Metz, Christian
Teorico del cinema francese, nato a Béziers il 12 dicembre 1931 e morto suicida a Parigi il 7 settembre 1993. È considerato il padre della semiologia del cinema e lo sviluppo del suo pensiero appare come il tracciato coerente di uno studioso attento al dibattito contemporaneo, in grado di porre alla disciplina di riferimento domande dalla forte componente epistemologica, orientate a delineare le condizioni logiche di un'analisi critica competente e adeguata, e ad approfondire il ruolo della funzione spettatoriale. Si rivela questa una delle eredità fondamentali lasciate da M. agli studiosi di cinema: aver spinto l'interrogativo sullo spettatore fino al territorio affascinante dell'origine prima di ogni rappresentazione simbolica.Dopo aver compiuto gli studi di lettere classiche all'École normale supérieure di Parigi, fu ricercatore presso il CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique). Membro della sesta sezione dell'École pratique des hautes études (poi École des hautes études en sciences sociales) accanto a R. Barthes, G. Genette, Tz. Todorov, ne divenne in seguito direttore di ricerca svolgendovi un'intensa attività didattica.Fin dai primi saggi, dedicati agli 'approcci fenomenologici al film' (À propos de l'impression de réalité au cinéma e Remarques pour une phénoménologie du narratif, entrambi inseriti in Essais sur la signification au cinéma, 1968; trad. it. Semiologia del cinema, 1972) appare chiara l'intenzione di M. di portare l'attenzione sul significante in quanto tale, vale a dire sulle proprietà del dispositivo cinematografico, tentando per questa via uno studio scientifico del cinema. In questi saggi M. eredita la tradizione non lontana della filmologia della Sorbona, interessata per lo più a una psicologia della percezione applicata al cinema, la tradizione baziniana del 'cinema della realtà' e quella degli studi linguistici sulle metodologie di analisi del racconto. In queste riflessioni iniziali M. definisce le coordinate principali del suo approccio al cinema: l'attenzione a quanto di specifico caratterizza il rapporto tra il cinema e lo spettatore, e l'attenzione alla narratività come 'forma antropologica' sulla quale si basa ogni articolazione di linguaggio.
Nel contesto a lui contemporaneo, in cui la semiologia stava assumendo un'importanza strategica nel rinnovamento degli approcci interpretativi ai testi della letteratura e delle arti, M., con i suoi primi studi di carattere propriamente semiologico, fu tra i pochi che si posero prioritariamente il problema della definizione dei limiti, del grado e dell'ambito di applicabilità al cinema delle metodologie linguistiche, obbedendo al desiderio di affrancare la critica cinematografica dal soggettivismo e da apriorismi ideologici (v. anche linguaggio del cinema). Il risultato fu di grande interesse, perché sancì in modo netto l'arbitrarietà di un'applicazione diretta e puntuale dell'insieme di quelle metodologie al fenomeno cinematografico. Risultò essere applicabile soltanto la generale istanza di sistematicità che sta a monte di quel sistema, e le proposizioni più generali in cui quell'istanza si determina. L'argomentazione teorica che portò lo studioso a queste conclusioni fu l'osservazione che il cinema non presenta le condizioni che i linguisti considerano necessarie perché un fenomeno possa essere definito come lingua. Il cinema infatti, osserva M., non presenta né la prima né la seconda articolazione, e neppure un vero e proprio paradigma, nel senso che a questo termine viene dato dai linguisti. Non presenta la prima articolazione perché non vi sono rintracciabili le unità minime provviste di significato che nelle lingue dei linguisti sono costituite dai morfemi. In particolare, al contrario di quanto comunemente ritenuto, alle parole non equivalgono le inquadrature, unità minime della catena di montaggio, che ‒ per il loro statuto assertivo, per il fatto di essere potenzialmente infinite e per il fatto di essere invenzioni del cineasta ‒ sono piuttosto simili a frasi. Quanto alle unità di seconda articolazione delle lingue, vale a dire ai fonemi, unità minime sprovviste di significato, neppure queste, osserva M., sono rintracciabili nel cinema. Se al fonema si arriva suddividendo per così dire le parole, un analogo procedimento applicato all'inquadratura cinematografica non porterà al medesimo risultato. Ritagliando porzioni di significante, infatti, si ritagliano al tempo stesso porzioni di significato (un pezzetto di cielo, o del volto di un personaggio, o della tappezzeria che fa da sfondo all'inquadratura ecc.).
Il paradigma, infine, vale a dire la terza condizione richiesta per l'esistenza di una lingua, costituisce anch'esso un motivo problematico nel caso del cinema, per il quale M. arriva a formulare l'esistenza di un paradigma di sintagmi: uniche regole grammaticali rintracciabili nel cinema sembrano essere quelle dell'articolazione sintagmatica, che da fatti puramente stilistici (per es., l'invenzione del montaggio parallelo da parte di David W. Griffith) diventano, grazie all'uso condiviso di altri cineasti, fatti grammaticali (per restare all'esempio proposto: in virtù della consuetudine, il senso del sintagma parallelo si lega a tal punto con la figura stilistica inventata da Griffith che questa assume la forza cogente di un vero e proprio elemento di codice).
Per questa via, M. arrivò al primo importante risultato teorico della sua ricerca: l'esclusione di ogni facile applicazione delle metodologie linguistiche al cinema e l'affermazione di una specificità che impone agli studiosi percorsi nuovi e originali. Questa prima fase del suo lavoro si concluse con la formulazione della 'Grande sintagmatica della colonna visiva del film narrativo', vale a dire di un codice di montaggio, risultante di otto tipi di segmenti autonomi, figure grammaticali di articolazione narrativa delle inquadrature tra loro, ognuna delle quali veicola un diverso senso sul piano causale e temporale. M. si rifà qui al concetto di 'grande unità significante' di Roland Barthes (articolazione frastica del discorso), contrapponendolo alle 'piccole' unità, fonemi e morfemi; esclude dal suo codice di montaggio il parlato del film, in quanto analizzabile con gli strumenti della linguistica, imperniando tale codice sulla sola colonna visiva, e prende in considerazione l'elemento narratività, nella convinzione che lo statuto narrativo sia proprio di ogni film, anche del più orientato a interpolazioni o negazioni della narratività.
Queste prime formulazioni sono il risultato di un atteggiamento intellettuale coerente, di studioso e ricercatore autentico, che conclude un iter iniziato con una domanda tanto diffusa quanto mal posta: il cinema è una lingua o un linguaggio? Questa domanda nasce da un vecchio equivoco destinato a tramandarsi nel tempo: quello che oppone lingua e linguaggio come codice 'forte' a codice 'debole', piuttosto che come due entità correlate, delle quali la prima è un insieme logico, il codice appunto (o gruppo di codici), mentre la seconda è pensabile piuttosto come un insieme di messaggi omogenei dal punto di vista della 'materia dell'espressione', secondo la terminologia utilizzata da L. Hjelmslev e ripresa da Metz.
A questa distinzione logica e alle sue conseguenze sul piano di una definizione di ciò che comunemente viene indicato con il termine di linguaggio cinematografico, M. dedicò Langage et cinéma (1971; trad. it. 1977), che indaga a fondo i concetti di codice, di sistema, di specificità, omogeneità ed eterogeneità (in larga misura accogliendo le osservazioni critiche dell'epistemologo Emilio Garroni, che aveva richiamato l'attenzione dei semiologi e dello stesso M. sul carattere formale dei codici e sulla conseguente loro distinzione logica dai linguaggi). Langage et cinéma costituisce un punto fermo sulle principali questioni di fondo che avevano occupato gli studiosi di semiologia del cinema, chiudendo una fase di quegli studi, non priva di confusione, dedicata prevalentemente alla ricerca di una 'lingua' del cinema come codice unico, definito per di più mediante criteri di carattere materiale, vale a dire deducendo dall'omogeneità materiale del cinema (la sua definizione tecnico-sensoriale, basata sulla materia dell'espressione) un'omogeneità codicale (il suo darsi come codice unico e sovrano, un equivalente del codice-lingua): è impossibile, osserva in quest'opera M., trattare l'insieme dei film come se questi fossero i diversi messaggi di un solo codice.
Ma se in Langage et cinéma M. volle sistematizzare l'eterogeneità codicale presente nel fenomeno cinematografico, deducendone indicazioni di rilievo per il lavoro interpretativo, egli tuttavia non rinunciò a quella ricerca della specificità che rappresenta uno degli scopi precipui del suo lavoro di questi anni. M. definisce specifico di un determinato linguaggio il codice che non può manifestarsi se non in una materia dell'espressione che presenta certi caratteri, quando il linguaggio preso in considerazione ha appunto tale materia dell'espressione. Se la parola film designa il messaggio nella sua pluralità ed eterogeneità codicale, la parola cinema designa invece l'insieme dei codici omogenei e specifici. Questi ultimi possono essere, osserva M., comuni a tutti i film (codici cinematografici generali) o comuni a certe classi di film (codici cinematografici particolari).
Sulla base di queste osservazioni, M. definisce il linguaggio cinematografico come "l'insieme di tutti i codici cinematografici particolari e generali, nel momento in cui si trascurano provvisoriamente le differenze che li separano e si prende il loro ceppo comune come se fosse realmente, e non fittiziamente, un sistema unitario" (p. 72). Conseguentemente, lo studio di un codice cinematografico (che sta sempre dalla parte della specificità) concerne sempre vari film e sempre solo certi aspetti di questi film; mentre lo studio di un sistema filmico singolare, vale a dire del sistema di un film, ha a che fare per definizione con il cinematografico e il non cinematografico, lo specifico e il non specifico. Ciò significa che un testo filmico si dà come combinazione di cinematografico ed extracinematografico, come combinazione di codici specifici e non specifici. M. sottolinea a questo proposito come la combinazione dei codici sia anche ristrutturazione: il sistema del film è qualcosa di più dell'insieme dei suoi codici, e il lavoro dell'interprete dovrà prendere in considerazione "l'operazione di 'scrittura' attraverso la quale il film, facendo leva su tutti questi codici, modificandoli, combinandoli, facendoli 'giocare' gli uni con gli altri, giunge a costituire il suo sistema singolare, il suo principio ultimo (o primo?) di unificazione e di intelligibilità" (p. 103). Ogni testo è dunque suscettibile di una pluralità di letture, ciascuna delle quali lo investe nella sua interezza, ponendosi in modo antagonista rispetto alle altre, cosa che "fa andare in risonanza le superfici testuali" (p. 123).
Ma che cos'è un testo? Anche su questo punto Langage et cinéma appare illuminante. Oltre al caso in cui il testo filmico coincide con il singolo film, M. mette in luce come si diano anche testi filmici più grandi (per es., certi generi cinematografici, come il western classico, oppure una scuola, come il Kammerspiel o la produzione totale di un dato Paese in un dato periodo) e testi filmici più piccoli di un film (per es., certe sequenze fortemente costruite o dotate di una relativa autonomia, oppure anche la 'colonna visiva', la 'serie linguistica', la 'serie dei rumori').
La conclusione di M. sottolinea la complessità delle articolazioni instaurate tra i codici e apre un sistema logico in grado di dar conto di questa complessità, nella convinzione che "non esiste nel cinema un codice sovrano che impone le sue unità minime, sempre le stesse, a tutte le parti di tutti i film: al contrario, questi film offrono una superficie testuale ‒ temporale e spaziale ‒, un tessuto in cui molteplici codici ritagliano, ciascuno per sé, le proprie unità minime che, lungo il discorso filmico, si sovrappongono, si incastrano e si appoggiano senza che necessariamente coincidano le loro frontiere" (p. 199).
Il tema della specificità viene ripreso da M. nell'ultima parte del testo, sulla falsariga della tripartizione hjelmsleviana forma/sostanza/materia, concludendo per un complesso "intreccio delle specificità" (p. 239). I due binari specifico/non specifico avrebbero continuato a intrecciarsi nella sua opera successiva (Essai sur la signification au cinéma II, 1972; trad. it. 1975), caratterizzata dalla precisa volontà di affrontare le radici ultime dei processi di significazione, spingendosi fin nelle pieghe dell'inconscio.
Fu così che, nel corso degli anni Settanta, M. si inserì autorevolmente nel discorso su una possibile applicazione al cinema di strumenti desunti dalla disciplina psicoanalitica. Anche qui il suo intervento (una serie di saggi, confluiti nel libro pubblicato nel 1977 Le signifiant imaginaire; trad. it. Cinema e psicanalisi, 1980) ha una profondità e una chiarezza metodologica inusuali. M. rifiuta decisamente qualsiasi atteggiamento 'nosografico' nell'accostarsi a un possibile rapporto tra cinema e psicoanalisi. Non si tratta, egli dice, di leggere tra le pieghe del testo i sintomi dei vissuti dell'autore, i sintomi delle sue 'malattie'. Il compito di un'applicazione al campo cinematografico di metodologie desunte dal campo psicoanalitico sarà piuttosto contribuire a far luce sul funzionamento più profondo e autentico del dispositivo cinematografico, e attraverso ciò contribuire a illuminare, se possibile, le dinamiche più profonde dei processi di significazione.
M. intraprese in tal modo uno studio sempre più sofisticato sul nuovo territorio d'indagine, dapprima con una riflessione sul freudiano e lacaniano 'stadio dello specchio', sul feticismo e sul voyeurismo che sono collegabili con il significante cinematografico (non, dunque, con i singoli film o con i singoli autori, ma con il funzionamento del dispositivo); quindi mediante un confronto tra film e sogno, articolato in termini teoricamente più validi di quanto non fosse stato fatto anche in non pochi studi specialistici; e infine elaborando un discorso sul rapporto tra metafora e metonimia, sulla condensazione e lo spostamento, che indaga i movimenti profondi della significazione, facendo luce in modo al tempo stesso pertinente e suggestivo sul funzionamento del cinema e su quello della psiche.
Quest'ultimo saggio è certo un punto d'arrivo alto all'interno di un dibattito che altrove ha avuto anche le caratteristiche di una moda culturale. Punto di arrivo che mette sul tappeto una serie di questioni ancora non del tutto esplorate, e che mette anche in luce la difficoltà di mantenere l'equilibrio tra lo studio di uno specifico linguaggio e la generalità delle ipotesi che possono essere poste. Il M. del 'significante immaginario' apre una vertigine per quanti, partiti dalla cinefilia, approdano a domande radicali sul senso e sulle dinamiche di ogni umano atto di significazione.
L'ultimo libro di M., L'énonciation impersonnelle ou le site du film (1991; trad. it. 1995) intervenne nuovamente nel vivo del dibattito contemporaneo tra gli studiosi di ascendenza semiologica. M. precisa nella sua opera le differenze tra enunciazione cinematografica ed enunciazione verbale e delinea i motivi per i quali è corretto parlare, a proposito della prima, di enunciazione 'impersonale'. Il campo d'indagine proposto mette in gioco una sorta di autoriflessività di fondo del cinema e, così facendo, si dà come luogo di una più generale interrogazione sul manifestarsi, sul gesto attraverso il quale qualcuno o qualcosa si dà alla percezione e all'intellezione, e quindi in definitiva sul momento aurorale di ogni espressione.
E. Garroni, Progetto di semiotica, Bari 1972, in partic. Parte I, L'approccio semiotico e i linguaggi non verbali, e Parte III, L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico.
J. Aumont, M. Marie, L'analyse des films, Paris 1988, passim (trad. it. Roma 1996).
F. Casetti, Teorie del cinema: 1945-1990, Milano 1993.
S. Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Firenze 1994.