Cina
La 'lunga marcia' dell'economia cinese
L'impatto dell'economia cinese nel quadro mondiale
di Francesco Sisci
11 marzo
A Liaoyang, in Manciuria, 30.000 lavoratori 'dismessi', appartenenti a una ventina di fabbriche da tempo inattive, scendono in piazza per chiedere il pagamento degli stipendi bloccato da mesi. Le città del Nord-Est, un tempo la regione più industrializzata della Cina, sono colpite da anni da una profonda crisi, causata dalle riforme economiche che hanno portato alla chiusura di moltissimi impianti statali. La spinta finale verso l'economia di mercato, dopo i profondi cambiamenti prodotti dalla rivoluzione iniziata dal leader comunista Deng Xiaoping, è venuta dall'ingresso della Cina nell'Organizzazione mondiale del commercio. L'accordo, ratificato ufficialmente il 10 novembre 2001, rappresenta l'apertura all'economia globalizzata di un mercato di 1,3 miliardi di persone.
Ricchezza totale e ricchezza pro capite
Si stima che entro la fine del 2002 il prodotto interno lordo cinese, che nel primo trimestre dell'anno ha raggiunto i 2102 miliardi di yuan, con un tasso di crescita del 7,6%, dovrebbe oltrepassare la soglia dei 10.000 miliardi di yuan. Al tasso di cambio attuale questa cifra porterebbe l'economia cinese a superare, per il secondo anno di seguito, quella italiana e ad attestarsi con sicurezza al quinto posto della graduatoria mondiale. A 24 anni dall'inizio delle riforme economiche la Cina si trova ad avere più che quintuplicato il suo PIL (il tasso di crescita medio tra il 1979 e il 2001 è stato di oltre l'8% l'anno) e ha portato così gli oltre 1,3 miliardi di abitanti a uscire dall'area di sottosviluppo e, di fatto, a inserirsi nella ristretta cerchia delle nazioni con una grande influenza sull'economia mondiale. Tuttavia, proprio nel rapporto tra ricchezza totale e popolazione si evidenzia il grande divario, che è stato recepito anche durante la negoziazione delle clausole di accesso del paese nell'Organizzazione mondiale del commercio (WTO, World trade organization). Il WTO ha infatti concesso alla Cina un passaggio graduale alla piena applicazione delle regole del commercio internazionale, offrendo un periodo di transizione di cinque anni. La Cina è nel complesso un paese ricco, ma se si divide questa ricchezza fra tutta la sua immensa popolazione il quadro diventa assai meno brillante. Nel 2000 la Cina aveva un PIL annuo pro capite di appena 7028 yuan, meno di 1000 euro a persona. Secondo l'ultimo World Report della Banca Mondiale, il PIL pro capite cinese, valutato in parità di potere di acquisto (PPP, Parity purchasing power), nel 2000 era di 3920 dollari (per confronto: quello dell'Italia era di 23.470 dollari; quello della Grecia, il paese più povero nell'Unione Europea, di 16.880 dollari; quello della Polonia di 9000; quello della Russia di 8010; quello della Turchia di 7030; quello dell'India di 2340 dollari).
In questo divario tra ricchezza totale e ricchezza pro capite va inquadrato anche tutto il potenziale di crescita del paese, che ha corso a ritmi vertiginosi negli ultimi venti anni anche se i tassi ufficiali di crescita tendono a diminuire dopo i tumultuosi anni Novanta. Sulle cifre di questa crescita esiste peraltro un ampio dibattito. Alcuni studiosi stranieri, come per esempio N. Lardy e Th.G. Rawski, hanno sostenuto, prendendo in considerazione i tassi di crescita dei consumi energetici e dell'uso dei trasporti pubblici, che le cifre di crescita reale sono in realtà inferiori dell'8% rispetto al dato ufficiale. A tali contestazioni l'Ufficio nazionale di statistiche controbatte sostenendo di avere sufficienti argomenti per provare la consistenza dei suoi dati. Quando Rawski fa rilevare che in alcuni anni la crescita del consumo energetico non corrisponde a quella economica, i funzionari cinesi rispondono che questo si deve a miglioramenti di efficienza dell'uso di energia. Per quanto riguarda invece i trasporti, che aumenterebbero a ritmi inferiori a quelli della crescita del PIL, i funzionari affermano che le cifre utilizzate da Rawski non comprendono il trasporto su ruote privato, che ha assorbito una gran parte di viaggiatori. Deve comunque essere notato che Lardy, Rawski e gli altri studiosi, pur non prestando fede ai dati forniti, basano il loro lavoro sulle statistiche ufficiali, di cui mettono in rilievo vere o presunte inconsistenze. In realtà non esistono altri dati su cui lavorare al di fuori dell'imponente mole di cifre elaborata ogni anno dall'Ufficio nazionale di statistiche. In queste condizioni il dibattito potrebbe andare avanti all'infinito. Quindi, per cominciare a comprendere qualcosa, è forse opportuno partire dai dati più certi, ovvero da quelli relativi al commercio estero. Questi sono infatti gli unici incontrovertibili in quanto devono corrispondere ai conti di altri paesi. Qui i numeri sono comunque impressionanti.
Esportazione e mercato interno
Nel 2001 il commercio con l'estero ha superato i 500 miliardi di dollari su un PIL complessivo di circa 1160 miliardi di dollari. Oltre il 40% della ricchezza del paese è prodotto dal commercio estero, una percentuale quadrupla rispetto a quella degli Stati Uniti, che pure sono una grande potenza commerciale (altro confronto: in Giappone e in Italia la percentuale è di circa il 30%). Questa cifra si impone con evidenza a quanti pensano viceversa che l'economia cinese sia un'economia chiusa. Su questa base la Banca Mondiale, calcolando il PIL cinese in PPP, sostiene che oggi l'economia cinese è la seconda del mondo e fra meno di 20 anni avrà superato quella americana. Questa ipotesi è avallata anche dall'Economist, che ha stilato una classifica del potere di acquisto, confrontando il prezzo di alcuni beni identici venduti in diverse parti del mondo: si tratta della mac list (dal fast food McDonald's), basata sull'assunto che lo stesso panino e la stessa bibita possono essere comprati in tutto il mondo a prezzi nominali diversi. In base a questo indice l'economia cinese appare sottovalutata di circa il 40%. A cifre simili sono del resto arrivati nel 2001 anche i giapponesi, quando hanno suggerito una rivalutazione dello yuan cinese di circa il 50% per far guadagnare competitività ai prodotti nipponici, messi in difficoltà da quelli cinesi.
Se si osserva poi lo stile di vita della gente, si può riscontrare come interi settori dell'economia nazionale siano sottostimati o non stimati. Per es., negli ultimi quattro anni le aziende statali hanno venduto ai propri dipendenti le case dove abitavano a prezzi di favore (10-20.000 dollari). Il prezzo commerciale di quelle stesse case è spesso dalle cinque alle dieci volte superiore a quello di acquisto. In realtà gli acquirenti delle case aziendali si sono impegnati a non rimettere sul mercato le loro proprietà prima di una certa data, cinque anni in media, e questo senza dubbio limita l'impatto sulle statistiche. Certamente però esiste un differenziale tra prezzo di costruzione dell'appartamento, prezzo di acquisto (che più o meno corrispondono) e valore di mercato. Si tratta in altri termini di un massiccio trasferimento di ricchezza dallo Stato a privati: facendo spendere loro poco e quindi non contraendo la domanda interna, il governo ha creato - in tempi molto brevi - una classe media proprietaria di casa. È una decisione politica e sociale di impatto enorme che traina tra l'altro i consumi, aumentati negli ultimi anni di circa il 6% l'anno come valore, ma intorno al 10% come quantità. L'inflazione è infatti stata in questi anni piatta (nel 1998, 1999 e 2000 i prezzi si sono in realtà abbassati) e nel 2001 ha registrato un sospirato aumento di appena lo 0,7%. La caduta dei prezzi è un problema doppiamente grave. Da una parte, infatti, essa porta a rivalutare i debiti, dall'altra a ribassare la domanda, in quanto spinge a rimandare gli acquisti. Ma questo è solo un aspetto del fenomeno, perché mentre i prezzi dei beni di consumo sono calati sono aumentati invece quelli dei servizi. Così, a fronte dell'abbassamento dei prezzi, la percezione della gente comune non è stata quella di un miglioramento dello standard di vita o di una diminuzione del costo della vita. Il calo dei prezzi dei beni di consumo è stato infatti il portato di un processo complesso, importantissimo per la struttura economica cinese, ma anche difficile da rendere in numeri.
Conseguenze della riforma delle imprese di Stato
Negli stessi anni in cui i prezzi si abbassavano procedeva a tappe forzate la riforma delle grandi imprese di Stato, che ha significato in termini pratici l'espulsione di quasi 20 milioni di persone dai loro tradizionali posti di lavoro. Le imprese di Stato (SOE, State owned enterprises) erano dei microcosmi, dotati al loro interno di ogni tipo di servizio, dall'ospedale alla scuola, ai negozi. Le più grandi, come l'Acciaieria speciale della compagnia siderurgica Shougang, a Pechino, erano delle città che occupavano oltre mezzo milione di persone. Svolgevano due compiti, uno produttivo e uno sociale, producevano e davano occupazione, in quanto lo Stato in qualche modo delegava le sue funzioni di assistenza sociale a un organismo decentralizzato: l'impresa. Questo modello era incompatibile con l'economia globalizzata già sotto il profilo strutturale. Inoltre, truccava tutti i conti rendendoli illeggibili in un mondo in cui la finanza chiede tabulati standard e cifre omologabili sotto ogni orizzonte. In altri termini, lo Stato finanziava attraverso le sue banche le imprese e questi finanziamenti avevano sia il senso reale di sostegni alla produzione, in caso di industrie strategiche, sia il ruolo di sussidi sociali nel campo della sanità e dell'educazione o contro la disoccupazione, gestiti tutti direttamente dalle imprese. Il risultato era quello di generare una montagna di debiti in sofferenza, che di fatto erano un elemento frenante per le banche commerciali. Appariva quindi necessario cercare di scorporare le funzioni sociali da quelle produttive di un'azienda e in questa luce valutare quale azienda avesse ancora potenzialità produttive e quale invece restasse fuori dal mercato. In questo modo si poteva anche avviare un processo attraverso cui chiarire quale parte dei debiti in sofferenza delle banche fosse da consolidare come debito pubblico, in quanto in realtà sussidio sociale, e quale invece potesse essere recuperato. Questa vasta operazione ha comunque subito liberato immense risorse produttive e ha reso più efficienti molte imprese statali, con un effetto positivo su tutto il ciclo produttivo, abbassando quindi i costi di produzione di molti beni di consumo. D'altro canto una serie di servizi che prima erano gratuiti, o pressoché tali, come l'istruzione e l'assistenza sanitaria, venivano derubricati dalle casse dello Stato e diventavano tutti a pagamento quasi pieno. Così, la scuola, che fino a qualche anno fa era gratis, costa oggi, a seconda dell'istituto, dai 1000 a 5000 dollari all'anno a bambino per le elementari, mentre gli ospedali, fino a quattro-cinque anni fa gratuiti, si finanziano per circa l'80% con i proventi tratti dalle visite specialistiche e dalla vendita di medicine. Le famiglie cinesi, dunque, si sono trovate dall'oggi al domani a dover pagare per la scuola dei figli e per l'assistenza sanitaria, e a mettere i soldi da parte per la pensione o per far fronte a un eventuale licenziamento. All'aumento di questi costi non ha corrisposto un aumento dell'apporto della previdenza o delle assicurazioni sociali, che altrove si occupano di questo tipo di servizi. Fondi pensione o sanitari o di istruzione - che da un lato raccolgono i risparmi privati e dall'altro li investono con prudenza nella borsa, finanziando anche quindi il ciclo produttivo - non sono cresciuti di pari passo con la distruzione del vecchio sistema sociale. Ciò ha praticamente lasciato alla famiglia tutto l'onere della gestione del risparmio, che quindi è stato messo in banca per essere utilizzato all'occorrenza. Da una parte, allora, i prezzi dei beni di consumo sono calati, dall'altro è cresciuto in maniera esponenziale il costo di tutti i servizi, compresa la casa, il gas, l'elettricità ecc. e sono aumentati i risparmi in banca, in qualche modo però già predestinati a pagare servizi, come pensione e scuola per i figli. In questi anni si è assistito di fatto a una impennata dei risparmi e a un calo dei crediti. Nel 2000 il totale dei depositi bancari toccava i 12.380 miliardi di yuan, mentre il totale del monte crediti era appena di 9937 miliardi di yuan. La differenza tra depositi e crediti è aumentata ed è diventata enorme a metà del 2002, quando i depositi sono divenuti circa un terzo in più rispetto ai crediti. Da una parte, infatti, la gente ha risparmiato di più pensando di dover affrontare molte più spese del previsto (salute, scuola, disoccupazione); dall'altra il nuovo rigore contro i debiti in sofferenza ha imposto una maggiore prudenza alle banche che non elargiscono crediti se non sono totalmente sicure che questi non si trasformeranno in nuovi debiti in sofferenza. Questa differenza tra depositi e crediti ha un duplice risvolto. Il grande surplus di depositi sui crediti conferisce una nuova solidità alle banche, fino a pochi mesi fa minacciate da un ammontare di debiti in sofferenza o insolubili che avrebbero potuto essere maggiori degli assets e quindi mettere di fatto le banche stesse in stato di virtuale bancarotta. È chiaro ora che l'ammontare degli assets è tale che, anche se i crediti inesigibili fossero molto di più del 3-4% dichiarato ufficialmente, ciò non porterebbe al fallimento della banca. D'altro canto la differenza è segno di una grande inefficienza nella gestione bancaria, che si manifesta nello spread tra interessi passivi e attivi. Le banche pagano poco più dell'1% sui depositi ma esigono oltre il 5% sui prestiti. Ciò significa un costo extra, potenzialmente enorme, imposto all'economia e un costo del denaro di fatto molto superiore a quello dei mercati internazionali. Se questi sono i costi ufficiali, quelli reali del denaro sono ancora superiori. L'accesso al credito è limitato a chi può offrire garanzie immobiliari e si ferma, di fatto, alle imprese statali forti dell'appoggio politico nazionale o locale. Infatti con le nuove norme, redatte per evitare di creare nuovi debiti in sofferenza, i bancari concedono crediti solo a imprese in qualche modo dotate di una copertura politica (cioè il singolo bancario cerca di proteggersi da eventuali accuse di aver sbagliato e risponde sempre più solo a ordini che sono sostanzialmente politici), oppure a fronte di forti garanzie immobiliari. Per le imprese private, piccole e medie, che non hanno grandi proprietà immobiliari né appoggi politici, il costo del denaro è di fatto superiore al 10% e passa spesso per canali non ufficiali, a fronte di un'inflazione quasi a zero. In altri termini, di fatto le grandi imprese prestano a tassi più alti ciò che hanno preso dalle banche a tassi più bassi, e con gli interessi guadagnano tempo e denaro utili alla propria ristrutturazione. Ciò non sarebbe gravissimo se non fosse che ormai le imprese statali creano solo circa il 20% del PIL, mentre il settore non statale crea tutto il resto. Il credito però è distribuito in senso inverso, andando per oltre il 60% alle imprese statali. Considerando anche sommariamente questi numeri, emerge con evidenza che le imprese non statali sono molto più efficienti nell'uso del denaro rispetto a quelle statali e che, se la collocazione del credito fosse riequilibrata in base all'efficienza, la Cina potrebbe avere tassi di crescita molto superiori, senza altre iniezioni di denaro. Il nodo resta dunque quello della gestione del denaro, che comporta tre aspetti: da un lato le banche devono essere condotte in maniera sempre più privatistica; dall'altro i bancari devono apprendere tecniche moderne di gestione; inoltre devono entrare in funzione dei fondi di investimento che portino in borsa i risparmi dei privati. Ma anche questi fondi hanno bisogno di una grande capacità gestionale e di un calcolo del rischio, che oggi non c'è. Secondo la Banca Mondiale il completamento di questo processo richiederà un periodo di circa 10-15 anni.
Il debito pubblico
Nel frattempo l'economia deve essere comunque ancora indirizzata dall'alto e forse anche sostenuta da massicce iniezioni di denaro pubblico destinate alle infrastrutture (strade, telecomunicazioni). Queste negli ultimi quattro anni sono state probabilmente la maggiore voce di crescita economica del paese, ma hanno imposto un peso sempre maggiore al debito pubblico. Secondo un'analisi di F. Giavazzi e R. Dornbush, nel 1999 il costo per sanare il debito delle banche e consolidarlo in debito pubblico veniva calcolato in una cifra corrispondente al 25% del PIL. In realtà con il passare degli anni questa percentuale è diminuita a causa della crescita del PIL e della riduzione dei debiti insolubili. Alla luce di questa tendenza si comprende che la Cina non ha intenzione di arrivare a un rapido consolidamento del debito delle banche, ma intende ridurlo progressivamente nel corso degli anni lasciando che il tempo e l'inflazione abbattano la percentuale dei debiti bancari sul PIL. Inoltre in questi anni una parte dei debiti insolubili delle banche è stata trasferita ad alcune agenzie che stanno a loro volta provvedendo alla dismissione delle proprietà immobiliari e degli assets. Nel 2000 il debito pubblico cinese ammontava a 1367 miliardi di yuan su un PIL di 8818 miliardi (la percentuale negli anni successivi è aumentata a causa delle iniezioni di fondi pubblici per lavori di infrastrutture). Sempre nel 2000 al debito interno andavano addizionati i circa 480 miliardi di yuan di debito estero. Sommata ai debiti insolubili delle banche, la cifra totale si aggirerebbe intorno al 50% del PIL, attestandosi molto probabilmente un po' al di sotto di questa soglia. A fronte di questo debito il gettito fiscale si aggira nel complesso intorno al 23-24% del PIL. È questo il tallone di Achille dell'economia cinese, perché con un gettito fiscale basso lo Stato rischia di indebitarsi oltre la sua capacità di ripagamento. Questo dato, tuttavia, non va sovrastimato. L'Italia con un gettito fiscale intorno al 40% del PIL deve servire un debito pubblico superiore al 100% del PIL, senza contare pensioni, spese sanitarie ecc. Il problema non è fondamentale visti i buoni conti correnti annuali e il fatto che il debito pubblico è per la grandissima parte interno. Le proporzioni in Cina sono ancora migliori né è pensabile un default dello Stato, che vanta comunque oltre 200 miliardi di dollari di riserve in valuta e un forte attivo commerciale.
La questione dell'uso del denaro pubblico per l'economia riconduce all'uso del credito. Le imprese piccole e medie che non hanno accesso al credito bancario si finanziano in realtà attraverso l'evasione fiscale e questa evasione fiscale delle piccole e medie imprese di fatto consente, come abbiamo visto prima, un'utilizzazione del capitale migliore di quella dello Stato o delle grandi imprese pubbliche. Una maggiore imposizione fiscale su queste imprese rischierebbe dunque di strangolare l'economia cinese. Non solo: un'ampia percentuale (si calcola tra il 20 e il 40% del totale) degli investimenti diretti stranieri in Cina, che nel 2001 sono stati di 46,8 miliardi di dollari, sono in realtà fondi cinesi esportati e reimportati attraverso Hong Kong. In altre parole, c'è una gran parte dell'economia non statale che viaggia in una zona grigia e che deve contribuire alle spese dello Stato. Altrimenti, lo Stato deve liberarsi di pezzi di gestione (costruzione di strade, centrali elettriche, ma anche ospedali e scuole) per diminuire le sue esigenze. Nel primo caso deve crescere il gettito fiscale, nell'altro lo Stato deve entrare in partnership con privati che gestiscano alcuni servizi pubblici. In entrambi i casi, il vero problema è quello di un grande riordino dell'economia, che consenta da una parte un'esazione fiscale più sistematica ed equa e dall'altra l'emersione di privati oggi semisommersi.
La legalizzazione delle imprese private e le pensioni
In ogni evenienza occorre pensare a una grande opera di legalizzazione delle imprese private che sono nate e si sono consolidate in questi anni, ma finora non hanno ricevuto piene garanzie da parte della legge. A questo scopo in Cina si sta elaborando un Codice Civile, fondamentalmente redatto sul modello di quello italiano, che di fatto garantisca in pieno la proprietà privata. Si tratta di un passo importante che permetterebbe anche una migliore gestione dei crediti bancari e avrebbe effetti positivi su tutta l'economia nazionale. Il dibattito tuttavia rimane ancora aperto perché ampie frange del paese sono contrarie a un'operazione che, di fatto, porterebbe a una grande ondata di privatizzazioni. Gli oppositori sono a sinistra, tra i vecchi marxisti contrari alla proprietà privata, e a destra, tra coloro che non vogliono si passi sopra alle malefatte con cui molti si sono arricchiti in questi anni. In realtà a suggerire questa linea d'azione sono considerazioni di semplice realismo. Di fatto gran parte delle proprietà statali in Cina sono già privatizzate, gestite più o meno malamente da signorotti locali. La legalizzazione di questo passaggio ripulirebbe il campo e responsabilizzerebbe i soggetti. Oggi, infatti, molti gestori si tengono un'azienda finché va bene, mentre la ripassano allo Stato se va male. Una privatizzazione renderebbe impossibile questo processo e i gestori andrebbero a fondo insieme a una loro eventuale cattiva gestione. Al di là del dibattito ideologico, poiché gli ultimi venti anni di storia cinese hanno dimostrato che Pechino alla fine sceglie sempre il realismo, il varo del Codice Civile e delle sue privatizzazioni è solo una questione di tempo.
Il problema delle pensioni, che suscita qualche preoccupazione all'estero, considerando soprattutto la politica attuale del figlio unico, è forse il minore dei mali. Oggi infatti solo una piccola percentuale della popolazione gode di pensione. I contadini non l'hanno mai avuta e una larga parte della popolazione urbana, che prendeva la pensione dall'azienda per cui aveva lavorato, se l'è vista sottrarre dato che in molti casi queste aziende sono fallite o sono in condizioni economiche precarie. Il governo intende istituire fondi pensione, ma finora solo un centinaio di milioni di cinesi è coperto. La redditività di questi fondi è peraltro minima, poiché per sicurezza non operano in Borsa. Nell'arco di 10-15 anni, però, con la maturazione di una classe di gestori del credito migliore, una rete di sicurezza sociale dovrebbe essere estesa a tutta la Cina e affidata a fondi pensione di tipo americano, la cui redditività dipenderà dalla Borsa e non dai versamenti contributivi di una popolazione che i cinesi auspicano in calo. In realtà tale calo non si sta registrando, perché se in città la gente ha un figlio solo, in campagna la norma è tre o più. In meno di 20 anni l'immigrazione interna porterà tutta questa massa a vivere e produrre reddito in grandi metropoli, con un processo di inurbamento che secondo le stime riguarderà 600 milioni di persone, finora rimaste ai margini della società urbana.
La Cina e il mondo
I problemi della Cina appaiono dunque sufficientemente sotto controllo. Rimane il pericolo che il dinamismo cinese divori tutto, ma forse anche questo rischio è visto in maniera esagerata. Qui gli elementi da considerare sono le riserve in valuta che alla fine del 2001 erano di 212 miliardi di dollari in Cina e di circa 90 miliardi di dollari a Hong Kong. Pechino è quindi il più grande creditore del mondo, più di Tokyo che veleggia sui 300 miliardi di dollari. Ma a differenza di Tokyo, in crisi da un decennio, la Cina ha un'economia che cresce molto rapidamente. È ben difficile però dire quanto rapidamente e se e fra quanto avverrà il sospirato, o temuto, sorpasso economico.
Oggi l'economia cinese corrisponde a circa un ottavo di quella americana, e questo costituisce un gap enorme, anche se minore rispetto al passato. In altri termini, quand'anche la Cina quadruplicasse il suo PIL nei prossimi 20 anni (il che significa una crescita media dell'8% l'anno, tasso superiore alle previsioni attuali che ipotizzano un 7 o anche un 6%), questo arriverebbe a essere la metà del PIL americano, se gli USA non crescessero. Ma se gli USA non dovessero crescere non lo farebbe nemmeno la Cina. Stimando invece che nei prossimi 20 anni l'economia americana crescerà del 50 o del 100%, per pensare a un sorpasso economico cinese dobbiamo proiettarci su un orizzonte di almeno 40-50 anni, un lasso di tempo che difficilmente potrà trascorrere in modo lineare. La prospettiva del sorpasso va quindi presa con molta cautela. Un discorso diverso vale per il peso relativo della Cina in Asia. Nel continente, dopo il 1997, la Cina ha di fatto sostituito il Giappone quale motore di sviluppo e nel 2001 e 2002 è apparsa capace di trainare attivamente le economie più vivaci della regione: quella thailandese e quella sudcoreana (mentre stentano Taiwan e Hong Kong, già integrate nel suo sistema economico). Questa crescente importanza dell'economia cinese in Asia e nel Pacifico è forse l'elemento più importante di questo decennio, anche perché negli anni Novanta in America si è registrato uno spostamento storico del centro economico nazionale dal bacino dell'Atlantico a quello del Pacifico.
A questa realtà l'Europa finora è estranea, concentrata com'è sulle sue questioni interne. La sua distrazione tuttavia potrebbe comportare una significativa marginalizzazione nei commerci internazionali e una progressiva decadenza. Ma su questo il fuoco si sposta da Pechino a Bruxelles.
bibliografia
Accademia delle Scienze sociali di Cina, 2001 Zhongguo, jingji xingshi fenxi yu yuce ("Cina 2001, proiezioni e analisi della situazione economica cinese"), Pechino 2001.
N. Lardy, China's financial sector: evolution, challenges and reform, Washington, Brookings Institution, 1998.
R. Dornbusch, F. Giavazzi, Heading off China's financial crisis, Milano, Università Bocconi, 1999.
T.G. Rawski, GDP statistics. A case of caveat lector, www.pitt.edu/~tgrawski/papers, 2001.
repertorio
La Cina nell'età contemporanea
La fine dell'impero e il movimento nazionalista
Il 12 febbraio 1912 la rinuncia definitiva al trono da parte dell'ultimo imperatore, il fanciullo Pu Yi, aprì una nuova fase della storia cinese. Nell'ottobre dell'anno precedente una rivoluzione vittoriosa aveva portato alla proclamazione della repubblica. Deposto Pu Yi, ne divenne presidente il generale Yuan Shikai, comandante delle migliori truppe dell'Impero, il cui tradimento aveva favorito l'affermazione dei rivoltosi. La sollevazione del 1911 era stata iniziata dai rivoluzionari del Sud provenienti per lo più dalla classe mercantile e fra i quali numerosi erano gli studenti tornati dall'estero. A guidarli era Sun Zhongshan, un medico che si batteva da tempo per la rinascita nazionale della Cina, sostenendo l'abbattimento della dinastia manciù e la creazione di un regime repubblicano fondato sui 'tre principi del popolo', nazionalità, democrazia, benessere. Questi tre principi furono in seguito incorporati nel programma politico del Guomindang, il partito nazionalista fondato da Sun nel 1912 al fine di riunire le vecchie società rivoluzionarie. Forte del suo controllo sull'esercito, Yuan Shikai, una volta ottenuta la presidenza della repubblica, pensò di sbarazzarsi del Guomindang dichiarandolo illegale; riportò la capitale a Pechino, da Nanchino dove era stata trasferita durante il governo provvisorio di Sun Zhongshan e prese a governare autocraticamente con chiari propositi di restaurazione monarchica. La sua morte, nel 1916, aggravò il contrasto tra i rivoluzionari del Guomindang e il governo di Pechino, rimasto in balia dei generali che facevano della guerra la loro professione e miravano a costituirsi feudi personali nelle varie province. Scoppiato il Primo conflitto mondiale, nell'agosto 1917 il governo cinese dichiarò guerra alle Potenze Centrali nonostante l'opposizione dei deputati del Guomindang che, per protesta, abbandonarono la capitale, costituendo un governo militare a Canton sotto il comando di Sun Zhongshan. Il fallimento registrato alla Conferenza della pace di Versailles dalla delegazione cinese, che non riuscì a ottenere dalle potenze alleate la restituzione dei territori già occupati dai tedeschi, scatenò nelle principali città del paese violente manifestazioni. A guidare la protesta erano in maggioranza studenti ispirati dal movimento di carattere illuminista 'Per una nuova cultura', formatosi dopo il crollo dell'impero, che aveva il suo centro nell'università di Pechino e l'organo principale nella rivista Gioventù nuova, sulla quale professori e intellettuali influenzati dalla cultura occidentale conducevano accese campagne contro le istituzioni e i valori tradizionali. Accanto agli studenti parteciparono al movimento anche esponenti delle nuove classi sradicate dall'ordine confuciano tradizionale, come la borghesia mercantile, cresciuta soprattutto nei porti a contatto con gli interessi economici occidentali, e il nascente proletariato industriale. A queste nuove forze si rivolse Sun Zhongshan quando, sull'esempio leninista, riorganizzò il Guomindang con la collaborazione del Partito comunista cinese, fondato a Shangai per iniziativa di un gruppo di intellettuali convertiti al marxismo, tra i quali il bibliotecario dell'università di Pechino Mao Zedong e figure formatesi all'estero come Zhou Enlai. Il governo sovietico da parte sua aveva saputo conciliarsi le simpatie dei nazionalisti cinesi rinunciando spontaneamente a tutti i privilegi ottenuti dalla Russia zarista e aveva inviato a Canton emissari del Comintern per aiutare a organizzare non solo il Partito comunista ma lo stesso Guomindang sulla base di una comune lotta anti-imperialista. Sun Zhongshan, il cui governo le potenze occidentali si ostinavano a non riconoscere, accettò l'appoggio offerto dall'Unione Sovietica e dal movimento comunista internazionale e consentì che i comunisti cinesi, pur conservando la loro organizzazione, s'iscrivessero al Guomindang. Procedé, quindi, a una ridefinizione della sua ideologia dei 'tre principi del popolo', accentuando il carattere anti-imperialista del suo nazionalismo e sviluppando programmi di riforma agraria.
La morte di Sun, nel marzo 1925, fu seguita da violente agitazioni anti-imperialiste, che accrebbero in seno al Guomindang l'influenza già forte dei comunisti. Ciò provocò la reazione degli elementi più conservatori; ne seguì un lungo, confuso conflitto, che si risolse con la vittoria di questi ultimi e con l'assunzione alla guida del Guomindang da parte del generale Jiang Jieshi. Nell'aprile 1927, mentre alla testa di un esercito marciava verso il nord per sottomettere i 'signori della guerra' e unificare la Cina, Jiang ruppe con il Partito comunista, massacrandone con un'azione di sorpresa i quadri riuniti a Shangai. Fra gli scampati al massacro vi era Mao Zedong, il quale aveva trascorso i tre anni precedenti studiando e cercando di organizzare le lotte contadine specialmente nella provincia di Hunan, giungendo alla conclusione, non in linea con i fondamenti ideologici del suo partito, che il vero grande potenziale rivoluzionario in Cina era costituito dalle masse contadine e che l'avvenire della rivoluzione sarebbe dipeso dalla capacità del proletariato cinese e del Partito comunista di mettersi alla loro testa. Rifugiatosi con un pugno di compagni nella zona montagnosa tra il Fujian e il Jiangxi, Mao fondò una comunità di tipo sovietico, guadagnandosi l'appoggio dei contadini con l'attuazione immediata della riforma agraria e costituendo un primo nucleo di esercito. Nel frattempo Jiang Jieshi completava le campagne contro i 'signori della guerra' del nord, unificando almeno formalmente la Cina sotto il governo del Guomindang, la cui sede era stata stabilita a Nanchino. Come passo successivo, Jiang si rivolse contro i comunisti, conducendo tra il 1930 e il 1934 cinque 'campagne di annientamento'. Solo al quinto tentativo riuscì a sconfiggere l'esercito avversario, ma più della metà di questo, circa 100.000 uomini, sfuggì all'accerchiamento e si sganciò con un'epica marcia che portò i 30.000 superstiti nello Shaanxi, nella Cina del nord, dopo un percorso a piedi di 10.000 chilometri. La 'lunga marcia' giovò alla causa comunista, consentendo di politicizzare le popolazioni contadine delle regioni attraversate e creando una straordinaria coesione tra i partecipanti, che formarono il nucleo degli alti quadri del partito nella successiva fase di espansione e di presa del potere. Nello Shaanxi i comunisti organizzarono un'amministrazione sovietica autonoma, con capitale a Yan'an, applicando i principi già sperimentati in precedenza e soprattutto liberando i contadini, attraverso la riforma agraria, dall'oppressione dei signori terrieri. Mao fu riconosciuto come il capo incontrastato del movimento comunista in Cina.
L'invasione giapponese e la guerra civile
I giapponesi avevano da tempo intrapreso un'insidiosa penetrazione economica in Manciuria e nella Cina del nord. Quando si resero conto che la vittoria del regime nazionalista contro i 'signori della guerra' li avrebbe messi di fronte a un interlocutore meno corruttibile e più scomodo, colsero un pretesto per occupare nel 1931 la Manciuria, erigendola l'anno successivo in Stato separato, il Manchukuo, formalmente indipendente, in realtà sotto il loro controllo. Uno scontro tra truppe cinesi e giapponesi avvenuto nel 1937 al Ponte di Marco Polo nei pressi di Pechino fornì ai giapponesi l'occasione nel 1937 di dilagare nel territorio cinese allo scopo di distaccarne le cinque province del nord. Grandi manifestazioni popolari si svolsero in tutto il paese in favore di una riconciliazione tra Guomindang e comunisti per far fronte comune contro il Giappone, e Jiang Jieshi fu costretto a iniziare trattative per fissare i termini della collaborazione. Le forze armate comuniste, pur mantenendo la loro unità, furono poste sotto il comando del generale nazionalista, mentre la base sovietica di Yan'an veniva trasformata in regione autonoma. L'incidente del Ponte di Marco Polo si sviluppò così in una guerra cino-giapponese, che dopo Pearl Harbour si innestò nella Seconda guerra mondiale. Durante il conflitto i rapporti tra nazionalisti e comunisti furono improntati a diffidenza e in qualche caso ad aperta ostilità, che sfociò in guerra civile quando nel 1946 fallì un tentativo di formare un governo di coalizione. Dopo iniziali successi dei nazionalisti, i comunisti presero l'iniziativa ed estesero il loro controllo sulla Manciuria e tutta la Cina settentrionale. Nel 1949 conquistarono il resto del paese e il 1° ottobre fu proclamata a Pechino la Repubblica Popolare di Cina. Il governo nazionalista, rifugiatosi a Taiwan, poté mantenere il controllo dell'isola grazie al sostegno americano (fino al 1971 fu Taiwan a occupare il seggio della Cina alle Nazioni Unite).
Il successo delle forze comuniste era dovuto soprattutto all'appoggio da parte di larghissimi strati della popolazione e alla corruzione dell'amministrazione nazionalista, che aveva gettato il paese in una gravissima crisi economica. Le masse contadine e gli intellettuali furono i migliori alleati delle truppe comuniste. Il consenso popolare facilitò l'opera di ricostruzione del paese, dopo i lunghi anni di guerra contro il Giappone e dopo la guerra civile. Nel giugno 1950 veniva promulgata una legge di riforma agraria allo scopo di ridistribuire in tutto il paese le terre ai piccoli contadini. Nello stesso anno veniva firmato a Mosca un accordo trentennale di alleanza tra Cina e Unione Sovietica, seguito da un trattato che assicurava da parte sovietica assistenza tecnica ed economica alla Cina. I rapporti tra i due Stati si fecero ancora più stretti allorquando l'intervento cinese nel conflitto coreano provocò l'embargo da parte delle Nazioni Unite, con la conseguenza che il commercio estero cinese si rivolse esclusivamente verso l'URSS e i suoi paesi satelliti dell'Europa orientale.
La Cina di Mao
Nonostante la guerra di Corea, la ricostruzione economica del paese progredì; si fermò il processo inflazionistico e la produzione superò quella del periodo prebellico. Fu varato il primo piano quinquennale (1953-57) e, nel 1954, fu convocata la prima Assemblea popolare nazionale, eletta a suffragio universale indiretto. In settembre l'Assemblea approvò una Costituzione definitiva, che stabiliva la progressiva collettivizzazione del sistema economico, e confermò Mao (presidente della Repubblica dall'ottobre 1949) alla guida dello Stato. Nel 1956 Mao presentò all'Ufficio politico del partito una relazione Sui dieci grandi rapporti, in cui anticipava argomenti che sarebbero stati al centro delle discussioni in Cina negli anni successivi, discostandosi notevolmente dal modello di sviluppo ispirato all'Unione Sovietica. Contemporaneamente lo stesso Mao lanciava la campagna dei 'Cento fiori', che sembrò favorire una libera espressione in campo scientifico, umanistico e artistico, ma non riuscì a coinvolgere le masse popolari. Fu invece la campagna avviata nel 1958, denominata del 'grande balzo in avanti', a imprimere una decisa caratterizzazione in senso maoista alla politica interna cinese. Nelle campagne si passava dalle cooperative alle comuni popolari, nelle quali si integravano attività industriali e agricole, si cercava di utilizzare ogni forza, si creavano nuove forme non soltanto di organizzazione della produzione economica, ma, al tempo stesso, di amministrazione politico-sociale; ogni comune aveva inoltre, nella milizia popolare, la sua organizzazione militare difensiva. L'attuazione di tale programma provocò contrasti all'interno del PCC con i fautori del modello sovietico di costruzione del socialismo, a capo dei quali era Liu Shaoqi, eletto nel 1959 presidente della Repubblica. Tali contrasti portarono al ritiro nel 1960 dei tecnici sovietici e alla sospensione degli aiuti ai programmi di industrializzazione cinesi. Le difficoltà e gli insuccessi del 'grande balzo in avanti' suggerirono nei primi anni Sessanta una politica di riaggiustamento in campo economico che vide, fra l'altro, il rilancio di forme di iniziativa individuale e di libero mercato nelle campagne, mentre sul piano ideologico proseguiva la lotta tra la linea di sinistra rappresentata da Mao e le posizioni facenti capo a Liu Shaoqi. Tendenze a una riconciliazione con l'URSS si manifestarono all'interno del gruppo dirigente cinese di fronte all'intensificarsi dell'intervento USA in Vietnam e all'esigenza di realizzare un fronte comune contro l'azione americana nel sud-est asiatico, ma a prevalere fu la tesi di Mao, per cui la Cina avrebbe fornito aiuti militari ed economici al governo nordvietnamita e al Fronte nazionale di liberazione sudvietnamita, senza concedere basi ai sovietici. Con l'avvio, nell'autunno 1965, della 'grande rivoluzione culturale proletaria' i rapporti con l'URSS subirono un ulteriore peggioramento.
La rivoluzione culturale (1965-69) ebbe come protagonisti milioni di giovani che, incoraggiati dallo stesso Mao a "bombardare il quartier generale", si mobilitarono per una radicalizzazione del processo rivoluzionario e una lotta a fondo contro le tendenze 'revisioniste', rappresentate da burocrati, intellettuali, dirigenti del partito e dello Stato, dando vita al movimento delle Guardie rosse. Il processo coinvolse gli operai delle grandi città e con il tempo divenne sempre più impetuoso, fino a provocare una crisi nelle strutture politiche e amministrative del paese e un calo della produzione. La riorganizzazione della Cina avvenne a partire dal 1967 con la formazione dei Comitati rivoluzionari che sancirono l'unione delle forze rivoluzionarie appartenenti al partito, all'esercito e alle organizzazioni di massa; un ruolo determinante fu svolto dall'esercito popolare, che godeva ancora di un enorme prestigio, specie fra le masse contadine. Dopo la destituzione di Liu Shaoqi (ottobre 1968) e di altri dirigenti del partito e dello Stato, il IX congresso del PCC, nell'aprile 1969, poneva di fatto termine alla rivoluzione culturale, registrando la nuova situazione creatasi nel paese e il notevole rafforzamento degli esponenti radicali all'interno del gruppo dirigente cinese.
Il nuovo corso della politica cinese
Con l'inizio degli anni Settanta si verificò una svolta profonda nella politica estera della Cina, destinata, con il tempo, ad avere ripercussioni importanti anche sul piano interno. Alla riorganizzazione della collocazione internazionale cinese contribuì in maniera rilevante la convinzione da parte di Pechino che l'Unione Sovietica rappresentasse ormai il pericolo principale per la propria sicurezza. Dal 1971 fu avviata un'azione di riavvicinamento agli Stati Uniti e, più in generale, di apertura verso tutti i paesi occidentali. L'attività diplomatica promossa soprattutto da Zhou Enlai, primo ministro dal 1949, ottenne notevoli successi con il riconoscimento del governo di Pechino (e la conseguente espulsione delle rappresentanze nazionaliste di Taiwan) da parte dell'ONU e di quasi tutte le nazioni aderenti. Le visite ufficiali del segretario di Stato americano H. Kissinger (1971) e del presidente R. Nixon (1972) in Cina e l'apertura di uffici di rappresentanza dei due paesi a Washington e a Pechino (1973) furono certamente i più spettacolari fra gli eventi che segnarono l'avvio del nuovo corso della politica estera cinese.
Sul piano interno, negli stessi anni si riapriva la lotta nel gruppo dirigente, contrassegnata da un processo di revisione della linea di sinistra affermatasi con la rivoluzione culturale e dalla ripresa dell'ala moderata e pragmatica del partito. L'artefice del nuovo corso fu Zhou Enlai. Nel 1973 la riabilitazione di Deng Xiaoping (uno dei più stretti collaboratori di Zhou, epurato durante la rivoluzione culturale) e nel gennaio 1975 la sua nomina a vice primo ministro indicavano il progressivo rafforzamento dei moderati. La morte di Zhou Enlai nel gennaio 1976 riaprì una fase di elevata conflittualità interna che vide in un primo momento la prevalenza dei radicali (nuova destituzione di Deng) ma, dopo la morte di Mao, nel settembre di quell'anno, e l'ascesa al potere in ottobre di Hua Guofeng, l'ala sinistra del partito fu definitivamente sconfitta e i suoi principali esponenti, fra i quali la vedova di Mao, Jiang Qing, messi sotto accusa. Nel 1977 Deng veniva di nuovo riabilitato e assumeva, oltre alla precedente carica di vice primo ministro, anche quelle di vicepresidente del partito e della sua commissione militare e di capo di Stato maggiore delle forze armate. Alla crescente influenza nel partito e nello Stato della corrente pragmatica e 'modernizzatrice' facente capo a Deng Xiaoping, si accompagnò un'intensificazione della campagna contro la sinistra e contro ogni eredità della rivoluzione culturale, con il ridimensionamento della stessa figura di Mao. Verso la fine degli anni Settanta, si concludeva il processo di normalizzazione fra la Cina e gli Stati Uniti, con l'apertura di formali relazioni diplomatiche nel gennaio 1979, e si rafforzavano i rapporti con i paesi occidentali. Nel novembre 1980 la campagna contro l'estrema sinistra culminava nell'apertura del processo contro la 'banda dei quattro' (Jiang Qing, Zhang Chunqiao, ex vice primo ministro, Wang Hongwen, ex vicepresidente del PCC, Yao Wenyuan, ideologo della rivoluzione culturale) conclusosi nel gennaio 1981 con una serie di condanne, tra le quali due a morte (Jiang Qing e Zhang Chunqiao), poi commutate in ergastolo.
Aperture all'economia di mercato e repressione politica
Nel 1980 la Cina aveva aderito al Fondo monetario internazionale e alla Banca Mondiale. Ormai saldamente al potere, la nuova leadership cinese, moderata, tecnocratica ed efficientista, accentuava la politica di modernizzazione e di promozione della crescita economica del paese e ampliava le misure di liberalizzazione e di apertura dell'economia verso l'estero. In campo internazionale, l'aspirazione alla completa riunificazione del territorio cinese entro la fine del secolo ottenne due importanti successi con gli accordi per la restituzione di Hong Kong nel 1997 e di Macao nel 1999 stipulati con il governo britannico nel dicembre 1984 e con quello portoghese nell'aprile 1987. Ripetuti tentativi da parte di Pechino di arrivare a un accordo analogo con il governo nazionalista di Taiwan furono invece respinti da quest'ultimo, indotto all'intransigenza anche dalla continuazione degli aiuti militari da parte di Washington. Tali aiuti restavano il principale motivo di attrito nei rapporti tra Cina e Stati Uniti, che comunque si svilupparono ulteriormente attraverso accordi di cooperazione economica e tecnologica. Anche le relazioni con l'URSS conobbero dall'inizio degli anni Ottanta un graduale disgelo, consentendo una ripresa degli scambi economici e commerciali e degli accordi di cooperazione tra i due paesi. Sul piano interno, questa politica provocò un'accelerazione dello sviluppo produttivo, accompagnata tuttavia da contraddizioni e difficoltà. In agricoltura, la cessione della terra in affitto ai contadini e il peso preponderante assunto dalla produzione familiare per il mercato indussero notevoli incrementi nelle colture più remunerative, ma anche il calo di alcuni investimenti di lavoro collettivo, indispensabili per la regolazione delle acque, e una tendenza alla contrazione della superficie destinata ai cereali, con rischi di insufficienze alimentari. Nell'industria, l'introduzione dei meccanismi di mercato, l'importanza sempre maggiore degli scambi con l'estero, assunti come motori dello sviluppo, favorirono ritmi di crescita assai elevati, ma anche forti squilibri settoriali e territoriali. Più in generale, le difficoltà di gestione della rapida espansione economica, l'insorgere di fenomeni inflazionistici, di problemi occupazionali e di massicci movimenti migratori, l'aumento delle diseguaglianze sociali e regionali, della corruzione e della criminalità suscitavano tensioni sociali, mentre presso ampi strati di popolazione urbana si diffondevano richieste di maggiore democrazia.
Nel marzo 1986 la Cina divenne il 47° membro della Banca per lo sviluppo dell'Asia e chiese di poter aderire all'Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT). Quello stesso 1986 vide anche un notevole sviluppo del dibattito politico-culturale, incoraggiato anche da una rinnovata politica dei 'cento fiori', ma alla fine dell'anno una serie di manifestazioni studentesche, che rivendicavano riforme in senso democratico, suscitarono preoccupazioni e divisioni nel gruppo dirigente. Alcuni intellettuali furono messi sotto accusa, in quanto avrebbero favorito le tendenze al 'liberalismo borghese'. Nonostante questi irrigidimenti, al XIII congresso del partito si riaffermò nettamente la linea riformista e modernizzatrice e Deng Xiaoping, pur ritiratosi da alcune delle cariche ricoperte, fu riconfermato leader del paese. Il 1988, anche in seguito all'adozione di ulteriori misure di liberalizzazione dell'economia, vide un'accelerazione dei processi di crescita produttiva incontrollata, cui si accompagnò un aggravamento degli squilibri, dell'indebitamento con l'estero e soprattutto dell'inflazione. Forti rincari dei generi alimentari accrebbero il malcontento nelle città, mentre si verificavano difficoltà finanziarie e fenomeni speculativi.
Nell'aprile 1989 dimostrazioni studentesche indette a Pechino si trasformarono rapidamente in un ampio movimento di protesta, nel quale alle denunce contro le ineguaglianze sociali, i privilegi e la corruzione si affiancarono richieste di maggiore democrazia, ispirate anche dal tentativo di riforma promosso nell'URSS da M. Gorbacev. In maggio, mentre il movimento si estendeva a numerose città, la popolazione della capitale si schierava in gran parte a fianco degli studenti, che dal 13 occupavano stabilmente piazza Tien An Men. Il 20 maggio, dopo un aspro conflitto all'interno del gruppo dirigente, il primo ministro Li Peng e il presidente della Repubblica Yang Shangkun, con l'appoggio di Deng, proclamavano a Pechino la legge marziale, mentre il segretario generale del PCC Zhao Ziyang, fautore del dialogo con gli studenti, veniva di fatto posto agli arresti domiciliari. Bloccate per due settimane dalla popolazione, scesa in massa nelle strade, le truppe fatte affluire nella capitale poterono raggiungere e occupare il centro solo dopo il massacro di almeno mille persone e il ferimento di altre migliaia compiuto nella notte tra il 3 e il 4 giugno. Gli scontri proseguirono per alcuni giorni, anche in altre città, mentre veniva avviata una dura repressione del movimento di protesta, definito una 'rivolta controrivoluzionaria', con migliaia di arresti e decine di esecuzioni (la legge marziale restò in vigore a Pechino fino al gennaio 1990). Alla fine di giugno il Comitato centrale del PCC e il Comitato permanente dell'Assemblea popolare ratificavano la vittoria della linea repressiva: Zhao Ziyang e alcuni altri dirigenti venivano destituiti; segretario generale del partito era eletto Jiang Zemin, che nei mesi successivi sostituiva Deng nelle ultime cariche che aveva mantenuto. Nonostante il ritiro dagli incarichi ufficiali, l'ottantacinquenne leader tuttavia manteneva ancora una profonda influenza sulla vita politica del paese.
Dopo Tien An Men
La crisi della primavera 1989 fu seguita da un rilancio delle campagne contro la corruzione e la criminalità. Sul piano economico, la politica di apertura al mercato fu confermata, pur con talune correzioni volte soprattutto a garantire una maggiore stabilità. Le relazioni con i paesi occidentali, dopo aver risentito negativamente della repressione del giugno, migliorarono sensibilmente a partire dal 1990 e in particolare i rapporti con Washington beneficiarono del sostanziale appoggio offerto da Pechino in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU alla politica promossa dagli Stati Uniti nei confronti dell'Iraq, dopo l'invasione del Kuwait nell'agosto 1990, della Libia, e della Iugoslavia nel 1992. Il 1992 fu anche l'ultimo anno a vedere Deng Xiaoping diretto protagonista della vita politica del paese: il 22 gennaio 1993 l'anziano leader comparve brevemente a Shangai per le celebrazioni dell'anno del Gallo e in quell'occasione reiterò il suo appoggio a Jiang Zemin, definendolo però non come suo erede politico, ma come 'perno della direzione collegiale'. Poco dopo il potere politico passava a una troika composta da Jiang Zemin, Li Peng e Zhu Rongji. In politica estera la troika si trovò presto a confrontarsi con vari problemi. Il 28 maggio 1993 il nuovo presidente americano William J. Clinton annunciava la subordinazione della conferma della clausola commerciale detta 'della nazione più favorita' al rispetto dei diritti umani in Cina e alla cessazione della vendita di missili a paesi considerati 'a rischio'. Dietro questo improvviso irrigidimento di Washington si celavano considerazioni di carattere umanitario e strategico, ma anche, e forse soprattutto, di carattere economico: il deficit commerciale statunitense nei confronti della Cina aveva raggiunto fra il 1992 e il 1993 la cifra di 30 miliardi di dollari e inoltre la Cina, non riconoscendo il diritto sulla proprietà intellettuale, copiava libri, dischi e software dal mercato americano per poi rivenderli su quello asiatico. Nel novembre 1993 Jiang Zemin si recò negli Stati Uniti e incontrò il presidente Clinton a Seattle. Il vertice risultò positivo, ma la contrapposizione Cina-USA non riuscì a sbloccarsi del tutto. Quando alla fine dell'anno fu stipulato il nuovo GATT, la Cina ne fu esclusa, proprio per volontà americana, con la motivazione dell'inadeguatezza del sistema economico cinese rispetto ai parametri richiesti dall'organizzazione internazionale. Per motivi analoghi non fu inclusa tra i paesi membri che nel 1995 dettero vita al WTO (World trade organization). Le critiche riguardavano principalmente il sistema delle tariffe doganali, le difficoltà di accesso al credito da parte delle imprese straniere e la pressoché totale assenza di servizi finanziari e di infrastrutture adeguate. Il 19 febbraio 1997, all'età di 92 anni, moriva Deng Xiaoping, aprendo nel partito il problema della leadership. Nonostante il timore di derive destabilizzatrici, in generale la Cina sembrò reagire con relativa tranquillità alla situazione di incertezza politica. L'economia resse bene, le azioni cinesi quotate nelle diverse borse asiatiche non registrarono cali significativi, ma fu subito chiara ai dirigenti dello Stato e del partito la necessità di affrontare scelte radicali in campo sia economico sia, almeno indirettamente, politico. Per entrare nel WTO la Cina doveva modificare sostanzialmente le tariffe doganali e i servizi all'impresa, ma anche aprire le frontiere alle esportazioni straniere e soprattutto prendere una decisione riguardo al mastodontico e improduttivo sistema delle imprese pubbliche, tenute in piedi più per motivi politici di partito che per esigenze economiche di mercato. L'ideologia marxista e il pensiero di Mao apparivano strumenti sempre meno adeguati a guidare un paese votato ormai alla scelta della prosperità economica, ma nessuno poteva ancora permettersi di porre apertamente in discussione l'ideologia comunista. Il XV congresso del PCC, apertosi a Pechino il 12 settembre 1997, sancì l'incoronazione di Jiang Zemin a figura guida dopo la morte di Deng; nel suo discorso di investitura il nuovo leader tentò di conciliare dal punto di vista politico il sistema di mercato con il sistema di proprietà pubblica. Un mese dopo, Jiang Zemin compì un lungo viaggio negli Stati Uniti, dal quale ritornò con l'impegno di Clinton a migliorare le relazioni cino-americane e a recarsi in Cina l'anno successivo. Come gesto distensivo Jiang fece rilasciare il veterano del dissenso Wei Jingsheng. Il viaggio di Clinton nella Repubblica popolare (giugno 1998) rivestì una grandissima importanza per il governo cinese e soprattutto per Jiang Zemin. I due leader si confrontarono nel corso di una conferenza stampa congiunta che milioni di spettatori cinesi poterono seguire in televisione. Messo di fronte alla questione dei diritti umani, Jiang Zemin pose costantemente l'accento sul rispetto delle leggi cinesi più che sull'ideologia e, rispondendo a domande sulla repressione degli studenti nel 1989, per la prima volta definì l'intervento da parte del partito comunista non 'giusto', ma 'necessario per la stabilità'. Prima di far ritorno negli Stati Uniti, Clinton si fermò a Hong Kong, dove rilasciò un'intervista in cui si dichiarava sicuro che Jiang Zemin fosse il leader di cui la Cina aveva bisogno, e che il paese stesse di fatto attraversando una fase politica che lo avrebbe portato progressivamente sulla strada della democrazia. Il presidente americano dovette ricredersi poco dopo e denunciare la linea repressiva seguita dal governo cinese con le condanne del dicembre 1998 nei confronti di tre dissidenti coinvolti nel tentativo di creare il primo partito d'opposizione, il Partito cinese per la democrazia. Ciò non impedì tuttavia la firma dell'accordo commerciale bilaterale del novembre successivo.