri di scelta degni dell'umanità.
Con gli anni Novanta il pontificato di Giovanni Paolo ii sembra caratterizzato da una dicotomia, foriera di aperte contraddizioni. Da un lato, infatti, vi è l'impegno dinamico voluto dal papa per l'evangelizzazione a livello universale, con epicentro in Europa e soprattutto nell'Europa orientale, con attenzione incessante alla salvaguardia dei diritti umani e con un'apertura, almeno potenziale, ai cristiani non cattolici e alle altre grandi religioni. Da un altro lato prende sempre più corpo un riassetto istituzionale, incentrato sia su una puntigliosa determinazione di limiti giuridico-dottrinali che umiliano la comunione, sia sullo svuotamento delle istanze di corresponsabilità (nomine episcopali di basso profilo, diffidenza nei confronti delle conferenze episcopali), sia sulla presentazione di un'immagine del cattolicesimo romano culturalmente eurocentrica e angustamente post-tridentina. Solo apparentemente le due linee possono sembrare convergenti e addirittura complementari. In realtà sono espressione di due teologie diverse e alternative e di due opposte valutazioni del Concilio Vaticano ii e dei segni del tempo. Infatti, mentre la prima linea reca in sé una carica spirituale dinamica, capace di suscitare consensi e gravida di conseguenze di lungo periodo (anche al di là del tramonto delle ideologie marxiane), la seconda linea ha un'ispirazione pessimistica che si esprime in una strategia di progressive limitazioni della libertà, come se il cristianesimo fosse in difficoltà e la C. fosse nella necessità di difendersi e di rinchiudersi in se stessa.
Le energie suscitate dalla prima prospettiva rischiano di essere mortificate e stroncate sul nascere; sulla C. si stende un'ombra grigia di diffidenza e di sospetti; la comunione è minacciata da un ordine imposto autoritativamente, ma sempre più povero di autorevolezza; iniziative di nuovo impegno ecclesiale vengono burocratizzate (come nel caso dell'assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per l'Africa del 1994). I processi di crescita innescati dal Vaticano ii appaiono sempre più contraddetti e paralizzati da uno stile di diffidenza verso la libertà dei cristiani e delle C. (dal Catechismo della Chiesa cattolica alla maggiorazione delle dottrine definitive del magistero ordinario ancorché non contenute nella Rivelazione). In questo scorcio del secondo millennio l'insistenza su un'egemonia della dottrina, che pure è stata necessaria tra il 19° e il 20° secolo, appare a molti anacronistica. La condizione postideologica dell'umanità, sancita dalla clamorosa scomparsa della maggior parte dei regimi politici di ispirazione marxista, apre straordinarie prospettive a un annuncio evangelico presentato in termini positivi, senza le sovrastrutture polemiche e le impalcature di potere mutuate dall'avversario, durante l'aspro confronto con le ideologie.
Sul versante intraecclesiale, le vicende equivoche dell'Istituto per le opere di religione (IOR), le dure polemiche con i vertici degli ordini dei gesuiti e dei domenicani, un'eclissi dell'impegno ecumenico danno l'impressione di una ripresa al centro del cattolicesimo di orientamenti preconciliari, che Giovanni Paolo ii non vuole o, anche a causa di un evidente declino fisico, non può frenare.
Verso il 21º secolo alla ricerca di nuovi equilibri
Rispetto all'evoluzione della tarda età moderna e della prima metà del 20° secolo, il Concilio Vaticano ii segna una profonda modificazione anche per quanto concerne il posto occupato nel cattolicesimo dalla dimensione istituzionale. L'affermarsi della concezione della C. come comunione e non più come società, un maggiore equilibrio tra orizzonte universale e dimensione locale della C. stessa, la crescente consapevolezza della condizione multiculturale del cattolicesimo, infine la subordinazione dell'aspetto organizzativo-istituzionale alla natura sacramentale e itinerante della comunità ecclesiale (senza dimenticare la sensibilità ecumenica e l'amicizia verso il mondo) sono i cardini della rivoluzione copernicana intervenuta nell'ecclesiologia.
Sarebbe avventato scambiare questi orientamenti per acquisizioni profonde e generalizzate, così come sarebbe ingenuo ritenere che essi abbiano già trovato adeguata e soddisfacente traduzione istituzionale. Al contrario, balza agli occhi l'esistenza di una tensione irrisolta tra le indicazioni date dal Vaticano ii da un lato e da un altro lato l'assetto istituzionale, che continua a ispirarsi prevalentemente alla concezione preconciliare della C., e una prassi di governo oscillante tra vecchio e nuovo. Sono tensioni che non possono sorprendere se si tiene presente che la svolta operata dal Concilio tende a modificare una situazione consolidata da secoli e da molti ritenuta definitiva. Al centro come alla periferia, nelle aree di antica evangelizzazione come in quelle dove il cattolicesimo è presente da pochi decenni, a livello ecclesiastico come tra i comuni fedeli, negli anni Settanta e Ottanta l'entusiasmo e la disponibilità per il rinnovamento conciliare sono spesso trascolorati in incertezza, in errori, in delusa stanchezza. È parso che le correzioni di rotta suggerite dal Vaticano ii e l'accelerazione che esse implicavano fossero eccessive, che d'altronde le resistenze delle abitudini cristallizzate e delle dottrine e delle istituzioni consolidate fossero insuperabili, che gli stessi organi preposti all'aggiornamento postconciliare agissero senza convinzione e senza reale capacità creativa. Analisi affrettate e superficiali, quando non interessate, hanno fatto credere che ciò fosse effetto del Concilio stesso o, almeno, delle impazienze da esso generate. Raramente ci si è impegnati a risalire all'inerzia e alla falsa sicurezza che hanno caratterizzato il cattolicesimo tra la fine del 19° sec. e la prima metà del 20°, soffocandolo in una condizione angusta nella quale si preferiva ignorare i problemi e tacciare chi li segnalava di spirito eversivo. Le difficoltà degli anni Settanta e Ottanta hanno invece la loro causa proprio nel ritardo con il quale il Concilio è stato convocato. In questo clima, l'elaborazione ecclesiologica ha segnato il passo, privando la ricerca ecclesiale delle coordinate dottrinali, di modo che la prassi istituzionale ha risentito l'attrazione delle secolari abitudini post-tridentine. In un primo momento è parso che il Vaticano ii avesse opportunamente criticato e superato l'ecclesiocentrismo del secolo precedente, che spesso aveva generato un fastidioso trionfalismo ecclesiastico. Solo più recentemente va insinuandosi la percezione che l'omissione di una vigorosa elaborazione ecclesiologica implichi restare prigionieri di una teologia della C. obsoleta ma tenace. L'ecclesiologia di comunione non produce spontaneamente un assetto istituzionale a essa coerente, anzi alla lunga può essere vanificata dalla sopravvivenza di un tessuto istituzionale di ispirazione gerarchico-societaria. Si pone cioè il problema di sottrarre le istituzioni ecclesiali alla matrice di filosofia sociale post-hegeliana che ha presieduto al loro disegno, ripensandole con coraggiosa creatività. Il passaggio dall'ecclesiologia essenzialista e universale a una visione articolata e pastorale della C. si rivela particolarmente arduo, sia a livello dottrinale che sul piano istituzionale.
Il coinvolgimento dell'episcopato col vescovo di Roma nella guida della C. universale, malgrado la dottrina della collegialità, continua a essere privo di esiti operativi e pertanto istituzionalmente sterile, almeno nel breve periodo. Ancora una volta e più che mai papa Giovanni Paolo ii si è trovato a gestire personalmente un carico insopportabile di responsabilità, di cui in larga misura si è appropriata la Curia romana. Ciò ha riproposto una duplice tensione: tra papa e Curia da un lato e tra Curia ed episcopato dall'altro. Nel primo caso si risente la mancanza di una chiara distinzione tra livello decisionale e livello esecutivo, mentre nel secondo il disagio deriva dall'esperienza dei vescovi di essere destinatari di un rapporto gerarchico e non di servizio da parte della Curia.
Verso la fine degli anni Ottanta, alcune tensioni si sono acuite a seguito della crescente egemonia della Congregazione per la dottrina della fede. Ne è stata denunciata la tendenza a esercitare una leadership globale, trascendendo i limiti della propria competenza istituzionale. Da parte loro, le conferenze episcopali reagiscono all'emergere di una tendenza che vorrebbe mortificare il loro rilievo istituzionale, esponendo i singoli vescovi a un rapporto diretto, e inevitabilmente più sprovveduto, con il centro romano e con i movimenti ecclesiali che tendono a una diffusione trasversale in ampie aree della Chiesa.
Uno strumento di indiretto ma efficacissimo intervento sulle istituzioni si è rivelato la scelta dei vescovi. In questa occasione infatti è possibile finalizzare le scelte alla modifica dell'equilibrio interno delle singole conferenze episcopali, in modo da ottenere in capo a qualche anno una diversa fisionomia politica delle conferenze stesse. Infatti, mai nel passato la Santa Sede si era trovata in una condizione di completa libertà nella scelta dei vescovi come in quella attuale, quando i governi sono estromessi da qualsiasi interferenza e le conferenze episcopali (o i capitoli cattedrali) sono emarginate. Tuttavia, paradossalmente, proprio lo sviluppo dell'apparato centrale ha posto le premesse per la modifica del rapporto centro-periferia nella misura in cui le esigenze di provvedere a coprire le spese della Santa Sede impongono il ricorso ai contributi degli episcopati, riproducendo una congiuntura classica nell'evoluzione istituzionale delle grandi organizzazioni, per cui il centralismo deve essere temperato per ottenere i contributi economici dalla periferia. Nelle C. locali, mentre la creazione dei consigli rappresentativi (pastorale e presbiterale) suggerita dal Vaticano ii ha dato risultati molto modesti, esistono soprattutto nei continenti del Terzo mondo istanze molto vive per la sperimentazione di nuove modalità di vita ecclesiale e di comunicazione, capaci di adeguare la parrocchia a contesti culturali e sociali radicalmente diversi da quelli in cui essa si è formata. Con interessanti analogie con le altre C. cristiane, emerge una richiesta di conciliarità (come metodo partecipativo mutuato dalla prassi dei concili antichi) nei vari aspetti della vita delle Chiese.
Questo moto di rinnovamento della vita e della teologia cattolica non vuole certo prescindere dall'accumulo di riflessione prodotto lungo la sua storia dalla teologia scientifica in tutte le sue stagioni. A differenza di quanto avvenuto negli ultimi cento anni, oggi le ricerche di storia del cristianesimo e della C. hanno investito tutti gli aspetti della vita cristiana, non solo le istituzioni ma anche le dottrine, non solo gli aspetti biografici individuali ma anche quelli sociali e squisitamente ecclesiali, non solo la vita esterna e materiale ma anche la spiritualità e la devozione. La conoscenza storica manifesta un'innegabile omogeneità qualitativa con il cristianesimo come itinerario di salvezza che si svolge nel tempo. È tipico del cristianesimo essere una religione che si manifesta progressivamente di generazione in generazione. Tuttavia è noto che la stessa conoscenza storica soffre di limiti ben netti, che costituiscono un preciso confine, suscettibile di spostamenti in avanti, ma ancora lontano dal comprendere tutti gli spessori di realtà e di significato propri dell'evento cristiano. Infatti ci si rende conto che il cristianesimo come oggetto di conoscenza storica pone problemi specifici. Si tratta della dimensione spirituale e interiore della fede, del fattore trascendente la natura di aspetti centrali dell'esperienza cristiana, dall'incarnazione ai sacramenti, dalla preghiera alla santità, dal peccato alla salvezza. Allo stato attuale di sviluppo, la conoscenza storica è in grado di sfiorare piuttosto che di comprendere adeguatamente queste dimensioni.
La riflessione teologica si è peraltro sempre più orientata a valorizzare come fonte e criterio di verità la fede storicamente vissuta e interpretata all'interno della comunità che professa la sua fede nella comunione eucaristica; essa cerca i significati profondi (messianici ed escatologici) degli eventi, svela i segni evangelici racchiusi nel tempo, rilegge la parola di Dio per annunciare il Vangelo agli uomini. Accanto a questa conoscenza del progetto di salvezza si esercita anche una riflessione di natura più propriamente razionale, basata e garantita dal rigore scientifico dei suoi metodi e delle sue tecniche, alimentata da un clima di libertà responsabile.
Linee di tendenza e questioni aperte
Le conseguenze del pontificato giovanneo e del Vaticano ii, la cui ricezione da parte della C. è ancora nella fase aurorale, tendono a dare al cattolicesimo un'identità rinnovata, risultante da una sintesi tra molti fattori tradizionali (esaltati nel loro valore, ma anche nella loro lunga durata) ed elementi generati da una rivisitazione attuale e dinamica del messaggio evangelico. Durante e dopo il Concilio si è posto l'interrogativo se la concezione della verità, egemone per secoli, avesse un fondamento adeguato nel Nuovo Testamento o non fosse, invece, il prodotto storico dell'incontro e scontro del cristianesimo con determinate culture, caratterizzate dalla superiorità dell'astratto sul concreto, del concetto sulla realtà, dell'universale sul particolare. Era in gioco una concezione del cristianesimo e della C. imperniata sulla verità dottrinale. La natura dei grandi conflitti vissuti dai cristiani nella tarda antichità li aveva indotti a esprimere la fede e a renderla riconoscibile e comunicabile soprattutto mediante elaborazioni concettuali. Più tardi il conflitto con le entità statuali aveva prodotto una crescente e pervasiva istituzionalizzazione della vita cristiana. Si era così affermato un comune denominatore delle comunità ecclesiali, costituito da formulazioni dottrinali e da un sistema giuridico e canonico. L'egemonia di tale denominatore aveva emarginato progressivamente il rilievo della santità e della testimonianza rispetto all'ortodossia e all'obbedienza. Sempre più sono state preferite elaborazioni teologiche univoche, favorite dall'omogeneità culturale del cristianesimo mediterraneo. Sulla misericordia e la riconciliazione avevano la prevalenza l'obbedienza e la sottomissione alla verità e ai suoi temibili custodi.
La condizione pluriculturale del cristianesimo contemporaneo e l'istanza dei cristiani comuni a superare la condizione di passività nella vita della C. hanno sgretolato quella concezione. Non nel senso di negare rilievo alla dottrina teologica e alle sue formulazioni, ma affermando una visione più articolata e dinamica del cristianesimo e della Chiesa. Si è pertanto avviato il ridimensionamento dell'importanza della dimensione dottrinale (e, tanto più, delle formulazioni dogmatiche) rispetto alle altre dimensioni della fede e della vita cristiana. D'altra parte, anche la fine del 20° secolo ha riproposto in tutta la sua drammaticità il martirio come dimensione sempre possibile e non infrequente della vita cristiana. La scelta di vescovi e monaci di rimanere in Algeria contro ogni umana ragionevolezza per fedeltà a una scelta di fede, accettando la prevedibile morte violenta, è un autentico segno dei tempi che impone persino ridimensionamenti dottrinali. Così pure è rilevabile, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, il diffondersi anche tra i laici di una spiritualità che si alimenta alla grande tradizione monastica di ceppo benedettino, sostituendo l'influsso, fino ad allora egemone, delle congregazioni religiose post-tridentine e soprattutto dei gesuiti. I monasteri, sia i grandi monasteri tradizionali sia recenti comunità monastiche di origine spontanea, divengono sempre più punti di ritrovo per incontri spirituali. Le foresterie dei vecchi e nuovi monasteri conoscono un'imprevista dilatazione e l'accoglienza diviene uno dei compiti a cui i monaci devono far fronte. Settimane bibliche e liturgiche sostituiscono spesso le forme più tradizionali degli esercizi spirituali, mentre la lettura della Bibbia e la recita delle ore dell'ufficio divino coinvolgono consistenti gruppi di laici. Nello stesso tempo una produzione letteraria di traduzioni contemporanee degli antichi testi monastici trova accoglienza e interesse tra il pubblico laico.
Di quest'evoluzione è interessante sottolineare due conseguenze. In primo luogo la messa in discussione di un'accezione monolitica e monodimensionale della verità cristiana, riconoscendo che essa ha come criterio di autenticità la persona di Gesù Cristo, in tutto lo spessore multidimensionale del suo mistero, e non una propria interna coerenza concettuale. In questa prospettiva si fa spazio la consapevolezza che la conoscenza della verità è storica e procede mediante approssimazioni parziali, tra loro complementari, piuttosto che esclusive e alternative. Corrispondentemente si intravede che il cattolicesimo non è coestensivo con la dottrina, la quale non ne costituisce neppure la dimensione più importante. L'adesione alla dottrina, e soprattutto a una determinata formulazione dottrinale, non appare più il criterio ultimo per discernere l'appartenenza alla Chiesa.
Molti sono convinti che sia possibile disarticolare l'annuncio evangelico dall'attuale universo culturale e proporsi una nuova inculturazione. I fermenti, le esperienze, le elaborazioni in atto nelle culture e nelle società contemporanee appaiono come segni dei tempi. Connessa con ciò si profila una riscoperta dell'escatologia: essa alimenterebbe la coscienza della finitezza della storia rispetto a "cieli nuovi e terre nuove", con l'effetto di riguadagnare la consapevolezza della provvisorietà e dell'incompletezza degli assetti sociali. La rivisitazione della lunga e complessa esperienza della cristianità rende auspicabile un rapporto aperto della C. con ciascuna cultura e tradizione umana; un rapporto che tenda a una relazione reciproca, e non a senso unico, di confronto, verifica, arricchimento e, anche, scontro. In questa prospettiva una teologia planetaria, auspicata alla metà degli anni Ottanta, sarebbe plausibile solo se avesse la funzione di accettare umilmente come strutturale la regionalizzazione, d'altronde ormai già in atto, sia dell'esperienza cristiana sia del modo di pensarla e di formularla.
La cattolicità della fede potrebbe riguadagnare una densità pluridimensionale e la cattolicità della C. potrebbe superare l'impoverimento di cui soffre a causa della sua riduzione alla cultura atlantica e a un circoscritto ceto sociale. Sperimentando uno stile di presenza nelle società e nelle culture alieno dal perseguire l'egemonia e fedele alla povertà del popolo di Dio pellegrino nel mondo, l'esperienza cristiana potrebbe ritrovare l'ampia apertura dei momenti migliori e la C. sarebbe di nuovo capace di essere amica degli uomini, condividendone gioie e dolori. Sintomo di questo nuovo atteggiamento verso l'uomo era stato l'annuncio di Giovanni xxiii, all'apertura del Concilio Vaticano ii, che la C. preferiva alle condanne la medicina della misericordia. Esso veniva ulteriormente confermato, alla fine del Concilio, dalla remissione delle scomuniche intercorse tra le C. di Roma e di Costantinopoli e più tardi dal riconoscimento da parte di Giovanni Paolo ii che la condanna di Galileo era stato un errore, nonché dal più cauto e rispettoso giudizio nei confronti di Lutero. In questa prospettiva va situata l'indizione del Giubileo in occasione del nuovo millennio cristiano. Al di là di tutte le grandi manifestazioni esterne, esso è stato presentato come un'occasione di conversione non solo per i singoli cristiani, ma per la C. in quanto tale.
La tradizione cattolica è quasi completamente sprovveduta di una riflessione sulla conversione (metanoia) della comunità ecclesiale e si può aggiungere che lo sono anche, malgrado le esperienze scottanti di Norimberga e di diversi tribunali dei popoli, la cultura e il diritto occidentali. Probabilmente la conversione ecclesiale sarebbe la strada per affrontare in modo adeguato problemi ancora irrisolti come quelli della povertà della C., dell'inculturazione della fede nelle nuove culture, della trasparenza evangelica della struttura ecclesiastica. Esercitare la conversione implica il coraggio evangelico, e pertanto profetico, di riconoscere sia i peccati del passato sia i nuovi, malgrado ciò costi all'orgoglio e possa anche suscitare spiacevoli contraccolpi. Ma tutto questo sarebbe esemplare e anche a livello della grande opinione pubblica sarebbe facile il confronto con l'opposto atteggiamento dei poteri secolari.
Giovanni Paolo ii ha parlato di revisione da parte della C. degli aspetti oscuri della sua storia con cenni espliciti, tra l'altro, alle guerre di religione e ai tribunali dell'Inquisizione. Egli ha sottolineato l'esigenza del discernimento delle mancanze storiche e delle negligenze dei membri della C., proprio in occasione del Giubileo, soprattutto nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente (1994). L'insistenza reiterata su questi temi, insoliti da secoli per i vertici della Chiesa, è un dato rilevante sul piano del futuro del cattolicesimo. In questa prospettiva si apre una necessità di conversione che è molto più esigente e radicale di qualsiasi progetto di riforma, con implicazioni istituzionali e morali, ma anche di modi di pensare e di atteggiamenti verso le società umane. Tuttavia non si può ignorare che l'egemonia oggettiva delle culture evangelizzate sulla stessa evangelizzazione, come sulla rievangelizzazione, ha profonde implicazioni tanto sul piano degli abiti culturali e spirituali quanto sul piano delle strutture della C., ancora intimamente impregnate di diritto romano.
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Chiesa ortodossa
di Damaskinos Papandreou, Metropolita di Svizzera
Dopo i cambiamenti politici avvenuti dal 1989 nell'Europa centrale e orientale, nell'ambito dell'ortodossia, accanto ai quattro Patriarcati antichi (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), ai cinque recenti (Russia, Serbia, Romania, Bulgaria e Georgia), alle tre C. autocefale (Cipro, Grecia e Polonia) e alle due C. autonome (Finlandia e Estonia) si sono costituite altre due C. autocefale, quella dell'Albania e quella della Repubblica Ceca e della Slovacchia.
S'avvia intanto verso la conclusione la preparazione (decisa già nel 1961) del santo e grande Concilio dell'ortodossia. Infatti, la Commissione preparatoria interortodossa (la quale ha come missione di ricercare la comune posizione di tutte le C. ortodosse su ogni tema) si è incontrata al centro ortodosso di Chambésy presso Ginevra in due assemblee (tenutesi nel 1990 e nel 1993) e ha formulato le convergenti posizioni delle C. ortodosse locali sulla diaspora ortodossa, sull'autocefalia e sul modo di proclamarla, mentre nell'assemblea del novembre 1998 ha completato la preparazione dei temi relativi ai dittici ortodossi, all'autonomia e al modo di proclamarla, sicché nella iv Conferenza panortodossa presinodale, prevista, si possa decidere la convocazione del santo e grande Concilio dell'ortodossia nei primi anni del nuovo millennio. La C. ortodossa vive in pienezza lo spirito della sua autocoscienza sinodale e conferma, nonostante difficoltà e contrasti anche aspri su particolari punti, la sua profonda unità nella fede e nella carità. I temi della iv Conferenza panortodossa presinodale si riferiscono a concrete questioni pratiche: far fronte a esse, però, è possibile nell'ambito della tradizione canonica ortodossa, come s'è constatato durante i lavori svolti dalla Commissione preparatoria interortodossa sulle complicate questioni dell'organizzazione canonica della diaspora ortodossa e della procedura canonica della dichiarazione dell'autocefalia nella C. ortodossa.
Per quanto riguarda il dialogo ecumenico con la C. cattolica, già dalla v assemblea della Commissione teologica mista internazionale, tenutasi a Valamo nel 1988, il cammino del dialogo teologico è stato negativamente influenzato dalla ripresa dell'uniatismo della C. cattolica nei paesi dell'Europa orientale, dove si sono accentuate le violente contrapposizioni con le C. ortodosse locali, specialmente dopo l'annuncio (durante le celebrazioni del millennio della vita cristiana in Russia svoltesi nel 1988) della preparazione della legge sulla libertà di coscienza, approvata dalla Duma e pubblicata nel 1997, che privilegia la C. ortodossa russa. La sottocommissione costituita per lo studio del tema dell'uniatismo ha preparato una serie di proposizioni, le quali, dopo essere state discusse, hanno preso la loro forma finale nel comunicato comune della vi assemblea della Commissione teologica mista internazionale per il dialogo tenutasi a Frisinga (6-15 giugno 1990). Il testo del comunicato comune ha tuttavia provocato la reazione principalmente degli uniati dell'Oriente e ha aggravato la tensione nel corso dei lavori della stessa Commissione teologica mista internazionale. Per studiare la situazione creatasi, l'11 e 12 dicembre 1990 si è riunita al Fanar la Commissione interortodossa per il dialogo e in quella sede sono state studiate le conseguenze negative sul dialogo teologico causate dai violenti scontri e dalle contrapposizioni degli uniati con le C. ortodosse locali.
Sotto la pressione di questa difficile situazione si è riunita la vii assemblea della Commissione teologica mista internazionale a Balamand, nel Libano (17-24 giugno 1993), per riesaminare la questione dell'uniatismo sulla base di un testo della commissione coordinatrice (che si era riunita ad Ariccia nel giugno 1991) e alla luce del comunicato comune dell'assemblea della Commissione teologica mista internazionale tenutasi a Frisinga. Il testo preparato, dal titolo L'uniatismo, metodo di unione nel passato e la ricerca contemporanea della piena comunione, è stato però violentemente rigettato da alcune C. ortodosse. A causa di questi sviluppi si è riunita al Fanar la Commissione interortodossa (13-14 luglio 1995), che ha deciso di continuare lo studio delle conseguenze ecclesiologiche e pastorali dell'uniatismo nel quadro dei testi formulati a Frisinga e a Balamand. Una comune soluzione teologica al problema dell'uniatismo è infatti più che mai necessaria per salvare il dialogo teologico dalle attuali frizioni tra le due Chiese.
Per quanto riguarda il dialogo della C. ortodossa rispettivamente con i veterocattolici, con le antiche C. orientali dette precalcedonesi, con gli anglicani, con i luterani e con i riformati, si è concluso il lavoro della Commissione teologica mista per il dialogo dell'ortodossia con i veterocattolici. Nel corso dei lavori della vii assemblea della Commissione, tenutasi a Kavala, in Grecia (12-14 ottobre 1987), è stato esaurito il catalogo dei temi con la pubblicazione dei testi teologici comuni, ma rimane ancora aperta la grave questione dell'intercomunione della C. veterocattolica con la C. anglicana, questione che si è aggravata con gli ulteriori atti unilaterali della diocesi veterocattolica della Germania per quanto riguarda l'intercomunione con la C. evangelica della Germania e l'ordinazione delle donne al sacerdozio. Tali questioni, che minacciano l'unità interna della C. veterocattolica, rendono molto relativa l'importanza dell'accordo teologico raggiunto durante il dialogo e impediscono il ristabilimento della sua comunione ecclesiastica con la C. ortodossa.
Analoghe difficoltà presenta il dialogo con i riformati, che ha avuto inizio nel 1968 sul tema del dogma trinitario alla luce del Simbolo di fede di Nicea-Costantinopoli e l'insegnamento dei Padri del 4° secolo. La iii Conferenza panortodossa presinodale ha indicato come principali problemi del dialogo con i luterani e i riformati sia la pratica del proselitismo a danno degli ortodossi sia la chiarificazione della prassi dell'ordinazione delle donne. La ii assemblea della Commissione teologica mista si è tenuta a Leuenberg, in Svizzera (1988), mentre la iii assemblea della stessa commissione ha avuto luogo a Minsk (1-8 ottobre 1990) sullo stesso tema e ha fatto rilevare importanti punti di accordo tra ortodossi e riformati sul dogma trinitario, espressi nella lunga comune Dichiarazione sulla Santa Trinità. La iv assemblea della Commissione mista teologica si è tenuta a Kappel-am-Albis, presso Zurigo (9-13 marzo 1992), sul tema dell'incarnazione del Verbo di Dio secondo il Credo di Nicea-Costantinopoli e la dottrina dei Padri del 4° secolo, rilevando importanti punti di accordo formulati nella lunga comune Dichiarazione sulla cristologia. La v assemblea della Commissione mista teologica tenutasi ad Aberdeen (1996) ha preparato un breve testo comune sul tema Identità e unità della Chiesa, mentre la vi assemblea tenutasi a Zante (1998) ha preparato un altro breve testo comune, intitolato La qualità del membro del corpo di Cristo e del corpo della Chiesa, anche se le difficoltà ecclesiologiche di un accordo persistono tuttora nel dialogo teologico.
La latente crisi nelle relazioni tra la C. ortodossa e il Consiglio Ecumenico delle Chiese (World Council of Churches, WCC) e il movimento ecumenico in generale è stata aggravata dopo la caduta dei regimi comunisti nell'Europa Orientale, da una parte a causa della propaganda e del proselitismo delle sette protestanti tra i popoli ortodossi e dall'altra a causa della tensione causata dalle reazioni dei circoli conservatori delle C. ortodosse nei confronti dei nuovi temi e metodi del movimento ecumenico. La decisione della C. di Georgia di non partecipare alle assemblee ha aggravato queste reazioni, tanto da obbligare il patriarca ecumenico Bartolomeo a convocare un incontro interortodosso a Salonicco (29 aprile-2 maggio 1998) per valutare le relazioni tra l'ortodossia e il movimento ecumenico. In questo incontro le C. ortodosse hanno espresso le loro obiezioni sulla metodologia adottata (soprattutto la prassi di sottoporre a votazioni le questioni teologiche) e sulle nuove tematiche teologiche (ordinazione al sacerdozio delle donne, femminismo, omosessualità ecc.) affrontate nelle discussioni tenutesi nell'ambito del WCC, tanto da esigere mutamenti radicali nella sua organizzazione e nel suo funzionamento, e da decidere la non partecipazione delle C. ortodosse alle celebrazioni liturgiche e alle votazioni durante i lavori della viii assemblea generale del WCC tenutasi ad Harare nel dicembre 1998. Gli sviluppi di questa crisi nelle relazioni tra l'ortodossia e il movimento ecumenico dipenderanno tanto dalle conseguenze dell'assemblea generale quanto da un diverso atteggiamento dei circoli conservatori dell'ortodossia verso il movimento ecumenico.
Bibliografia
L'Ostkirchliches Institut di Regensburg pubblica dal 1982 l'annuario Orthodoxia mit Alt-Orientalen, elenco completo in varie lingue di tutte le diocesi delle Chiese orientali con i nomi e gli indirizzi dei titolari in carica.
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Chiese evangeliche
di Paolo Ricca
Considerando globalmente il protestantesimo nelle sue varie articolazioni ed espressioni, si possono osservare le seguenti linee di tendenza: il lento ma progressivo spostamento del suo baricentro dall'Occidente al Terzo mondo; l'unificazione crescente, secondo vari modelli, del protestantesimo storico; la crescita impetuosa del protestantesimo di tipo pentecostale e le possibili divaricazioni rispetto a quello tradizionale; lo sviluppo ulteriore delle relazioni ecumeniche e, dove è possibile, della cooperazione con tutte le C. e confessioni disponibili; lo sviluppo del dialogo interreligioso e, in particolare, dell'incontro e del confronto con l'ebraismo; il dibattito acceso su alcune questioni controverse, compresa quella del rapporto tra pluralismo delle religioni e unicità, secondo la fede cristiana, della salvezza in Cristo.
Un nuovo baricentro
Che il baricentro del protestantesimo mondiale si stia progressivamente spostando verso il Terzo mondo ha una sua illustrazione simbolica nel fatto che oggi i due maggiori organismi confessionali protestanti (l'Alleanza riformata mondiale e la Federazione luterana mondiale, entrambe con sede a Ginevra) hanno rispettivamente un asiatico come presidente, C.S. Song, teologo di Taiwan, e un africano come segretario generale, I. Noko, teologo dello Zimbabwe. In Occidente, il declino del cristianesimo come fenomeno di massa s'è manifestato in proporzioni drammatiche in alcuni paesi dell'Europa centrale e orientale, e in Russia dopo la svolta del 1989.
Per es., nel territorio che ha costituito la Repubblica Democratica di Germania, tutte le C. sono in minoranza; il cristianesimo diventa, rispetto alla popolazione complessiva, largamente minoritario, e la maggior parte della popolazione non solo è estranea alla vita della C., ma ha anche tagliato i ponti con la tradizione cristiana, che per secoli era stata una componente essenziale della cultura collettiva. La secolarizzazione non è quindi solo abbandono della C., ma è un fenomeno di più vasta portata che si configura come la perdita di una tradizione culturale. Un simile collasso non può essere spiegato soltanto con la politica antireligiosa dei governi comunisti, per quanto dura e sistematica essa sia stata; le radici del fenomeno risalgono quanto meno ai tempi del nazionalsocialismo, che per primo tentò (non senza successo, per quanto momentaneo) di sostituirsi al cristianesimo come religione popolare, relegando le C. ai margini della vita pubblica.
Anche nell'Europa occidentale e nell'America Settentrionale il numero dei membri delle cosiddette mainline Churches (le C. evangeliche tradizionali) decresce lentamente, sovente a vantaggio di gruppi cristiani di tipo carismatico o di tendenza fondamentalista. Nell'insieme il cristianesimo continua a essere la religione di maggioranza, ma si tratta di una religiosità più passiva che attiva, a carattere prevalentemente sociologico. Il numero dei battesimi di bambini diminuisce, certo per la bassa natalità, ma anche per un crescente disinteresse ad affermare o confermare la propria appartenenza alla Chiesa.
L'Occidente si scristianizza a poco a poco e parallelamente cresce in Europa, come già negli Stati Uniti, il pluralismo religioso, con un numero sempre maggiore di persone che appartengono o aderiscono a una delle grandi religioni (l'Islam e il buddhismo in particolare) oppure a uno dei nuovi culti, una vasta gamma di esperienze e formazioni religiose, per lo più riconducibili a matrici orientali. La crescente diffusione dell'Islam in Europa occidentale è dovuta principalmente a fenomeni migratori ma anche, secondo alcuni, alla fermezza con cui l'Islam s'oppone frontalmente al processo di secolarizzazione. Da segnalare infine, a livello planetario, l'affermazione dei Testimoni di Geova, un movimento paracristiano animato da una viva coscienza apocalittica e, in conseguenza, da uno zelo proselitistico fuori del comune.
Il protestantesimo è in espansione in America Latina, Africa e Asia, ma in ogni continente deve far fronte a numerosi e ardui problemi. In America Latina il protestantesimo maggiormente in crescita è quello di tipo evangelistico-pentecostale, poco incline almeno finora al dialogo con il protestantesimo tradizionale e, a fortiori, con il cattolicesimo, e poco sensibile all'esigenza di ambientare il cristianesimo nelle diverse culture locali. D'altra parte il pentecostalismo non solo possiede una carica evangelizzatrice sconosciuta al cristianesimo tradizionale, ma prende sempre più chiara coscienza del fatto che evangelizzare il mondo comporta certo una conversione spirituale e morale ma anche (come è stato dichiarato nel corso della x assemblea mondiale della World Evangelical Fellowship, riunita ad Abbotsford, Canada, nel 1997, a nome di 150 milioni di cristiani evangelici) "una trasformazione di valori personali e di mali strutturali", al fine di "smantellare le strutture oppressive". In Africa è fiorito in questi anni un protestantesimo, e più in generale un cristianesimo, indipendente, cioè autonomo rispetto a quello nato dalle missioni e che cerca di stabilire un cristianesimo biblico senza aggiunte occidentali e in armonia con l'eredità culturale africana. Sono nate così diverse C. indipendenti, che chiedono di essere riconosciute e accolte come C. sorelle. Il secondo problema del protestantesimo africano è il ruolo politico delle C. in diversi Stati, caratterizzato da ambiguità e contraddizioni. Tipico è l'esempio del Sudafrica, dove alcune C., come quella anglicana guidata dal vescovo D. Tutu, hanno contribuito efficacemente all'abolizione del regime dell'apartheid, che altre C. invece sostenevano, come la C. riformata olandese. Per l'appoggio dato all'apartheid, essa venne esclusa nel 1982 dalla comunione dell'Alleanza riformata mondiale, nella quale è stata riammessa nel 1997, a condizione che dichiarasse ufficialmente l'apartheid "peccaminosa" non solo per le sue conseguenze ma nella sua stessa natura. Le situazioni ambigue e contraddittorie sono anche di altro genere: è accaduto che esponenti religiosi di primo piano abbiano occupato posizioni politiche importanti in governi caratterizzati da un notevole tasso di corruzione. In altri Stati, a fronte di regimi autoritari inclini alla dittatura, alcune C. hanno finito per riprodurre al loro interno quegli stessi modelli politici, accettando forme dispotiche di governo anziché promuovere e guidare processi di democratizzazione della vita pubblica. Nel 1993, le C. evangeliche francofone hanno ammesso in una pubblica dichiarazione di pentimento di non aver contrastato con sufficiente determinazione i regimi non democratici affermatisi nei rispettivi paesi. Un'altra tentazione cui certe C. africane hanno ceduto in varie circostanze è quella di un lealismo acritico nei confronti del potere politico, tanto che la vii assemblea generale della All Africa Conference of Churches, riunita ad Addis Abeba nell'ottobre del 1997, ha invitato solennemente le C. a "fare la volontà di Dio, non la volontà degli Stati". Un ulteriore problema tipico del protestantesimo (e, più in generale, del cristianesimo) africano è legato al fatto che di solito le C. sono preferite dalle agenzie occidentali di aiuto al Terzo mondo come tramite istituzionale per trasferire nei paesi in via di sviluppo denaro, medicinali, cibo e generi di prima necessità; esse svolgono così il ruolo di organismi non governativi accreditati internazionalmente e acquistano (in virtù anche delle grandi somme di denaro che possono dover gestire) un peso politico-sociale eccessivo, tale da compromettere o quanto meno affievolire la loro coscienza vocazionale di comunità di fede al servizio esclusivo del Vangelo.
In Asia la situazione del protestantesimo (e, più in generale, del cristianesimo) è molto differenziata. Mentre in Corea del Sud le C. evangeliche sono in fase di crescita tumultuosa, in Pakistan i cristiani di tutte le confessioni sono minacciati da una legge sulla bestemmia che offre un avallo religioso e legale alla repressione anche violenta delle minoranze non musulmane. In Cina è in corso una certa rinascita del cristianesimo e del protestantesimo, duramente repressi durante la rivoluzione culturale. Nel maggio 1994 si contavano in Cina circa 7 milioni di protestanti, raccolti nel China Christian Council, che ha potuto riaprire 13 seminari per la formazione di pastori, uomini e donne; il maggiore è quello di Nanchino, con 150 studenti a tempo pieno, dei quali una cinquantina sono donne. Il protestantesimo cinese, grazie al movimento della triplice autonomia (autogoverno, autofinanziamento e autogestione di tutte le iniziative missionarie), si è liberato dell'immagine di religione straniera, radicandosi sempre di più nella cultura cinese. I due problemi maggiori del protestantesimo (e, ovviamente, del cristianesimo) asiatico sono il confronto, e ove possibile il dialogo, con le grandi religioni mondiali e, in secondo luogo, l'esigenza di pensare e formulare il Vangelo cristiano ambientandolo in contesti culturali totalmente diversi da quello occidentale, esigenza condivisa dalle C. africane e da quelle della regione caribica, dell'America Latina e dell'Oceania.
Il primo problema solleva la questione cruciale della presenza di Dio in società, culture e religioni non cristiane indipendentemente dalla missione delle C., riproponendo così, in forma particolarmente acuta, l'interrogativo fondamentale della testimonianza cristiana: se Gesù Cristo sia l'unica via di salvezza per l'intera umanità. È facile prevedere che nel 21° secolo la risposta, positiva o negativa, a questo interrogativo diventerà per le C. il test decisivo della loro fedeltà, o infedeltà, al messaggio cristiano originario. Appaiono comunque indilazionabili (e infatti sono già stati avviati su larga scala) un ripensamento e una revisione, nelle diverse confessioni cristiane, delle strategie missionarie tradizionali.
Il secondo problema dischiude prospettive inedite e darà forse luogo, in un futuro più o meno prossimo, a forme di cristianesimo fino a oggi sconosciute, frutto di elaborazioni teologiche originali ma anche di nuove esperienze ed espressioni liturgiche, rituali e devozionali, di nuovi stili spirituali e forse anche, s'intende entro certi margini, di regole morali e articolazioni ministeriali almeno parzialmente diverse da quelle sinora consuete. Probabilmente i processi di ambientazione della fede cristiana in nuovi contesti culturali saranno accompagnati da tensioni e contrasti di varia natura con l'inculturazione greco-latina che, affermatasi con il cristianesimo occidentale, è stata finora dominante ma non per questo può essere considerata normativa. Questi momenti critici potrebbero essere superati grazie a un ecumenismo delle culture che potrebbe prendere il posto dell'attuale ecumenismo delle confessioni.
La realtà e serietà dei problemi accennati non devono peraltro impedire di riconoscere la straordinaria occasione che le nuove inculturazioni del cristianesimo costituiscono. Secondo ogni evidenza, solo raccogliendo questa sfida, cioè solo ambientandosi e mettendo radici in culture diverse da quella occidentale, il cristianesimo storico potrà realmente diventare quel che da sempre ha voluto essere: un messaggio universale destinato all'intera umanità. Perciò, per il cristianesimo (e quindi per il protestantesimo) di domani le nuove inculturazioni sono ben più che soltanto una via obbligata imposta dalle regole di coesistenza in vigore nel villaggio globale; sono la via maestra percorrendo la quale il cristianesimo (e con esso il protestantesimo) potrebbe cessare di essere quello che è da secoli quasi per antonomasia, e cioè la religione dell'Occidente, e, manifestando potenzialità per ora solo latenti e risorse sin qui inesplorate, potrebbe forse accedere a quel grado di cattolicità, e cioè di universalità reale, che esso ha sempre rivendicato come sua nota distintiva propria ma che sinora ha attuato solo molto parzialmente e in maniera alquanto lacunosa.
Verso l'unità del protestantesimo storico
Un altro tratto caratteristico del protestantesimo storico alla fine del secondo millennio cristiano è una marcata tendenza a promuovere e manifestare la propria unità nel quadro della più vasta ricerca dell'unità cristiana e senza sacrificare la ricca diversità di tradizioni confessionali, linee teologiche, scelte etiche, forme liturgiche e modelli organizzativi che gli sono propri e, si direbbe, congeniali fin dalle sue origini nel 16° secolo. Indubbiamente le spinte unitarie nella storia del protestantesimo sono state numerose e ricorrenti, ma sul piano organizzativo hanno preso corpo solo intorno alla metà del 19° secolo con la creazione della Evangelical Alliance (EA), della Young Men's Christian Association (YMCA) e, più tardi, della World's Student Christian Federation (WSCF). Questi tre organismi hanno dato impulsi decisivi alla nascita del movimento ecumenico, fenomeno all'inizio unicamente protestante, poi allargatosi fino a comprendere gran parte della cristianità contemporanea.
Nel corso del 20° secolo il protestantesimo ha consapevolmente subordinato la ricerca della propria unità a quella più inclusiva dell'unità cristiana, senza però confonderle o identificarle. A fine secolo, l'esigenza unitaria interna al variegato mondo protestante riemerge con particolare insistenza, sia nelle singole confessioni o denominazioni, sia tra denominazioni o confessioni diverse, come per es. nell'importante Dichiarazione comune di Porvoo dell'ottobre 1992 tra le C. anglicane britanniche e irlandesi e le C. luterane scandinave e baltiche. L'accordo, ratificato da tutte le C. interessate (tranne che da quella danese), è stato solennemente celebrato nella cattedrale di Trondheim il 1° settembre 1996: le C. anglicane e quelle luterane dell'Europa settentrionale si riconoscono reciprocamente come C. di Cristo e stabiliscono tra loro una piena comunione ecclesiale, condividendo il battesimo, la cena del Signore e la struttura ministeriale fondamentale, identificata nell'episcopato storico.
Un altro evento unitario significativo per il protestantesimo europeo ha avuto luogo nel marzo 1992 a Budapest, dove circa 200 rappresentanti di 80 C. d'Europa hanno dato vita alla prima assemblea protestante europea della storia, con anglicani e luterani dell'Europa settentrionale nel ruolo di osservatori. L'assemblea ha tra l'altro ribadito, in funzione anche della costruzione della casa comune europea, due principi costitutivi della Riforma del 16° secolo: la giustificazione del peccatore per sola grazia mediante la fede ravvisata come "la sorgente della vera libertà e della vera comunità" e il sacerdozio universale dei credenti che abolisce la separazione tra chierici e laici, afferma l'uguale dignità vocazionale di tutti e fonda rapporti intraecclesiali di fraternità liberata da ogni ipoteca gerarchica.
Continua intanto a crescere il consenso intorno alla Concordia di Leuenberg, un documento che risale al 1973 adottao da 93 C., tra luterane, riformate, unite e, a partire dal 1996, metodiste europee nonché da 5 sudamericane, che hanno così realizzato tra loro una "piena comunione ecclesiale". Si può dunque dire che sulla soglia del nuovo millennio il protestantesimo europeo si va configurando come un'unica, vasta e articolata comunione ecclesiale non ancora compiuta in tutti i suoi aspetti ma già effettiva grazie a una larga convergenza sui contenuti essenziali della fede, del culto e della testimonianza comune. Permane invece una certa difficoltà, e forse una segreta renitenza, a strutturare questa comunione in modo univoco e permanente. Di fatto si sono disegnate in questi anni due aree distinte: quella delle C. a ordinamento episcopale (anglicani e luterani dell'Europa settentrionale) e quella delle C. a ordinamento sinodale (gli altri luterani, i riformati, le C. unite, i metodisti). Questa distinzione non impedisce la comunione ma non consente di viverla pienamente e l'innegabile tensione tra i due tipi di ordinamento resta per ora irrisolta.
Negli altri continenti l'unità del protestantesimo è meno avanzata: si manifesta soprattutto nella forma di consigli delle C., peraltro non realizzando lo stesso grado di comunione raggiunto in Europa grazie alla Concordia di Leuenberg. In Africa la Conferenza panafricana delle C. ne comprende 142, mentre negli Stati Uniti il National Council of Churches (NCC) riunisce tutto il protestantesimo storico del paese. In America Latina opera dal 1982 il Consiglio latino-americano delle Chiese, che ne collega e coordina più di 14, comprese alcune anglicane e pentecostali. Proprio l'incontro tra queste due famiglie spirituali tra loro così diverse, avvenuto nella iii assemblea generale del gennaio 1995, costituisce una delle maggiori novità e promesse nella storia dei diversi filoni di cristianesimo usciti, direttamente o indirettamente, dalla Riforma protestante, e inaugura una pagina nuova nella storia del movimento ecumenico in America Latina. Infine, le 120 C. che costituiscono la Conferenza cristiana d'Asia sono in grande maggioranza protestanti (2 però sono ortodosse e alcune altre, appartenenti a consigli di C. locali o nazionali, sono cattoliche).
La tendenza a promuovere quella che si può chiamare l'unità diversificata del protestantesimo, dandole in vario modo corpo e visibilità, è dunque generale, con alcuni risultati significativi già raggiunti. Nell'insieme si può dire che il protestantesimo è oggi meno diviso di quel che la sua persistente frammentazione organizzativa lascerebbe supporre, fermo restando che propende, all'interno del movimento ecumenico, più per la diversità che per l'unità, pur sapendo che sono entrambe ugualmente costitutive della visione cristiana della C. e dell'umanità. La proposta ecumenica più largamente condivisa in seno al protestantesimo odierno è quella che concepisce l'unità, tanto del protestantesimo quanto del cristianesimo, come una diversità riconciliata.
Il protestantesimo pentecostale
Un altro tratto saliente, già brevemente evocato, del protestantesimo è la crescita tumultuosa della sua ala pentecostale, in rapida espansione soprattutto nei paesi africani, asiatici e latino-americani. Per le proporzioni vistose assunte negli ultimi decenni e per le caratteristiche che gli sono proprie, il pentecostalismo costituisce un fatto inedito nella storia cristiana. È infatti la prima volta, dai tempi apostolici, che nel cristianesimo storico l'esperienza dello Spirito fatta a Gerusalemme il giorno della Pentecoste e lungamente descritta negli Atti degli apostoli (2,1-13), è diventata fenomeno cristiano di massa. Sono ormai centinaia di milioni i credenti per i quali il battesimo nello Spirito, non più sacramentalmente identificato con il battesimo d'acqua e con la cresima, è il fatto centrale della vita: il loro cristianesimo ne è contraddistinto in modo inconfondibile, tanto da essere comunemente e a buon diritto chiamato pentecostale.
Due suoi aspetti, strettamente collegati tra loro, meritano di essere rilevati. Il primo è che il fenomeno pentecostale s'è configurato fin dalle origini come religione dei poveri e lo è tuttora in larga misura. In America Latina sembra avere in parte almeno preso il posto del movimento, soprattutto cattolico, delle comunità di base, là dove queste, pur motivate da una forte opzione per i poveri, non erano una loro diretta espressione. A motivo degli sviluppi sorprendenti del pentecostalismo, la concezione che vede nel protestantesimo principalmente la religione dei ceti medi (come appare dal contesto europeo e nordamericano) sta diventando obsoleta, con esiti per ora imprevedibili. In questo quadro, forse, può essere situata e spiegata la glossolalia, che è la lingua dei poveri, dei non alfabetizzati, di coloro ai quali la parola è stata tolta o negata ma viene, miracolosamente, restituita dallo Spirito, non come lingua propria ma come lingua di Dio.
Il secondo aspetto tipico del pentecostalismo è il suo fiorire soprattutto nelle periferie delle grandi metropoli moderne. Una delle sue prime manifestazioni ebbe luogo in una baracca adibita a culto nella periferia di Los Angeles, ai primi del 20° secolo, nel corso di un rito presieduto da un afroasiatico figlio di uno schiavo liberato. Il Dio pentecostale, se così lo si può chiamare, è il Dio delle periferie. Sorto ai margini dell'establishment protestante e da questo a lungo ignorato, il pentecostalismo si sta sempre più imponendo come il tipo di cristianesimo più diffuso nei ghetti urbani e nel Terzo mondo che, da un certo punto di vista, può apparire come la sterminata periferia del Primo mondo, ormai largamente scristianizzato.
I prossimi decenni permetteranno di meglio comprendere la natura e il significato del fenomeno pentecostale, che comunque apre una pagina nuova nella storia del protestantesimo e del cristianesimo. C'è chi si chiede, e la domanda pare legittima, se il pentecostalismo, che è ormai una forma di cristianesimo che attraversa tutte le maggiori confessioni, non sia, per così dire, emigrato fuori dal protestantesimo pur essendovi nato e recandone ancora chiara l'impronta. Altri dubitano che si possa parlare di pentecostalismo come di un fenomeno unitario e insistono sul suo carattere multiforme, estremamente variegato al suo interno, e sulla sua spiccata tendenza a espandersi per successive frammentazioni, a moltiplicarsi dividendosi, così da rendere sempre mutevole il suo profilo e non sempre riconoscibili i suoi elementi costitutivi.
È vero che il fenomeno pentecostale ha molti volti, oltre che molti nomi; proprio per questa ragione è d'obbligo evitare le generalizzazioni. Anche certe critiche che sovente gli vengono mosse (ravvisandovi elementi di settarismo, fondamentalismo biblico, conformismo politico, conservatorismo sociale) non si addicono affatto a tutto il pentecostalismo. Si deve piuttosto osservare che, dopo un secolo circa di storia e di espansione planetaria, taluni suoi contenuti qualificanti sono quelli tipici della Riforma protestante, come lo erano all'inizio: la Sacra Scrittura come criterio formale e sostanziale del messaggio cristiano, Gesù Cristo e lo Spirito come contenuto del Vangelo, la salvezza per grazia mediante la fede, la centralità della predicazione e della conversione, la fraternità come nota distintiva e costitutiva della vita ecclesiale. Non solo, ma alcune caratteristiche pentecostali tipiche come la glossolalia e il dono di guarigione, essendo chiaramente e ripetutamente attestate nel Nuovo Testamento, appartengono senza ombra di dubbio all'esperienza di fede originaria del cristianesimo apostolico, riconosciuta come normativa da tutte le Chiese. In questo senso potranno insorgere tensioni ma non divaricazioni tra protestantesimo storico e protestantesimo carismatico, anche se la novità (talvolta la stravaganza) delle forme in cui si manifesta l'esperienza dello Spirito, ma forse anche la sua stessa centralità, hanno creato tra loro una distanza e persino una reciproca diffidenza non ancora del tutto superata. È d'altra parte possibile che nella vasta area del pentecostalismo autonomo soprattutto africano si verifichino occasionalmente sviluppi dottrinali divergenti dalle posizioni protestanti classiche. Inversamente si possono e devono registrare in molte C. pentecostali un interesse e una disponibilità, sinora quasi inesistenti, a entrare in dialogo con altre C., quindi a situare e vivere la propria esperienza cristiana in contesto ecumenico, condividendola con altri.
Presenza nel movimento ecumenico
Settori protestanti di impostazione fondamentalista avversano energicamente l'ecumenismo e, in particolare, il Consiglio ecumenico delle Chiese, World Council of Churches (WCC). Le ragioni principali di questa ostilità sono due. La prima è che ai protestanti fondamentalisti l'ecumenismo sembra essere un'apertura di credito eccessiva, ai limiti della connivenza, nei confronti dei poteri centrali della C. cattolica e del suo progetto egemonico mondiale. La seconda è la convinzione che l'ecumenismo sia incapace di contrastare la deriva sincretista nei rapporti con le altre religioni, con conseguenze fatali sul piano dell'evangelizzazione del mondo. A queste linee di tendenza il protestantesimo fondamentalista contrappone un atteggiamento di intransigenza teologica e integrità dottrinale, sovente confuse con l'osservanza della lettera biblica, e un programma missionario imperniato non sul dialogo interreligioso ma sulla conversione a Cristo.
Positivo e solidale verso il WCC continua invece a essere l'atteggiamento delle grandi C. evangeliche, non solo europee e nordamericane ma anche degli altri continenti: di queste ultime cresce costantemente il peso teologico e numerico. Sono per lo più le C. evangeliche che assicurano, in larga misura, il funzionamento del WCC, fornendogli risorse finanziarie e umane e appoggiandone le iniziative. Il WCC, da parte sua, è diventato ormai un inseparabile compagno di strada del protestantesimo storico, che riconosce in esso, dopo oltre un cinquantennio (fu creato nel 1948), la principale struttura operativa e propulsiva del movimento ecumenico.
Dialoghi con la Chiesa cattolica
Nella fitta trama di rapporti intessuta dalle C. grazie agli impulsi decisivi provenienti dal Consiglio ecumenico delle C., i dialoghi teologici tra le C. evangeliche e la C. cattolica assumono un rilievo particolare. Vi prendono parte tutte le maggiori confessioni e denominazioni protestanti. Il dialogo è diventato un modus vivendi delle C. nei loro rapporti reciproci, una forma parziale ma reale di comunione: chi dialoga esce dall'isolamento e dall'autoreferenzialità, si apre all'altro, gli parla e lo ascolta, e tra i due interlocutori non c'è più solo separazione anche se non c'è ancora unione. Segue un quadro sommario dei dialoghi internazionali in corso (prescindendo da quelli, sovente più importanti ancora, che si svolgono a livello nazionale e locale).
Il dialogo tra anglicani e cattolici procede da oltre un quarto di secolo e ha affrontato questioni centrali come l'eucaristia, il ministero ordinato, il rapporto tra Scrittura e tradizione, l'autorità nella C., quindi l'esercizio del primato nel contesto della sinodalità e collegialità. La decisione della C. d'Inghilterra di ordinare le donne (novembre 1993), pur essendo avversata dalle autorità della C. cattolica, non ha bloccato il dialogo, che continua. "Progressi sensibili", è stato dichiarato ufficialmente, sono stati fatti sulle questioni affrontate, ma gli accordi raggiunti non sono tali da consentire di ristabilire la comunione tra anglicani e cattolici.
I pentecostali sono giunti alla quarta fase del loro dialogo con la C. cattolica. Nel luglio 1996 ha avuto luogo la settima riunione di questa fase, dedicata soprattutto all'evangelizzazione. I partecipanti hanno constatato l'esistenza di "un largo patrimonio comune sul quale costruire". Anche per i luterani è in corso, a partire dal 1995, la quarta fase del dialogo, dopo che ciascuna delle tre precedenti s'è conclusa con la redazione di un ampio testo comune sui vari temi affrontati. Nella fase attuale sono trattate alcune questioni specifiche, in parte già dibattute in precedenza ma sulle quali manca ancora un accordo sufficiente a manifestare l'unità in modo visibile. Nell'incontro del 1997 si è ritornati sulle questioni dell'eucaristia e dell'apostolicità della C., mentre in seguito si sono affrontati problemi di etica, particolarmente controversi.
Da oltre trent'anni prosegue ininterrotto il dialogo tra metodisti e cattolici. Nel 1996 è stato pubblicato il rapporto conclusivo della quarta fase del dialogo, intitolato La Parola di vita: dichiarazione sulla rivelazione e la fede, nel quale si afferma che "i cattolici e i metodisti hanno fondamentalmente la stessa fede" ma non ancora la "piena comunione": essi la stanno cercando ponendone insieme, attraverso il dialogo, le basi dottrinali. Un'altra denominazione protestante impegnata da tempo nel dialogo con la C. cattolica è quella dei Discepoli di Cristo: nel 1992, al termine di dieci anni di lavoro, è apparso un ampio documento comune sulla Chiesa come comunione in Cristo, e subito dopo è stata avviata una nuova fase di dialogo, la terza, imperniata sul tema "L'individuo e la comunità". Anche i riformati e i battisti hanno condotto con la C. cattolica dialoghi ufficiali in più fasi, a livello internazionale, redigendo importanti testi comuni. Infine, nell'ottobre del 1997 ha avuto luogo la seconda riunione (la prima era avvenuta a Venezia nel 1993) tra il Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani e la Comunione evangelica mondiale, che raggruppa il protestantesimo teologicamente più conservatore, vicino all'area fondamentalista con la quale però non s'identifica. Un ulteriore incontro ha avuto luogo nel 1999 sui temi della collaborazione nella missione, del proselitismo e della libertà religiosa in relazione all'unità cristiana.
La stagione dei dialoghi, com'è stata chiamata, non è conclusa ma ha già dato frutti abbondanti: si sono raggiunte intese, almeno parziali, là dove prima non c'era alcun accordo; sulle questioni più controverse si sono delineate aree di consenso su aspetti particolari, pur permanendo i dissensi di fondo; in generale s'è presa coscienza di una reale base cristiana comune, costituita dalla parola e testimonianza biblica da tutti condivisa, e dalla comune fede nel Dio trinitario, instaurando così un clima di rispetto, stima reciproca e fraterna amicizia, molto diverso da quello creato in passato dall'ignoranza, dal pregiudizio e dall'arroganza confessionale. Più problematica, e sicuramente più lenta, appare invece la ricezione dei risultati dei dialoghi da parte delle singole C.; si ha talvolta l'impressione che queste amino più il dialogo che le sue conseguenze. È cambiato molto nei rapporti tra le C., ma le posizioni di fondo sono rimaste finora sostanzialmente immutate. I dialoghi hanno migliorato la comprensione reciproca e quindi contribuito ad avvicinare le C., ma non hanno sciolto i nodi del dissenso.
A parte i dialoghi dottrinali e un certo numero di iniziative comuni ormai collaudate nel campo della traduzione e diffusione della Bibbia o in quello dell'azione morale e civile della società (per es. tramite l'Associazione dei cristiani per la lotta contro la tortura e la pena di morte), vi sono tre temi che più di altri stanno oggi polarizzando il dibattito tra cattolici e protestanti. Il primo è la proposta di Giovanni Paolo ii, nella sua enciclica Ut unum sint (1995), di "trovare una forma di esercizio del primato che pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova" (nr. 95). Quest'affermazione, insieme ad altre dell'enciclica (in particolare i nr. 4, 34, 39), dischiude almeno potenzialmente prospettive inedite e potrebbe preludere a una svolta significativa nella storia dell'istituzione papale e, di riflesso, in quella dei rapporti tra la C. di Roma e le altre C. cristiane. Il secondo tema è quello della riconciliazione delle memorie, frequentemente evocato nei dialoghi ecumenici recenti e ripetutamente sollecitato dallo stesso Giovanni Paolo ii attraverso una lunga serie di richieste di perdono per peccati commessi in passato da membri della C. cattolica. Alcune sono state rivolte ai protestanti: emblematica quella di Parigi (1997), relativa alla strage di s. Bartolomeo che nel 1572 decimò il protestantesimo francese. Anche se la riconciliazione delle memorie è un processo lungo e complesso di cui non sono ancora chiare tutte le condizioni, le modalità e le implicazioni, è importante che se ne avverta e affermi l'esigenza. Il terzo tema è costituito, a sorpresa, dalla giustificazione per grazia mediante la fede, un luogo classico della controversia tra i cattolici e i protestanti. Nel 1997 la Federazione luterana, che raccoglie gran parte del luteranesimo mondiale, e il Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani hanno sottoscritto e pubblicato una Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione, sostenendo di aver raggiunto su questa questione nevralgica un accordo sostanziale. Sennonché contro il documento e le sue conclusioni hanno pubblicamente preso posizione 150 teologi luterani tedeschi (tra i quali diversi tra i più noti e accreditati studiosi di Lutero) insieme ad alcuni riformati svizzeri, con un manifesto teologico del gennaio 1998, estremamente critico nei confronti della dichiarazione. Esso afferma che l'accordo raggiunto è molto parziale e prescinde da punti qualificanti (per es. il ruolo della giustificazione come criterio per la dottrina e la vita della C.) e non è quindi quello che pretende di essere, cioè un consenso nelle verità fondamentali della dottrina della giustificazione, e che perciò va respinto. Ne è conseguito un confronto serrato. La dichiarazione è comunque stata approvata all'unanimità dal Consiglio della Federazione luterana mondiale riunito a Ginevra dall'8 al 17 giugno 1998. A sorpresa però la risposta ufficiale della C. cattolica, resa nota pochi giorni più tardi, avanzava riserve sostanziali sull'accordo teologico raggiunto, suscitando delusioni e proteste e ponendo un grosso punto interrogativo sulla sua portata effettiva. Questa vicenda mette bene in luce il valore e i limiti dei dialoghi teologici: essi chiariscono molti aspetti, anche importanti, delle questioni controverse, ma non le risolvono.
Sulla soglia del nuovo millennio, il quadro dei rapporti tra C. cattolica e C. evangeliche è contraddittorio. Da un lato, grazie al movimento ecumenico, è molto cresciuto il livello di fraternità e condivisione tra cristiani di diverse C., attraverso incontri di studio biblico, esperienze di culto e di preghiera, iniziative comuni di presenza cristiana nella società. D'altra parte, sul piano dei rapporti tra le istituzioni ecclesiastiche ci sono stati importanti miglioramenti di forma ma non di sostanza. Perciò l'unità cristiana tra cattolici e protestanti appare ancora piuttosto lontana.
Dialogo con le Chiese ortodosse
I rapporti tra C. evangeliche e C. ortodosse si svolgono da tempo su due piani. Il primo è quello dei dialoghi bilaterali: tutte le maggiori C. e confessioni protestanti sono in dialogo con l'ortodossia. Il secondo piano è quello della comune partecipazione al WCC a livello mondiale e alla Conferenza delle Chiese europee, che ha organizzato, insieme al Consiglio delle conferenze episcopali europee, la seconda assemblea ecumenica europea svoltasi a Graz nel giugno 1997 sul tema fondamentale della riconciliazione: le C. però l'annunciano ma non riescono a praticarla neppure tra loro, e la riconciliazione tra il cristianesimo occidentale (e, al suo interno, il protestantesimo) e il cristianesimo orientale non è quindi imminente. Malgrado una reciproca frequentazione che si protrae da decenni, i rapporti tra protestanti (e cristiani occidentali in genere) e ortodossi non hanno fatto progressi sensibili né è maturata tra loro una vera comprensione che possa preludere a una futura comunione: questa deve ancora essere costruita, sui due versanti.
Dialogo con gli ebrei
Il dialogo con l'ebraismo, per le proporzioni che ha assunto e la qualità del discorso svolto, costituisce una novità assoluta tanto per la comunità cristiana quanto per quella ebraica. È grazie a questo dialogo, avviato non a caso dopo la tragedia della Shoah, che le C. hanno cominciato, sia pure a fatica, a riflettere criticamente sul loro atavico, per non dire congenito, antigiudaismo, scoprendo che esso ha alterato fin dall'antichità la fisionomia stessa del cristianesimo e nel 20° secolo ha alimentato, direttamente e indirettamente, l'antisemitismo nazista. L'incontro e il dialogo con gli ebrei diventano così l'occasione non solo per riconoscere complicità nelle persecuzioni contro il popolo d'Israele, ma anche per prendere coscienza, da parte di tutte le C., di quella ebraicità che era costitutiva della loro identità originaria, ma che ben presto è stata rimossa o ricusata, e comunque è andata perduta. Il suo recupero è uno dei probabili e auspicabili esiti del dialogo.
Le C. hanno oggi ancora una coscienza soltanto molto vaga del fatto che la loro radice è ebraica. La potranno riscoprire e valorizzare appieno nel dialogo con l'ebraismo di oggi, non riducibile ovviamente al solo Antico Testamento. Ma anche l'ebraismo, perseverando nel dialogo con il cristianesimo, sarà indotto a porsi alcune domande e forse, nei tempi lunghi, a vedere con occhi nuovi le C. e la loro fede. In particolare potrà confrontarsi di nuovo, come già alcuni hanno cominciato a fare, con l'ebraismo di Gesù, e interrogarsi sul possibile significato teologico del fatto che attraverso il cristianesimo la conoscenza del Dio d'Israele è stata diffusa nel mondo intero.
In Italia, ebrei e protestanti (valdesi) hanno costituito per secoli le due uniche minoranze religiose. La loro esistenza e la loro resistenza sono risultate determinanti per la rivendicazione e, infine, il riconoscimento dei diritti della coscienza e della libertà religiosa.
Dialogo con le altre religioni
Un numero crescente di C. evangeliche è in dialogo con le altre religioni, o direttamente o attraverso organismi ecumenici nazionali e internazionali. Questo dialogo può essere occasionalmente ostacolato ma non bloccato, né dalle tensioni causate dalle restrizioni talvolta pesanti imposte alla libertà religiosa della minoranza cristiana nei paesi la cui legislazione reca una forte impronta islamica, né dalle resistenze opposte dalle frange protestanti più conservatrici (quelle comunemente dette di destra, a orientamento fondamentalista), per le quali dialogare con le altre religioni significa rinunciare all'evangelizzazione e quindi disubbidire all'imperativo missionario di chiamare l'intera umanità alla conversione a Cristo. Le C. evangeliche allenate al dialogo non lo vivono però come surrogato di una missione non più praticata perché tacciata, a ragione o a torto, di colonialismo religioso; lo vivono invece come spazio d'incontro e di confronto, nel quale ciascuno rende la propria testimonianza e nello stesso tempo si sforza con gli altri di creare un soggetto comune e inclusivo, mediante lo sviluppo delle rispettive identità, come ha detto un responsabile protestante del dialogo interreligioso a livello ecumenico.
La missione non è dunque sostituita dal dialogo ma ne è sostanziata, non è solo annuncio ma anche ascolto. E la conversione che essa esige non è solo di qualcuno ma di tutti, non solo di chi ne è destinatario ma anche di chi la promuove: è un fatto collettivo che tutti coinvolge, in modi diversi, in un processo di crescita, sia nel senso di assunzione di responsabilità comuni in campo morale, sociale e ambientale, sia nel senso del superamento di una mentalità monopolistica riguardo alla conoscenza di Dio, il cui mistero è più grande di tutte le sue rivelazioni. Due conferenze, la prima tra musulmani, cristiani, indù e buddhisti tenuta a Salatiga (Indonesia) nell'aprile 1994, la seconda convocata dalle religioni di cinque repubbliche dell'Asia centrale a predominanza musulmana nell'ottobre 1995, hanno dichiarato unanimemente che la collaborazione religiosa è possibile.
Cresce dunque nel protestantesimo, sia là dove è parte di una maggioranza cristiana, sia là dove è in posizione minoritaria come in Africa, Asia e America Latina, la partecipazione al dialogo e, dovunque possibile, alla cooperazione tra le religioni: l'uno e l'altra vanno apprezzate per il loro valore proprio e per il contributo non secondario che possono dare alla ricerca e costruzione della pace tra i popoli. Il dialogo interreligioso appare, sulla soglia del nuovo millennio, una questione d'importanza cruciale. Partecipandovi, le C. evangeliche cercheranno, con le altre confessioni cristiane, di praticarlo evitando integrismi e sincretismi, in un atteggiamento di reale apertura all'altro, al vissuto della sua fede e al suo patrimonio spirituale e culturale, senza peraltro derogare alla confessione cristiana di Gesù "salvatore del mondo" (Giovanni 4, 42).
Presenza nella società contemporanea
Uno specchio abbastanza fedele della vita interna del protestantesimo odierno è costituito dalle periodiche assemblee mondiali delle varie famiglie confessionali che lo compongono. A titolo esemplificativo si possono segnalare l'assemblea mondiale della Federazione luterana, a Hong Kong, e quella dell'Alleanza riformata, a Debrecen, entrambe svoltesi nel 1997. Degna di nota, nella prima, è stata la forte sottolineatura dell'unità già ora vissuta tra le C. luterane: la loro federazione non è solo un organo di collegamento ma uno spazio ecclesiale di reciproca appartenenza, come hanno sottolineato i 395 delegati provenienti da 68 paesi in rappresentanza di oltre 60 milioni di credenti; è quindi stato proposto di cambiare il nome dell'organismo, adottandone uno che esprima meglio la coscienza del luteranesimo mondiale di costituire un'unica comunità. L'Alleanza riformata mondiale, che raccoglie 211 C. in 104 paesi con 70 milioni di membri, nell'assemblea di Debrecen ha affrontato, tra gli altri, il tema delle varie forme di povertà nel mondo, che potranno essere vinte non solo denunciando le ingiustizie e combattendole ma anche condividendo le ricchezze di cui i cristiani d'Europa e dell'America del Nord ancora dispongono.
Esiste oggi nel protestantesimo ampio consenso sui contenuti essenziali della predicazione e della testimonianza cristiana. La prima ha il suo centro focale nell'annuncio di Cristo secondo la fede attestata nelle Scritture bibliche, criterio e sostanza della teologia e della vita evangelica. Questo annuncio reca oggi e sicuramente recherà anche domani l'impronta conferitagli dai riformatori del 16° secolo e riassunta in quattro classici principi: sola Scriptura (in quanto norma superiore a ogni autorità, magistero e tradizione ecclesiale), sola gratia (gratuità assoluta della salvezza, immeritata e incondizionata), sola fides (la fede soltanto riceve la grazia, le opere l'attestano, non la meritano), solus Christus (è esclusivamente e interamente sua l'opera di salvezza). Sul piano della testimonianza, il protestantesimo di tipo carismatico insiste principalmente sull'esigenza della santificazione personale come frutto della conversione, mentre il protestantesimo più tradizionale costituito dalle cosiddette C. di popolo sottolinea l'importanza di un'azione corale della comunità cristiana in quanto tale, insieme a tutta la comunità ecumenica, a favore della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato, contro le strutture di peccato della più varia natura, sovente legalizzate e radicate nella società, ma anche contro le mentalità, le culture e le azioni a queste informate che da un lato le generano e dall'altro se ne alimentano (classismo, sessismo, razzismo, tribalismo, etnocentrismo, nazionalismo, militarismo, saccheggio della natura). La comunità cristiana si mobiliterà per la difesa e la promozione dei diritti umani, personali (come la libertà di coscienza) e sociali (come il diritto al lavoro), e imporrà anzitutto a se stessa uno stile di vita e una disciplina di consumi compatibili con quelli che dovrebbero al più presto essere sanciti come diritti della natura, sempre più minacciati e violati. Infine, l'attività diaconale, cioè l'attività di servizio nelle sue diverse articolazioni (molte inedite fino a oggi), continuerà a svolgere un ruolo di grande rilievo nelle C. evangeliche. La diaconia, che per vocazione è flessibile e creativa, sforzandosi di rispondere ai problemi impellenti e alle necessità sempre nuove delle fasce sociali più deboli e svantaggiate, diverrà per le C., più di quanto non sia accaduto in passato, occasione e stimolo a una presa di coscienza della loro responsabilità non solo assistenziale ma politica e a un accresciuto impegno in questo campo.
Nel protestantesimo odierno si discutono molto, come nelle altre C., le questioni relative alla bioetica. Su nessuna di esse vi è unanimità, e comunque il protestantesimo rifugge, soprattutto in questo ambito, da una morale precettistica che limiti o paralizzi nel credente l'esercizio della libertà nella responsabilità davanti a Dio e al prossimo. In generale le posizioni prevalenti in campo protestante su queste questioni sono notevolmente diverse da quelle propugnate dalla C. cattolica. Oltre a quelle della bioetica vi sono nel protestantesimo odierno alcune questioni aperte e controverse, intorno alle quali s'è acceso un dibattito ricco di tensioni.
Tra le principali, la prima è la questione dell'omosessualità, probabilmente la più controversa di tutte. Ignorata per secoli perché rimossa o repressa, essa è esplosa, per così dire, nella società, e di riflesso nelle C., come un aspetto della rivoluzione sessuale dagli anni Sessanta in avanti. I principali nodi del dibattito in corso nelle C. sono: l'omosessualità che la Bibbia condanna come peccato (anche se in un quadro culturale, sociale e religioso diverso da quello in cui oggi la questione si pone) dev'essere stigmatizzata come tale, o invece dev'essere considerata come una condizione umana (gli autori della Bibbia, ovviamente, non possedevano i presupposti scientifici per considerarla così), che in sé, sia come tendenza o inclinazione sia come stile di vita, non ha nulla di peccaminoso? Dato che un certo numero di cristiani professanti, uomini e donne, sono omosessuali e come tali vivono, realizzando sovente una vita di coppia analoga a quella delle coppie eterosessuali, la C. è autorizzata a invocare sulle coppie omosessuali la benedizione divina, come accade per quelle eterosessuali, pur non qualificando tali unioni come matrimoni? La C. è autorizzata a ordinare al sacerdozio o al ministero pastorale uomini e donne omosessuali? In caso di risposta affermativa, tali ordinazioni devono essere soggette a particolari condizioni, come, per es., di non praticare l'omosessualità, oppure di confinare un'eventuale vita di coppia in ambiti rigorosamente privati, o ancora di reperire preventivamente una o più comunità disposte ad accogliere il loro ministero? O invece queste condizioni, o altre analoghe, devono essere considerate inique e vanno quindi respinte su tutta la linea? Su queste questioni gli animi e le C. sono divisi: per es. la provincia anglicana dell'Asia sudorientale ha deciso, con la Dichiarazione di Kuala-Lumpur (1997), di far dipendere la piena comunione con le altre province anglicane del mondo da una loro presa di posizione critica nei confronti dell'omosessualità. Non è facile in una questione in cui sono in gioco, e apparentemente in conflitto, parole bibliche, destini umani e vocazioni cristiane, adottare soluzioni intermedie, di compromesso tra punti di vista così divergenti, che tendono a radicalizzarsi. Anche tra le C. che non considerano l'omosessualità come un peccato in sé solo poche sono disposte a vederla come una legittima variante della sessualità umana, pur sapendo che così essa viene avvertita, soggettivamente, da coloro che la vivono. Il paradigma biblico fondamentale della coppia resta infatti quello dell'uomo e della donna, quindi di una polarità sessuale all'insegna della differenza e non della somiglianza.
L'ordinazione delle donne al ministero sacerdotale (anglicano) e pastorale è un fatto acquisito e non più messo in questione nella maggioranza delle C. evangeliche, anche se un certo numero di queste continua ad avversarla. La stessa decisione, così discussa e lungamente meditata, della C. d'Inghilterra di introdurre l'ordinazione ministeriale delle donne, rompendo con una tradizione plurisecolare, non ha provocato un trauma irreparabile al suo interno; le defezioni dei sacerdoti contrari sono state molto contenute, assai minori del previsto: solo 200 (cioè neppure il 2%) hanno lasciato la Chiesa. Intanto, dopo le prime 32 ordinazioni avvenute il 12 marzo 1994, sono state più di mille le donne ordinate nei mesi successivi (oggi il 10% circa del clero anglicano è femminile).
Assai più problematica e controversa è invece una questione posta con forza dalle diverse teologie femministe in pieno sviluppo nelle C. e nelle facoltà teologiche soprattutto nordamericane (più che europee) e asiatiche: quella dell'uso non solo di immagini e analogie ma anche di titoli femminili, primo fra tutti quello di madre per parlare di Dio nella predicazione e nella catechesi, o per invocarlo nella preghiera. Per quanto ovvi siano i possibili fraintendimenti dell'appellativo padre privilegiato da Gesù e dai primi cristiani e perciò adottato dalla tradizione successiva fino a oggi, appare al momento attuale difficile, per svariate ragioni, che gli venga affiancato quello di madre (anche se in alcune C. questo è già accaduto) o che quest'ultimo possa, col tempo, soppiantare il primo. Quel che invece non potrà non accadere è che la teologia femminista obblighi prima o poi tutte le confessioni a ripensare a fondo il loro patrimonio teologico, liturgico e devozionale alla luce delle domande che essa pone e delle prospettive che dischiude: sicuramente anche il modo di intendere Dio, e quindi di esprimerlo, ne uscirà sensibilmente modificato.
Un altro ordine di problemi che ha sempre accompagnato la storia del protestantesimo (e del cristianesimo) e che si ripropone anche in questo passaggio di secolo e di millennio, è quello dei rapporti tra C. e Stato. In questo campo la situazione è estremamente differenziata: le C. evangeliche sono, in larga maggioranza, indipendenti dallo Stato, con il quale intrattengono rapporti che di volta in volta possono essere cordiali e dar vita a una collaborazione feconda (come in Germania) oppure essere tesi e persino conflittuali (come in certi paesi africani dove le C. criticano apertamente l'azione dei governi, in particolare per la violazione dei diritti umani). Nei paesi scandinavi invece, come pure in taluni cantoni svizzeri, le C. evangeliche sono ancora di Stato (da sole o insieme ad altre) e godono come tali di una posizione particolare (talvolta privilegiata) nelle rispettive società. In alcuni di questi paesi però la situazione potrebbe cambiare nel prossimo futuro. Così, mentre per ora non si pensa, se non come a un'ipotesi molto remota, a una separazione tra C. e Stato in Inghilterra, la C. luterana di Svezia sembra intenzionata, stando ad alcune autorevoli prese di posizione in tal senso, a modificare i suoi rapporti con lo Stato nel senso di una maggiore reciproca autonomia.
Collegata con la questione dei rapporti con lo Stato c'è, in diversi paesi, quella del finanziamento delle Chiese. Là dove le risorse finanziarie di queste ultime provengono principalmente da una tassa ecclesiastica percepita attraverso il sistema fiscale statale, le perdite sono state in questi ultimi anni rilevanti, in qualche caso drammatiche, e hanno obbligato le singole C., come pure gli organismi nazionali e internazionali che ne dipendono, a operare tagli dolorosi a programmi e personale. Non è diminuita la generosità dei membri delle C., è diminuito il loro numero: molti di coloro che erano cristiani solo anagraficamente hanno cancellato il loro contributo. Le C. che tradizionalmente godevano di maggiori disponibilità economiche, cioè quelle europee e nordamericane, hanno dovuto ridimensionare in misura sensibile l'insieme della loro opera, adeguandola alla nuova situazione; sempre di più le C. in genere e quelle evangeliche in particolare potranno contare, per finanziare le loro attività, soltanto sulle proprie forze, cioè sulle offerte dei loro membri attivi.
Quale futuro per il protestantesimo, sulla soglia di un nuovo millennio? Uno dei suoi massimi esponenti nel 20° secolo, il teologo tedesco-americano di origine e formazione luterana P. Tillich (1886-1965), ha dedicato molte pagine ancora attualissime al significato teologico e al destino storico del protestantesimo, considerato sotto il triplice profilo di "era protestante", "Chiesa protestante" e "principio protestante". È grazie a quest'ultimo che l'aggettivo protestante, storicamente fortuito, è diventato "un nome essenziale e simbolico". Il principio protestante è un principio critico generato da una particolare esperienza di fede nel Dio biblico, in virtù del quale "non ci può essere un sistema sacro, ecclesiastico o politico; non ci può essere una gerarchia sacra munita di autorità assoluta, e non ci può essere una verità nelle menti umane che sia di per sé verità divina". Tillich prevedeva un possibile tramonto dell'era protestante, frutto del fitto intreccio tra protestantesimo e modernità, e si chiedeva se le C. evangeliche sarebbero state in grado di vivere fino in fondo quel principio protestante che, pur trascendendole, ha dato loro origine e le ha orientate attraverso i secoli.
Il futuro del protestantesimo dipenderà dunque dalla sua capacità di lasciarsi plasmare dal suo stesso principio vivendolo secondo i parametri che gli sono congeniali: ricerca costante, esigente e mai conclusa (ecclesia reformata semper reformanda), dell'identità cristiana e conversione a essa, contro approssimazioni, deformazioni e contraffazioni; santità di Dio anche e proprio nella sua incarnazione, e profanità del mondo creato come polarità entro cui situare l'esercizio della fede; assunzione del principio critico nella lettura della Bibbia, della storia della C. e dei dogmi, in dialogo e confronto col discorso di fede; difesa, nello Stato e nella società, del valore della laicità nel cui quadro vivere liberamente la propria vocazione cristiana, dandone testimonianza con la vita; edificazione della C. come comunità testimone che rimanda oltre se stessa verso un compimento futuro che coinvolgerà l'intera umanità. In sostanza, come in passato così anche domani, il protestantesimo non vorrà essere altro che cristianesimo, o una sua espressione strutturata come C., assumendo di volta in volta, in modi differenziati secondo i vari contesti in cui opera, "la forma di una resistenza contro la deformazione dell'umano e del divino" (P. Tillich).
Bibliografia
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