CIBORIO
Struttura quadrangolare fissa che sormonta l'altare, in genere aperta da ogni lato e costituita da quattro sostegni sorreggenti una copertura, che si riducono a due nei casi in cui questa è addossata al muro.Il c. ha la stessa funzione protettiva e sacrale del baldacchino (v.). I due termini sono infatti frequentemente usati come sinonimi e non è facile operare tra loro una distinzione netta; spesso per baldacchino si intende la parte superiore del c., mentre a volte vengono definiti c. anche le coperture su tombe, fonti battesimali, troni. Quanto alle coperture degli altari, i c. sono caratterizzati da una maggiore solidità rispetto ai baldacchini, che erano infatti, almeno in origine, strutture mobili o comunque più leggere: si vedano per es. i baldacchini di legno spagnoli, fissi e di grandi dimensioni, ma con sostegni molto sottili e comunque miranti a dare l'idea della copertura di stoffa.Un altro problema terminologico si pone per il fatto che con c. si indicano anche, con un probabile passaggio metonimico dal contenente al contenuto, dall'abitacolo al ricettacolo (Foucart-Borville, 1990), l'urna delle reliquie (v. Reliquiario), il tabernacolo (v.) in cui si conservano le specie eucaristiche o anche la pisside (v.) in cui esse sono racchiuse; in questo senso la parola ciboire fece la sua apparizione in Francia nell'ultimo ventennio del sec. 13°, ma già Eccheardo IV (Casuum S. Galli continuatio; MGH. SS, II, 1829, pp. 75-147: 105) parlando del c. della chiesa dedicata a s. Otmaro a San Gallo precisa che "ciborium ea aetate non pixidem, sed genus quoddam tabernaculi argenteis [...] obductum designabat".Alla varietà dei materiali impiegati (legno, metallo, stucco, e soprattutto pietra) corrisponde uno schema strutturale sostanzialmente costante: la pianta è solitamente quadrata, ma anche rettangolare o rotonda; il collegamento delle colonne avviene tramite un architrave orizzontale, archi a sesto pieno, a sesto acuto o lobati; più varia la copertura - di grande importanza anche per il valore simbolico che riveste -, che può essere piatta, a cupola, a volta, a tetto a spioventi, a piramide tetragonale od ottagonale spesso con cupola interna, intera o tronca, posta su basamenti di colonnine, ornata di pinnacoli, ecc.; alla sua sommità spesso si trova la croce, talvolta su un piccolo globo.Dal punto di vista etimologico, il termine c. (lat. medievale ciborium, con varianti grafiche) deriva dal gr. ϰιβώϱιον, usato al plurale da Giovanni Crisostomo (347-407) per indicare la forma dei tempietti d'argento eretti in onore di Diana di Efeso dall'orefice Demetrio (Homiliae in Acta apostolorum, XLII; PG, LX, col. 297), e, per la prima volta con riferimento alla copertura dell'altare, intorno alla metà del sec. 6°, da Giovanni Malala (Chronographia, XVIII; CSHB, XXIV, 1831, p. 490).L'origine della parola è tuttavia incerta: superata l'ipotesi di una derivazione dal frutto a forma di calice della colocasia, una spezia egiziana con le foglie della quale si fabbricavano recipienti per bere (Henricus Stephanus, Thesaurus Grecae Linguae, IV, Paris 1841, coll. 1542-1543), il termine è stato messo in relazione con la radice semitica qbb 'essere cavo' (Di Giovanni, 1972, p. 33), l'arabo qa῾b 'recipiente' e l'ebraico kăbăr, kebarim 'tomba' (Schmid, 1882); altre ipotesi preferiscono risalire al lat. cibus, con riferimento al cibo eucaristico o ai cibi destinati o consacrati alle anime dei defunti, posti nelle piccole edicole o arcosolia eretti a protezione delle tombe (Lesage, 1956, p. 111). Nella Storia ecclesiastica di Germano, uno scritto liturgico del sec. 8° che attesta la diffusione in ambito orientale del c., di cui si dà una interpretazione mistica - simboleggerebbe infatti il Calvario, in quanto luogo della crocifissione, della sepoltura e della risurrezione di Cristo e nello stesso tempo l'arca dell'Antico Testamento in cui erano racchiuse le reliquie -, il termine viene ricondotto all'ebraico: "cib enim est arca, uri autem illuminatio vel lumen Domini" (Pétridès, 1905, p. 310).In ogni caso il significato primario del termine è quello di copertura, significato mantenuto dagli autori ecclesiastici: "Ciborium appellant Scriptores Ecclesiastici quod Ordo Romanus tegimen et umbraculum altaris" (Du Cange, 1937).Nelle fonti sono moltissimi i termini con cui viene designato il c. d'altare; tra essi πύϱγοϚ, ϰαμελαύχιον, θόλοϚ, arcus, fastigium, tegumentum, tegurium, tiburium, tegimen, umbraculum, turris, aeducula.Sulle finalità del c. non c'è da parte degli studiosi unanimità di giudizio, forse anche perché le sue funzioni furono effettivamente molteplici e si sovrapposero l'una all'altra. Per molti lo scopo principale era quello di nascondere agli occhi dei fedeli la celebrazione del rito eucaristico grazie alla presenza delle tende laterali (tetravela) - la cui esistenza, spesso documentata da fonti iconografiche, può in qualche caso essere dimostrata anche da resti di ganci (c. di S. Apollinare in Classe a Ravenna) o dai fori per le aste che le sostenevano (c. di S. Giovanni in Argentella presso Palombara Sabina) - che venivano tirate nei momenti culminanti delle funzioni. Tuttavia tale ipotesi non sembra suffragata dalle fonti più antiche, che non considerano il c. un arredo indispensabile, né definiscono i suoi indubbi legami con la liturgia (Di Giovanni, 1972, p. 36). Il c. dovette invece senz'altro servire a dare risalto all'altare (divenuto, da mobile, stabile e inoltre punto focale della chiesa cristiana), mediando anche il passaggio dal piccolo spazio intorno a esso a quello vasto dell'intera chiesa, oltre a ripararlo dalla polvere, funzione quest'ultima messa in luce dal Caeremoniale episcoporum Clementis VIII, Innocentii X et Benedicti XIII (Regensburg 1886, p. 50). Anche l'identificazione dell'altare cristiano con il trono di Cristo, o con la sua tomba, può comunque aver influito sulla scelta di ricoprirlo, in segno di onore, con il ciborio.Alla funzione pratica, che esso inizialmente dovette senz'altro avere, si aggiunse ben presto anche la componente simbolica, che vede nel c. l'immagine della volta del cielo sovrastante la Terra, in mezzo alla quale viene offerto il sacrificio della redenzione.Pareri discordi sussistono anche relativamente all'origine della struttura. Accanto all'ipotesi di derivazione dal baldacchino pagano, ve ne sono altre che rivendicano il c. come originale creazione cristiana, esclusivamente finalizzata all'altare (Righetti, 19502, p. 434), che legano la sua presenza, per lo meno inizialmente, a quella del sepolcro o delle reliquie di un martire, conservate spesso sotto l'altare (Teasedale Smith, 1974), o che lo fanno derivare dagli arcosoli delle tombe romane, che costituirebbero i primi esempi di c. (Schmid, 1928, pp. 78-82). Un possibile prototipo è stato anche individuato nel tabernacolo ebraico o tenda dell'arca dell'alleanza, che Dio ordinò a Mosè di costruire (Es. 26).La diffusione del c. inizia a Roma nel 4° secolo. Il primo c. di cui si ha notizia è quello fatto erigere, all'epoca di papa Silvestro I (314-335), sull'altare maggiore della basilica Lateranense da Costantino, che conteneva l'arca dell'alleanza portata via, secondo la tradizione, da Tito dal Tempio di Gerusalemme; si trattava di un c. d'argento, coperto da una volta in oro, che presentava sulla faccia rivolta verso i fedeli l'immagine di Cristo Salvatore tra i dodici apostoli (Lib. Pont., I, p. 172). Rohault de Fleury (1883, tav. 90) ne ha tentato per primo un'ipotetica e discussa ricostruzione.Un'analoga ricchezza di materiali, ma forse uno sviluppo architettonico assai più complesso, doveva caratterizzare il c. di S. Pietro (propriamente un baldacchino su tomba, dato che l'altare sorgeva sopra la sepoltura del primo apostolo), eretto da Gregorio Magno (Lib. Pont., I, p. 312) e descritto da Gregorio di Tours (De gloria martyrum; MGH. SS rer. Mer., I, 2, 1885, pp. 484-561: 504), in seguito più volte restaurato, ammodernato o rifatto.Il Lib. Pont. fornisce molte altre notizie relative ai c. che imperatori e pontefici fecero innalzare nei primi secoli del cristianesimo e durante l'Alto Medioevo sugli altari delle principali chiese di Roma: Sisto III (432-440) fece costruire dall'imperatore Valentiniano un nuovo c. d'argento nella basilica Lateranense (Lib. Pont., I, p. 233), sostituito poi da quello di Leone III (795-816), finanziato da Carlo Magno (Lib. Pont., II, p. 8); Simmaco (498-514) ne eresse uno nella rotonda di S. Andrea a S. Pietro e uno nella basilica dei Ss. Silvestro e Martino (Lib. Pont., I, pp. 261-262); Onorio I (625-638) donò un c. d'argento a S. Pancrazio sull'Aurelia (Lib. Pont., I, p. 324); Sergio I (687-701) fece collocare un c. nella chiesa dei Ss. Cosma e Damiano e sostituire quello di legno di S. Susanna con uno in marmo (Lib. Pont., I, p. 375); Gregorio II (715-731) rifece il c. di S. Paolo (Lib. Pont., I, p. 397) e costruì quello di S. Agata (Lib. Pont., I, p. 402), mentre a Gregorio III (731-741) si deve quello di S. Crisogono (Lib. Pont., I, p. 418); Paolo I (757-767) ne costruì uno in argento per la chiesa dei Ss. Stefano e Silvestro (od. S. Silvestro in Capite; Lib. Pont., I, p. 464) e infine Adriano I (772-795) restaurò il c. della rotonda di S. Andrea e quello di S. Maria ad Martyres, ovvero al Pantheon (Lib. Pont., I, pp. 499, 514).Le numerose citazioni del Lib. Pont., che aumentano per i pontefici del sec. 9° - non tutte del resto sicuramente riferibili a c. d'altare, alcune probabilmente relative a baldacchini sulle tombe dei martiri -, non danno tuttavia la possibilità di stabilire una tipologia, non descrivono le coperture, né, fatta eccezione per quello costantiniano, forniscono informazioni precise sulla decorazione. Significativo è però il fatto che le coperture vengano designate inizialmente come fastidium o tiburium, poi costantemente come cyburium, a segnare forse il passaggio dal baldacchino al c. propriamente detto. Maggiori dati si ricavano sui materiali: accanto ai primi, deteriorabilissimi c. di legno, se ne costruivano rivestiti d'argento o d'oro, di bronzo dorato o di altri metalli preziosi e infine di pietra; a questo proposito si può aggiungere l'interessante segnalazione dell'abate Ugo di un "ciburium totum ex lapide oniccino" che si trovava sull'altare della chiesa abbaziale di Farfa prima della distruzione saracena del sec. 9° (Il Chronicon Farfense di Gregorio di Catino, a cura di U. Balzani, Roma 1903, I, p. 29).Dei c. romani del sec. 6° restano solo frammenti di archi, architravi e colonne, per i quali non è neppure sempre sicura la pertinenza a c. piuttosto che ad altre strutture. Tra i più antichi sono i frammenti di due fusti di colonne (una con la raffigurazione del Martirio di s. Nereo) della fine del sec. 4°-inizi 5° del c. della basilica semipogea dei Ss. Nereo e Achilleo nel cimitero di Domitilla e i frammenti di un ipotetico c. di S. Clemente (Guidobaldi, Barsanti, Guiglia Guidobaldi, 1992). Questi ultimi sono costituiti da un architrave (attualmente murato nell'angolo nordoccidentale del vano meridionale del nartece della chiesa inferiore), da due colonne antiche, riutilizzate e rilavorate, e da due capitelli 'a giorno', quello di sinistra con un'iscrizione che data l'opera al pontificato di Ormisda (514-523) e la riferisce al presbitero Mercurio (poi papa Giovanni II); tanto i capitelli quanto le colonne sono reimpiegati nel monumento del cardinal Venerio (m. nel 1479), situato nella navata sinistra della basilica. L'ipotesi di ricostruzione effettuata da Rohault de Fleury (1883, tav. 92) - quattro colonne collegate da architravi, timpano e tetto a spioventi - non è legittima giacché non può basarsi su alcun esempio di c. conservato anteriore al sec. 8° e inoltre mostra proporzioni minori rispetto a quelle che si possono ricavare dalle tracce archeologiche (che indicano c. di dimensioni variabili, ma per lo più medie o grandi), dai pochi c. contemporanei di area bizantina conservati o ipoteticamente ricostruibili o dalle serie di quattro capitelli uguali, verosimilmente appartenuti a c., come quelli a canestro con aquile e con il monogramma di Giovanni II conservati a Lione (Trésor de la Cathédrale), ma provenienti dalla chiesa dei Ss. Cosma e Damiano a Roma, che costituiscono l'unico indizio per ipotizzare l'esistenza di un c. contemporaneo a quello di S. Clemente (Guidobaldi, 1989; Guidobaldi, Barsanti, Guiglia Guidobaldi, 1992).Nei primi secoli Roma è dunque il centro di maggior produzione di questa struttura, ma essa non dovette certo essere un'esclusività romana. C. vennero senz'altro eretti anche altrove; per l'Italia meridionale tra le varie testimonianze si può citare quella dei Gesta episcoporum Neapolitanorum (800 ca.), che ricordano il c. d'argento che il vescovo Vincenzo, intorno alla metà del sec. 6°, donò alla chiesa di S. Giovanni Battista a Napoli (MGH. SS rer. Lang., 1878, pp. 398-424: 411).Mentre per il sec. 7° non si è conservato alcun c., neppure allo stato frammentario, per i secc. 8° e 9° l'uso di questa struttura, oltre che dalle testimonianze delle fonti, è provato - sebbene resti sempre aperto il problema della loro pertinenza originaria - da numerosissimi frammenti di archi di c. scolpiti, segnalati nei vari corpora della scultura altomedievale: tra i più antichi si ricordano quelli conservati nell'atrio di S. Maria Antiqua, attribuiti al tempo di Giovanni VII (705-707), le lastre murate in S. Antonio Abate sull'Esquilino, provenienti da S. Andrea Catabarbara, probabilmente riferibili ai lavori di restauro eseguiti nella chiesa sotto Leone III (795-816), e quelle, di ignota provenienza, affisse nella scala di accesso della basilica di S. Alessandro sulla via Nomentana, con originali motivi iconografici. Quasi tutte queste lastre presentano una suddivisione dell'ornato in tre zone: la fascia del coronamento della ghiera dell'arco, la cornice terminale e la zona intermedia, ridotta solitamente a due triangoli laterali in cui si trovano, accanto a motivi fitomorfi e a temi a intreccio, animali affrontati, per es. pavoni ai lati di una croce o di un cantaro, uccelli che beccano, con una riproposizione di formule simbolico-decorative del repertorio paleocristiano (Pani Ermini, 1974). Si allontana da questo schema la decorazione, costituita da un unico tessuto nastriforme, dei frammenti, recuperati nel 1971 durante gli scavi in S. Ippolito all'Isola Sacra, pertinenti a un c., distrutto nel sec. 12°, databile entro l'8° per Pani Ermini (1976), che ne ha sottolineato una certa disorganicità, o al massimo agli inizi del 9° (Episcopo, 1982). Con questi frammenti - comprendenti tra l'altro tre lastre ad arco con ancora evidenti i ganci per le lampade o i vela - durante una mostra del 1975 è stato ricostruito un c. a pianta rettangolare, la cui scelta fu presumibilmente condizionata dalle strutture presbiteriali preesistenti, con la copertura (non ricostruita per assenza di riferimenti diretti) probabilmente a piramide ottagonale, con il pinnacolo superstite a conclusione. Nella successiva campagna di scavo degli anni 1978-1979 sono stati recuperati ulteriori frammenti, che permetterebbero la restituzione anche della quarta faccia del c. e che, come le lastre precedenti, mostrano una certa originalità non tanto nei singoli motivi decorativi quanto nell'organizzazione complessiva (Episcopo, 1982).Una diversa tipologia di c., di dimensioni ridotte e poggiante direttamente sull'altare, sembra testimoniata da un altro esempio romano, che è stato ricomposto nella c.d. sala bizantina della casa dei Cavalieri di Rodi con frammenti del sec. 9° recuperati dalla demolizione del convento dell'Annunziata, sorto sul luogo dell'antica chiesa di S. Basilio. La diffusione a Roma di questo tipo è provata inoltre dalle quattro lastre reimpiegate negli oculi al lato del rosone centrale della facciata di S. Maria Maggiore, forse pertinenti al c. di S. Pietro, trasferito qui da Leone III (Lib. Pont., II, p. 27; Pani Ermini, 1974).Certamente ispirato al gusto artistico romano, ma problematico riguardo alla datazione, posta dagli studiosi alla fine dell'epoca altomedievale, è il c. di S. Giovanni in Argentella, in stucco, composto da quattro lastre ad arco con un intreccio geometrico fittissimo, secondo un sistema bizonale (fronte a terminazione rettilinea e ghiera dell'arco), sormontate da un coronamento piramidale concluso da un pinnacolo (Acconci, 1993). Analogo nella tipologia e nella decorazione è il più tardo c. di S. Lorenzo in vineis a Orvieto, datato dalla tradizione locale al sec. 12° e rimontato nel 1905 con frammenti altomedievali del Mus. dell'Opera del Duomo (Gnoli, 1906).L'uso di questo arredo si estende tra il sec. 8° e il 9° a tutta la penisola, dove, accanto ai numerosissimi frammenti di archi quasi sempre con uno schema decorativo analogo a quello dei c. romani - tra i tanti si può citare per il suo reimpiego già in epoca medievale la ghiera attualmente nella tomba del magistrato Egidio de' Foscherari (m. nel 1289) a Bologna (Rizzardi, 1975-1976) -, sono conservati tre c. in discrete condizioni: quello di S. Maria di Sovana (Grosseto), proveniente dall'antica cattedrale longobarda, quello di S. Prospero a Perugia e quello di S. Cristina a Bolsena; si tratta di strutture semplici, accomunate dal tetto piramidale e dalla decorazione con intrecci viminei e figure di animali.Analoga struttura ha il c. della pieve di San Leo presso Pesaro - recentemente ricostruito con pezzi originali - donato, come dice l'iscrizione, dal duca Orso (881 ca.); alla tipologia del piccolo c. su mensa d'altare apparterrebbe invece (ma resta il dubbio della sua pertinenza a un battistero) il c. della pieve di San Giorgio in Valpolicella - ricomposto e ricollocato sull'altare nel 1923 -, che l'iscrizione sulla colonna di sinistra afferma eretto al tempo di Liutprando (714-744) e quella sulla colonna di destra attribuisce al maestro Orso e ai suoi scolari Giuventino e Giuviano (Zovatto, 1964).In area bizantina la più antica descrizione del c. d'altare, seppure non relativa a un esempio reale, si trova nella Storia dell'Armenia di Lazzaro di Pharbe (fine sec. 5°-inizio 6°), dove si parla di un bema a forma di tenda, fatto di nuvole e coperto da una cupola d'oro, sotto la quale è l'altare (Collection des historiens de l'Arménie, a cura di V. Langlois, II, Paris 1869, pp. 253-368: 274). Dati più concreti sono forniti da Paolo Silenziario (Descriptio Sanctae Sophiae; CSHB, XLIV, 1837, pp. 1-58; Du Cange, 1837), che nel 562 descriveva il c. in argento, elevato verso l'alto come una 'immensa torre', fatto costruire da Giustiniano per la chiesa della Santa Sofia a Costantinopoli, ancora in situ nel sec. 13°: le quattro colonne erano collegate da arcate e il tetto era costituito da una piramide ottagonale coronata da un fiore a forma di calice, su cui era posto un globo con la croce; il c. era inoltre ornato da vasi d'argento, da corone votive d'oro e d'argento dalle quali pendevano croci e dalla colomba eucaristica con le sacre specie del pane, appesa al centro. Una proposta di ricostruzione è stata tentata da Orlandos (1952, p. 476, fig. 437).L'unico esempio di c. orientale conservato è quello della Panaghia Katapoliani di Paro in Grecia, del sec. 6° - a pianta quadrata con basi, colonne e capitelli sorreggenti arcate di sottili lastre di marmo -, che documenta l'uso in ambito orientale della copertura a cupola (quella attuale, scanalata e di cemento, è di restauro; Jewell, Hasluck, 1920), attestata anche da numerose testimonianze iconografiche di questo periodo, nonché dal piccolo c. monolitico del Tesoro di S. Marco a Venezia. Quest'ultimo, costruito sugli esempi dei grandi c. d'altare con archi a tutto sesto e cupola - e forse utilizzato per la conservazione del Santissimo, come induce a ipotizzare il gancio interno della cupola -, fu fatto eseguire, come dice l'iscrizione in greco, da una tal Anastasia, probabilmente da identificare con una delle dame della corte di Giustiniano (Gaborit Chopin, 1986).Una copertura piramidale, sull'esempio del c. giustinianeo della Santa Sofia, è stata invece ipotizzata per il c., realizzato nel sec. 6° a Costantinopoli o nell'area circostante, le cui arcate marmoree (una delle quali conserva ancora alcuni dei ganci per i tetravela), finemente decorate a rilievo e con un'iscrizione che qualifica l'opera come ex voto, sono oggi riutilizzate separatamente in tre altari nella chiesa parrocchiale di Lison, presso Portogruaro, nel Veneto (Bonfioli, 1979).Accanto a questi esempi, a documentare la diffusione dell'arredo anche in ambito orientale, possono essere ricordati molti resti - si citano almeno quelli dell'Arkeoloji Müz. di Istanbul (due frammenti di archi, uno decorato con tre apostoli e il busto di un angelo, probabilmente appartenente a un c. databile tra il sec. 6° e il 7°, l'altro, del 6°, proveniente da S. Maria Panachrantos, con due busti di apostoli) -, le 'serie' di quattro capitelli uguali (come quelli costantinopolitani ora nella madrasa della moschea di Davut Paşa, quelli della basilica di Afandu a Rodi, quelli dell'Arheološki muz. di Spalato, provenienti da Salona; Guidobaldi, Barsanti, Guiglia Guidobaldi, 1992, p. 64, n. 117) e le numerose tracce archeologiche di c., consistenti soprattutto in basi di colonne. Esse, presenti in tutta l'area bizantina, compresa l'Africa settentrionale, testimoniano l'uso (del resto anche occidentale e probabilmente dovuto a esigenze di carattere pratico) della pianta rettangolare accanto a quella quadrata. In Oriente non doveva essere infrequente, peraltro, neppure la pianta circolare od ottagonale, attestata per es. nei c. dei luoghi santi.Tra i secc. 6° e 9° la produzione di c. dovette essere abbondante anche nei territori bizantini dell'area adriatica. Oltre alle testimonianze delle fonti - Agnello di Ravenna (Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis; MGH. SS rer. Lang., 1878, pp. 264-391: 324) riferisce per es. di un c. in argento fatto costruire dall'arcivescovo Vittorio (ca. 537-544) nella basilica Ursiana - lo provano i numerosissimi frammenti (Angiolini Martinelli, 1968; Lavers, 1971; 1974), tra cui si ricordano per il sec. 9° in Dalmazia quelli del c. di Ulcinj, conservati in parte al Narodni Muz. di Belgrado, in parte a Ulcinj, Muz. (Mijović, 1989), e quelli dell'Arheološki muz. di Spalato (Kutzli, 1974).L'unico esempio di c. intero conservato a Ravenna proviene dalla distrutta chiesa di S. Eleucadio in Classe ed è stato ricostruito in fondo alla navata sinistra di S. Apollinare in Classe (dove era stato trasferito forse intorno al Mille). Quattro colonne sorreggono arcate (montate in modo da rendere comunque visibile l'ornamentazione) decorate fra l'altro con motivi a treccia, tralci con grappoli, rosette, croci, uccelli stilizzati; la copertura - che forse non è quella originaria - è piatta. L'iscrizione permette di riferire l'opera al tempo dell'arcivescovo Valerio (primo decennio del sec. 9°). Un elemento importante è costituito dalle quattro colonne, baccellate inferiormente e scanalate a spirale nella parte superiore. La presenza di colonne simili, frammentarie o reimpiegate, in molti centri italiani (tra cui Ravenna, Pomposa, Tuscania, Roma, Salerno, Bari, Acerenza) ne ha fatto ipotizzare un'importazione dall'Oriente, intorno alla fine del sec. 8°, proprio per la costruzione di c., perduti, le cui restanti parti venivano invece realizzate con materiali locali (Rusconi, 1971).In Oriente, in epoca medio e tardobizantina non si conservano esempi di rilievo, a parte alcuni frammenti, come il grande arco di c. (sec. 11°) forse proveniente dalla cripta di Isacco Comneno, nel parekklésion della Kariye Cami di Istanbul. Le frequenti raffigurazioni del c. in affreschi, mosaici e miniature - in particolare nelle scene della Presentazione al Tempio e della Comunione degli apostoli, nelle quali è tradizionalmente presente l'altare - sembrano tuttavia protrarsi nel tempo anche oltre l'effettivo uso dell'arredo (Wessel, 1966). Le tipologie rappresentate, comunque molto varie, non sono dissimili da quelle diffuse anche in Occidente in epoca paleocristiana e altomedievale. Quasi tutti i tipi di c. sono rappresentati nelle miniature del Menologio di Basilio II, del sec. 10° (Roma, BAV, Vat. gr. 1613), nonché nei libri miniati a Costantinopoli nello stesso secolo, dove coperture a forma di c. incorniciano non gli altari, ma i titoli delle opere trascritte. Il tipo con copertura piramidale poggiante su quattro colonne è attestato tra l'altro nella scena della Comunione degli apostoli al Sal. 34 [33], 9, in un salterio del sec. 9° del monte Athos (Pantocratore, 61, c. 37r) e nell'analoga scena e nella Celebrazione della messa da parte di s. Basilio affrescate nella Santa Sofia a Ochrida, del sec. 11° (Weitzmann, 1935). In altri casi, come nel mosaico con la Comunione degli apostoli della Santa Sofia di Kiev (sec. 11°) o nell'affresco con la Presentazione al Tempio di S. Nicola a Castoria (sec. 12°), la conclusione piramidale sorge al centro di una copertura piana; uno schema analogo, ma con copertura a cupola, è nella Presentazione al Tempio miniata in un evangeliario, della metà del sec. 11°, del monte Athos (Iviron, 1, c. 257r). La forma più largamente documentata, che caratterizza decisamente il c. bizantino, è comunque quella a cupola su quattro colonne; tra i numerosissimi esempi si può citare la Comunione degli apostoli nel Salterio di Teodoro, del sec. 11° (Londra, BL, Add. Ms 19352, c. 152r), e in un manoscritto di Parigi (BN, gr. 74, c. 156v), dello stesso secolo, e infine il mosaico con la Presentazione di Maria al Tempio (sec. 14°) nella Kariye Cami di Istanbul. Sempre nella stessa chiesa il mosaico con lo Sposalizio della Vergine presenta una variante, con la volta sospesa, poggiante su quattro colonnine che creano una zona intermedia, aperta, rispetto alle colonne portanti. Ancora il tipo posto direttamente sulla mensa è documentato all'inizio di un altro manoscritto del sec. 13° del monte Athos (Dionisio, 105), dove il c. copre l'altare su cui è collocata l'icona di S. Basilio, e nella scena della Cacciata dei mercanti nella chiesa di S. Nikita a Čučer (sec. 14°).Un deciso rinnovamento nella tipologia del c. è segnato dall'esempio del S. Ambrogio di Milano, uno dei c. medievali più importanti e meglio conservati. Le novità sono costituite dalla struttura - che, innestando elementi architettonici tipicamente bizantini su rapporti proporzionali di impostazione vitruviana (Bertelli, 1988), prevede quattro alti timpani a vela, che nascondono la copertura a crociera - e dalla decorazione, il cui complesso e discusso programma iconografico comprende la figura umana. Sui timpani, in stucco policromo, sono infatti rappresentati: la Traditio legis et clavium; un vescovo (forse Ambrogio) fra i ss. Gervasio e Protasio che presentano due monaci, uno dei quali con il modellino del c.; un santo vescovo venerato da due uomini in preghiera; una santa venerata da due donne. Gli stucchi risalgono al sec. 10° e mostrano accertati contatti con avori milanesi della fine del secolo; le altre parti del c. sembrano invece di epoca precedente: le colonne in porfido sono senz'altro di reimpiego, mentre una fase decorativa anteriore agli stucchi è testimoniata da tracce di pittura nella volta interna (Bertelli, 1986). È probabile che un c. (o una struttura in qualche modo analoga) fosse stato costruito sull'altare sotto al quale erano le tombe di Ambrogio e dei martiri Gervasio e Protasio dal vescovo Lorenzo (490-512) e che Angilberto II, in seguito ai lavori nel presbiterio, avesse provveduto a rialzare la parte superiore (Peroni, 1974).Direttamente ispirato all'esempio milanese, sia nella struttura sia nella decorazione a stucco, è il c. di S. Pietro al Monte presso Civate (fine sec. 11°-inizi 12°). Nei timpani (Cristo in mandorla tra due angeli, Pie donne al sepolcro, Traditio legis et clavium, Crocifissione), nella parte superiore dei capitelli (simboli degli evangelisti), nella decorazione pittorica della volta interna (Trionfo dell'Agnello acclamato da uomini e donne) e dei pennacchi (quattro angeli dell'Apocalisse) si sviluppa il tema, collegato al testo liturgico del canone ambrosiano, della salvezza dell'uomo, esplicitato anche dalle iscrizioni (Gatti, 1990).Per i secoli successivi, alla decrescita di segnalazioni di c. nelle fonti, forse dovuta a una minore ricchezza dei materiali (Braun, 1924, p. 211), e alla costante presenza di frammenti corrisponde un più alto numero di c. conservati (anche se spesso ricostruiti o pesantemente restaurati), che presentano tra loro differenziazioni tipologiche più spiccate rispetto ai c. altomedievali.Il tipo tradizionale con copertura a tetto a piramide quadrata, priva di volta interna, poggiante direttamente sull'architrave, sopravvive in periodo romanico e oltre; tra gli esempi più noti si ricordano i c. di S. Pudenziana a Visciano presso Narni (inizi sec. 11°), di S. Vittoria a Monteleone in Sabina (metà sec. 12°) e a Tuscania i due c. di S. Pietro - quello della navata destra della metà del sec. 13° e quello dell'altare maggiore datato da un'iscrizione al 1093, ma la cui copertura in muratura è per Raspi Serra (1971, p. 76) frutto di un rifacimento degli inizi del sec. 19°, che ne ha alterato la struttura originaria - e infine quello, di incerta datazione, di S. Maria (Parlato, 1992, p. 235), che presenta resti di affreschi e la particolarità degli archi lobati, caratteristica anche dei c. abruzzesi.Un altro tipo dalla struttura molto semplice, con colonne collegate da archi a sesto pieno e conclusione superiore rettilinea, è documentato nell'area adriatica settentrionale ancora nel sec. 13° dal c. di S. Marco a Venezia, eretto sopra l'altare-tomba dell'evangelista con molta probabilità all'epoca del doge Pietro Ziani (1205-1219), in occasione del rinnovamento della Pala d'oro, e da quello della cattedrale di Parenzo, dell'epoca del vescovo Ottone (1256-1282). Il primo presenta quattro colonne in alabastro - dove in nove registri, divisi ciascuno in nove nicchie, sono narrati episodi del Nuovo Testamento - sopra le quali poggia il tegurio in marmo verde antico su cui sono le statue di Cristo e degli evangelisti; lo svilupparsi nell'opera di un unitario programma iconografico, che illustra il tema della rivelazione, porta - contro coloro che volevano le colonne del sec. 5° provenienti dall'antico c. - a datare tutta l'opera al sec. 13° e a inserirla all'interno degli interventi operati nella basilica dopo la conquista di Costantinopoli nel 1204 (Polacco, 1987).Di reimpiego, ma non con sicurezza da un precedente c. (Russo, 1991), sono invece le colonne del c. di Parenzo, meno ricco nei materiali, ornato da una decorazione musiva riferita all'attività di maestri bizantini collegati a S. Marco.Un tipo nuovo di c., all'interno del quale si possono individuare due modelli fondamentali, venne ideato a Roma e diffuso nella zona circostante dai marmorari romani che dalla fine del sec. 11° rinnovarono gli arredi liturgici dei principali edifici religiosi secondo schemi che restarono costanti, pur nella varietà della ricchezza decorativa e cromatica, fino alla seconda metà del 13° secolo.Il primo modello romano è attestato dai c. di S. Clemente a Roma, fatto erigere dal cardinale Anastasio al tempo di Pasquale II (1099-1118), e di S. Elia a Castel Sant'Elia presso Nepi, degli inizi del sec. 12°: quattro colonne architravate con una galleria di colonnine su cui poggiano un secondo architrave e un tetto a capanna con timpani triangolari.Il secondo modello, più complesso, prevede il passaggio dalla struttura quadrangolare della base a quella ottagonale della copertura attraverso almeno due ordini di colonnine architravate, l'inferiore parallelepipedo, il superiore prismatico a sezione ottagonale; la copertura è costituita da un tetto a piramide tronca, sormontata da una lanterna a sua volta a più ordini di colonnine e con conclusione piramidale. Di questo tipo - che, secondo Giovannoni (1904, p. 4), nella struttura architravata e nella forma 'a gabbia' della copertura recupera un modello quasi certamente di età paleocristiana - esistono numerose testimonianze, pochissime (o forse nessuna) conservate nello stato originario. Tra i primi esempi è il c. di S. Lorenzo f.l.m., del 1148, opera di Angelo di Paolo (v.) e dei suoi collaboratori, che vanno considerati se non gli inventori certo i massimi divulgatori di questa tipologia, da loro realizzata anche nei perduti esempi di S. Marco, dei Ss. Cosma e Damiano, dei Ss. Apostoli, di Santa Croce in Gerusalemme. Appartengono allo stesso modello, tra gli altri, i c. di S. Giorgio in Velabro, di S. Saba, della cattedrale di Anagni (che presenta un doppio ordine di colonne anche nella lanterna), della cattedrale di Ferentino, opera di Drudus de Trivio, di quella di Terracina, della chiesa di Riofreddo, della parrocchiale di S. Pietro a Rocca di Botte (Abruzzo), di S. Stefano a Fiano Romano, di S. Andrea in flumine a Ponzano Romano, opera di Nicola di Ranuccio e dei figli Giovanni e Guittone. Questi ultimi firmarono da soli nel 1168 il c. di S. Maria di Castello a Tarquinia (attualmente mutilo della parte superiore), che doveva ripetere lo schema del precedente così come quello del duomo di Sutri, eseguito nel 1170 da Nicolò e dal figlio, di cui restano pochi frammenti e la testimonianza di una visita pastorale del 1671 (Raspi Serra, 1972, pp. 164-165, n. 151). Secondo una descrizione del 1777 (Palmegiani, 1926, p. 43) doveva avere una struttura analoga anche il c. della cattedrale di Rieti, databile alla seconda metà del sec. 12°, le basi delle colonne e i capitelli figurati del quale sono ora nel palazzo Cappelletti (Mortari, 1980; 1985).Vicini alla tipologia romana ma costituenti un capitolo a parte per le caratteristiche iconografiche o strutturali - in particolare per l'uso, al posto dell'architrave, dell'arco gemino o trilobo, che ha fatto ipotizzare una provenienza normanna degli esecutori o un influsso islamico - sono i c. abruzzesi in stucco della bottega del maestro Ruggero: il c. di S. Maria in Valle Porclaneta presso Rosciolo dei Marsi, coevo all'ambone della stessa chiesa, del 1150, e quello - successivo in base alla nuova lettura della data (1158) incisa sul portale (Delogu, 1969) dell'edificio, che potrebbe riferirsi all'intera sistemazione monumentale - di S. Clemente al Vomano, presso Guardia al Vomano, che un'altra iscrizione dice opera di Ruggero e di suo figlio Roberto. La struttura e la decorazione dei due c. sono assai simili; differenze si riscontrano negli archi, trilobi nel primo gemini nel secondo, e nelle colonne, scanalate o lisce.Ancora per l'Abruzzo - accanto al c. di S. Cristinziano a San Martino sulla Marrucina (Chieti), distrutto nel 1919, ma visto da Gavini (1927-1928, I), seppure già alterato - possono essere ricordati il c. di S. Pietro ad oratorium presso Capestrano, ritenuto da Piccirilli (1899, p. 10) recente opera di imitazione, ma datato generalmente al sec. 13°, dove lo schema romano è arricchito da una decorazione a pitture, archi intrecciati e maioliche, e il c. di S. Clemente a Casauria - del sec. 14° per Lehmann-Brockhaus (1942-1944), del 15° per Gavini (1927-1928, I), che lo ritiene imitazione di un c. più antico -, la cui struttura superiore è una sorta di parallelepipedo molto ornato, traforato da archi trilobi e inflessi e concluso da una copertura piramidale.Nell'Italia meridionale - dove una precedente tradizione è attestata dai c. con copertura a cupola di tipo bizantino rappresentati sulle miniature benedettine della Campania e negli Exultet, che restano a testimoniare l'abbondante produzione di arredi liturgici nelle chiese campane e pugliesi, proseguita sotto la dominazione normanna - la diffusione del tipo romano è dimostrata dal c. di S. Nicola di Bari - con una copertura su colonne di spoglio con capitelli figurati a doppia piramide ottagonale su colonnine -, che una formella in smalto con l'Incoronazione di Ruggero II (un tempo al centro dell'architrave, ora nel Tesoro) permette di datare intorno al 1135. Sull'esempio di quello di S. Nicola furono probabilmente costruiti anche i c. un tempo nella cattedrale della città: quello sull'altare maggiore, scolpito da Alfano da Termoli (v.) verso il 1230, smembrato nel sec. 17° e ricostruito nel 1950 con alcuni frammenti originali; quello che doveva trovarsi sull'altare dedicato a s. Giovanni Battista (frammenti attualmente in parte presso la Soprintendenza per i Beni ambientali, architettonici, artistici e storici della Puglia e in parte presso il Mus. Diocesano), la cui iscrizione nomina come scultore Anseramo da Trani (v.) e come donatore Romualdo, arcivescovo della città dal 1280; infine un terzo c. (già rifatto nel Quattrocento e distrutto nel 1613), che al momento della nuova consacrazione (1292) doveva trovarsi sull'altare dell'altra cappella, dedicata alla Regina dei cieli, ancora di Anseramo, di cui sono stati individuati alcuni frammenti (Calò Mariani, 1978).Struttura analoga ai precedenti ha anche il c. della cattedrale di Barletta, della seconda metà del sec. 13°, più volte spostato e dal 1844 al centro del coro, nonché quello della cattedrale di Bitonto, demolito alla metà del sec. 17°, di cui restano alcuni frammenti nel palazzo vescovile.Alla fine del Duecento ancora da Roma partì la creazione di un nuovo tipo di c. a opera di Arnolfo di Cambio (v.), che realizzò il c. di S. Paolo f.l.m. nel 1285 e quello di S. Cecilia in Trastevere nel 1293. Il primo, che sorge sull'altare della Confessione con le reliquie del santo, ha una struttura quadrata: quattro colonne di porfido sostengono una piccola volta a crociera, su cui poggia il tiburio ornato da guglie e pinnacoli; colonnine in marmo inquadrano archi acuti trilobi, coronati da piccoli frontoni sormontati da timpani triangolari. L'artista, che firma il c. insieme al socio Petro - la cui identificazione, così come la divisione delle mani, rimane un problema ancora aperto -, rinnovò la struttura tradizionale del c. grazie a una piena adesione al gusto gotico rayonnant, evidente sia nell'introduzione di alcuni elementi formali sia nella "dissoluzione delle masse parietali portanti in trame lineari di puro valore grafico" (Romanini, 1969, p. 67); tuttavia è ben saldo il legame con la cultura classica, evidente in alcuni particolari iconografici e nell'uso di materiale di spoglio, documentato da disegni eseguiti dopo lo smontaggio e il restauro dell'opera in seguito all'incendio del 1823. Il precedente diretto del c. di S. Paolo è stato individuato (Romanini, 1965) nel doppio c. della Sainte-Chapelle di Parigi, eseguito ca. quindici anni prima; rispetto a quest'ultimo, tuttavia, è originale l'importanza data alla parete policroma (la superficie interna ha una ricca decorazione plastica e musiva con animali in clipei ai lati di cantari), nonché il predominio della linea retta sull'arco e la trasformazione di un arredo liturgico in "struttura architettonica autonoma [...] perno e centro focale della basilica paleocristiana con una individualità spaziale che la lunga tradizione dei cibori non aveva mai conosciuto" (Righetti Tosti-Croce, 1984, p. 189). Originalmente innovativo è anche il rapporto tra struttura architettonica e decorazione scultorea, comprendente le quattro statue angolari, i capitelli, uno dei quali figurato, i rilievi sui pennacchi degli archi, gli angeli volanti che reggono i rosoni nei timpani, la chiave di volta e gli angeli all'interno.Il c. di S. Cecilia, punto conclusivo della decorazione interna della basilica paleocristiana in stile gotico rayonnant, ripete la struttura del precedente e presenta un'altrettanto ricca decorazione scultorea - sempre fitta di citazioni classiche - con una serie di bassorilievi posti nel basamento dei pilastrini, nei timpani, nei pennacchi e con le quattro statuine angolari di Cecilia, Valeriano, Tiburzio a cavallo e papa Urbano. Tuttavia lo schema d'insieme appare semplificato e irrobustito e le singole parti hanno un diverso rapporto proporzionale; la novità più rilevante è costituita dal taglio in obliquo degli angoli superiori del baldacchino, innovazione che permette all'artista di realizzare un'inedita misura tridimensionale, che trova un preciso riferimento nella spazialità centrica, plastica e dinamica della Roma imperiale e tardoimperiale.Il tipo creato da Arnolfo - che deve aver avuto un'eco immediata, se lo si ritrova raffigurato ad Assisi nel Presepe di Greccio, pur ricondotto a cadenze ritmiche di significato ornamentale - è imitato poco dopo da Deodato di Cosma nel c. realizzato intorno al 1295 in S. Maria in Cosmedin per Francesco Caetani. Lo schema è quello del c. di S. Paolo, ma alla ripresa della struttura d'insieme e di alcuni motivi decorativi (uso di archi acuti e gattoni) si accompagnano un'estrema semplificazione stilistica, la totale assenza di decorazione scultorea, sostituita da quella musiva, di cui restano alcuni frammenti, e soprattutto l'assenza di ogni 'energia' strutturale.Tra il sec. 13° e il 14° fece la sua comparsa a Roma ancora un nuovo tipo di c., ispirato molto probabilmente a modelli francesi: il c.-reliquiario, che esplicita la presenza delle reliquie, collocate anticamente per lo più sotto gli altari e ora sistemate in alto in posizione più sicura e, almeno in determinate circostanze, visibili ai fedeli. Rispetto agli esempi precedenti il c.-reliquiario mostra un sensibile sviluppo verticale, con una struttura che si può definire 'a due piani': tra le colonne di base e la copertura si inserisce infatti un nuovo spazio destinato appunto a contenere le reliquie. A questa tipologia apparteneva il c., realizzato sempre da Deodato, in S. Giovanni in Laterano, nel coro dei Canonici, sopra l'altare della Maddalena, consacrato nel 1297 dal cardinale Gerardo Bianchi; di esso restano nel chiostro della basilica frammenti che, insieme alle testimonianze letterarie e figurative, ne hanno consentito un'ipotetica ricostruzione (Claussen, 1987, tav. 139, fig. 279).Nella stessa basilica, sull'altare maggiore, è tuttora conservato il più importante c.-reliquiario romano, quello fatto erigere nella ricostruzione dell'edificio in seguito all'incendio del 1360 da Urbano V (1362-1370). L'opera intendeva evidentemente riallacciarsi alla tradizione paleocristiana del più antico c. lateranense, sia nella decorazione scultorea, che proclamava la continuità tra Antico e Nuovo Testamento richiamata nel c. costantiniano dalla presenza delle reliquie mosaiche, sia appunto nelle sue funzioni di reliquiario (vi erano conservate, tra le altre, le teste venerate come dei ss. Pietro e Paolo, allora rinvenute), sia infine nel suo significato politico di donazione da parte di un sovrano laico, in questo caso Carlo V di Francia, che ne fu il finanziatore. In definitiva, il c. aveva un chiaro valore simbolico, politico e religioso, legato al ristabilimento della sede del pontefice dopo la cattività avignonese nel suo originario centro e quindi alla continuità e centralità del potere papale (Monferini, 1962).L'opera, attribuita a Giovanni di Stefano, attivo con alcuni collaboratori, ha subìto numerosi restauri e rifacimenti (l'ultimo del 1851); l'originaria struttura, seppure più semplice e con una minore elevazione, non doveva comunque essere molto diversa dall'attuale, come dimostra la sua riproduzione nell'affresco del sec. 16° nella chiesa di S. Martino ai Monti. Sulle quattro colonne, disposte in pianta quadrata e collegate su ogni lato da tre archi a tutto sesto, al cui interno sono archetti acuti binati e traforati, è una cassa cubica coperta da una volta a crociera e decorata da pannelli dipinti e da otto statuette negli angoli; la cassa, che sorregge una loggia superiore (con coronamento a cuspide e copertura a volta) all'interno della quale si conservavano le reliquie protette da una grata, è conclusa da quattro timpani fiancheggiati da alti pinnacoli. Se imprescindibile è qui la lezione di Arnolfo ed evidente l'influsso francese, pienamente giustificato dalla committenza, la struttura piuttosto massiccia, la veduta frontale e la scultura 'aggiunta' denunciano come punto di riferimento più diretto l'arcaismo di Deodato e in particolare il c. dell'altare della Maddalena, senz'altro riecheggiato.Dal c.-reliquiario si sviluppò il tabernacolo-reliquiario, destinato alla conservazione delle reliquie e non più a fungere da copertura dell'altare, documentato da vari esempi romani, che si protrassero ancora per tutto il Quattrocento (Zander, 1984), nonché a Firenze dal tabernacolo di Orsanmichele di Andrea di Cione (v.), il quale originariamente non conteneva l'altare, aggiunto solo in un secondo momento (Cassidy, 1992).Se le fonti documentarie e iconografiche, i frammenti e i c. conservati attestano per l'Italia una tradizione ininterrotta, dall'epoca paleocristiana al Tardo Medioevo, per gli altri paesi la documentazione non altrettanto abbondante (e forse anche meno studiata) sembra indicare un più limitato e più discontinuo utilizzo del c. d'altare. Fa eccezione la costa adriatica orientale, di diretta influenza italiana, per la quale alle testimonianze già ricordate del periodo altomedievale fanno seguito quelle romaniche, documentate per es. dal c. con copertura piramidale, del sec. 11°, proveniente da Biskupija presso Knin, ora all'Arheološki muz. di Spalato, o dai frammenti di c. dello stesso museo, provenienti da S. Donato, cattedrale della città, databili, grazie a un'iscrizione dedicatoria che cita il proconsole Gregorio, al quarto decennio del sec. 11° (Petricioli, 1962), e dai più tardi c., che riprendono, variato, il tipo romano con copertura ottagonale a più piani di gallerie, del duomo di Traù (sec. 14°), della cattedrale di Cattaro (metà del sec. 14°) e del duomo di Curzola (sec. 15°).In Francia la diffusione del c. sembra iniziare dopo la disposizione data da Carlo Magno nel Capitolare di Aquisgrana del 23 marzo del 789 (MGH. LL, I, 1835, p. 64) - da inserire nel processo di avvicinamento alla liturgia della Chiesa romana - di ricoprire gli altari con teguria o laquearia. Per il periodo precedente si dispone soltanto della notizia, riferita da Paolo Diacono (Hist. Lang., III, 34; MGH. SS rer. Lang., 1878, pp. 12-187: 113), di un grande cyborium, decorato da molte gemme, destinato dal re dei Franchi Gontrano (561-593 ca.) al Santo Sepolcro di Gerusalemme, ma poi collocato sulla salma del martire Marcello a Cavallonus (od. Chalon-sur-Saône) - che costituisce molto probabilmente un baldacchino su tomba o un reliquiario piuttosto che un c. -, e del frammento di arco della cattedrale di Saint-Etienne a Metz, attribuito al c. (reba) che il vescovo della città fece costruire con l'aiuto di Pipino sull'altare del protomartire Stefano (Vieillard-Troiekouroff, 1989).Dopo la disposizione di Carlo Magno, nelle fonti le segnalazioni di c. si fanno più frequenti; anche in questo caso tuttavia esse citano solo i manufatti più ricchi e preziosi e in genere non ne forniscono descrizioni. Si può ricordare che Angilberto fece costruire tre c. in argento, decorati in oro, a Centula/Saint-Riquier, il primo sull'altare del Salvatore, il secondo su quello di S. Ricario e il terzo sull'altare maggiore della chiesa di S. Maria (Angilberti abbatis De ecclesia Centulensi libellus; MGH. SS, XV, 1, 1887, pp. 173-179: 177); che il vescovo di Auxerre Aronne (800-813) ne fece innalzare uno d'oro e d'argento sull'altare di S. Stefano nell' abbazia di S. Mariano (Historia episcoporum Autissiodorensium, in P. Labbe, Nova bibliotheca manuscriptorum librorum, Paris 1657, I, pp. 409-526: 431), come pure il vescovo Aldrico nella cattedrale di Le Mans intorno all'834 (Gesta Aldrici episcopi Cenomennensi; MGH. SS, XV, 1, 1887, pp. 304-327: 315). Un prezioso c., il cui rivestimento d'argento nel 925 fu rubato dagli Ungari, copriva l'altare maggiore della chiesa dedicata a s. Otmaro a San Gallo (Eccheardo IV, Casuum S. Galli continuatio; MGH. SS, II, 1829, pp. 105-106), mentre a Cluny s. Odilone (994-1049), secondo quanto riferisce il suo discepolo Iotsaldo, fece costruire, o forse rinnovare, un c. dalle colonne rivestite d'argento e ornate a niello (Ex epitaphio et miraculis Odilonis abbatis Cluniacensis auctore Iotsaldo, XIII; MGH. SS, XV, 2, 1888, pp. 812-820: 814). Maggiori notizie si hanno sul c. fatto collocare dal vescovo Gebhard nel 983 nella chiesa di St. Gregor nel monastero di Petershausen, nella diocesi di Costanza, distrutto da un incendio nel 1159: esso aveva colonne di legno rivestite d'argento e ornate, archi, esternamente in argento dorato e internamente in bronzo, su cui poggiava una piatta tavola in legno con un'apertura circolare al centro, rivestita in rame dorato e ornata internamente dalle raffigurazioni degli evangelisti; da essa si ergeva una struttura a forma di torre, con tetto dorato a cupola sostenuto da colonnine tortili, culminante con l'Agnello (Casus monasterii Petrishusensis, I, 18-19; V, 42; MGH. SS, XX, 1869, pp. 621-683: 632, 676).La diffusione dell'arredo, anche in epoca successiva, è documentata, oltre che dalle descrizioni delle fonti, talvolta molto discusse (come nel caso del grande c. dell'altare di Grandmont del sec. 12°, di assai dubbia interpretazione), dalle numerose testimonianze iconografiche. Mancano, invece, esempi conservati, a parte il piccolo c. di Arnolfo di Carinzia (v.), donato alla chiesa di St. Emmeram a Ratisbona intorno all'893, documento dell'imitazione dei grandi c. e baldacchini d'altare nei ciboria itinerarium.Già nel sec. 12°, in ogni caso, si diffuse in Francia l'uso di porre intorno all'altare, invece delle coperture mobili o fisse rappresentate ancora nelle testimonianze iconografiche (per es. in molte vetrate, tra cui il rosone nord di Notre-Dame di Parigi), colonne sorreggenti veli (Viollet-le-Duc, 1854, p. 34; 1859, p. 508). Il c. era invece posto a ricoprire la cassa con le reliquie sopra un secondo altare, collocato dietro quello maggiore; tra i più importanti di questo tipo è quello della chiesa superiore della Sainte-Chapelle di Parigi, già ricordato come probabile modello per Arnolfo di Cambio. Si tratta di una struttura doppia: in basso è un altare addossato al muro, coperto da un c. sopra al quale un secondo c. proteggeva le preziose reliquie della Passione ricevute nel 1239 da Luigi IX, per conservare le quali fu edificato l'intero edificio, consacrato nel 1248. Il c., ricostruito sulla base della testimonianza delle fonti, di immagini e di pezzi superstiti, si riaggancia allo schema del c. paleocristiano, mediato dalla versione altomedievale e romanica e reinterpretato in chiave intellettuale con la trasfigurazione della struttura in un'astrazione di linee ininterrotte, realizzate secondo il nuovo stile gotico rayonnant. Il motivo di massima novità è costituito dall'adozione del gâble; le brevi pareti che si alzano verso gli archi del c. sono strette tra sottili pilastrini angolari, anch'essi interamente traforati, salienti a concludersi in gugliette molto oltre la linea degli spioventi del tetto, al di là della quale sale anche il triangolo traforato da rose a trifoglio e ricami che conclude la paretina sopra l'arcata, quale alto timpano 'a vento'.Anche per quanto riguarda la Spagna, dove abbondano sugli altari baldacchini lignei dipinti, le testimonianze sono scarse e iniziano solo con il sec. 11° e più esattamente con il 1040, quando il monaco Garcia informa che nella chiesa di Saint-Michel-de-Cuxa, per volontà dell'abate Oliba, era in costruzione un c. (Pierre de Marca, Marca Hispanica sive Limes Hispanicus, Paris 1688, coll. 1072-1082: 1079); sulla base di questa descrizione, peraltro non chiara, è stata tentata (Puig i Cadafalch, de Falguera, Goday y Casals, 1911, fig. 353) una restituzione ipotetica della struttura, che comprendeva colonne di marmo e copertura in legno ornata da sculture lignee, in un insieme figurativo e simbolico piuttosto ricco, al pari di quello del c., degli inizi del sec. 12°, commissionato dal vescovo Gelmirez per la cattedrale di Santiago de Compostela, il solo c. romanico di cui sia abbia notizia in Galizia (Historia Compostellana, I, 18; Corpus Christianorum, LXX, 1988, pp. 43-44). L'abbondante ornamentazione sviluppava un complesso programma iconografico, con riferimenti alla Gerusalemme celeste e alla Chiesa trionfante (Moralejo, 1980). Ancora una ricostruzione ipotetica è stata tentata per il c., del sec. 12°, che doveva trovarsi sopra l'altare maggiore del monastero di Santa Maria di Ripoll, a pianta leggermente rettangolare, in pietra, di dimensioni piuttosto grandi, e con un ricco programma iconografico. L'ipotesi ricostruttiva, in questo caso, può fare riferimento a quattro basi figurate monumentali (conservate tre nei depositi, la quarta in una sala del museo) e ad alcuni frammenti scolpiti, ora nel chiostro (Barral i Altet, 1973).Tra i pochi c. conservati si ricordano - posti davanti all'arco di trionfo da una parte e dall'altra della navata - quelli della Magdalena a Zamora, quelli addossati al muro e quindi sorretti solo da due colonne anteriori nella chiesa di Nuestra Señora del Valle presso Burgos, degli inizi del sec. 13°, e infine i due possenti c. di San Juan de Duero a Soria, a pianta quadrata con volte a crociera, con cupola l'uno conica, l'altro emisferica, su gruppi di quattro colonne con capitelli figurati a motivi sacri e fantastici, che dichiarano esplicitamente gli influssi orientali assimilati a Gerusalemme dagli Ospedalieri di s. Giovanni.In territorio tedesco gli esempi di c. conservati sono per la maggior parte dei secc. 14° e 15°; in prevalenza si tratta di c. eretti su altari minori, spesso addossati ai muri e quindi su due soli sostegni anteriori, o inseriti come vere e proprie cappelle nell'angolo formato da due pareti (per es. il c. dell'Evangelische Pfarrkirche di Münzenberg, della metà del sec. 13°). Il più antico c. pervenuto è quello del transetto sud di St. Pankratius di Hamersleben, degli inizi del sec. 13°: quattro colonne che disegnano una pianta rettangolare, collegate da archi acuti, sostengono una volta a crociera costolonata, mentre la chiusura superiore è rettilinea. Di questo tipo, che è quello predominante in Germania, con la variante dell'arco trilobo tra le colonne, era anche il perduto c. del duomo di Limburg an der Lahn (Braun, 1924). Con archi tra i sostegni e un frontone sopra l'arco a nascondere la copertura sono i due c. del duomo di Ratisbona, del sec. 14°, ora nei cori laterali. Nello stesso edificio sono conservati altri c., particolarmente ricchi nella struttura e nella decorazione, databili fra il sec. 14° e il 15°, tra i quali si può ricordare quello triplice, con terminazione rettilinea e cuspidi gattonate sopra gli archi acuti tra i pilastri di sostegno. La presenza di un tipo ancora diverso, con un'alta torre centrale traforata, poggiante sulla volta, è documentata dal c. della LiebfrauenKirche a Halberstadt, del 14° secolo.
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