Cinquecento diece e cinque
. Numero col quale D. in Pg XXXIII 43 indica o propriamente un'epoca, o simbolicamente un personaggio che avrebbe dovuto liberare la società di tutto quanto le impediva di vivere virtuosamente e pacificamente. Un'autentica profezia, dunque, concepita e formulata molto probabilmente nel momento in cui Enrico VII trovava ostacoli alla sua azione politico-militare e però continuava a suscitare non poche speranze, specialmente tra i ghibellini fuorusciti.
L'indicazione cade alla fine della seconda cantica, precisamente nell'episodio in cui dopo che D., Beatrice e Stazio hanno assistito alla trasformazione del carro, all'apparizione del gigante e alla sua tresca con la puttana sciolta (XXXII 130-160), Beatrice conclude profeticamente la movimentata figurazione con l'annunzio sia che il carro (la Chiesa) è come se non esistesse al cospetto di Dio, il quale punirà i colpevoli di tanto decadimento, sia che l'aquila (l'Impero) avrà presto il suo capo e intanto un messo di Dio, appunto un cinquecento diece e cinque, avrà ragione della curia romana (fuia) e della monarchia francese (gigante). Questo il tessuto narrativo e logico nel quale si colloca l'enigmatica cifra o sigla; ma qual è il suo significato? Quale epoca esso adombra, o quale personaggio, cui D. intendeva affidare il grave compito di redimere Chiesa e Impero e insieme punire i due maggiori responsabili della loro crisi?
La ricerca di una soluzione adeguata ha travagliato l'esegesi dantesca dal Trecento ai nostri giorni, con intricate vicende che trovano riscontro solo nell'interpretazione della figura del Veltro, cui del resto da molti il Cinquecento diece e cinque è stato riportato e accomunato. I primi commentatori del Purgatorio ne compresero subito il valore di simbolo e considerarono il DXV come l'anagramma di dux, pensando genericamente, senza alcuna indicazione di figure storiche, a un condottiero, imperatore o principe, che sarebbe stato inviato da Dio in soccorso della traviata umanità. La loro soluzione fu dunque sostanzialmente retorica e meramente testuale, perché affidata all'esplicazione letterale dell'anagramma e riportata alla struttura concettuale del canto. Nel senso più specificamente retorico, Iacopo della Lana ne dà la prima esauriente spiegazione, allorché considera il DXV un " modo poetico de descrivere lo nome dell'ofizio dello executore della iustizia de Deo. E fecelo per numeri, ‛ Cinque cento ' se scrive per D, cinque per V se scrive, dexe se scrive per X; ponendo queste tre lettere insieme relevano dux; e perché nel verso siano altramente ordenade, çoè in prima D, seconda X, terzio V, no c'è força: ché li è conceduto de licenzia poetica a trasportare cussì le dizioni ". L'Ottimo segue il Lana e lo integra sul piano di una più attenta esegesi concettuale, dal momento che accenna a " uno Imperadore " e più precisamente ad " alcuno giustissimo e santissimo Principe il quale reformerà lo stato della Chiesa e de' fedeli cristiani ". Interpretazione ben centrata, anche se culturalmente poco sensibile, per la sua riluttanza a tener conto di alcune ascendenze bibliche messe avanti da altri commentatori. I tempi non sono ancora maturi per ricognizioni fuori del testo. Si avvertono, ma non si superano, le difficoltà di un'individuazione ‛ storica ', che Pietro enuncia più chiaramente degli altri, se calca il senso del " quoddam aenigma " e dell'" obscuram locutionem ". Né si registrano progressi di sorta nei commenti di Benvenuto e del Buti, nonostante il loro più attrezzato impianto cronachistico e filologico. Nel sec. XV v'è solo chi, come Giovanni da Serravalle, conferma l'opinione, già nota all'Ottimo, dell'identità col Veltro e con l'Imperatore (" Dux, vel Veltrus, vel Imperator ").
Bisogna attendere il Cinquecento per leggere le prime congetture ‛ storiche ', che rimangono sempre nel solco dell'interpretazione simbolistica. E sono sia il Vellutello, sia il Daniello, a sostenere che il poeta " in sentenzia dice che questo Duca spegnerà l'avarizia et ogni fautor di quella, fingendo di pronosticar per costui d'Arrigo sesto [da intendere come settimo] imperadore, per la passata del qual in Italia... essa Italia era tutta levata in speranza di grandissime novità... " (Vellutello); o che il dux fu inteso da D. " per Arrigo sesto imperadore... uomo di grandissimo valore e pieno di singular bontade e giustizia " (Daniello). In altre parole, con il Lana e l'Ottimo nasceva, nelle forme generiche e criptografiche imposte dalla lettera del testo, la cosiddetta tesi ‛ ghibellina '; con il Vellutello e il Daniello si rompeva la dura scorza letterale e la stessa tesi si determinava in un riferimento storicamente specifico, che, nel tempo, si sarebbe rivelato il più aderente tanto al pensiero politico di D. quanto alla particolare struttura semantica del brano. Anche per questo, se ne avranno naturali, ma notevoli conferme nel clima giurisdizionalistico del secolo XVIII, nel quale persino un gesuita, Pompeo Venturi, ripete, col conforto del Villani, l'allusione a Enrico VII " che mise in grande speranza per il suo valore e prudenza l'Italia, e tutto il mondo cristiano di più felici successi ". Nello stesso Settecento, anzi, la tesi si articola in qualche nuova direzione, qual è quella suggerita da Baldassare Lombardi, che intende la sigla in senso tecnico-militare (Dux " vuol dire capitano "), e perciò crede che D. alluda non a Enrico, ma a Cangrande " eletto capitano della Lega ghibellina, ch'è quanto dire in favore dell'aquila imperiale " (le spiegazioni del Lombardi sono tanto interne o testuali, perché egli crede che sin dal canto I dell'Inferno D. abbia " fondata la speranza della riforma del mondo in Cangrande ", quanto esterne o storiche, perché, sulla testimonianza dei canti XXVII e XXX del Paradiso, egli considera morto Enrico VII al momento della profezia: naturalmente non ha idee chiare sulla datazione delle cantiche e per conseguenza non tiene in alcun conto che Cangrande era stato eletto capitano nel 1318). Ma non dimentichiamo che per merito del Venturi e del Lombardi si allarga e si precisa la motivazione letteraria del passo dantesco riportato da entrambi alla medesima fonte giovannea (così il primo: D. fa " ciò ad imitazione dell'Apocalisse, ove di simil maniera si spiega il nome dell'Anticristo "; e così il secondo: " Imita qui D. lo stile profetico di san Giovanni nell'Apocalisse, ove indica il nome dell'Anticristo: ‛ numerus eius sexcenti sexaginta sex ' ": sono proposte che resteranno nella storia dell'esegesi del DXV).
Nell'Ottocento risorgimentale la tesi ‛ ghibellina ' viene ovviamente ripresa dal neoghibellinismo, anche per gusto di polemica verso il preteso cattolicesimo di D. e di difesa della sua ispirazione anticuriale: sulle orme del Foscolo e del Mazzini, è Gabriele Rossetti (1832) a vedere nel DXV un severo punitore e rivendicatore di torti e suscitatore di giustizia, uno iudex, perché nel verso l'articolo indeterminato vale ‛ uno ' e vale quindi ‛ i ' (‛ un d xev ' = ivdex): sintesi del gusto criptografico del critico e del suo spirito anticlericale. Ma viene anche ripresa dal neoguelfismo per così dire laico, il quale la volge preferibilmente a favore degli ‛ italiani ' Cangrande e Uguccione della Fagiuola che del ‛ tedesco ' Enrico VII. E qui, piuttosto che il Cesari, ricorderemo il Tommaseo, la cui opinione è legata a problemi di datazione e di corrispondenze fra personaggi storici e composizione del canto: " Questi non è Arrigo già morto, ma Cane, capitano della Lega ghibellina (Pd XVII). Cane, è vero, fu capitano nel 1318, non prima; ma chi dice a, noi che dopo il 1318 non abbia il Poeta ritoccata la Cantica? ". Cioè il Tommaseo collocherebbe il canto XXXIII del Purgatorio dopo il 1313, ma cosa dimostra l'interpolazione avvenuta dopo il 1318? Resta comunque il valore metodologico del suo discorso e la sua onesta apertura interpretativa. Ancora meno convincente il riferimento a Uguccione tentato dal Balbo nella sua Vita di Dante, tanto che è lo stesso scrittore a concludere che un'allusione così precisa e diretta " forse non era determinata nemmeno nella mente di Dante ". A sua volta, il neoguelfismo per così dire clericale, troppo impegnato a sostenere la candidatura di un ‛ papa angelico ' e più precisamente di Benedetto XI quale Veltro, non poté ingaggiare la stessa battaglia per una soluzione ‛ guelfa ' (DXV = Domini Xristi Vicarius) dell'enigma dantesco, anche se il domenicano Vincenzo Marchese, pur senza pronunziarsi, lascia intravedere come nel DXV non si fosse esaurita del tutto l'idea del papa redentore. I dantisti più attenti, fra i neoguelfi, capirono l'impossibilità di tale soluzione e in ordine alla struttura concettuale del canto e' in ordine alla sua datazione. Ecco perché il padre Giuliani che dà nel 1318 come composte e divulgate le prime due cantiche, finisce col credere che sia Enrico " il tanto sospirato messaggiero di Dio, l'unico e vero erede dell'Aquila " (1844): risultato per certi aspetti notevole, in quanto comincia a distinguere il Veltro (Benedetto XI) dal DXV (Enrico), e risultato destinato per questo ad avere fortuna in molta esegesi dell'Ottocento e del Novecento. Nell'età positivistica il panorama critico del DXV si fa più intricato e sottile, per via delle numerose ricognizioni storiche di cui si arricchisce e delle ipotesi, persino ingegnose, che ne scaturiscono. Anche perché agevolata dai rinverdimenti anticlericali del secondo Ottocento, torna a dominare e si rafforza di motivazioni sempre più puntuali e probanti la tesi ‛ ghibellina '. Soprattutto, cessate le remore risorgimentali, dal 1874 (Scartazzini) in poi, viene ripresa e ulteriormente documentata l'identificazione con Enrico VII, che il Cian si ostina a raccordare al Veltro (1897). In tal senso, una delle conferme più dotte viene dal Moore (1900), che considera il DXV come trascrizione conforme al sistema cabalistico (riferito, in questo caso, all'alfabeto ebraico) in voga nel Medioevo e sicuramente conosciuto da D., della parola " Arrico " (a = 1; r = 200; r = 200; i = 10; c = 100; o = 4).
Siamo in un momento in cui l'indagine erudita ama anche appaiarsi con le tendenze simbolistiche di certa temperie decadente (significativo al riguardo il saggio di Policarpo Petrocchi sul numero nel poema dantesco). Il che pare esemplarmente attestato dal Pascoli (1904) che legge DXV come dux sulla scorta di Virgilio e intende il dux quale imperatore e quale veltro: veltro che è cane, come il " Cangius " dei Tartari, che " su un povero feltro fu levato Imperatore " (G. Villani V 29). E già l'anno prima il Bassermann, dopo aver posto il Veltro come Can del Catai o imperatore leggendario da venire alla fine del mondo, sulla stessa falsariga aveva riportato il DXV al numero 500 degli anni della Fenice e del magnus annus, nel quale sarebbe apparso l'atteso mistico monarca. Così alcuni anni dopo il Matrod (1914) avrebbe identificato addirittura il DXV col Gran Kan del Catai. Ma evidentemente l'ermeneutica simbologica induce qui a parentele piuttosto arbitrarie e a prospettive storicamente infondate. Dopo di che, in seno alla cultura positivistica e nell'ambito della tesi ‛ ghibellina ', i risultati più concreti, al punto da sembrare definitivi, ci vengono dalla mente filologica e storica di E.G. Parodi, il quale prende lo spunto da un saggio del Gorra per confutarne le conclusioni e per giungere all'identificazione con Enrico VII sulla scorta di una datazione pressoché rigorosa degli ultimi canti del Purgatorio. Di fatto egli si metteva anche nell'ordine metodologico del Davidsohn (1902), che si era liberato dei criteri simbolistici e avea trovato nel numero non un criptogramma, allusivo a questo o a quel personaggio, sibbene una vera e propria data, l'anno in cui sarebbero dovuti accadere gli avvenimenti profetizzati da Beatrice, il 1315, nato dalla somma dell'anno 800, nel quale ebbe luogo l'incoronazione di Carlo Magno, e del 515 del verso dantesco: quali gli avvenimenti? Lodovico di Baviera, eletto Dux o Duca il 30 ottobre 1314, con ogni probabilità sarebbe diventato imperatore nel 1315. Perciò il Davidsohn fu portato a credere che il canto XXXIII fosse stato scritto " in quel periodo dell'anno 1314 (fra il luglio e il novembre), quando il Poeta aveva dalla Germania ricevuto la notizia, certo ancora segreta, della candidatura e della sicura maggioranza del dux di Baviera che, accettando la candidatura dalle mani di Giovanni di Boemia (figliuolo d'Arrigo) e dei fedeli amici del defunto Imperatore, si faceva in certo modo anche mandatario delle loro intenzioni relative alla politica italiana ". Anche se ha il torto di spostare dall'esterno la datazione del canto XXXIII, risultato nuovo questo del Davidsohn, sia per l'innovazione metodologica del DXV come cifra e sia per la fondata individuazione del 1315 quale terminus ad quem dell'atteso rinnovamento civile e religioso (non certamente per la debole ipotesi su Lodovico di Baviera).
Alle stesse conclusioni di datazione giungerà anche il Gorra con una motivazione polemica (se l'allusione era chiaramente rivolta all'imperatore lussemburghese, perché definire la profezia un enigma forte?), ma senza i risultati storici del Davidsohn (non Enrico VII, ma un generico messo divino). Dal canto suo, il Parodi accetta intanto il DXV come " sigla " e come " cifra ", quanto dire che vuol conciliare il metodo criptografico tradizionale col metodo storico ripreso e avvalorato dal Davidsohn. Dopo di che, forte di alcune testimonianze interne al testo dantesco e della contemporaneità con gli ultimi canti del Purgatorio di alcune Epistole sicuramente datate, attribuendo, in risposta al Gorra, l'enigmaticità della profezia al fatto sin troppo ovvio di essere stata immaginata come avvenuta nel 1300 (quando qualsiasi allusione non poteva non essere oscura), il critico, per un verso, colloca il canto negli ultimi mesi del 1312, " quando gli sdegni contro Clemente erano di nuovo divampati nell'anima del Poeta, e quando Arrigo, stando ad assedio intorno a Firenze, s'illudeva forse e dava motivo ai suoi fedeli di illudersi che nel sangue della superba città sarebbe stato spento il maggior focolare della ribellione italiana " e, per altro verso, non ha incertezze, in polemica col Davidsohn, nel riconoscere Enrico che era non duca ma dux " disceso a combattere le necessarie e decisive battaglie " (" in bello melius est ducem nominari quam regem ", secondo Uguccione e Giovanni da Genova) e dux nella sua biblica significazione (com'era anche nelle indicazioni delle coeve Epistole, in particolare della VI di mundi rex et Dei minister [§ 5], di aquila in auro terribilis [§ 12], di delirantis Hesperiae domitor (ibid.), di divus et triumphator [§ 25]). Il DXV è dunque " Arrigo vivo e presente, stretto e angustiato da terribili ostacoli, ma predestinato dalla volontà di Dio e dalla santità della sua missione a trionfarne da ultimo con impreveduta facilità ". Suffragati da tali speranze, per il Parodi prendevano pure consistenza i dieci passi di Beatrice che, dal 1305, anno in cui ha inizio la cattività babilonese, portano al 1315, " termine ideale " del Purgatorio, l'anno in cui tutte le profezie si sarebbero compiute (il che era anche confermato da un libro profetico, il De Semine scripturarum, del 1205, dove si dava proprio il 1315 come l'anno del recupero della " terra sancta " e della sua liberazione " ab heresi symoniaca "). Col Parodi, dunque, si scopre una ferma volontà critica d'individuare tempi e persone meglio di quanto non si fosse fatto prima. Per di più la sua indagine, mentre accentua la determinatezza storica del DXV, denunzia molto opportunamente l'incertezza e l'approssimazione della profezia del Veltro (già il Del Lungo, alcuni anni prima, la poneva " dal Cinquecento diece e cinque... cosa affatto distinta e disgiunta "). Tanto che, nel solco del pensiero parodiano, il Manni finisce col sostenere che D. non sapeva chi fosse il Veltro ed era invece pienamente convinto di riferire il DXV a Enrico vivo. Opinione non molto diversa da quella del D'Ancona che, sulle orme del Giuliani, fra il 1885 e il 1909, dà un senso storico a questa distinzione fra le due profezie, se pensa che D., quando componeva i primi canti dell'Inferno, fosse ancora guelfo e ritenesse disadatto un principe laico a intervenire negli affari interni della Chiesa (donde il Veltro-pontefice, anche se non un papa determinato, come Benedetto XI, ma un papa angelico a venire), mentre nel tempo del Purgatorio, cadute tutte le speranze nel Papato, si sarebbe maturato quel ghibellinismo che autorizza a vedere nel DXV un imperatore. Piuttosto, l'opinione che, per ampiezza e fondatezza di analisi storica e testuale, più si affianca alla tesi del Parodi, è forse quella del Guerri, il quale, valendosi di alcune autorevoli indicazioni medievali sulla simbologia mistica del numero (in particolare il De Numeris misticis sacrae scripturae di Ugo da San Vittore e il De Numero di Rabano Mauro), sostiene che il DXV contenga un " concetto " e non un " nome " e precisamente - sulla scorta sia del " quingenti " di Rabano Mauro, per cui " ad quinque aetates mundi, ut a quibusdam putatur, pertinet sacramentum, quibus transactis Salvator mundum visitare dignatus est ", sia del sette e cinque di Gioachino da Fiore (il sette vale la funzione spirituale dell'uomo interiore, il cinque quella attiva dell'uomo esteriore) - l'idea di " un ' salvatore ' (o ‛ redentore ', che dir si voglia) della ‛ vita contemplativa ' (o ' quanto all'anima ') e della ‛ vita civile ' (o ‛ quanto al corpo ') ": condizioni queste che si addicono bene al compito del DXV contro la fuia e il gigante. Chi sarà il salvatore? Non il Cristo già venuto, ma un nuovo redentore da venire gioachimiticamente nella sesta era di Cristo maturatasi ai tempi di D. (se la quinta età, iniziatasi con Carlo Magno, contava più di 500 anni) e precisamente un " monarca universale ", il solo che potesse assicurare la morte della fuia e del gigante e con essa " il benessere degli spiriti e dei corpi, cioè la perfezione della vita spirituale e della civile ".
Dinanzi alla concretezza di questi risultati, appaiono poco persuasive, anche se non prive di sostegni documentari, le argomentazioni di coloro che, sempre in epoca positivistica, tendono a soluzioni autobiografiche o mistiche dell'enigma. L'identificazione sostenuta prima dal Della Torre (1890) e poi dal Kraus (1897) del DXV con lo stesso D. (anche il Veltro è D.) trova non poche difficoltà di verifica testuale e non sembra poggiare sulla reale condizione storica dell'Alighieri politico (non è possibile pensare a un D. che volesse da solo riformare il mondo). Né sembra avere maggiore forza interpretativa la tesi mistica sostenuta in senso più determinato dal Chistoni (1905) e dal Tripepi (1906) che sono per l'identità DXV-Cristo, il primo sulla scorta dell'uso medievale dei monogrammi (DXV è la trascrizione del monogramma greco di Cristo: il D. coincide con l'originario p greco e il V si trova negli angoli di X) e il secondo sulla scorta dell'Apocalisse (DXV = " Dei Xristi Verbum ") e in senso meno determinato dal Proto, che, sulla falsariga di un commento pseudotomista all'Apocalisse (" Divi Thomae Aquinatis in Beati Joannis Apocalypsim expositio "), coglie nel DXV un generico messia trinitario dotato delle stesse tre qualità del Veltro (sapienza, amore e virtù). Tesi corretta in senso ghibellino e resa valida dal Torraca (1905) che vede nel DXV un cristo (unto dal Signore) e non il Cristo, dunque un messia secondo l'accezione scritturale ripresa nel Medioevo prima da Orosio e Isidoro e poi dallo stesso D. (Mn II I, Ep VII 5), nel caso specifico un imperatore " mandato espressamente da Dio " (il Regis, alla maniera del Rossetti, utilizza l'articolo indeterminato e legge IDXV, cioè " Imperator Domini Xristi Vicarius ", e addirittura in quegli anni il Berthier propone la variante filologica Un per autenticare l'IDXV). In sostanza siamo nell'ambito delle ricerche e delle conclusioni parodiane, che rimangono le più autorevoli dell'esegesi positivistica, nella quale si afferma decisamente la tesi ghibellina, con preferenza accordata a Enrico VII e con la sottolineata integrazione della sacralità della sua missione, che viene sempre più distinta da quella del Veltro. È così che nel secolo XX, nel clima laicistico del crocianesimo e del fascismo, non si trova nulla di notevole, se non qualche dotta precisazione o variazione alla tesi del Parodi: l'Ercole giudica l'azione del DXV rivolta contro la Chiesa, come preparatoria di quella del Veltro rivolta a tutti i nemici dell'Impero; l'Arezio, per legare la profezia all'inganno del Guasco, ricorre alla testimonianza degli Acta Aragonensia pubblicati dal Finke, e per spiegare la sigla DXV fa uso di qualche documento imperiale (ad es. dell'imperatore Guido del 10 maggio 892, di cui una copia del sec. XII si conserva nell'Arch. di Stato di Milano), nel quale essa si legge " Dominus Xristianorum Vivens " (o " Universalis ") simile al " Dominus Imperator Xristianorum " attribuito a Enrico VII in un documento a lui coevo. Né danno alcun contributo i ritorni alla tesi di Cangrande (Zingarelli, Zabughin, Camilli): il primo sciogliendo il DXV in " Dominus Kanisgrandis Veronae ", il secondo in " Domini Xristi Veltrus " (secondo il simbolismo canino d'origine agostiniana), il terzo, allargando il DXV in IDCSV (X = cs), " Dux " o " Dominus Canis Scaligerus Veronensis ". Nel secondo dopoguerra, nel quale c'è ancora chi rifiuta ogni determinazione storica (Montano, Montanari, Mattalia, Chimenz) e chi ricalca la soluzione cristologica (Kaske) o autobiografica (Benini) o mistica (Apollonio, Lanza) e nel quale continua a dominare la tesi di Enrico VII (Momigliano, Sapegno, Fallani, Renucci, Vallone, ecc.), valgono sopra tutto le motivazioni invocate per specificare e distinguere natura e compiti del DXV e del Veltro: il Renucci torna a contrapporre il Veltro-Benedetto XI al DXV-Enrico VII (" Domini Xristi Vertagus "); l'Olschki oppone il carattere morale del primo a quello politico-militare del secondo; il Vallone attribuisce al DXV l'ufficio più modesto di restauratore dell'Impero e al Veltro quello più vasto di restauratore dell'umanità.
L'enigma del DXV ha avuto, nel corso dell'esegesi dantesca, come s'è visto, tre soluzioni di fondo: cioè o sigla o cifra (cioè o numero che simbolicamente allude a un personaggio determinato o meno; o numero che indica una data, un'epoca, anch'essa determinata o meno); oppure l'una e l'altra insieme. In quanto alla sigla, sono prevalse tre interpretazioni: a) la ghibellina con riferimento o a un ignoto personaggio laico (imperatore o principe) da venire (profezia ante eventum) o a un personaggio già venuto e ben noto e ben determinato, come Enrico VII o Cangrande Della Scala (profezia post eventum); b) la guelfa (DXV = Cristo o altro futuro Messia; e DXV = Pontefice); c) l'autobiografica (DXV = Dante). Quanto alla cifra, si sono avute le seguenti ipotesi: a) DXV = 1315, l'anno sperato del rinnovamento; b) DXV = sesta epoca di Cristo; c) DXV = tempo futuro e indeterminato (la fine del mondo o la vita eterna).
Tutto, comunque, fa credere che, giusta l'autorevole opinione e le valide motivazioni del Parodi, il DXV sia Enrico VII, cioè l'erede dell'aquila, la stessa sublimis Aquila dell'epistola ai principi (V 11); e che, nel renderne la profezia, D. abbia seguito la tecnica criptografica usata da s. Giovanni nell'Apocalisse (XIII 18), dove nel numero 666 si indica Nerone, e rimessa in vigore dalla simbolica medievale; e abbia così celebrato la felice coincidenza tra l'auspicato prossimo trionfo di Enrico VII e l'avvento della sesta epoca di Cristo (il 1315) vaticinato dai testi sacri dell'età di mezzo. E tutto fa pure pensare che D. tale coincidenza l'abbia concepita e immaginata, affidandosi non soltanto al gusto medievale della criptografia profetica, ma anche a un gusto letterario-scenografico, quasi da miniatura incastonata in un più ampio contesto figurativo: il carro, il gigante, la fuia, la cornice del Paradiso terrestre, un paesaggio reale e allegorico insieme e nel mezzo, con una sua luce particolare, in singolare corrispondenza col paesaggio celeste delle stelle propinque, il fatidico monogramma, che peraltro sembra dare consistenza e suggello alle attese del poeta così costantemente e intensamente vissute lungo l'esilio e ricreate lungo il poema.
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