Chirurgia
(X, p. 139; App. II, i, p. 579; III, i, p. 366; IV, i, p. 427; V, i, p. 619)
Gli orientamenti alla fine del Novecento
di Filippo Asole
Nessuna definizione può rendere l'idea del salto di qualità che la c. ha avuto sul finire del 20° secolo. Non basta parlare di rivoluzione o di svolta epocale. Prendendo spunto dalle scienze di base e dalla tecnologia, il mondo chirurgico ha spinto la creatività dei ricercatori e l'industria a realizzare le tante idee innovative che ne spiegano lo straordinario successo, fatto di risultati sorprendenti, imprevedibili, a volte del tutto insperati.
Gran parte della c. tradizionale appartiene al passato, e quel che ne resta oggi è molto progredito, per l'avvento di materiali e strumenti che hanno trasmesso all'atto chirurgico un'impronta, più tecnica, meno manuale, a vantaggio dei risultati. Nella c. oncologica (v. oltre) la cura dei tumori si è fatta meno demolitiva e più rispettosa delle funzioni d'organo, sfruttando al meglio l'integrazione con le risorse non chirurgiche (irradiazioni, chemioterapici e nuove prospettive). In numerosi campi di una patologia una volta considerata 'chirurgica', la soluzione del problema è stata resa possibile già in fase diagnostica, per indagini divenute atti operativi (in corso di ecografia, endoscopia o angiografia). Un esteso ventaglio di malattie 'minori' è rimasto di competenza chirurgica, ridotto però a interventi ambulatoriali o con ricovero breve per merito di tecniche semplificate: fino allo sviluppo, si può dire esplosivo e impensabile, della c. endoscopica 'mini-invasiva', grazie a strumenti che per raggiungere i visceri necessitano solo di minuscoli fori di passaggio attraverso la parete delle grandi cavità (addome e torace). Una forte espansione ha avuto la microchirurgia, elevata al rango di specialità autonoma per alcune peculiari indicazioni (reimpianto di dita o di arti, c. delle vie seminali ecc.), ma anche pratica usuale in molte branche meno affini (oculistica, otorinolaringoiatria, neurochirurgia, ortopedia ecc.). Infine, la c. specialistica si è giovata delle stesse conquiste, e con altrettanto successo. All'interno di una crescita così profonda ed estesa, che sul nascere ha sollevato non pochi problemi di apprendimento (e di rischio), non poteva non imporsi una fase di riflessione deontologica, sul come regolare la diffusione delle nuove tecniche e sul quanto convalidarne i risultati, mirando all'individuazione di centri di riferimento. Infine, al di là delle attuali conquiste già si profilano le linee di tendenza della c. del domani.
Per quanto concerne i progressi dell'anestesia, v. oltre: Anestesia chirurgica.
Chirurgia tradizionale
La c. convenzionale ha visto ridursi il suo campo d'azione, le nuove leve hanno rifondato una professionalità tecnologica, i radiologi e altri specialisti hanno convertito parte del loro lavoro in un orientamento più operativo. In sostanza, guardando a un passato anche recente, si deve riconoscere che la c. tradizionale ha perso molto terreno e gli interventi sono divenuti meno aggressivi.
Alcune malattie non sono più 'chirurgiche', salvo eccezioni. Per es., l'ulcera gastro-duodenale è curabile con i nuovi farmaci (anti-secretori e terapia di Helicobacter pylori), e la c. è chiamata a risolverne solo i casi in cui, per cure mal condotte o trascurate, si verificano complicanze (emorragie gravi, perforazioni e stenosi). Anche la calcolosi calcica, nelle vie urinarie e più raramente nel pancreas (non più quella nelle vie biliari), è uscita dalla competenza chirurgica e spesso si giova della litotripsia (tramite apparecchi erogatori di onde d'urto). Questi due capitoli della patologia basterebbero a spiegare un buon passo indietro della c., per il gran numero di soggetti coinvolti.
Quando invece l'intervento tradizionale è indispensabile, con grande incisione e grandi manovre, molti problemi risultano superati. Il primo, e forse il più importante, era rappresentato dal rischio di contagio (virus dell'epatite e AIDS) da trasfusione perché un donatore infetto da poco tempo, in fase d'incubazione, sfugge ai controlli di laboratorio non avendo inizialmente un tasso dosabile di anticorpi. Ciò ha dato impulso alla pratica dell'autotrasfusione (v. sangue, in App. V), che consiste nell'utilizzare il sangue dell'operando, prelevato nel periodo che precede l'intervento, per restituirglielo nel corso dell'operazione. In caso di c. urgente o molto cruenta (di cuore, aorta, trapianti, ortopedia 'maggiore' ecc.), un'altra forma di autotrasfusione consiste nel recuperare il sangue in perdita nel corso dell'intervento per reinfonderlo subito dopo il filtraggio-depurazione attraverso l'apparecchio di recupero intraoperatorio.
Altri problemi tecnici sono stati superati con il progresso dei biomateriali, oggi più compatibili, resistenti, atossici e refrattari alla coagulazione, costituiti da proteine (fili riassorbibili in acido poligalattico o simili), nylon o altre reti sintetiche ('stoffe' protesiche in dacron, teflon o politetrafluoroetilene), altri tipi di plastica (tubi o 'tutori' di ogni genere), leghe metalliche ('cariche' di clips, fig. 1, per stapler, fig. 2, sorta di spillatrice che in un sol colpo taglia e cuce un viscere) ecc. La variabilità delle risorse ha risposto in misura adeguata alla grande diversità delle richieste chirurgiche.
Nuovi strumenti hanno rinnovato l'armamentario del chirurgo, per es. il laser (fascio luminoso ad altissima energia) nelle tante versioni che sviluppano coagulazione, taglio o 'vaporizzazione', più in superficie o più in profondità o perfino all'interno di vasi (fig. 3) o dotti, a seconda dello strumento adottato in vari tipi di chirurgia. In circostanze molto specifiche sono disponibili bisturi alternativi: a ultrasuoni, a getto d'acqua, a punta di zaffiro (bisturi-laser) ecc.
Tessuti autologhi da coltura cellulare hanno reso possibile l'innesto, senza rischio di reazione, di tessuti 'di laboratorio' stimolati (da fattori di crescita) a proliferare dal prelievo bioptico dall'operando. Essi consentono una c. ricostruttiva, una volta impensabile, in numerosissime applicazioni che utilizzano la produzione di epidermide e derma, mucosa (neo-uretra, coltivata su un supporto modellante), cartilagine, osso, cornea ecc.
I prodotti della tecnologia hanno contribuito ad agevolare l'atto chirurgico in ogni dettaglio, consentendo di raggiungere obiettivi anche molto complessi, come per es. l'eliminazione di un organo senza dover rinunciare alla sua funzione principale. Valga per tutti l'esempio di una grave retto-colite ulcero-emorragica (a rischio di cancro), in cui insieme al colon dev'essere asportato il retto, con tutta la sua funzione di serbatoio fecale. Per riottenere quest'ultima, appena terminata la fase demolitiva dell'intervento, si passa alla fase ricostruttiva confezionando, con lunghe sezioni-suture, dall'ultimo tratto dell'intestino tenue (ileo) una grande 'tasca ileale' (ileal pouch), da ricongiungere all'ano (fig. 4). Questa procto-colectomia 'restaurativa' è un intervento laborioso che però è reso più rapido, sicuro e tollerato grazie all'impiego dei nuovi staplers. Gli esempi potrebbero continuare fino a quello, per così dire emblematico, di risorsa estrema nata quasi per caso, poi perfezionata: la zip addominale, da applicare alla parete dell'addome al termine di un intervento per un grave trauma del tubo digerente o per un'estesa necrosi suppurativa del pancreas (da pancreatite 'fulminante'). In queste rare eventualità l'esperienza ha dimostrato che è possibile ottenere la guarigione, sia pure tardiva, medicando ogni giorno in anestesia breve la cavità addominale attraverso la zip, fino al regredire del processo suppurativo (in qualche settimana). Dopo i primi casi fortunati è intervenuta l'industria medica che ha riprogettato e messo in commercio un'apposita zip, adatta alla diffusione del metodo.
A corollario di una tale evoluzione delle tecniche chirurgiche non deve destare sorpresa il fatto che anche la 'quarta età' sia entrata oggi nella pratica chirurgica corrente, sia pure con le dovute cautele, tipiche della branca a essa dedicata (c. geriatrica). All'estremo opposto, quello della vita intrauterina, si scorge una battuta d'arresto. Per molto tempo gli specialisti in varie parti del mondo hanno tentato di operare il feto nell'addome della madre, a utero aperto o chiuso, per gravi malformazioni fetali (ostruzioni delle cavità cerebrali o delle vie urinarie, ernia diaframmatica, anomalie cardiache ecc.). L'alta mortalità in questi casi d'avanguardia ha di fatto impedito che la c. del feto uscisse dall'ambito sperimentale: fanno eccezione i casi di ostruzione urinaria, diagnosticati in tempo con l'ecografia, in cui si può 'scaricare' l'urina del feto nel liquido amniotico all'interno dell'utero, posizionando attraverso l'addome della madre, sotto guida ecografica, un drenaggio tra liquido amniotico e vescica fetale: ciò basta a salvare i reni del feto, per operare, a nascita avvenuta, l'ostruzione urinaria.
Chirurgia oncologica
È doveroso premettere che la lotta contro il cancro è lungi dall'essere del tutto vincente. Contro i tumori la c. ha molti obiettivi: bloccare la malattia (prevenzione e diagnosi precoce), classificare il danno in termini comparativi (stadiazione), asportare il tumore con la completezza consentita (radicalità), intervenire nel momento più opportuno con tutti i mezzi disponibili (timing - scelta dei tempi, cioè della sequenza delle cure - di terapia integrata), salvare il salvabile (demolizioni 'conservative') e ricostruire l'indispensabile (ricostruzioni 'funzionali') e infine, quando la malattia ha il sopravvento, migliorare almeno la qualità di vita (c. palliativa).
È naturale che l'esperienza mondiale abbia avuto come primo obiettivo quello di confrontarsi sull'optimum di cura in ogni forma e in ogni fase della malattia, sia nell'intento radicale (sopravvivenza ad almeno 5 anni) sia nel limite palliativo (miglioramento della qualità della vita). A questo fine tutti i chirurghi hanno adottato un comune schema classificatorio, il sistema TNM (Tumor [lymph] node metastasis: tab. 1), progettato nel 1954 dalla UICC (Union Internationale Contre le Cancer) di Ginevra e aggiornato al 1987, che suddivide in quattro stadi l'evoluzione della malattia. Per ogni stadio sono state sperimentate le più diverse modalità di cura e ne sono state tratte le conclusioni in termini di sopravvivenza (a 5 e a 10 anni: tab. 2). Solo oggi, all'inizio del terzo millennio, quando ormai vi sono adeguati confronti, s'intravedono le scelte ottimali
Fatte queste premesse, si può dire che la c. è presente, nella lotta contro i tumori, fin dall'inizio, cioè con la prevenzione. Le occasioni sono molte, e in aumento. Già si è visto che nella colite ulcerosa gravissima si deve asportare anche il retto per prevenire il rischio di cancro. Del resto, la c. è sempre chiamata a intervenire quando una malattia è una 'precancerosi' (esofago di Barrett, gastrite atrofica, polipo villoso del retto ecc.). Ma ancor più la c. è necessaria nei casi di certezza di un futuro tumore, come nella poliposi diffusa familiare, malattia ereditaria che si manifesta con una miriade di polipi nel grosso intestino fino a un aspetto 'vellutato' della mucosa, che comporta con certezza la cancerizzazione, prima o poi, di qualcuno dei polipi. Si è andata affermando, dapprima, la buona regola di controllare con colonscopia tutti i familiari di questi pazienti e quindi di asportare l'intestino retto-colico in tutti i portatori della malattia. Attualmente la prevenzione è ancora più tempestiva, disponendosi di un test genetico che riconosce la malattia. Un'altra 'bonifica' chirurgica riguarda un certo tipo di tumore della tiroide (il carcinoma midollare, 5÷10% dei tumori maligni di questa ghiandola), che deriva da una mutazione di un protoncogene (il RET) svelabile al laboratorio (RET-test) con un semplice prelievo di sangue. Quando si scopre un cancro midollare della tiroide, tutti i familiari, compresi i bambini, vanno sottoposti al RET-test e quelli positivi vanno operati di asportazione della tiroide: è una prassi affermata negli USA e in diffusione in Europa.
I risultati della c. oncologica sono migliori se la diagnosi è precoce, e ciò si ottiene con la divulgazione dei segni d'allarme e con i programmi di prevenzione (controlli periodici nelle categorie a rischio per fasce d'età e predisposizione familiare), in particolare per certi tumori (Pap test per cancro dell'utero, mammografia per cancro della mammella ecc.). A ciò si aggiunga la diffusione della biopsia eco-guidata, mediante agoaspirato, dei noduli palpabili (della tiroide, mammella, prostata ecc.) o TC-guidata in profondità (su 'ombre' radiologiche polmonari, su aree sospette di organi ecc.). Un ulteriore progresso si è avuto nelle migliori possibilità di stadiazione, per merito di strumenti come l'eco-endoscopio, che abbina la sonda a ultrasuoni all'endoscopio flessibile: se eseguita nelle vie digestive (esofago, stomaco, duodeno, retto), consente di valutare da vicino il fattore 'T' (infiltrazione della parete intestinale) e il fattore 'N' (metastatizzazione nei linfonodi regionali) del tumore in esame. Ciò fa commisurare meglio l'estensione dell'intervento e il timing della terapia.
A volte la c. può essere soppiantata da altri interventi. Per es., dalla laserterapia fotodinamica, per tumori superficiali dell'esofago: dopo aver iniettato endovena una sostanza fotosensibilizzatrice (ematoporfirina), che si fissa sulle cellule cancerose, s'invia un raggio laser attraverso l'endoscopio, fino a distruggere le cellule fotosensibilizzate senza danneggiare quelle sane circostanti. Un altro metodo è la TEM (Transanal Endoscopic Microsurgery) per polipi a larga base d'impianto nel retto (cancro in situ): attraverso un apposito rettoscopio lo specialista asporta, sotto microscopio, la lesione iniziale insieme a un'area sana circostante, con sutura immediata. La TEM è eseguibile negli ultimi 20÷25 cm del tubo digerente.
Un mutamento strategico è in atto nella terapia integrata, in cui la c. è in un timing diverso rispetto al passato. L'asportazione della neoplasia era considerata, fino a qualche anno fa, l'atto preliminare su cui intervenire con le 'armi' non chirurgiche: la radioterapia, per evitare le recidive locali, e la chemioterapia, per distruggere le cellule cancerose ovunque nell'intero organismo. In questo senso si parlava di terapia 'adiuvante', complemento della c., e si riteneva dannoso irradiare una sede prima di operarla. I criteri sono cambiati. C. e radio-chemioterapia vanno considerate ognuna nel proprio ruolo: la c. asporta, la radioterapia 'sterilizza' localmente e la chemioterapia completa il trattamento sul piano generale. Ma ora si è più elastici nel timing e perciò si parla di terapia 'neo-adiuvante', nuovo concetto di terapia integrata. Questo orientamento si è affermato soprattutto nei casi di tumore 'localmente avanzato', cioè infiltrato in profondità nella sede d'impianto e già migrato nelle vie intramurali del viscere e fuori di esso, fino alle linfoghiandole della regione, pur senza metastasi ancora evidenziabili in altri organi. Con la radioterapia (o anche la chemioterapia) prima dell'intervento, il tumore può regredire anche radicalmente (retro-stadiazione), e diventare asportabile (se prima non lo era). Molta esperienza si è accumulata per tumori in vari organi (retto, polmone, mammella ecc.) e ci sono linee guida per la scelta della 'terapia integrata', a seconda del tumore, dell'organo e dello stadio.
È naturale che fra gli obiettivi della c. vi fosse soprattutto quello di ottenere la massima radicalità nell'asportazione del tumore. Uno degli strumenti per la completezza chirurgica è l'ecografia intraoperatoria, che nel corso di un intervento addominale consente di controllare la metastatizzazione di visceri vicini all'organo da asportare: classico ne è l'impiego per evidenziare metastasi nel fegato (per es. nel corso di una resezione per cancro del colon), eventualmente sfuggite agli esami preoperatori. Una metodica più sofisticata, poco diffusa ma di futuro sviluppo, è la c. radioimmuno-guidata, che consiste nell'iniettare endovena, qualche giorno prima dell'intervento, anticorpi radioattivi prodotti in laboratorio e 'avidi' di una sostanza presente nelle cellule maligne (per es. il CEA, antigene carcinoembrionario): nel corso dell'intervento, asportato il tumore, il chirurgo localizza con la sonda radiosensibile i focolai radioattivi (nel fegato o altrove) e procede alla loro eliminazione. Un altro metodo che mira alla radicalità dell'intervento è la radioterapia intraoperatoria, che consiste nell'irradiare direttamente la sede di exeresi del tumore. Per evitare il trasferimento del paziente, in narcosi e a campo operatorio protetto, fino alla sede del bunker (di solito nel sotterraneo dell'ospedale), è stato prodotto un apparecchio portatile d'irradiazione (acceleratore di elettroni), in sala operatoria. Si tratta di una tecnica in via di diffusione e indicata soprattutto per tumori localmente avanzati (cioè senza metastasi a distanza ma con infiltrazione ai confini dell'exeresi), impiegata dapprima per tumori addominali e in seguito anche per cancro del polmone, della mammella e dell'encefalo.
Al termine della fase demolitiva, altri successi sono stati ottenuti in fase ricostruttiva grazie alle innovazioni tecniche, per avanzamenti graduali e spesso in équipe con specialisti. Per es., in caso di exeresi si può ricostruire una nuova vescica con un tratto di intestino (un segmento di ileo o di colon). Poi si è visto che la scelta più adatta ricadeva sul cieco, che però presentava un comportamento ancora lontano dalle esigenze funzionali urinarie. Studiando varie soluzioni si è giunti alla conclusione che bisognava incidere la muscolatura longitudinale (le 'tenie') del cieco per ottenere una pressione al suo interno simile a quella vescicale, e in tal modo capacità urinaria e frequenza di minzioni del 'serbatoio' ciecale si avvicinavano alla fisiologia.
Un altro esempio di ricostruzione ottimale proviene dalla microchirurgia. Quando l'asportazione del tumore comporta una perdita di sostanza vasta e profonda e di tessuti diversi (cute, muscoli, osso), l'unica possibilità è di trasferire un lembo della stessa composizione prelevato da un'area anche distante nello stesso paziente. Possono prelevarsi senza danno lembi osteo-muscolo-cutanei dai glutei o dai fianchi, ma trattandosi di un lontano trasferimento si deve ricorrere a un lembo libero microvascolare, dotato di un peduncolo arterioso e venoso che consenta di connetterlo ai vasi dell'area ricevente. Si tratta di una tecnica che impone la collaborazione di un microchirurgo e i risultati appaiono quasi miracolosi, com'è il caso di una sostituzione di tessuti per un tumore destruente della faccia.
Un modello di evoluzione oncologica è rappresentato dalla storia recente del trattamento del cancro mammario. Partendo dalla prevenzione pre-clinica (quando ancora non c'è il tumore), in genetica sono già state individuate mutazioni (BRCA₁ e BRCA₂) responsabili dell'85% del cancro mammario a predisposizione familiare, che tramite un test di laboratorio consentono di riconoscere le donne più a rischio, da tenere sotto stretto controllo. Nella ricerca applicata sono in corso da anni sperimentazioni cliniche controllate (trials) sulla possibilità di evitare il tumore in migliaia di donne in premenopausa tenute sotto 'freno' ormonale (con il farmaco tamoxifene). Esemplare è poi la standardizzazione della terapia integrata: per ogni stadio del cancro mammario sono prestabiliti i protocolli di timing, frutto dell'esperienza mondiale (basati sulle percentuali di sopravvivenza). Negli stadi 1° e 2° già si sa che l'asportazione totale della mammella non è necessaria, mentre è adeguata la 'quadrantectomia', che consiste nell'exeresi solo di una parte (un 'quadrante') della ghiandola, con risparmio di una mutilazione dai riflessi profondi sulla psiche e nella vita di relazione della donna. Grazie alle intuizioni e agli studi di U. Veronesi si sa che, in questi stadi iniziali, la quadrantectomia con asportazione dei linfonodi seguita dalla radioterapia (QUART: Quadrantectomia - dissezione ascellare - radioterapia) offre gli stessi risultati dell'intervento maggiore. Quando invece la mammella deve essere asportata in toto (mastectomia), la ricostruzione può essere programmata fin dall'intervento demolitivo grazie a un'asportazione della cute con una particolare incisione che favorisce la fase ricostruttiva e consente l'inserimento di un espansore cutaneo (una sacca di plastica), gonfiabile in un secondo tempo.
Nel campo della c. palliativa un modello è offerto dal cancro del fegato. Sono soprattutto operabili le metastasi evidenziatesi dopo molti anni dall'asportazione del tumore primitivo (di solito un cancro del colon). Sono in corso sperimentazioni che utilizzano globuli rossi autologhi (dello stesso paziente), denaturati da un pretrattamento chimico (gluteraldeide) e coniugati a un farmaco antitumorale (doxorubicina): così denaturati, i globuli rossi vanno a fissarsi nelle cellule 'di pulizia' (sistema reticolo-endoteliale) del fegato, da cui liberano il farmaco tanto lentamente da agire con efficacia sulle cellule tumorali vicine (effetto targeting). Successivamente il chirurgo asporta le metastasi, con minor rischio di diffusione. Un altro metodo consiste nel cateterizzare l'arteria che irrora l'area metastatica del fegato e nell'ostruirla (con gelatina o spirali metalliche: embolizzazione); se ne ottiene la riduzione della massa da asportare. Anche in fase operatoria il progresso aiuta il chirurgo con strumenti ottimali, come i bisturi a ultrasuoni o a getto d'acqua, particolarmente adatti a un organo 'parenchimatoso' (molle, ad alta cellularità, con poco tessuto di sostegno) come il fegato, specie per parti anatomiche di grandi dimensioni. E per l'emostasi delle vaste superfici è oggi disponibile la 'colla di fibrina', un liofilizzato di fibrina umana da spruzzare sull'area di sanguinamento, per favorire anche una rapida cicatrizzazione.
Interventi ambulatoriali o con ricovero breve
Motivazioni anche di ordine economico hanno svolto un ruolo nella rapida diffusione della c. senza ricovero o con ricovero breve per interventi che, fino a pochi anni fa, richiedevano 5÷7 giorni di degenza. Queste motivazioni, basate sui bassi costi per le strutture e sulla rapida normalizzazione per il paziente, hanno trovato terreno fertile nelle semplificazioni tecniche, di anestesia e di c., che si sono imposte in rapido crescendo (per es. nella cura dell'ernia, delle emorroidi e delle varici). Oggi tutto si svolge con grande praticità. Non si distinguono i confini tra c. ambulatoriale e c. con ricovero breve perché spesso avviene che un operato, anche di un piccolo intervento, rifiuti di tornare a casa e chieda, per sicurezza, di passare la notte da ricoverato. Pertanto l'unità operativa, anche se autonoma e dotata di personale 'dedicato', dev'essere sempre collegata a un reparto di degenza, oltre che coordinata da un medico responsabile (spesso l'anestesista). Comunque, nella nomenclatura corrente (anglosassone) si distinguono le seguenti modalità: ambulatorial surgery (in osservazione post-operatoria per circa due ore), day surgery (per circa sei ore), one day surgery (un pernottamento), short stay surgery (due pernottamenti).
Fondamentale è la selezione dei pazienti: possono essere ammessi a queste modalità operative soltanto i soggetti che non hanno altri problemi di salute (classe 1ª dell'ASA, American Society of Anesthesiologists) o con disturbi sistemici molto lievi (per es. obesità, diabete o anemia ben compensati: classe 2ª); eccezionalmente, per pressanti motivazioni e previo accordo con l'anestesista, vengono ammessi anche individui di oltre 65 anni (purché in buone condizioni) o con lieve insufficienza respiratoria. Anche altri fattori influiscono, come il livello socio-culturale dell'operando, che dev'essere in grado di decidere, in piena consapevolezza, la distanza della sua abitazione - a non più di un'ora di trasporto dalla struttura -, la presenza sicura di un accompagnatore e la possibilità di riferire al medico personale (di famiglia o di base).
Di solito un opuscolo illustra la fase di preospedalizzazione: visita medica, consulenza specialistica e anestesiologica, esami preoperatori (da esaurire in genere in una mattina: radiografia del torace, elettrocardiogramma, glicemia, conta dei globuli rossi e dei globuli bianchi, prove di coagulazione e altre analisi del sangue e delle urine riguardanti le funzionalità renale ed epatica e la tolleranza agli anestetici). Viene inoltre spiegato come prepararsi all'intervento (igiene, dieta e depurazione intestinale). Quando è fissata la data e l'ora dell'intervento, il paziente è invitato a firmare un modulo di 'consenso informato' in cui risultino scritte le sue generalità, la diagnosi, l'intervento prestabilito e le complicanze correlate anche se imprevedibili.
L'anestesia in queste circostanze è con farmaci a breve durata, endovena (sedativi e analgesici) o più comunemente per infiltrazione loco-regionale, efficaci, poco costosi e a rapido smaltimento. Per l'arto superiore è preferibile il 'blocco periferico' (sul plesso brachiale o su un nervo della regione). Eccezionalmente può essere praticata l'anestesia spinale che però richiede, a domicilio, qualche giorno di letto senza cuscino, per evitare la cefalea da stazione eretta. La dimissione a 2÷6 ore dall'intervento viene consentita quando i segni vitali (battito cardiaco, pressione arteriosa e respiro) risultino normali, i riflessi e la deambulazione regolari, la minzione possibile e determinati disturbi assenti (nausea e vomito, dolore intenso, sanguinamento dalla ferita): a questo punto l'operato deve garantire un contatto telefonico e viene affidato al suo accompagnatore.
L'utilizzazione di questo tipo di c. è generalmente limitata a interventi piuttosto brevi e a decorso semplice, raramente maggiori (valutando però l'intervallo di smaltimento degli anestetici usati). Solo in casi particolari può essere ammessa un'urgenza, anche se di esecuzione elementare. Venendo alle più frequenti indicazioni, si può dire che la plastica per ernia inguinale sia stata la tecnica più semplificata della nostra epoca: dall'antico metodo del Bassini (sutura tra la parete muscolare dell'addome e il legamento dell'inguine) con punti in trazione, si è passati all'interposizione protesica (con una delle tante 'stoffe' biocompatibili) suturata senza necessità di trazione (tecnica tension-free di Lichtenstein) o addirittura applicata senza punti (tecnica sutureless). In questo modo l'operato, privo di trazione sulla plastica erniaria, può camminare subito dopo l'intervento rendendo inutile la degenza, con breve riposo a casa, rapido recupero e 'tenuta' della plastica molto più affidabile nel tempo, anche se l'ernia era recidiva (10% nell'intervento di Bassini) o voluminosa. L'esecuzione dell'intervento è, come s'intuisce, molto semplice, tanto da essere divenuta il 'volano' più convincente per tutta questa c. senza ricovero.
Anche la c. dell'ano e quella delle varici sono state molto semplificate e rientrano nella pratica corrente di livello ambulatoriale o con un solo pernottamento. Ragadi, fistole semplici e piccoli polipi del canale anale possono essere operati senza difficoltà, e le emorroidi, un tempo oggetto di una c. molto dolorosa e temuta, oggi sono operabili con un dispositivo di anestesia locale (il cosiddetto quadrijet, a 4 aghi corti e sottili) e con tecniche elementari, valide almeno per le emorroidi poco voluminose (fotocoagulazione a raggi infrarossi, lacci elastici da un aspiratore-espulsore ecc.). Le varici degli arti inferiori, a loro volta, se operate quando ancora sono poche e circoscritte, possono essere risolte con interventi limitati (stripping - cioè asportazione con sonda metallica - corto della safena e legatura di comunicanti, anche con tecnica 'estetica'), da esaurire in ambulatorio e in anestesia locale, con un fuggevole 'passaggio' anestesiologico (un analgesico e l'eventuale sedativo) per il brevissimo tempo (1÷2 minuti) dello stripping.
Anche la patologia 'minore' della mammella rientra nella c. di questo tipo, specie per noduli benigni palpabili, biopsia linfonodale, ginecomastia e altre modeste lesioni che non richiedono drenaggio della sede operata. È invece sconsigliata, dai più, la c. senza ricovero per lesioni non palpabili, rilevate dalla mammografia e sospette di malignità, perché in questi casi si assommano vari motivi: l'infiltrazione dell'anestetico locale renderebbe difficile il reperimento della lesione, l'attesa per l'esame istologico estemporaneo sarebbe troppo lunga e, in caso di positività, la 'conversione' in c. 'maggiore' richiederebbe il passaggio all'anestesia generale. In questi casi, conviene ricoverare.
La c. estetica si presta, in modo particolare, a essere effettuata negli ambulatori attrezzati, in quanto è basata in gran parte su minimi interventi di rimodellamento del viso (palpebre, labbra, orecchie, rughe ecc.) o del corpo (liposuzione), che talvolta si spingono un po' oltre per ritocchi più impegnativi (naso, zigomi, mento, seni, face lifting), più adatti al ricovero breve (1÷2 pernottamenti). Soprattutto in questo campo l'arte chirurgica ha avuto molto spazio per riprogettare materiali, strumenti e procedure, e ciò l'ha resa più agile.
Restano i campi decisamente specialistici. In urologia le indicazioni sono molteplici: cistoscopia diagnostica e operativa, c. dello scroto e dei testicoli, litotripsia, aspirazione di cisti renali, inserimento di endoprotesi per stenosi dell'uretra. Per gli interventi sulla prostata, anche se endoscopici, vi è il problema di lasciare un catetere e di controllare il sanguinamento, tutti motivi per un ricovero tradizionale. In ginecologia è spesso sufficiente l'ambulatorio, per revisione del collo uterino, riproduzione assistita, amnio- o cordocentesi, o il ricovero di un solo giorno, per revisione dell'utero, interruzione di gravidanza, interventi laparoscopici sugli 'annessi uterini' (ovaie e tube). Infine, in ortopedia, sono indicate tutte le forme di artroscopia (ginocchio, spalla, caviglia), la c. della mano e del piede e le urgenze minori (fratture semplici, piccoli distacchi, lesioni tendinee).
Tecniche operative in fase diagnostica
Si è detto più volte della biopsia mediante agoaspirato eco-guidato, già concreto progresso rispetto alla sola imaging dell'ecografia. Con un ago sottile, tale da non costituire un rischio d'insemenzamento in caso di nodulo maligno, si aspira un cilindretto di cellule sufficiente per un esame estemporaneo, prendendo la mira su noduli palpabili o in aree profonde (tiroide, mammella, fegato, rene, pancreas, prostata, testicolo ecc.), grazie all'assemblaggio fra sonda ecografica e ago bioptico e alla visione sul monitor sia dell'area sospetta che della punta dell'ago su di essa guidata. La tecnica dell'ago-infissione eco-guidata consente anche altre cure su lesioni bersaglio, come la distruzione di un nodulo iperfunzionante della tiroide (adenoma tossico di Plummer) con l'alcoolizzazione, o il mirare su focolai multipli di metastasi epatiche con l'alcoolizzazione o la cauterizzazione (ipertermia 'focale' sulla punta dell'ago per corrente alternata o a radiofrequenza) o con crio-sonda (a −200°C).
Come s'intuisce, fioriscono nuove modalità sostitutive della c., e dai risultati a distanza s'intravede un cauto ottimismo. Dall'agoaspirato al drenaggio eco-guidato il passo è stato breve (fig. 5). Con il progredire dell'esperienza si è visto che era anche possibile inserire un tubo di drenaggio, in materiale plastico e del calibro voluto, guidandolo con l'ecografo verso una qualsiasi cavità patologica (cisti, ascesso o altro), ovunque nell'organismo. Svuotare la cisti ed eliderla con alcool è oggi una pratica corrente per specialisti di ecografia operativa, e ciò ha fatto risparmiare molti interventi 'aperti' di ben maggiore impegno. Non solo, ma quando v'è un ascesso profondo da drenare si hanno a disposizione speciali drenaggi 'a coda di maiale' (pig-tail), capaci di adattarsi alle pareti della cavità fino a depurare di tutto il suo contenuto suppurativo la cisti, così destinata a guarigione. Con questo metodo possono essere evacuate perfino grandi cisti di echinococco, in pazienti pretrattati con farmaci anti-echinococcici (albendazolo, praziquantel), per poi 'alcoolizzare' la capsula residua fino alla sua totale sclerotizzazione.
Analoghi obiettivi sono divenuti da tempo routine in ambiente diagnostico, in fase sia di endoscopia sia di radiologia. Una serie di tappe avvincenti ha caratterizzato il progresso dell'endoscopia operativa: basti pensare all'intervento, ormai non più nuovo, di resezione prostatica per via cistoscopica (con il resettore o, più recentemente, con il laser), o al vasto campo dell'esofago-gastro-duodenoscopia operativa (sclerosi delle varici esofagee, elettrocoagulazione di vasi sanguinanti dello stomaco o del duodeno, incannulazione della via biliare per colangiografia, estrazione di calcoli dal coledoco o dal dotto pancreatico con sonda 'a cestello' di Dormia, fig. 6, dilatazione di stenosi nelle stesse sedi con sonda 'a palloncino' di Fogarty, fig. 7), o all'asportazione di polipi in retto-colonscopia, estrazione di corpi estranei in tracheo-broncoscopia ecc.
Ma un nuovo impulso operativo si è avuto con l'avvento dell'endoprotesi, intesa come cannula protesica da inserire in una struttura anatomica senza necessità d'intervento aperto. Dapprima è stato possibile utilizzare il materiale in plastica biocompatibile (polietilene, teflon, poliuretano, rilsan, silicone ecc.), che presentava il vantaggio di poter 'sfilare' la protesi quando necessario, con il rischio però di spontanei 'sposizionamenti'. In seguito l'industria ha prodotto lo stent (endoprotesi) in metallo, consistente in una rete o spirale di acciaio, titanio o lega (nichel-titanio: nitinol), dotato di flessibilità e di 'memoria di forma' in grado di adattarsi e anche addentrarsi nella parete anatomica in virtù della forza elastica del metallo, divenendo una vera e propria 'armatura di rinforzo' (fig. 8). Gli stents metallici presentavano però il difetto di non essere disinseribili quando necessario, essendo indovati nella parete, e a ciò si è rimediato con stents asportabili per trazione del monofilamento o per retrazione sotto infusione fredda. Sembra dunque che a tappe si sia giunti a un livello tecnologico soddisfacente, in grado di risparmiare una vastissima gamma di interventi 'aperti'. Le indicazioni, infatti, riguardano stenosi benigne o maligne-inoperabili di tutte le vie anatomiche raggiungibili con l'endoscopia: digestive (esofago, dotto biliare e pancreatico, retto e colon inferiore), urinarie (soprattutto in caso di cancro prostatico inoperabile), respiratorie e perfino del dotto lacrimale.
A un'evoluzione analoga si è assistito nella nostra epoca nel campo della radiologia interventistica, precisamente nella radiologia operativa dei vasi sanguigni, sia arteriosi sia venosi. Il primo passo era stato compiuto con l'avvento della tecnica d'incannulazione transcutanea (Seldinger) mediante ago-cannula per angiografia. In seguito si è passati all'introduzione di un catetere a palloncino (Fogarty) per asportare, tramite una piccola incisione su un vaso periferico, un embolo arterioso o un trombo venoso, o per dilatare una stenosi arteriosclerotica, facendo risparmiare operazioni 'aperte' molto impegnative. Poi è sopravvenuto il perfezionamento, con l'impianto di stent in metallo attraverso lo stesso catetere endovasale. Si è verificato un ampliarsi a dismisura dell'armamentario protesico, con endoprotesi di calibro e lunghezza di volta in volta riprogettate per sempre nuove esigenze. Un ulteriore passo avanti si è avuto nella costruzione di stents vascolari a rete metallica sempre più sottile, in modo da favorirne la bio-integrazione e allontanarne il rischio della ristenosi.
Un modello che permette di compendiare in misura esemplare queste modalità d'alto livello tecnologico è offerto dalla soluzione interventistica dell'ipertensione portale. In questa patologia, originata per lo più da una cirrosi epatica, il flusso intestinale incontra un forte ostacolo nel suo circolo attraverso il fegato, e pertanto esalta la pressione nella vena porta (ipertensione portale), che gradualmente diverge il sangue in vie di scarico alternative, soprattutto nelle vene dell'esofago (varici esofagee) ove l'ipertensione distrettuale predispone a emorragie gravissime o addirittura letali (ematemesi dalla bocca e melena dall'ano). La c. 'aperta' si riprometteva, in un primo intervento, di aggredire direttamente il tratto gastro-esofageo per liberarlo dalle varici e, in un secondo tempo, aprire alla vena porta uno scarico diretto nella cava inferiore (shunt porta-cava). Quest'ultima operazione era ad altissimo rischio, per la complessità dell'intervento e la gravità dei malati. In tempi più vicini a noi, dapprima si è giunti alla sclerotizzazione delle varici esofagee tramite iniezioni sclerosanti per via endoscopica, con risultati però transitori e ripresa delle emorragie al massimo entro un anno: restava allora da risolvere il problema dell'ipertensione della vena porta. La soluzione è intervenuta ancora dalla radiologia interventistica, che ha risolto il problema con il sofisticato impiego di due cateteri, l'uno da una vena del collo (fino alla cava) e l'altro attraverso il fegato (fino alla porta): agendo fra i due cateteri sotto controllo angiografico si riesce a posizionare un lungo stent fra porta e cava all'interno del fegato (TIPSS, Transjugular Intrahepatic Portosystemic Stent Shunt), raggiungendo lo stesso obiettivo dell'intervento 'aperto' ma con rischio relativamente trascurabile.
Chirurgia mini-invasiva
Con questo termine ci si riferisce alla c. praticata attraverso piccoli fori della parete corporea, c. quindi 'chiusa' in contrapposizione a quella 'aperta' tradizionale (che richiede un'incisione più o meno ampia). È anche detta mini-invasiva per il maggior rispetto dell'anatomia non solo all'ingresso ma anche all'interno del corpo umano, con tutta la prudenza resa necessaria dall'agire nel 'chiuso endocorporeo', peraltro ampliato dall'insufflazione di un gas innocuo (anidride carbonica) e 'guardato' a luce fredda e in visione ingrandita (di solito×3) dall'ottica del laparoscopio, lo strumento che per primo viene introdotto in cavità, convertita in tal modo in una sorta di camera operatoria. L'operatore e il suo aiuto lavorano con gli strumenti dai fori 'di servizio' attraverso cannule a valvola che impediscono la fuoriuscita del gas insufflato, seguendo le proprie manovre sul monitor che riporta le immagini trasmesse dalla telecamera miniaturizzata dell'ottica. Si parla di strumenti 'dedicati' perché tutto l'armamentario è stato riprogettato (strumenti lunghi e sottili, di varia angolatura e di azione quasi microchirurgica). I vantaggi che ne derivano non sono pochi: di ordine estetico (assenza di una grande cicatrice), poca sofferenza postoperatoria, degenza ridotta al ricovero breve (1÷2 pernottamenti), ripresa rapida e ritorno precoce all'attività lavorativa (entro 1÷2 settimane, a volte giorni). Il gradimento degli operati ha esercitato un impulso crescente alla diffusione del metodo, e quindi sull'industria con tutte le 'spinte' possibili, fino a far attribuire a questa nuova 'moda' un ruolo dominante, patrimonio tipico dell'ultima generazione di chirurghi.
Unico accorgimento, l'accurata selezione dei malati. La c. mini-invasiva si è dimostrata adatta negli obesi, proprio dove la c. tradizionale ha sempre incontrato le maggiori difficoltà. Risulta invece controindicata per coloro che hanno disturbi della coagulazione e dello stato respiratorio e cardiaco, come pure è da considerare discutibile l'indicazione nei tumori maligni (per l'ovvia limitazione nella radicalità linfonodale). È intuitiva l'importanza dell'addestramento, e in generale lo specialista dovrebbe essere sempre lasciato libero, nel singolo caso, di decidere se intraprendere o meno la via laparoscopica, in base alla propria esperienza. Nel bilancio costi/benefici si devono considerare le spese per il materiale monouso, elevate all'inizio di ogni nuova tecnica ma in rapido calo in seguito, controbilanciate però dal vantaggio della brevissima degenza e dalla precocità della ripresa lavorativa dell'operato.
Addome (chirurgia laparoscopica)
A poco più di un decennio dal primo intervento per via laparoscopica - l'asportazione di una colecisti eseguita da Ph. Mouret nel 1987 a Lione (anche se fu, per primo, il chirurgo tedesco E. Mühe che impiegò nella pratica clinica, nel 1985, un rettoscopio modificato e munito di ottica, cui aggiungeva l'insufflazione di CO₂) - si può dire che una svolta storica si sia imposta nei confronti della tradizione. Dopo le iniziali perplessità, il consenso di operatori e operati non si è fatto attendere, fino a diventare entusiasmo, per le possibilità di guarigione quasi senza un prezzo biologico. La tecnica è ormai nota. In anestesia generale, con l'introduzione dell'ottica e degli altri strumenti attraverso 4÷5 speciali cannule inserite in parete, previa applicazione di trequarti (trocars), si distende la cavità con l'insufflazione (pneumoperitoneo) e si dà inizio all'intervento. Lo specialista si trova a operare ad addome chiuso, controllando l'effetto dei suoi strumenti nella visione ingrandita del monitor televisivo (video-laparoscopia). Ne deriva la possibilità di una grande accuratezza di manovra e di un traumatismo dei tessuti estremamente ridotto. In caso d'incidente (lesione di un grosso vaso, penetrazione in un viscere cavo, legatura errata o sezione non voluta di una struttura importante) v'è sempre la possibilità, con la stessa anestesia, di una 'conversione' ad addome aperto (1÷3% dei casi).
La tecnica operatoria è analoga a quella della c. aperta, anche se lo strumentario è stato riprogettato in funzione della manualità richiesta nel frazionare e tagliare tessuti (endopinze, endoforbici), sezionare vasi (applicatori di endoclips), annodare fili (spinginodi, endoloop), anastomizzare visceri (endosuturatrici) ecc. Ma il nuovo scenario è diventato subito terreno fertile per la creatività tecnologica, che ha prodotto molti perfezionamenti: la visione tridimensionale (elettronica sofisticata, ottica a doppio canale, occhiali appositi) per la percezione della profondità, che agevola la coordinazione mano-occhio semplificando il lavoro intra-corporeo; la tecnica senza pneumoperitoneo (gasless), che evita la necessità dell'insufflazione nel cavo peritoneale, la cui parete anteriore viene invece distesa da un braccio meccanico introdotto da una cannula al pari degli altri strumenti (questo metodo è particolarmente adatto alla c. del basso ventre, ginecologica e rettale, e degli anziani con qualche difficoltà respiratoria, tra l'altro con decorso di maggior sollievo per l'assenza della tensione residua all'insufflazione); il trocar ottico, introduttore-cannula che consente il posizionamento dell'endoscopio sotto costante controllo visivo e non alla cieca; la ventosa laparoscopica, che facilita l'asportazione di organi 'parenchimatosi' (particolarmente vulnerabili) come la milza o un surrene (la 'ventosa', in materiale plastico, introdotta in addome serve a sollevare l'organo mediante aspirazione per mettere in evidenza, alla visione endoscopica, le connessioni anatomiche da sezionare per liberarlo); l'endobag, sacchetta di plastica che serve per farvi entrare l'organo liberato in addome e per frammentarlo, prima di 'sfilarlo' con tutta la sacchetta da uno dei fori 'di servizio' (fig. 9); la mini-ottica, un sottilissimo endoscopio di 2 mm di diametro, particolarmente adatto a esplorare l'addome per semplice puntura di un ago (ago di Veress) in anestesia locale.
L'asportazione della colecisti ha costituito il primo esempio di c. laparoscopica e si è subito dimostrata di esecuzione semplice, per la facilità della sua deconnessione anatomica: anzi, in visione ingrandita e con il laser, l'intervento si presta come primo passo nell'apprendimento e, quando se n'è acquisita l'esperienza, richiede tempi operatori inferiori a quelli della c. aperta (in quanto viene anche risparmiata la chiusura dell'addome). In pratica la via laparoscopica per colecistectomia ha quasi soppiantato l'intervento aperto, riservato ormai alle forme acute e complicate.
I laparoscopisti eseguono con la tecnica chiusa (fig. 10) anche l'asportazione dell'appendice, alcuni perfino nelle forme acute e complicate (in lavaggio continuo peritoneale), per la migliore capacità operativa dell'ottica all'interno dell'addome, specie nella donna (che può essere facilmente controllata in sede ovarica d'ambo i lati). Tuttavia l'appendicectomia laparoscopica richiede più tempo dell'intervento aperto, che fra l'altro necessita di un'incisione davvero molto piccola (incisione di McBurney). In mani esperte anche la gastroplastica (fundoplicatio) per esofagite da reflusso si presta alla via laparoscopica, specie negli obesi. Le stesse prerogative hanno favorito l'allargamento delle indicazioni alla c. gastrica per 'grande obesità' (bendaggio e gastroplastica verticale), intervento molto particolare ma non difficile con gli attuali mezzi, con l'evidente vantaggio di non dover aprire una parete di grande spessore (e rischi connessi), tanto che ne risultano dimezzati sia il tempo operatorio (intorno ai 90 minuti) che la degenza (7 giorni anziché 15). Rara e discussa è invece la c. laparoscopica del colon, mentre la rettopessi laparoscopica per prolasso rettale appare indicata, anche se eseguita per ora solo in centri-pilota. Altrettanto rara e specialistica è l'asportazione laparoscopica della milza (purché aumentata di poco di volume in varie malattie del sangue) o di un surrene (per es. per tumore benigno iperfunzionante), interventi che però hanno ricevuto impulso dall'impiego della ventosa laparoscopica (e dall'endobag). Quanto all'ernia inguinale, la semplificazione tecnica da stoffa protesica (tension-free) e senza sutura (sutureless) nella c. degli interventi ambulatoriali o con ricovero breve (v. sopra), nonché la cicatrice poco visibile (incisione parallela alla piega dell'inguine), sono tutti motivi che si oppongono alla diffusione del metodo chiuso.
Anche la c. pediatrica stenta ad accogliere la modalità laparoscopica, considerata valida solo in poche indicazioni: la calcolosi della colecisti (peraltro eccezionale nel bambino), la ricerca di un testicolo non palpabile e alto-posto, le disfunzioni del giunto esofago-gastrico, lo staging di neoplasie addominali; è discutibile per l'appendicite e il varicocele (varici delle vene spermatiche all'inguine) e decisamente controindicata nel bambino piccolo per le maggiori difficoltà da sottigliezza delle strutture.
In ginecologia, al contrario, per la grande dimestichezza con la laparoscopia diagnostica, la c. laparoscopica ha avuto una forte diffusione, prestandosi alla soluzione semplificata di molte patologie: la 'bonifica' dei focolai di endometriosi (anomale isole di mucosa uterina dislocate in addome e causa di dolori mestruali e aderenze); la c. degli annessi uterini (tube e ovaie); la ricerca e la possibile soluzione immediata delle cause d'infertilità; la lisi di aderenze. È molto comune un intervento laparoscopico per cisti ovarica o per gravidanza extrauterina, come pure è utile la video-assistenza addominale quando si asporta l'utero fibromatoso dalla vagina.
Torace (chirurgia toracoscopica)
Nei centri ad alto livello specialistico la toracoscopia è stata promossa dal ruolo diagnostico a quello operativo. Alcuni interventi toracoscopici sono piuttosto semplici (in mani esperte) e non richiedono il drenaggio (e quindi il ricovero): le biopsie pleuro-polmonari, l'elisione di bolle d'enfisema, le resezioni di margini polmonari per neoformazioni benigne, le asportazioni di tumori pleurici peduncolati ecc. Altri interventi si presentano più complessi, come la riduzione polmonare per enfisema diffuso o, più in generale, gli interventi resettivi di polmone, e richiedono un piccolo accesso 'di servizio' (5 cm) sulla parete toracica per varie necessità: porta d'ingresso di strumenti non 'dedicati', libertà di manovra e porta d'uscita del pezzo operatorio. Quanto alle indicazioni per cancro polmonare v'è un conflitto di opinioni, e molti ritengono giustificata la c. toracoscopica solo in ambito palliativo e quando la c. aperta è proibitiva.
Microchirurgia
Lo sviluppo della microchirurgia in Italia è legato al nome di G. Brunelli (Brescia, fine anni Settanta). Dall'epoca del primo reimpianto di un dito - merito del giapponese Tamai (1965) - molti passi sono stati fatti dopo la principale conquista della microchirurgia: l'anastomosi dei vasi sanguigni di 0,5÷1,5 mm. Il reimpianto di una parte anatomica staccata di netto (dito, arto, pene ecc.) può riuscire se si usa l'accortezza di lavarla (non con l'alcool, che disidrata i tessuti) e di avvolgerla in un fazzoletto, o meglio in una busta di plastica con ghiaccio. Il secondo problema è di far giungere l'infortunato (con l'emorragia bloccata da un 'laccio' di fortuna, da togliere in breve tempo), insieme al suo 'pezzo', al centro di microchirurgia (o di c. della mano) più vicino, entro 2÷10 ore.
Oggi il successo negli innesti autologhi raggiunge il 70% dei casi, per merito di molti fattori: il microscopio operatorio (oppure speciali lenti [loopes] e occhiali telescopici), lo strumentario 'dedicato', i dettagli più fini di tecnica, la 'protezione' con anticoagulanti e la ricerca continua, e tuttora in corso, di dispositivi per favorire il successo nella riconnessione di vasi tanto piccoli ed esposti all'ostruzione trombotica (soprattutto le vene, a flusso lento e bassa pressione), oltre a un addestramento tenace e costante dello specialista. La stessa tecnica è valida per i lembi liberi microvascolari (v. sopra: Chirurgia oncologica) allo scopo di sopperire a perdite di sostanza, com'è valida per trasferire un viscere a distanza (per es. un'ansa intestinale 'libera', trasferita al collo per sostituire un segmento faringo-esofageo alto). Anche per i vasi linfatici esistono tecniche di micro-anastomosi linfo-venosa con vari accorgimenti, per compensare una patologia linfo-ostruttiva (linfedema degli arti inferiori, o di un 'grosso' braccio post-mastectomia ecc.). Con altrettante finezze di dettaglio possono essere ripristinate le vie spermatiche (microchirurgia dei deferenti) per infertilità maschile, o le tube di Falloppio per infertilità femminile. Il neurochirurgo ha nel microscopio operatorio lo strumento abituale per delicati interventi sul sistema nervoso (encefalo, midollo spinale e nervi periferici). Anche la c. dell'ernia del disco oggi è dominata dalla tecnica microchirurgica, ottimale per l'economicità dell'accesso e la precisione operativa. Infine, abbinato al laser, il microscopio operatorio è determinante nella c. dell'occhio e delle corde vocali.
Chirurgia specialistica
È difficile individuare i confini tra c. generale e branche specialistiche, per le sovrapposizioni inevitabili sia nella letteratura medica sia nella pratica. Tuttavia proprio in campo clinico si tende a demarcare sempre più questa distinzione, nei reparti ospedalieri come nell'addestramento professionale. Del resto, l'approfondimento culturale e tecnico quasi costringe a una scelta precisa, per il gran numero di novità che ogni giorno subentrano nelle specifiche professioni. Al riguardo, va scomparendo la figura del maestro onnisciente e va precisandosi, negli allievi e nelle nuove generazioni, il ruolo di cultore della materia. Quanto alle prospettive che si affacciano in ogni specialità, in parte sono state già proposte delle esemplificazioni e in parte se ne riportano altre qui di seguito, per una panoramica sulle materie chirurgiche più o meno affini.
Urologia
Abbiamo già detto della ricostruzione funzionale della neo-vescica con il cieco. Riguardo ad altre novità, citiamo qualche esempio. Dopo una resezione endoscopica della prostata (per adenoma, impropriamente detto ipertrofia prostatica), l'operato di solito perde la capacità di eiaculare perché lo sperma, non trovando più alcun ostacolo verso l'alto, nel defluire prende la via della vescica; studi ecografici recenti hanno dimostrato che se la resezione endoscopica, eseguita con il laser, risparmia un piccolo tratto inferiore della prostata (con rispetto dei dotti eiaculatori), lo sperma trova ancora un piccolo ostacolo verso l'alto e quindi nel defluire prende la via regolare verso l'esterno. Un'altra novità riguarda la donna. Quando si verifica un abbassamento vescico-uretrale (per pregressi parti 'difficili'), può comparire una saltuaria perdita urinaria (incontinenza da sforzo per colpi di tosse, riso o starnuti, stipsi abituale ecc.); in questi casi si è dimostrato adatto un intervento mini-invasivo che, eseguito da urologi o ginecologi, mira a correggere il difetto sospendendo la vescica all'osso pubico mediante robusti punti ben 'calibrati' sotto la visione endoscopica. L'intervento è molto veloce, in buone mani.
Chirurgia vascolare
Aperta o chiusa (endovascolare), questa c. è molto più affidabile che in passato. Oggi si è visto che disostruire una carotide per ripetuti little strock ('piccoli colpi' che preannunciano un ictus) non è più un rischio, data la maggiore esperienza accumulatasi negli anni. Altrettanto può dirsi riguardo all'aneurisma dell'aorta addominale, che può essere tenuto sotto controllo per anni con periodici esami ecografici, finché non sia consigliabile intervenire per evitare la rottura spontanea dell'aneurisma (un rischio che cresce fra i 4 e gli 8 cm di dilatazione aortica): l'intervento 'aperto' consiste nel sostituire il tratto alterato con un tubo di protesi (in dacron o simili). Oggi se ne operano molti di più in fase preventiva che non in fase di rottura, e ciò ha fatto scendere la mortalità dal 50 al 5% circa.
Ma gli interventi 'aperti' possono anche essere soppiantati dall'interventistica endovascolare (fig. 11): un aneurisma ancora in buone condizioni (con ottimo 'colletto' in alto, sotto le renali) può essere risolto con l'inserimento trans-catetere di un'endoprotesi espansibile 'armata' (un tubo in dacron irrobustito da una rete metallica autoespansibile alla temperatura corporea). Anche la c. delle arterie periferiche può essere sostituita dall'interventistica, e nei casi di ostruzione recidiva si può ripetere la dilatazione (angioplastica) con l'aggiunta di uno stent che ne assicuri la tenuta nel tempo (stenting-angioplastica). Se poi si tratta di un'arteriopatia molto periferica, il catetere non può giungere in vasi così sottili, e allora si ricorre a un catetere speciale con testina abrasivo-ruotante che 'polverizza' le placche in arterie anche di 1 mm di diametro (come le tibiali), particolarmente nel diabetico grave.
Cardiochirurgia
Oggi sono disponibili valvole aortiche umane, prelevate in occasione di trapianti di cuore (e spesso recuperabili perché sane), senza rischio di rigetto grazie a un pretrattamento chimico. In caso di valvola mitralica (quella situata fra ventricolo e atrio sinistri) alterata dal reumatismo, si può evitare l'intervento aperto affidandosi alla dilatazione con un catetere a palloncino di opportuna forma e dimensione. Per le coronaropatie già da anni è possibile una scelta, a seconda della patologia, fra dilatazione con palloncino, disostruzione con laser e mantenimento della pervietà con stent. Ma quando è indispensabile la c. aperta per la confezione dei bypass aorto-coronarici, in casi eccezionali si può ricorrere a un'apertura molto 'economica' della parete toracica (mini-toracotomia) ed evitare la CEC (circolazione extra-corporea), confezionando i bypass senza fermare il cuore, cioè a cuore battente. Questa tecnica è particolarmente indicata negli anziani e nei pazienti con deficit (in genere da arteriosclerosi) di vari organi (respiratorio, cerebrale, renale ecc.), impegna più la pazienza che l'abilità del chirurgo, è favorita da un rallentamento farmacologico della frequenza cardiaca (50÷60 battiti al minuto) e ha molti vantaggi: anestesia più breve (2 ore anziché 3÷4 ore), risveglio rapido e monitorizzazione postoperatoria di minor durata rispetto a quella necessaria dopo CEC.
Nel campo dei disturbi congeniti del ritmo (varie forme di tachicardia parossistica nel bambino) e delle aritmie dell'adulto lo studio elettrofisiologico trans-catetere consente d'individuare le fibre anomale responsabili del disturbo e di distruggerle subito, tramite il catetere, con una tecnica di ablazione termica a radiofrequenza. Infine, in attesa di un trapianto è possibile migliorare di molto una cardiopatia dilatativa, mediante resezione di una parte del ventricolo sinistro dilatato (intervento di Batista).
Ginecologia
In sostituzione del 'raschiamento' alla cieca un passo avanti è stato compiuto con la diffusione dell'endoscopia uterina (isteroscopia), per individuare in visione illuminata e ingrandita la causa fra le tante turbe disfunzionali (emorragie, infiammazioni, aderenze, polipi, fibromi sporgenti ecc.) in modo da curarle subito con il laser. In ginecologia è molto diffusa la c. laparoscopica (di cui si è detto: mini-ottica, video-assistenza, endobag), anche per la ricerca e la cura di ogni causa di dolore cronico (da endometriosi, da patologie delle tube o delle ovaie ecc.). Di recente è stato dimostrato che una causa molto comune di dolore cronico nella donna è la congestione venosa utero-ovarica (varicocele, soprattutto a sinistra), che si accerta con l'eco-color-Doppler (intravaginale) e si cura con l'iniezione sclerosante trans-catetere.
Chirurgia plastica
In c. estetica è stato raggiunto in molti casi l'obiettivo più ambito, quello di operare senza lasciare cicatrici visibili (agendo in modo da nasconderle): per es., per mezzo di un endoscopio si può nascondere nell'ascella la porta d'entrata di una protesi retro-mammaria gonfiabile; dalla congiuntiva si toglie l'adipe della 'borsa' palpebrale inferiore; dalla linea dei capelli si accede per il face lifting (tiraggio della faccia). Ma quando è richiesto un cospicuo cambiamento del profilo del viso è necessario rivolgersi al chirurgo maxillo-facciale, che può spostare in avanti o indietro il mento (o il mascellare superiore), dopo aver fatto scegliere al paziente il più gradito profilo virtuale ricavato da una fotografia computerizzata su un monitor.
Per la c. ricostruttiva si è già detto dei lembi liberi, degli espansori cutanei, dei lembi muscolari peduncolati, della cute autoplastica coltivata ecc. Ma esistono novità anche per la ricostruzione di parti scheletriche. Quando la perdita di sostanza è vasta, la porzione mancante è ricostruibile dapprima per immagini virtuali, poi per mezzo di una macchina automatizzata (il classico robot) che dal computer riceve le informazioni per assemblare nella forma più adatta i materiali plastici e resinosi destinati a un bioinserto (osso artificiale), che infine va introdotto chirurgicamente, insieme a fattori di crescita cellulare, nella sede scheletrica da ricostruire. Nei mesi successivi l'osso artificiale verrà gradualmente sostituito da osso rigenerato: così avviene, per es., nella riparazione di una calotta cranica. Questi robot sono una realtà in molte nazioni (USA, Giappone, Francia, Svizzera), compresa l'Italia (presso l'Istituto di chirurgia plastica ricostruttiva diretto da L. Donati, Ospedale Niguarda, Milano).
Ortopedia
Oltre alle viti assorbibili (per piccole fratture o distacchi ossei), è stata prodotta anche una colla iniettabile (miscela di sali di calcio e fosforo: SRS, Skeletral Repair System), che nei focolai di frattura cristallizza in 12 ore e viene poi rimpiazzata da osso neoformato. Per quel che riguarda le protesi sostitutive (anca, ginocchio, gomito), è in atto la loro costruzione 'personalizzata' (custom made), con l'aiuto della TC e del computer. Infine, nell'intervento per ernia del disco si è dimostrato ottimale l'uso del microscopio operatorio.
Neurochirurgia
Altrettanto può dirsi in neurochirurgia, in cui il microscopio operatorio già da molti anni aveva consentito una c. mini-invasiva, per es. per asportare tumori dell'ipofisi, la ghiandola alla base del cranio che, grazie al microscopio operatorio, può essere raggiunta per via nasale (attraverso il seno sfenoidale) senza rischio di lesione per il resto della ghiandola. Intanto va facendosi strada la neuro-endoscopia, per la costruzione di sonde sempre più sottili (2 mm di diametro), che attraverso un piccolo foro nel cranio possono raggiungere, con tecnica mini-invasiva, le cavità dell'encefalo (ventricoli cerebrali), ove si può riaprire uno scarico al liquor quando questo è bloccato da una cerebropatia ostruttiva (idrocefalo).
Un progresso di grande rilievo si è avuto con la radiologia interventistica nella cura di malformazioni vascolari cerebrali a rischio di rottura: in un caso su due è possibile chiudere definitivamente un aneurisma cerebrale con l'inserimento di una spirale metallica attraverso un catetere (fig. 12), oppure bloccare un angioma cerebrale iniettandovi, sempre trans-catetere, un collante artificiale (cianoacrilato).
Un elettrostimolatore, collegato al midollo spinale e impiantabile in una tasca sottocutanea, può aver ragione di ogni sorta di dolore cronico a distribuzione regionale, mentre progrediscono i tentativi per ottenere, con analogo metodo, la regressione del tremore nel morbo di Parkinson. Infine, già si possono anticipare i tentativi, in fase clinico-sperimentale, per ottenere un miglioramento della radicalità chirurgica lasciando un drenaggio nella sede di asportazione di un tumore maligno cerebrale, per iniettarvi anticorpi anti-tumore veicoli di un isotopo radioattivo (ittrio) ad alta dose (un metodo usato anche nella terapia dei tumori delle ovaie già operati ma con metastasi, con risultati tuttavia ancora incerti).
Otorinolaringoiatria
È ormai consolidato l'uso dell'endoscopio nella cura della poliposi recidivante, coadiuvato da altri strumenti come il nuovo micro-debrider (una sorta di tornio a testina aspirante e abrasivo-oscillante), o il microscopio-laser per 'vaporizzare' polipi e tumori delle corde vocali, o la cura chirurgica dell'otosclerosi (sostituzione della staffa, uno degli ossicini dell'orecchio medio, con un 'pistone' artificiale), o l'impianto nell'osso mastoideo di una protesi miniaturizzata dell'orecchio interno, o perfino la risoluzione di un problema finora trascurato, la roncopatia cronica (sindrome di Pickwick, da russamento), risolvibile con l'asportazione della parte sporgente del palato-molle in casi gravi di respiro interrotto durante il sonno (OSAS, Obstructive Sleep Apnea Syndrome).
Oculistica
Lenti impiantabili al posto del cristallino (per cataratta), laser 'a eccimeri' per foto-ablazione della cornea (nella miopia fino a 15 gradi), bisturi ad acqua (surijet), sono tutte conquiste recenti. L'ultima si riferisce al trapianto autoplastico di cornea coltivata, partendo da un frammento prelevato dallo stesso paziente e fatto proliferare in laboratorio sotto lo stimolo di fattori di crescita cellulare.
Etica e addestramento
La fatalità e l'errore incombono sul lavoro umano. Casi di pinze o garze dimenticate o altri incidenti vengono spesso riportati con risalto dai giornali. Forse si tratta di un aumento reale, ma è probabile che una maggiore eco sia data a questi fatti rispetto al passato. Il chirurgo sa che le precauzioni non sono mai troppe ed esige quasi un rito nelle sale operatorie: ferri e garze in numero prestabilito per ogni intervento, conta meticolosa a ogni fine seduta.
Ben si comprende come i rischi aumentino all'inizio di ogni nuova esperienza e, con la c. mini-invasiva (soprattutto laparoscopica), una nuova era si è dischiusa nella professione del chirurgo. Non far correre un rischio sproporzionato rispetto alla malattia è prima di tutto un principio etico. Ma sul piano pratico, nel 'consenso informato' - riducibile all'essenziale, non troppo dettagliato né troppo rassicurante- occorre avvertire dell'eventualità, all'occorrenza, di una conversione della c. laparoscopica o toracoscopica in un intervento tradizionale. Quando all'inizio della nuova esperienza tutto è affidato al codice di autoregolamentazione, il professionista non dovrebbe mai farsi prendere la mano da interessi economici né da ambizioni di 'primato di frontiera', mettendo a rischio il destino del paziente oltre che il prestigio dell'istituzione.
Progredire nel training significa sicurezza dell'operato. Muovere gli strumenti attraverso piccoli fori, eseguire manovre delicate in profondità guardando sullo schermo, all'esordio è difficile: in pratica, manualità e occhio costituiscono le componenti da ristrutturare nella nuova metodica. Poi s'impara a dosare le forze e le distanze, a calibrare e coordinare il gesto, finché tutto diventa naturale. Il training si basa sull'addestramento su manichino e sulla partecipazione all'intervento accanto a un esperto. Il primo passo si realizza nei corsi di perfezionamento in cui di solito l'anatomia è riprodotta in un manichino a forma di addome (una grande scatola di plastica soffice), in cui s'introducono e si azionano gli strumenti guardando sullo schermo. Nel manichino organi animali o di plastica fungono da bersaglio per l'allenamento. Attualmente si ha di meglio: la realtà virtuale. Come esiste per l'allievo-pilota il simulatore di volo, così esiste per l'allievo-laparoscopista il simulatore di anatomia. Nel manichino (vuoto, ma ad aria compressa) un computer registra le manovre dell'allievo e le trasmette sul video, in cui appare lo strumento manovrato. Contemporaneamente viene trasmesso sul monitor uno scenario anatomico (memorizzato e visibile a tre dimensioni), mentre la sensazione tattile nel manichino è simile a quella naturale (per l'aria compressa). Dunque l'allievo impara sul video i gesti nello 'scenario' anatomico registrato, che si può scegliere di volta in volta: dal normale al patologico, donna o uomo, bambino o adulto, magro o grasso ecc., mentre ogni atto può variare dal taglio al coagulo, legatura o sezione, distacco o anastomosi viscerale ecc. Terminato l'addestramento sul manichino, si passa alla seconda fase, che consiste nel 'fare il secondo' all'esperto direttamente al tavolo operatorio, fino all'eventuale abilitazione rilasciata dal corso didattico.
Fin qui l'esordio, poi la riflessione. Oggi si è giunti al problema di regolamentare la nuova frontiera sul piano ufficiale, con linee guida di società scientifiche autorevoli (come avviene negli USA) che indichino direttive di comportamento, classifica di gravità, fattori di confronto tra varie tecniche (anche rispetto alla c. tradizionale) e obiettività nei rapporti fra operando e operatore, detentore quest'ultimo del 'potere di cura'. Basti un esempio: nel modulo di 'consenso informato', scritto dal chirurgo e firmato dall'operando, tra diagnosi e proposta va sempre riportata la condizione di gravità. Ma sorge un quesito: nelle classi ASA (v. sopra: Interventi ambulatoriali o con ricovero breve), cosa s'intende per patologia 'moderata'? Si possono fornire criteri obiettivi per ogni caso specifico? Se ne attendono riflessioni e conferme.
Prospettive
Alle soglie del Duemila, ci si chiede quali siano i problemi lasciati aperti dalla ricerca in chirurgia. Partiamo da quanto è in itinere. Nello strumentario della c. mini-invasiva è già disponibile l'occorrente: strumenti chirurgici di 2÷3 mm di diametro (micrograsper, microforbici e ogni altra sorta di sottilissime 'armi'), a tutto vantaggio di un'invasività ancor più ridotta, per una c. ancor più sofisticata. Nel campo delle biotecnologie, intese come preziosi ausili per l'opera del chirurgo, soprattutto nella lotta contro i tumori, si stanno affacciando quelli che, con felice intuizione, P. Ehrlich definì, alla fine dell'Ottocento, "proiettili magici": anticorpi di laboratorio da usare come 'veicoli' di radioisotopi per guidare la mano del chirurgo sulle metastasi, o di chemioterapici per distruggere cellule neoplastiche residue sul terreno operato di un cancro (v. sopra: Chirurgia oncologica). Si aggiungano i fattori di crescita cellulare e la produzione in laboratorio di tessuti autoplastici, provenienti dal malato stesso, per le più varie componenti (cute, mucose, sierose, cartilagine, osso, perfino cornea). Infine, salvo altre importanti frontiere (quali l'ingegneria genetica), occorre riflettere sulle prospettive aperte dall'acquisizione di organi trapiantabili da animali: una volta scoperta nello xenotrapianto l'importanza della 'via alternativa del complemento' (un sistema composto da proteine fondamentali per la risposta immunitaria), occorre, quindi, valutare le prospettive aperte dagli animali transgenici (per es., maiali 'umanizzati' del gruppo di Calne, Cambridge, UK) o dagli organi chimerici (fegati da babbuini pretrattati con 'cellule dendritiche' di midollo umano, per annullarne la reazione anti-ospite: gruppo di ricerca di Starzl, Pittsburgh, USA). Impossibile prevedere gli sviluppi di tutto questo, nel futuro della chirurgia.
Internet e robotica. - Grazie alla possibilità di trasmettere impulsi elettronici per via telefonica (tramite modem) e alla rete mondiale di comunicazione (Internet), l'interscambio avviene in tempo reale, con evidenti benefici per il singolo (consultazione di riviste, ricerche bibliografiche più rapide) e per la comunità (studi multicentrici, video-conferenze, congressi chirurgici in collegamento). Il vantaggio si estende alla pratica. Si è sviluppata, da anni, la teleconsulenza (con l'invio di immagini, radiografiche e televisive, a superesperti, per una risposta immediata), ma l'ultima conquista riguarda la possibilità di eseguire un intervento a distanza. Questa telechirurgia è possibile proprio come il comando a distanza di un robot usato per disinnescare una carica esplosiva. Con la stessa modalità si possono ordinare a un robot, anche da un'altra parte del mondo, atti della massima precisione (cfr. Atti del 98° Congresso della Società italiana di chirurgia, a cura di L. Angelini, 4 voll., Roma 1996). Sulla c. robotica, v. ingegneria biomedica: Bioingegneria, in questa Appendice.
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Anestesia chirurgica
di Germano De Cosmo
Classificazione
L'esecuzione di interventi chirurgici e di manovre strumentali, diagnostiche e terapeutiche particolarmente indaginose, è divenuta possibile grazie all'impiego dell'anestesia chirurgica, termine che genericamente definisce le seguenti differenti metodiche: anestesia generale (inalatoria ed endovenosa); anestesia loco-regionale; anestesia locale.
Tra queste, l'anestesia generale ha conseguito i progressi più tangibili e tratto i maggiori vantaggi dal miglioramento delle conoscenze fisiopatologiche, dall'introduzione di nuovi farmaci anestetici e, soprattutto, dall'utilizzazione di tecnologie avanzate quali le apparecchiature di monitoraggio e di supporto delle funzioni vitali. Lo sviluppo e la complessità raggiunti da questa disciplina presuppongono che l'atto anestesiologico sia eseguito direttamente dal medico specialista, l'anestesista, o attuato sotto la sua supervisione, e che il ruolo dell'anestesista non si esaurisca nella fase intraoperatoria ma interessi anche la fase pre- e postoperatoria (Roizen 1981, 1990³; Romano, Auci 1997). Le prerogative e le funzioni dell'anestesista sono, infatti, molteplici: a) valutazione e preparazione del paziente con scelta della metodica anestesiologica di concerto con il paziente stesso; b) programmazione (con valutazione del rischio operatorio) ed esecuzione dell'anestesia; c) monitoraggio e mantenimento dell'omeostasi delle funzioni vitali nella fase perioperatoria; d) controllo postoperatorio e supporto, se necessario, delle funzioni vitali; e) controllo del dolore postoperatorio.
La visita preoperatoria assurge a fase fondamentale dell'anestesia chirurgica anche se viene, spesso, sottovalutata. L'intervista con il paziente, l'esame obiettivo, la visione e il controllo degli esami strumentali e di laboratorio consentono di soppesare il rischio operatorio in rapporto alle condizioni cliniche del paziente e al tipo d'intervento. Esami supplementari e consulenze specialistiche possono essere richieste in questa fase, come pure la prescrizione di farmaci che siano in grado di favorire l'esecuzione dell'anestesia chirurgica o ridurre l'ansia preoperatoria. Gli ansiolitici, nella forma di benzodiazepine (diazepam, midazolam, lorazepam, triazolam), sono preferiti, mentre sostanze quali gli oppiacei, che possono determinare la comparsa di depressione respiratoria, vengono utilizzate solo raramente. Gli antistaminici, associati o meno ai cortisonici, sono comunemente impiegati nei soggetti con diatesi allergica per ridurre la frequenza di comparsa di eventi collaterali e per sfruttare l'effetto neurolettico. Sostanze che riducono il pH gastrico e/o favoriscono lo svuotamento gastrico sono somministrate nei soggetti a maggior rischio di rigurgito o vomito in particolare alle gestanti e ai soggetti a stomaco pieno. Al di là di ogni terapia farmacologica, il colloquio preoperatorio franco, sereno e possibilmente esaustivo è il cardine di ogni atto terapeutico anestesiologico, consentendo di stabilire quel necessario rapporto di fiducia tra medico e paziente (Roizen 1981, 1990³).
Anestesia inalatoria
Anestesia è un termine greco (ἀναισϑησία) che significa insensibilità. L'abolizione della percezione del dolore, pur essendo l'aspetto più rilevante dell'anestesia generale, non ne esaurisce pienamente il significato. L'anestesia chirurgica ha un senso più profondo e complesso: presuppone la già ricordata abolizione del dolore, la perdita di coscienza, la riduzione della risposta motoria e neurovegetativa allo stimolo nocicettivo. Si può, quindi, definire anestesia generale quella condizione in cui queste quattro componenti sono interessate dall'impiego di sostanze somministrate per via inalatoria e/o endovenosa: gli anestetici (Woodbridge 1957; Torri 1989). Nel primo caso si parla di anestesia generale inalatoria, nel secondo di anestesia generale endovenosa.
Nella pratica clinica una netta distinzione tra anestesia inalatoria ed endovenosa non esiste. Solo i primi anestetici inalatori, per es. l'etere e il cloroformio, erano utilizzati monofarmacologicamente e la loro concentrazione veniva modificata in rapporto alla profondità del piano di anestesia che si desiderava ottenere. Queste sostanze sono in grado di assicurare un piano di anestesia profondo, ma a dosaggi tali da condizionare la comparsa di effetti collaterali a carico dell'apparato cardiaco e respiratorio, per cui si preferisce utilizzare sostanze con differenti caratteristiche farmacologiche sfruttando le diverse proprietà: anestetici inalatori, endovenosi, farmaci adiuvanti, tanto da configurare quel tipo di anestesia definita inalatoria o endovenosa mista in rapporto al prevalente impiego dell'una o dell'altra tecnica.
Gli anestetici inalatori sono sostanze non sempre chimicamente correlate tra loro, molecole organiche e inorganiche, idrocarburi o eteri ecc., che, con un meccanismo non ancora conosciuto appieno, producono quella condizione di 'coma farmacologico' definita anestesia generale. Attualmente, a eccezione del protossido di azoto, gli anestetici impiegati sono vapori alogenati la cui sintesi e sperimentazione risale agli anni Cinquanta. Di questi meritano menzione l'alotano e l'isoflurano, utilizzati in tutto il mondo in milioni di anestesie chirurgiche, e il sevoflurano e il desflurano, gli anestetici del futuro sperimentati e approvati per l'impiego clinico solo da pochi anni. L'alotano, sintetizzato nel 1951 da C.W. Suckling e introdotto cinque anni più tardi nella pratica clinica, ha delineato una svolta storica nell'anestesia chirurgica: è un anestetico potente, maneggevole, non infiammabile, che presenta effetti collaterali maggiori rispetto agli anestetici di più recente introduzione, soprattutto per quanto riguarda l'epatotossicità e la depressione cardiorespiratoria (Kenna, Jones 1995). È stato, quindi, sostituito dapprima dall'isoflurano, commercializzato nel 1984, e recentemente, dal sevoflurano e dal desflurano. I vantaggi di questi due ultimi anestetici non appaiono trascurabili. Come tutti i vapori anestetici, essi hanno un'azione depressiva dose-dipendente sulle funzioni vitali, apparato respiratorio, cardiaco e cerebrale, non molto differente da quella dell'isoflurano ma sicuramente inferiore a quella dell'alotano. La loro ridotta solubilità nel sangue comporta una rapida cinetica di assorbimento ed eliminazione dell'anestetico, che si concretizza in un rapido approfondimento del piano di anestesia e in un pronto recupero dello stato di coscienza e delle funzioni vitali in presenza di un metabolismo, e una tossicità sicuramente inferiore a quella dell'alotano e dell'isofluorano (Peduto 1986; Eger 1992; Frink, Malan, Atlas et al. 1992; Kenna, Jones 1995; Patel, Goa 1996).
La somministrazione degli anestetici inalatori è resa agevole e sicura dall'impiego di vaporizzatori che erogano con precisione la quantità di anestetico prestabilito. La concentrazione impostata viene regolata in rapporto a vari fattori: tipo di anestetico, potenza anestetica, proprietà intrinseca di ogni molecola che dipende principalmente dalla solubilità della stessa nel sangue e nei tessuti, tipo di paziente, età dei soggetti, condizione clinica preesistente e tipo d'intervento.
Farmaci di blocco neuromuscolare
La conoscenza di sostanze ad azione di blocco della funzione muscolare, i cosiddetti curari, risale al Cinquecento, ma si è dovuto attendere il 1942 perché H.R. Griffith e G.E. Johnson li utilizzassero per la prima volta in anestesia. Sebbene i primi risultati non fossero lusinghieri, tanto che poco dopo una pubblicazione scientifica dimostrò un aumento della mortalità anestesiologica correlata al loro impiego, i curari si dimostrarono talmente idonei che la loro utilizzazione non fu abbandonata, ma fu migliorata da un loro più razionale impiego e dall'introduzione di molecole con minore tossicità sistemica e con ridotta durata d'azione. Soprattutto, l'affinamento delle tecniche anestesiologiche atte a mantenere la pervietà delle vie aeree e, quindi, un'adeguata ossigenazione, ha fatto sì che queste sostanze siano, attualmente, impiegate nella totalità degli interventi di c. maggiore.
La miorisoluzione consente l'esecuzione di interventi addominali e toracici su un campo operatorio immobile e ben esposto, riducendo la quantità di anestetico necessaria. Il meccanismo di azione di queste sostanze è complesso, anche se per esemplificare si può dire che esse impediscono la normale contrazione producendo una paralisi muscolare. Normalmente la liberazione da parte dei neuroni motori di una sostanza chimica, l'acetilcolina, a livello di una zona determinata del muscolo - la placca neuromuscolare, zona densa di recettori -, produce una congrua risposta muscolare. Questa regione, specializzata nel ricevere e trasmettere messaggi chimici, è la chiave di volta dell'azione dei miorilassanti che agiscono prevalentemente a livello della placca, da un lato interferendo con il rilascio e/o l'immagazzinamento dell'acetilcolina nel neurone e, dall'altro, bloccando il recettore che dà origine alla depolarizzazione del muscolo striato.
Gli agenti di blocco neuromuscolare, in rapporto al loro meccanismo d'azione, vengono classificati in depolarizzanti e non depolarizzanti. I miorilassanti depolarizzanti, succinilcolina e decametonio, mimano la normale funzione dell'acetilcolina depolarizzando la membrana muscolare e bloccando la responsività solo per un breve periodo. La grande popolarità della succinilcolina, unico farmaco depolarizzante ancora utilizzato in determinate situazioni cliniche, risiede nel rapido inizio d'azione e nella breve durata. Gli effetti collaterali, talora potenzialmente fatali, hanno portato alla ricerca e alla sintesi di sostanze di blocco neuromuscolare ad azione non depolarizzante ma con caratteristiche sovrapponibili alla succinilcolina.
I miorilassanti non depolarizzanti, classificati in benzilisochinolinici e steroidei, presentano nella loro struttura un atomo di ammonio quaternario che si lega reversibilmente ai recettori della placca muscolare impedendo l'espletamento dell'azione dell'acetilcolina (Partridge 1993). Al gruppo dei benzilisochinolinici appartengono i primi miorilassanti non depolarizzanti: la destrotubocurarina, farmaco capostipite e prototipo di questa serie, il dossacurio, l'atracurio, il mivacurio e il cisatracurio, di più recente introduzione. Caratteristica di questo gruppo è l'elevata potenza, lo scarso effetto tachicardizzante e la ridotta liberazione di istamina, sostanza che produce l'effetto collaterale più rilevante dal punto di vista clinico: vasodilatazione periferica e ipotensione. Delle ultime due molecole introdotte nella farmacopea, il cisatracurio dimostra una ridotta propensione alla liberazione di istamina, mentre il mivacurio ha il vantaggio di una breve durata di azione, solo di poco superiore a quella della succinilcolina.
I miorilassanti steroidei hanno una storia più recente. Il primo miorilassante steroideo introdotto, il pancuronio, presenta un'azione tachicardizzante e, al pari del pipecuronio, una lunga durata di azione che ne limitano l'impiego. I più recenti farmaci di questo gruppo, il vecuronio e il rocuronio, hanno perduto tali effetti collaterali, e, anzi, l'ultimo è il miorilassante non depolarizzante che ha una rapidità di azione solo di poco superiore alla succinilcolina.
Cenni di tecnica di anestesia inalatoria
L'anestesia generale monofarmacologica che prevede l'impiego di una sola sostanza non è più proponibile, se non in determinate situazioni cliniche, quali per es. la c. neonatale e pediatrica. Negli altri casi, generalmente, viene preferito l'impiego di un ipnotico somministrato per via endovenosa che induce rapidamente la perdita della coscienza, seguito come mantenimento da anestetici endovenosi o inalatori. Farmaci adiuvanti, tra cui gli analgesici e i miorilassanti, favoriscono l'ottenimento di un piano di anestesia adeguato al tipo e al momento dell'intervento. Cardine dell'anestesia è il controllo della pervietà delle vie aeree, della ventilazione e dell'ossigenazione, che può essere ottenuto in vario modo: assistenza con maschera facciale, impiego della maschera laringea, della cannula orofaringea cuffiata, o più comunemente mediante intubazione tracheale. Quest'ultima metodica, senza dubbio la più sicura anche se non scevra da rischi e complicanze, prevede il posizionamento di una protesi tracheale in grado di isolare le vie aeree dalle influenze esterne (Romano 1997).
Indicazioni e complicazioni dell'anestesia inalatoria
L'anestesia chirurgica, non avendo un vero e proprio ruolo terapeutico, non può essere avulsa dal contesto delle altre specialità mediche e chirurgiche, e svolge una funzione indispensabile nell'attuazione di interventi chirurgici più o meno complessi e di indagini diagnostiche e strumentali più o meno cruente. In questi ultimi anni si è assistito a un incremento della richiesta di prestazioni anestesiologiche per numerose ragioni: incremento della vita media, con aumento, quindi, del numero di interventi chirurgici di carattere curativo e palliativo anche in soggetti di età avanzata o in soggetti in condizioni critiche e, soprattutto, interventi a carattere funzionale ed estetico. Questo si è reso possibile grazie al miglioramento delle tecniche anestesiologiche e di monitoraggio che hanno contribuito a ridurre frequenza e gravità delle complicanze (la cosiddetta morbosità) e, soprattutto, della mortalità attribuibile esclusivamente all'atto anestesiologico. Interventi complessi in pazienti a rischio vengono portati a termine con una morbosità e mortalità relativamente ridotte e con una degenza postoperatoria sempre più contenuta, mentre interventi chirurgici non particolarmente complicati, indagini diagnostiche e terapeutiche relativamente complesse e fastidiose sono, generalmente, risolti in termini di una degenza giornaliera o limitata a poche ore. A fronte di questi innegabili progressi l'anestesia generale è, tuttavia, gravata da complicanze che, fortunatamente, solo di rado possono risultare fatali o dare esito a lesioni cerebrali o funzionali gravissime e permanenti. Queste, sebbene eccezionali e in continua riduzione, non sono completamente eliminabili nonostante il miglioramento delle tecniche anestesiologiche e l'introduzione di farmaci maneggevoli e sicuri.
Ogni attività umana è strettamente dipendente dal corretto funzionamento e dall'esatta interpretazione di apparecchiature elettroniche e, comunque, non è scevra da errori, distrazioni, fatalità, per cui le complicanze potranno essere ridotte, mai annullate. Questo non vuol dire che la complicanza intraoperatoria sia legata solo ed esclusivamente all'errore umano: la mortalità e la morbosità sono nella quasi totalità dei casi correlate alle problematiche del paziente, alla complessità della patologia preesistente e al tipo d'intervento. Solo eccezionalmente l'anestesia è l'unica responsabile della complicanza, raramente può essere una concausa. La delicatezza dell'argomento non consente di ottenere statistiche precise, anche se la maggior parte delle complicanze intraoperatorie, alcune delle quali potenzialmente fatali, viene risolta prontamente e favorevolmente grazie alla preparazione degli operatori e alle corrette metodiche di monitoraggio. La mortalità attribuibile esclusivamente all'anestesia chirurgica è molto bassa, da 1:10.000 a 1:400.000, secondo le statistiche da cui è stata estrapolata. La maggiore incidenza di complicanze anestesiologiche perioperatorie è ascrivibile a problemi di tipo respiratorio: impossibilità di ventilare e di assicurare un'adeguata ossigenazione. Le complicanze operatorie, quindi, non sono sempre in relazione con la patologia preoperatoria del paziente, ma piuttosto legate a una determinata conformazione fisica o alla presenza di patologie delle vie respiratorie superiori. Non meraviglia, pertanto, che una fallita intubazione, l'impossibilità di mantenere pervie le vie aeree, la comparsa di broncospasmo, l'inalazione di materiale gastrico siano tutte complicanze temibili e potenzialmente fatali. Quelle di tipo cardiologico, aritmie, arresto cardiaco, shock anafilattico, sono più rare e, comunque, incidono meno sulla mortalità (Cooper, Newbower, Kitz 1984; Lunn 1989).
Anestesia endovenosa
L'anestesia endovenosa non è una tecnica completamente nuova, visto che ha mosso i primi passi negli anni Trenta con l'introduzione dei barbiturici nella pratica anestesiologica. Tra questi il tiopentale (il noto Pentothal sodium®) ha svolto un ruolo di primaria importanza nella storia dell'anestesia, tanto che dopo più di 60 anni (fu sperimentato da J.S. Lundy nel 1934) viene ancora utilizzato come farmaco induttore dell'anestesia. L'inizio dell'azione è ultrabreve (25÷30 secondi), ma è invece lunga la durata di azione; per problemi di accumulo non se ne raccomanda l'impiego in infusione continua, così che per il mantenimento dell'anestesia generale vengono preferiti altri farmaci. Comunque il tiopentale a diversi dosaggi e per obiettivi precisi è stato ed è ampiamente utilizzato come induttore dell'anestesia. Di contro l'anestesia totalmente endovenosa (TIVA, Total Intravenous Anesthesia) propriamente detta è una metodica alternativa all'anestesia inalatoria e prevede il controllo delle varie componenti dell'anestesia, perdita di coscienza, miorisoluzione, analgesia e riduzione dello stress, con l'impiego di soli farmaci somministrati per via endovenosa.
Le metodiche sono differenti e prevedono il bolo singolo, la somministrazione intermittente e l'infusione continua. Lo sviluppo di questa metodica di anestesia è relativamente recente: si è verificato in questi ultimi anni dopo l'introduzione di farmaci a favorevole profilo farmacocinetico e farmacodinamico somministrati con apparecchiature tecnologicamente molto avanzate. In effetti, i nuovi farmaci anestetici a rapido metabolismo e pronta eliminazione permettono una rapida e dolce induzione dell'anestesia seguita da un mantenimento della stessa adeguato al tipo di c. e al momento dell'intervento. La chiave di volta della metodica è, comunque, l'introduzione di sostanze a breve emivita che possono essere impiegate in interventi di breve e lunga durata senza provocare accumuli. Ipnotici come il propofol, benzodiazepine a durata di azione intermedia, il midazolam, la commercializzazione di oppioidi come l'alfentanil a durata di azione intermedia e, soprattutto, il remifentanil, oppioide il cui effetto farmacologico non supera i 10 min, e che quindi non provoca effetti indesiderati a distanza - si fa riferimento quasi esclusivamente alla depressione respiratoria -, l'impiego di miorilassanti a durata di azione breve o intermedia hanno dato impulso all'anestesia endovenosa. Inoltre, la somministrazione dei farmaci con pompe da infusione che consentono di variare con rapidità e precisione la velocità di infusione al fine di mantenere il piano di anestesia desiderato e di modificare, in rapporto alle esigenze, la concentrazione ematica (proprio come avviene per l'anestesia inalatoria) ha dato nuovo impulso alla metodica.
Un ulteriore miglioramento tecnologico è da attribuire alla possibilità di modulare, come avviene per il propofol, l'infusione della sostanza con pompe programmate da un computer dotato di un software sviluppato ad hoc per quel determinato farmaco. La velocità d'infusione viene modulata in base ai dati antropometrici e alla concentrazione plasmatica che si desidera ottenere, la target-controlled infusion. Con questi presupposti la metodica endovenosa diviene alternativa a quella inalatoria e, al pari di questa, versatile e sicura, consentendo un rapido approfondimento del piano di anestesia e un'altrettanto rapida ripresa dello stato di coscienza e delle funzioni vitali. Il pregio maggiore di queste metodiche è non solo quello di ridurre l'incidenza di alcuni effetti collaterali quali la nausea e il vomito, ma anche di controllare l'inquinamento ambientale provocato dagli anestetici inalatori diminuendo sia le polluzioni in sala operatoria, sia il 'buco' dell'ozono. Se si eccettua la presenza di allergia per i farmaci endovenosi da somministrare, non esistono controindicazioni assolute all'anestesia endovenosa, e anche l'incidenza di complicanze e il rischio anestesiologico non differiscono significativamente dalle altre metodiche di anestesia (Vincenti, Giron, Feltracco et al. 1989; Taylor, White, Kenny 1993).
Anestesie periferiche
Anestesia spinale ed extradurale
Alcuni tipi di intervento (si fa riferimento alla c. delle estremità inferiori del corpo e del basso addome) possono essere eseguiti in anestesia spinale (subaracnoidea) o extradurale (peridurale, epidurale), metodiche di anestesia loco-regionale che bloccano reversibilmente le afferenze, dolorifiche, termiche e, generalmente, anche tattili, provocando nella maggior parte dei casi anche un blocco della funzione motoria in presenza di uno stato di coscienza integro. L'anestesia spinale presuppone la somministrazione dell'anestetico locale nel liquido cefalo-rachidiano dove esercita la sua azione, mentre nell'anestesia peridurale l'anestetico viene depositato nello spazio extradurale, spazio pressoché virtuale, compreso tra la dura madre e il canale vertebrale (Regional anesthesia, 1996). Entrambe le metodiche possono essere utilizzate in modo continuo impiegando un cateterino nello spazio peridurale o, meno frequentemente, nello spazio subaracnoideo, attraverso il quale può essere somministrato l'anestetico. Le due tecniche presentano alcune differenze: l'anestesia peridurale presenta minori rischi di cefalea, l'induzione dell'anestesia è più lenta e può essere circoscritta a determinati metameri somministrando dosi progressive di anestetico al fine di produrre analgesia solo in determinati distretti. Rispetto all'anestesia spinale richiede una quantità di anestetico più elevata, è tecnicamente più complicata e l'incidenza di fallimenti è maggiore (Bromage 1978).
Principali farmaci per anestesia locale
Gli anestetici locali sono farmaci che bloccano reversibilmente la trasmissione di stimoli, tra cui quelli nociccettivi, che si propagano lungo i fasci nervosi del sistema nervoso periferico sino a raggiungere quello centrale. In rapporto alla sede d'iniezione, al tipo e alla dose di anestetico impiegato, possono interessare anche l'attività motoria e il sistema nervoso autonomo. Si deve a K. Koller, nel 1884, la scoperta del primo anestetico locale, la cocaina, utilizzata per la c. oftalmica. Tuttavia gli effetti tossici e la possibilità di dipendenza hanno portato all'introduzione di altre sostanze.
Gli anestetici locali hanno nella loro struttura una componente aminica, una componente aromatica e una catena intermedia che determina la classificazione degli stessi in aminoesteri e aminoamidi. I primi a essere stati sintetizzati sono gli aminoesteri: la procaina è il prototipo di questo gruppo; segue la clorprocaina e la tetracaina. Successivamente sono stati sintetizzati gli anestetici amidici, lidocaina, prilocaina, etidocaina, mepivacaina, bupivacaina e soprattutto la ropivacaina (che in ordine di tempo è l'ultima sostanza sintetizzata). Quest'ultima presenta una struttura intermedia tra la mepivacaina e la bupivacaina e ha la caratteristica unica di essere presente in soluzione solo nella sua forma attiva levogira. Questa formulazione consente di avere una sostanza attiva con minori effetti tossici sistemici (Varassi, Celleno, Capogna 1992²; Morrison, Emanuelsson, McClure et al. 1994). Recentemente è stata commercializzata un'emulsione di due anestetici, prilocaina e lidocaina, in grado, a differenza degli altri anestetici precedentemente in commercio, di penetrare lo strato corneo e assicurare un'anestesia cutanea. Con questa metodica piccoli interventi sulla cute o sulle mucose possono essere eseguiti evitando l'infiltrazione di anestetico (Buckley, Benfield 1993).
Indicazioni e controindicazioni dell'anestesia locale
Il campo di applicazione dell'anestesia locale e loco-regionale è molto ampio: consente l'esecuzione di interventi piccoli ma anche di interventi di una certa rilevanza se si utilizzano le altre tecniche di anestesia loco-regionale: anestesia subaracnoidea, extradurale, plessica. Blocchi di singoli tronchi nervosi, per es. nervo sciatico, femorale e dell'otturatorio, consentono di eseguire interventi chirurgici sulla gamba e sul ginocchio. Meno invasivi ma egualmente efficaci sono i blocchi del nervo ileo-inguinale e ileo-ipogastrico che, associati all'anestesia per infiltrazione, consentono l'esecuzione di un certo numero di interventi tra cui quello di erniotomia.
Si tende, come si nota, a eseguire blocchi sempre più periferici per ridurre le rare ma possibili complicanze dovute alla penetrazione dell'ago in una struttura nervosa centrale. Come esempio si può riportare l'aracnoidite, che è una complicanza tardiva e disabilitante che insorge dopo anestesia spinale o peridurale e può esitare in dolori lombari sino alla comparsa del deficit motorio. Verosimilmente è provocata non dall'anestetico iniettato ma da conservanti presenti nei principi attivi, tanto che questa complicanza è divenuta ancora più rara, se non è addirittura scomparsa, dopo l'introduzione di sostanze prive di conservanti. Non esente da rischi di lesioni, generalmente fastidiose ma fortunatamente temporanee, è l'esecuzione di blocchi plessici o di fasci nervosi. La loro frequenza è ridotta utilizzando aghi smussi e servendosi dello stimolatore che evita l'induzione delle cosiddette parestesie, fastidiose e talora pericolose, aumentando nel contempo la frequenza di successi con una minore quantità di anestetico iniettato.
Le controindicazioni assolute all'esecuzione di anestesie periferiche sono rare: il rifiuto della metodica proposta, la presenza di coagulopatie o infezioni locali, un'idiosincrasia all'anestetico locale, situazione peraltro del tutto eccezionale se si utilizzano gli anestetici locali di tipo amidico. Con queste metodiche, interventi superficiali o sulle estremità possono essere eseguiti con relativa sicurezza in anestesia locale o loco-regionale, anche se, in realtà, non sembra si possa rilevare una significativa riduzione della morbosità e mortalità negli interventi vascolari.
Tecniche speciali di anestesia
I progressi anestesiologici consentono di eseguire interventi chirurgici in situazioni definibili parafisiologiche, raggiungendo obiettivi altrimenti difficilmente ottenibili. Ne sono un esempio l'ipotensione controllata indotta farmacologicamente e l'ipotermia intenzionale, situazioni che si configurano potenzialmente fatali se non eseguite correttamente e sotto stretta sorveglianza. L'ipotensione controllata ha la funzione di ridurre il sanguinamento o rendere esangui campi operatori molto piccoli. Pur utilizzata in molti interventi, il suo campo precipuo riguarda gli interventi di aneurismectomia cerebrale e la c. dell'orecchio medio.
Originariamente l'ipotensione veniva ottenuta in maniera non sempre ottimale con metodiche che prevedevano l'associazione di elevate concentrazioni di farmaci anestetici e di un blocco spinale o peridurale, o l'impiego di sostanze ad azione ganglioplegica. Attualmente non viene più sfruttato l'effetto ipotensivo dell'anestetico, ma si è soliti ricorrere a sostanze a breve durata di azione che posseggono effetti vasodilatatori sul letto vascolare arterioso o venoso. Tra questi il nitroprussiato di sodio e la nitroglicerina e, in alcune situazioni, anche l'adenosina, sono i farmaci più sicuri. La breve emivita rappresenta una sicurezza poiché l'interruzione della somministrazione del farmaco rende prontamente reversibile l'effetto ipotensivo ma impone un'infusione strettamente controllata da una pompa, la cui velocità è programmata in rapporto alla risposta individuale e al livello di ipotensione desiderato. In ogni caso il monitoraggio della pressione arteriosa è imperativo e prevede, previa incannulazione di un'arteria (radiale, pedidia e femorale), un controllo accurato soprattutto della pressione arteriosa media che, com'è noto, è un appropriato indice di perfusione degli organi. Una pressione media inferiore ai 50÷60 mmHg non è generalmente raccomandata, anche se si monitorizzano le funzioni vitali degli organi più vulnerabili: cuore, cervello e rene. Di queste l'attività cerebrale è quella di più difficile monitoraggio, tanto che sono state riportate lesioni ischemiche cerebrali, la frequenza e la gravità delle quali possono essere solo in parte ridotte dall'impiego di farmaci, barbiturici, e dall'ipotermia.
Per ridurre le sequele cerebrali si può far ricorso ad altre tecniche speciali utilizzate in anestesia, come l'ipotermia, lieve, moderata e profonda (Javorski 1994). È noto come la riduzione della temperatura riduca il metabolismo e induca un'aumentata resistenza all'ischemia. Introdotta da J.H. Talbot nel 1941 come ipotermia profonda negli interventi di cardiochirurgia, ebbe grande popolarità. Inizialmente si otteneva un arresto cardiaco ipotermico introducendo il paziente in una vasca ghiacciata. Neonati con patologie cardiache congenite raffreddati a 24 °C di temperatura esterna e 20 °C di temperatura interna sopportavano senza danni cerebrali l'arresto di circolo per 60 minuti. Capacità di ripresa sorprendenti si sono ottenute sperimentalmente anche per più lunghi periodi di ischemia. In cardiochirurgia, soprattutto, l'ipotermia viene ottenuta con la circolazione extracorporea che consente un raffreddamento e un riscaldamento progressivo sino a raggiungere la temperatura desiderata, permettendo anche in questo caso l'esecuzione di interventi a cuore fermo. L'attuazione dell'ipotermia richiede un accurato monitoraggio delle funzioni vitali. La riduzione della temperatura produce, infatti, numerose e rilevanti modificazioni fisiologiche di tutti gli organi e apparati, modificazioni che non sempre sono favorevoli e auspicabili. Non di meno è l'unica tecnica che consente di ottenere una notevole riduzione del consumo di ossigeno rivestendo, sotto molti aspetti, un ruolo protettivo nei confronti degli organi nobili (cervello, cuore, fegato).
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