CITTÀ-STATO
di Mario Vegetti
La tradizionale espressione 'città-Stato' appare da un lato adeguata a descrivere la πόλιϚ greca del periodo classico, che forma l'oggetto di questo articolo, ma d'altro lato almeno in parte fuorviante. Essa ha infatti il merito di segnalare il nesso inscindibile tra forma urbana della comunità sociale e autonomia di decisione politica, che caratterizza strutturalmente la πόλιϚ; ma suggerisce inoltre che questo autogoverno comunitario abbia assunto vere e proprie forme statuali che invece, almeno nella loro forma moderna, risultano del tutto estranee all'esperienza storica della πόλιϚ. Essa non conobbe mai apparati stabili e separati destinati all'amministrazione, alla giustizia, all'esercito, all'istruzione e così via. La città antica si caratterizza nella sua tipicità, e anche nella sua eccezionalità, proprio per essersi costituita come una comunità sovrana senza Stato, riassorbendo tutte queste funzioni come articolazioni interne dell'autogoverno politico complessivo nel suo dispiegarsi immediato e quotidiano.Il ruolo centrale della πόλιϚ nella storia sociale dell'antichità classica, e insieme la sua differenza strutturale rispetto ad altre forme di comunità urbana, era già stato efficacemente segnalato da Karl Marx nei Grundrisse: "La storia dell'antichità classica è storia di città, ma di città basate sulla proprietà fondiaria e sull'agricoltura; la storia asiatica è una specie di unità indifferenziata di città e campagna (le vere grandi città vanno considerate qui solo come accampamenti principeschi, come superfetazioni sulla struttura economica vera e propria); punto di partenza della storia del Medioevo (periodo germanico) è la campagna; il suo ulteriore sviluppo procede poi nel contrasto tra città e campagna" (v. Marx, 1953; tr. it., p. 105).
Lo schizzo marxiano sarebbe stato ripreso e articolato, ma non contraddetto nella distinzione che esso traccia fra i tre tipi fondamentali di città pre-moderna (l'antica, l'asiatica e la medievale), nelle celebri pagine di Max Weber sulla città. Secondo Weber elementi essenziali della città antica, come di quella medievale, sono la fortezza, il mercato e la giurisdizione autonoma. Quest'ultimo aspetto, il carattere associativo della città come corporazione dei suoi abitanti che ne gestiscono i poteri autonomi, differenzia radicalmente la città antica da quella asiatica, dove, salvo rare eccezioni, mancano sia l'autonomia politica (perché la città è inglobata in uno Stato), sia il carattere associativo (perché gli abitanti della città sono in primo luogo membri di una casta, di una schiatta, in genere di infrastrutture sociali trasversali rispetto alla città).Quanto poi alla differenza, nell'ambito della tipologia della città occidentale, tra la forma antica e quella medievale, Weber insiste sul fatto decisivo che la πόλιϚ, al contrario della comunità medievale, è orientata al consumo e alla guerra; essa soddisfa cioè una parte rilevante del proprio fabbisogno non attraverso la produzione e il commercio, ma mediante risorse ottenute grazie al dominio politico-militare su altre popolazioni. Da questo punto di vista, la città antica si caratterizza insieme come una comunità di consumatori e una "corporazione guerriera" (v. Weber, 1922; tr. it., p. 177); già Marx, del resto, aveva notato che "la guerra [...] è il grande lavoro collettivo" del cittadino antico (v. Marx, 1953; tr. it., p. 99).
Su tutto questo avremo naturalmente modo di tornare più avanti. È interessante intanto rilevare che negli autori antichi manca una definizione tipologica della πόλιϚ paragonabile a quelle proposte dalla sociologia moderna, da Marx a Weber. Essi ne hanno per contro una visione intuitiva, un 'colpo d'occhio' centrato sugli elementi architettonici caratterizzanti, che tuttavia appaiono come la materializzazione immediata di quella tipologia. Scrive ad esempio Pausania, nel rifiutare la pretesa di un grosso villaggio a esser considerato una πόλιϚ: "Non ci sono edifici governativi, non c'è teatro, non c'è ἀγοϱά né un acquedotto che conduca l'acqua a una fontana" (10.4.1). Mancano in questo schizzo riferimenti a elementi propriamente militari, come le mura e la fortezza, che stavano di solito all'inizio della formazione della città (ma per esempio Sparta ne fu priva per tutta l'età classica). Sono per contro messi in rilievo tutti i luoghi decisivi dell'autogestione della comunità cittadina, deputati alla decisione politica (il buleuterio), alla celebrazione culturale e religiosa (il teatro), allo scambio commerciale ma anche politico-culturale (la piazza del mercato), al consumo tipicamente urbano nel suo decoro anche monumentale, raffigurato nell'acquedotto e nella fontana. Ha scritto uno storico contemporaneo, Ettore Lepore, muovendosi sulla traccia indicata da Pausania: "Il centro monumentale urbano con gli edifici religiosi e politici (il pritaneo, il buleuterio, la sede della divinità poliade e quella dell'assemblea, talora tutt'uno con l'edificio teatrale) e la piazza per le riunioni politiche e il mercato permanente, l'ἀγοϱά, divennero organi vitali ed espressione della città" (v. Lepore, 1987, p. 92).
La πόλιϚ è dunque, nei suoi tratti essenziali, una corporazione sovrana di cittadini-guerrieri, radicata nel contado ma che vede materializzati nella struttura urbana della città i suoi valori comunitari fondamentali, l'autonomia, la coesione culturale, l'agio e la bellezza estetica, che garantiscono la supremazia di questa forma di civiltà. Di essa occorrerà ora ricostruire la genesi, i modi di funzionamento politico, economico e sociale, le contraddizioni irrisolte.
Era convinzione comune dei Greci dell'età classica - da Democrito a Platone, da Tucidide ad Aristotele - che la πόλιϚ costituisse la forma 'naturale' e perfetta della comunità umana: Aristotele giunge a sostenere, nel primo libro della Politica, che fuori della città non vi è spazio per una vita propriamente umana, giacché essa soltanto consente il fiorire delle virtù associative (tanto politiche quanto teoriche) che questa vita caratterizzano. Che la πόλιϚ rappresenti il compimento naturale dei modi di aggregazione fra gli uomini non significava tuttavia per i Greci che essa fosse universalmente estesa nello spazio e nel tempo. Era ben nota l'esistenza di forme di convivenza non 'politiche' - i regni dell'Oriente, le tribù del Settentrione - proprie di quelli che i Greci chiamavano i 'popoli dei barbari', etnie in modi diversi primitive, la cui 'barbarie' era insieme la causa e l'effetto della loro incapacità di dar luogo alla forma civilmente perfetta della πόλιϚ. Nella dimensione del tempo, i Greci erano ben consapevoli di non aver sempre vissuto in questa forma: la memoria omerica, se non altro, era lì a testimoniare di una fase della loro civiltà dominata dai regni guerrieri, e Tucidide arriva sino a formulare uno schema evolutivo in cui la vita dei Greci antichi risulta paragonabile a quella dei barbari contemporanei. Nonostante questa consapevolezza storica relativa al passato, nessun greco dell'età classica può pensare che la forma della πόλιϚ, una volta acquisita, possa essere suscettibile di futuri sviluppi. Essa appare 'naturale' appunto nel senso di una perfezione che non esiste da sempre e dovunque, ma il cui compimento rappresenta un livello intrascendibile e necessario dello sviluppo umano, fuori del quale non c'è se non il decadimento nella barbarie o addirittura, come pensava Aristotele, nella bestialità.
Eppure lo sviluppo verso la πόλιϚ non era stato affatto l'esito inevitabile e naturale di un processo orientato fin dall'inizio, quanto piuttosto il risultato di una lunga serie di lotte, di sforzi, di progetti lucidamente perseguiti; e inoltre un risultato - nonostante quel che ne pensavano i suoi ottimisti ideologi antichi - tutt'altro che esente da problemi e contraddizioni.
All'inizio del processo sta un evento catastrofico: il crollo, compiutosi intorno al XII secolo a. C., del sistema palaziale miceneo. Si trattava di una compatta forma di sovranità in cui il potere regio, arroccato in un palazzo-fortezza, accentrava le funzioni militari, economiche, sacerdotali, ed esercitava un minuzioso controllo burocratico sui villaggi sparsi nel territorio (χώϱα) sottoposto al suo dominio. La distruzione dei palazzi, dovuta a ondate successive di invasori, determinò la subitanea scomparsa di questa sovranità accentrata, e la polverizzazione del sistema diede luogo a una pluralità di villaggi indipendenti e governati dai membri eminenti dell'aristocrazia locale, piccoli 're' (βασιλεῖϚ), capi politici e militari insieme, la cui traccia è ben presente nei poemi omerici insieme con la memoria dello scomparso sistema palaziale. La nuova situazione si protrae dall'XI al IX secolo a. C., finché, verso l'inizio dell'VIII secolo, tutta una serie di nuovi fenomeni sociali di grande portata determina un'inversione di tendenza e l'avvio di una rapida spinta verso la centralizzazione. C'è, innanzitutto, un rapido incremento demografico, e insieme si verifica l'aggravamento degli squilibri sociali dovuti alla privatizzazione della terra, che spacca il corpo sociale in grandi proprietari e piccoli coltivatori oppressi dai debiti. I due fenomeni congiunti danno luogo all'urgente esigenza, per le famiglie aristocratiche che governano i villaggi, di rafforzare i loro mezzi di controllo del territorio e della popolazione, sia dal punto di vista militare che da quello amministrativo. Ed è appunto questa esigenza a spingere l'aristocrazia dei γένη ad abbandonare le sue sedi isolate e a dare luogo a un 'sinecismo', a una concentrazione in una zona urbana protetta da mura che viene progressivamente dotandosi di strutture di governo del suo territorio. Se il sinecismo dei γένη aristocratici costituisce probabilmente la prima spinta alla formazione della città, altri fenomeni contribuiscono a determinare la legittimazione e l'espansione di questa nuova forma associativa di insediamento. Da un lato, essa diventa immediatamente il centro della celebrazione delle attività religiose comuni alla popolazione del suo territorio, con i loro riti, le loro feste, e delle pratiche culturali che vi sono connesse, come gli agoni rapsodici.
Dall'altro lato, la città costituisce il luogo elettivo per lo sviluppo di attività economiche non direttamente legate all'agricoltura, come quelle commerciali e artigianali, a loro volta stimolate sia dall'incremento demografico, sia dalla dinamica indotta dagli inizi della circolazione monetaria. Ben presto dunque la città diviene insieme il centro di governo politico-militare del territorio, la sede delle sue divinità comuni ('poliadi'), il luogo del mercato e dell'interscambio fra prodotti agricoli e prodotti e servizi propri dell'attività urbana. Il sinecismo che le ha dato origine lascia la sua traccia profonda nella composizione del corpo cittadino: il diritto di cittadinanza spetta, e continuerà a spettare per lungo tempo, solo a chi disponga di una proprietà terriera nell'ambito della χώϱα circostante la πόλιϚ; chi ne è privo (commercianti, artigiani) sarà accolto nella città con la condizione marginale di 'ospite straniero' (meteco). Il 'popolo' (δῆμοϚ) della città comprenderà dunque, oltre all'aristocrazia dominante, la massa dei cittadini-proprietari; e, occorre aggiungere, 'in armi', perché a esso è demandata la difesa della πόλιϚ e del suo territorio. Questo popolo di coltivatori armati segna, alle origini, la peculiarità del rapporto fra la città antica e il suo contado, che abbiamo vista già segnalata da Marx.
Ma proprio un tale rapporto costitutivo non poteva che trasporre e prolungare, nel nuovo contesto urbano, gli squilibri di ricchezza e di potere che si erano venuti formando, in seguito alla privatizzazione ineguale della terra, nel vecchio ambiente agricolo e gentilizio; anzi la città, con le nuove possibilità di controllo e di dominio che essa offriva, non faceva che rendere più pesante il dominio dell'aristocrazia terriera sulla massa composita del δῆμοϚ oscillante fra πόλιϚ e χώϱα. Di qui la richiesta pressante di una migliore giustizia nei rapporti fra gli uomini, carica ancora di connotazioni religiose e morali, ma chiaramente riferita ai dislivelli intollerabili di potere e di ricchezza, che echeggia, per esempio, nel poema di Esiodo (Le opere e i giorni, VIII/VII secolo a. C.); di qui, soprattutto, la spinta sociale ricorrente per una redistribuzione egualitaria della proprietà terriera, tanto impossibile quanto avvertita dal δῆμοϚ come l'unica possibile via per ripristinare quella 'giustizia'.
La via scelta dai ceti aristocratici per superare questa crisi, sociale e di consenso insieme, sarebbe risultata straordinariamente efficace. Essa consisteva, da un lato, nello stabilire una precisa 'regola del gioco' per evitare che i dislivelli di ricchezza dessero luogo ad abusi insopportabili nell'esercizio del potere; dall'altro, nel rafforzare l'identità comunitaria della πόλιϚ, vista come luogo di superamento politico, se non economico, delle differenze tra gruppi sociali. Nel caso di Atene - che diventerà di qui in poi centrale nella nostra analisi, com'è inevitabile sia per il privilegio che gli deriva dall'abbondanza di testimonianze che ne possediamo, sia per lo statuto emblematico che già i Greci antichi gli attribuirono - questa via si compendia, all'inizio, nella figura e nell'opera legislativa di Solone, attivo fra il VII e il VI secolo a. C.A Solone vengono simultaneamente affidati il compito di 'mediatore' fra i gruppi sociali in conflitto e quello di legislatore. I due ruoli vengono simbolicamente a sovrapporsi: il mediatore occupa un luogo centrale, neutrale fra le parti, e vi installa la sua legge, che perciò non appartiene a nessuna di esse e ha una validità universale. Rafforzata, quest'ultima, dal fatto che la legge ora viene scritta: svincolata così dall'arbitrio autoritario dei potenti, la cui parola era un tempo chiamata insieme a promulgarla e a interpretarla, la legge viene resa disponibile, nella sua stabilità e impersonalità, per tutto il corpo sociale, che in essa e soltanto in essa d'ora in poi troverà la regola della sua convivenza. Solone non redistribuisce le terre, le ricchezze e neppure il potere: se cancella alcuni degli effetti più devastanti dei vecchi squilibri sociali, come la servitù per debiti, egli dichiara immutabile la forma esistente della proprietà terriera, e divide il corpo dei cittadini in gruppi censitari, ai più alti dei quali sono riservate le maggiori cariche politico-militari.
La legge scritta costituisce tuttavia, fuori della terra e nella πόλιϚ, un nuovo spazio di eguaglianza, perché di fronte alla nuova norma politica tutti i cittadini sono in linea di principio omogenei, se non uguali; essi condividono il diritto alla gestione dello spazio pubblico, con i suoi poteri, il suo suolo, i suoi edifici comunitari, e in prospettiva con le sue capacità di espansione, il suo tesoro, la sua potenza. Il potere, che continua a essere esercitato dai gruppi aristocratici, ritrova in questo spazio comunitario stabilito dalla legge sia una nuova legittimazione, sia una base di consenso, perché esso appare ora non più arbitrario ma regolato, e insieme posto in qualche modo al servizio non di interessi privati ma della comunità intera. Il δῆμοϚ cessa di sentirsi suddito e acquista gradualmente la consapevolezza di una ripristinata parità attraverso la comune appartenenza alla cittadinanza della πόλιϚ. Istituendo la comunità politica, la legge (νόμοϚ) innesca immediatamente una nuova dinamica che si sviluppa nella richiesta di una 'eguaglianza politica' (ἰσονομία), se non economica, dei cittadini. Se era servita inizialmente a consolidare il potere di γένη aristocratici, la legge finisce in questo modo per metterlo in crisi, perché l'ἰσονομία comporta ben presto la richiesta di pari opportunità di accesso al potere, cioè alla gestione di quel possesso comune quale la πόλιϚ si è venuta configurando.
Una parte almeno dell'aristocrazia ateniese si dimostrò disposta a raccogliere questa sfida, sia per far spazio alla pressione ormai incontenibile del δῆμοϚ urbano, sia per porre fine ai propri contrasti interni, che avevano minacciato, con gli episodi tirannici del VI secolo, l'esistenza stessa della πόλιϚ come comunità paritetica fra i γένη. Sul finire del VI secolo viene dunque realizzato, con Clistene, uno straordinario esperimento di ingegneria costituzionale, che sarebbe restato una tappa fondamentale nella costruzione della πόλιϚ antica.Per liberare la πόλιϚ dall'ipoteca del passato, con la tradizionale dispersione della popolazione sul territorio governata dagli antichi vincoli gentilizi che strutturavano la società aristocratica e continuavano a rappresentare un'ipoteca sul potere effettivo, Clistene - pur appartenendo a una delle maggiori famiglie dell'aristocrazia ateniese, quella degli Alcmeonidi - si rese conto della necessità di una riprogettazione complessiva e 'artificiale' del corpo civico e della stessa organizzazione territoriale del complesso città-campagna. Il territorio fu diviso in demi, raggruppati in trenta trittie omogenee (dieci della città e altrettante della costa e dell'interno); furono poi formate dieci tribù, a ognuna delle quali venne assegnata, per sorteggio, una trittia presa dai tre diversi gruppi (la tribù veniva in questo modo svincolata dalle vecchie basi territoriali e dal relativo controllo gentilizio). Ogni tribù forniva, per sorteggio, cinquanta consiglieri alla Βουλή (Consiglio) dei Cinquecento, che durava in carica un anno. I compiti della Βουλή consistevano nel preparare le deliberazioni da sottoporre all'assemblea dei cittadini, nel controllare l'attività dei magistrati, nell'amministrazione delle finanze pubbliche, nella conduzione della politica estera e delle operazioni militari. Poiché ogni buleuta non poteva ricoprire questa funzione per più di due volte nella vita, è facile vedere come nel giro degli anni questa attività di governo avrebbe finito per coinvolgere una parte assai rilevante dei cittadini aventi diritti politici (cioè i maschi liberi oltre i vent'anni, che non avrebbero mai superato la quota di 50.000). Ci si avvicina così alla definizione aristotelica della perfetta libertà del cittadino antico, che non è sovrano né suddito, ma volta a volta 'governante e governato', capace quindi tanto di comandare quanto di obbedire. E si compie al tempo stesso un passo decisivo verso la realizzazione di una compiuta omogeneità ed eguaglianza (ἰσότηϚ) all'interno del corpo civico, garantita dall'accesso alle cariche per sorteggio: ciò comporterà, come vedremo, anche rilevanti conseguenze dal punto di vista etico ed educativo.
Le sole cariche sottratte al sorteggio e affidate alle elezioni sono le magistrature tecniche (come quelle dei tesorieri, degli architetti pubblici, e quelle sacerdotali), nonché il collegio dei dieci strateghi, cui sono affidati i massimi compiti di governo e di direzione militare, ma che restano anch'essi in carica per un solo anno.
Il vero potere supremo è però detenuto, nella città clistenica e per tutto il V secolo, dall'assemblea popolare plenaria, composta da tutti i cittadini dotati di diritti politici (a eccezione dunque di schiavi, stranieri, donne e giovani al di sotto dei vent'anni), che in quanto 'popolo armato', compartecipe della 'corporazione cittadina' e collettivamente 'comproprietario' della città, non conosce limiti al suo comando se non quelli costituzionalmente sanciti. L'assemblea accetta o respinge i decreti proposti dalla Βουλή, decide sulla pace e la guerra, esamina i rendiconti dei magistrati, che può del resto deporre in qualsiasi momento o deferire ai tribunali per indegnità. La costituzione clistenica realizza inoltre una piena integrazione tra sfera politica e giudiziaria: la composizione del supremo tribunale ateniese (῾Ηλιαία) è fondamentalmente omogenea a quella dell'assemblea (᾽Εϰϰλησία). Questa integrazione dei poteri rappresenta probabilmente la massima distanza tra la πόλιϚ classica e la struttura dello Stato moderno, insieme con il privilegio concesso all'esercizio diretto del potere da parte della cittadinanza rispetto a qualsiasi forma di rappresentanza e di delega.
Due sono i cardini su cui si regge questo esercizio diretto del potere da parte del corpo civico: da un lato, il principio del diritto di tutti a una piena libertà di parola in assemblea (ἰσηγοϱία, παϱϱησία); dall'altro, la retribuzione per la partecipazione alle attività politiche e assembleari, introdotta da Pericle per compensare i cittadini poveri della perdita di ore lavorative. Libertà di parola e μισθοϕοϱία non bastano naturalmente a garantire un'effettiva partecipazione paritaria dei cittadini all'assemblea: i poveri, gli incolti, i contadini che vivono lontano dalla città non partecipavano affatto all'assemblea, oppure vi esercitavano un'influenza incomparabilmente minore dei ricchi e dei potenti, che si giovavano di una migliore preparazione politica e retorica, nonché di gruppi compatti di sostenitori. Tuttavia la πόλιϚ clistenica, e poi periclea, rappresenta senza dubbio uno dei maggiori sforzi storicamente compiuti per l'integrazione di una parte rilevante della popolazione libera nell'esercizio diretto del potere politico, amministrativo, militare e giudiziario; i poteri di controllo dell'assemblea avrebbero in ogni caso scoraggiato per molti decenni, e fino alla crisi conseguita alla guerra del Peloponneso, deviazioni in senso autoritario, oligarchico o tirannico del sistema politico ateniese.
Il detto di Tucidide, che gli Ateniesi giunsero a "usare di un'unica πόλιϚ" (II, 15.2), appare in questo periodo pienamente verificato, come anche appare realizzato il programma che Aristotele attribuiva a Clistene, di "fondere fra loro i cittadini, perché il maggior numero di essi partecipasse alla vita politica" (Resp. Ath., 21.2).
Si trattava, a questo punto, di 'usare la città' in senso pieno. Lo strumento approntato dall'ingegneria costituzionale e dall'audacia politica di Clistene prima, di Pericle poi, doveva venir messo in funzione per rispondere ai problemi economico-sociali da cui esso era nato. In altri termini, la dimensione politica, aperta per spostare e superare i problemi economico-sociali nati nel vecchio contesto agricolo e gentilizio, non poteva significare soltanto l'allargamento virtuale dell'accesso al potere all'intero corpo civico, e con esso la rilegittimazione delle forme di comando sociale. Essa doveva inoltre dimostrarsi capace di tradurre nei meccanismi effettivi della riproduzione economico-sociale quella partnership egualitaria nel controllo della città (se non della terra), che le figure del νόμοϚ e della ἰσονομία avevano garantito.
All'inizio la città offre le occupazioni proprie di un centro di servizi agli aristocratici impoveriti, ai contadini poveri e senza terra, agli emarginati prodotti dalla crisi della società rurale. Vi si sviluppano le attività artigianali e professionali, consolidando la diversificazione dei mestieri, e offrendo loro un mercato più ampio e vivace, un nuovo status sociale meglio identificato. Il volume crescente degli scambi comporta inoltre l'emergere di una figura di operatore del mercato e della circolazione monetaria, il ϰάπηλοϚ, piccolo commerciante che si fa spesso cambiavalute e si impegna talvolta nelle attività del prestito e dell'usura. Ma tutto questo costituisce più lo sfondo della vita urbana che il suo vero centro. Del resto le attività produttive, in campagna come nell'artigianato urbano, vengono sempre più delegate alla massa crescente degli schiavi (destinati a raggiungere, alla fine del V secolo, un numero variabile, secondo le fonti, fra le 150.000 e le 400.000 unità); quanto alle attività commerciali, esse sono a loro volta affidate agli stranieri che vivono in città (i meteci), o addirittura ad altre πόλειϚ strettamente vincolate ad Atene, come Samo e Chio. Il corpo civico preme piuttosto nella direzione di una immediata identificazione tra la sua funzione proprietaria della città e il suo problema di remunerazione. Al principio del V secolo le attività propriamente legate alla πόλιϚ - legislative, giudiziarie, amministrative, militari - occupano annualmente, secondo Aristotele, non meno di quindicimila persone, tutte "nutrite dai fondi comuni della città" (Resp. Ath., 24): una quota destinata ad aumentare progressivamente nel corso del secolo, anche a causa del numero elevato di rematori impiegati nella flotta militare, che in Atene - caso eccezionale in tutto il mondo antico - sono reclutati fra i cittadini poveri ma liberi.
Si manifesta così nettamente una tendenza destinata a rafforzarsi durante l'arco dell'esistenza della πόλιϚ classica: proprietà comune del corpo sociale, essa è destinata a 'nutrire' i cittadini (come un tempo la terra comune), a offrire loro il sostentamento che la parte più povera, quindi potenzialmente più eversiva della popolazione, richiede per la propria sopravvivenza e per assicurare il proprio consenso alla forma politica. Gli Ateniesi, e soprattutto gli Ateniesi poveri, si concepiscono sempre più nettamente come rentiers della πόλιϚ, dalla quale esigono non solo occupazioni retribuite nella sfera politico-militare, ma anche una forma di retribuzione per la stessa partecipazione alle funzioni tipiche del cittadino, come le feste religiose, gli spettacoli teatrali (per questo verrà istituito un apposito fondo, il θεωϱιϰόν), all'assemblea e al tribunale: si esige e si ottiene, in questo modo, una redistribuzione tutta politica delle eccedenze della comune ricchezza della città.
È naturalmente essenziale, a tal fine, che queste eccedenze esistano e si sviluppino. Alla loro formazione non contribuisce certo alcuna forma di tassazione diretta: i ricchi si accollano il finanziamento temporaneo di alcune funzioni pubbliche (feste, spettacoli, allestimento di navi), ma rifiuteranno sempre come misura tirannica ed estranea alla natura della πόλιϚ l'imposizione sui patrimoni. Neppure è rilevante il ruolo svolto dalle esportazioni di prodotti agricoli o artigianali: la città antica in generale, ma soprattutto Atene, rimase sempre un centro in cui le esigenze di consumo superano di gran lunga la capacità di produzione ed esportazione. Le ricchezze della città, destinate a finanziare questi consumi (in cui l'acquisto di schiavi viene assumendo un'importanza crescente) e inoltre le richieste di mantenimento pubblico da parte dei cittadini poveri, provengono dunque da una ben precisa gamma di risorse. Una parte di esse è rigida e non può aumentare oltre i suoi limiti naturali: si tratta della produzione agricola e di quella mineraria, estremamente importante quest'ultima nel caso di Atene, che finanziò con l'argento del Laurio le prime fasi del suo sviluppo politicomilitare. Un'altra parte è invece elastica e aumenta in rapporto al potere della città. Si tratta delle 'esportazioni invisibili', legate soprattutto a quella sorta di 'turismo forzoso' che la πόλιϚ egemone può imporre ai sottoposti alla sua area di influenza (partecipazione alle funzioni politiche, culturali, religiose centralizzate); ma si tratta soprattutto del reddito estraibile da quest'area d'influenza, attraverso l'imposizione di tributi, di dazi, di cessione di territori in cui installare 'cleruchie' (una forma di colonizzazione in cui il 'colono' ateniese percepisce una parte del reddito prodotto dai coltivatori locali).
La riproduzione economico-sociale della πόλιϚ tende dunque a passare per canali politici più che direttamente economici. La crisi da cui si era originato il processo di formazione della città viene cioè risolta mediante l'esportazione del peso delle sue contraddizioni, che è consentita dalla forza politico-militare di cui la città può disporre. Se prima lo spazio di sfruttamento disponibile era quello legato alle sole attività agricole (la terra, il bestiame, gli schiavi), ora esso si dilata comprendendo l'area marittima di cui si controllano i commerci e da cui si ottengono tributi, in linea di principio imposti in cambio di una protezione politico-militare, ma spesso di fatto semplicemente estorti con la forza. Tutto ciò determina una netta trasformazione del corpo sociale e delle sue attività. Se il lavoro produttivo viene sempre più spesso affidato alla popolazione servile, e le attività commerciali sono lasciate al monopolio di fatto dei meteci, il lavoro del cittadino tende progressivamente a identificarsi con le attività retribuite connesse alla politica e con quelle militari che ne dipendono. A seconda del livello sociale, il cittadino sarà allora stratego, membro della Βουλή o dei tribunali, frequentatore delle assemblee cittadine o dei riti di autocelebrazione del corpo sociale (feste, agoni teatrali), infine soldato o marinaio nella flotta da guerra. Tutte queste attività vengono prima o poi retribuite, sia ufficialmente sia in quelle forme non ufficiali, ma fisiologiche, che sono la corruzione in tempo di pace e il bottino in tempo di guerra. Il modo di rapportarsi alla politica come lavoro è naturalmente diverso per l'aristocratico urbanizzato, che continua a contare sulla ricchezza terriera e poi anche finanziaria, e per il proletario senza terra; non è diversa, tuttavia, la comune opzione per la centralità della πόλιϚ. Il massimo grado di esclusione tocca invece, in modo crescente durante il V secolo, al piccolo coltivatore diretto, che non può permettersi né una residenza urbana né una manodopera servile sufficiente a staccarlo dal lavoro quotidiano sui campi. Egli è di fatto il meno beneficato dalla redistribuzione urbana delle ricchezze comuni, e il più svantaggiato dalle ragioni di scambio che il mercato impone fra prodotti agricoli e prodotti e servizi della città. Nata dall'integrazione fra città e campagna, la πόλιϚ classica tende sempre di più a distanziarsi dalla sua χώϱα e a sottoporla al suo sfruttamento. Sarà, questa, una delle maggiori contraddizioni destinate a minare l'esistenza della πόλιϚ, come vedremo più avanti.Essa non altera tuttavia la struttura fondamentale del modello che siamo venuti delineando. La città aveva costituito una risposta politica a una crisi economica e sociale. E politici sono i suoi strumenti di finanziamento, politici i vettori della sua riproduzione; con la politica, infine, tende a identificarsi il lavoro del cittadino. La πόλιϚ tende dunque a occupare il luogo strutturale che in altri sistemi tengono le forze di produzione, surrogandone una parte rilevante; allo stesso modo, la politica tende ad assumere la funzione, diretta o indiretta, dei rapporti di produzione.
La vicenda sociale della città antica si disegna nello spazio di due coordinate divergenti. Da un lato, essa richiede un grado massimo di integrazione, di omogeneità, di coesione del corpo civico; dall'altro, è priva di apparati statali demandati specificamente all'educazione, come la scuola, e alla formazione morale e religiosa, come sarà la Chiesa a partire dal Medioevo europeo. È dunque la comunità cittadina nel suo insieme che deve farsi carico del compito - per usare le parole di Tucidide - di "rendere i cittadini tali, quali si conviene alla loro città" (II, 43).
Ha scritto Marx che nella città antica "non è con la cooperazione nel lavoro produttivo di ricchezza che il membro della comunità si riproduce, ma con la cooperazione nel lavoro dedicato agli interessi collettivi (presunti o reali) per mantenere in piedi l'unità all'interno e verso l'esterno". Scopo della città è dunque "la riproduzione dell'individuo nei rapporti determinati con la sua comunità", la riproduzione del "miglior cittadino" (v. Marx, 1953; tr. it., pp. 102 e 108). Del resto, già Tucidide aveva attribuito a Pericle la frase famosa, secondo cui "la città nel suo insieme è un'impresa educativa (παίδευσιϚ) per tutta la Grecia" (II, 41); ma in primo luogo, occorre aggiungere, per i suoi stessi cittadini.
Ma perché è decisivo per la πόλιϚ antica, e per Atene in primo luogo, formare 'il miglior cittadino', e che cosa significa 'diventare adeguati alla propria città'? Per rispondere a questa domanda, occorre partire da quella 'concezione militante' del cittadino antico, sulla quale ha insistito Paul Veyne. Egli non si concepisce, e non è, 'suddito' di uno Stato; piuttosto si pensa, come abbiamo visto, come il partner attivo di un gruppo militante, da intendere in una gamma di significati che vanno dal vero e proprio reparto militare al partito politico, anche con immediate implicazioni economiche. La città si identifica col gruppo dei cittadini militanti al punto di rendere via via secondario il radicamento territoriale da cui si era originata: durante le guerre persiane gli Ateniesi presero in seria considerazione la possibilità di imbarcarsi sulle navi e di trasferire altrove la loro πόλιϚ (cioè i cittadini, la costituzione politica, le tradizioni culturali e religiose); altre città minori, come quella dei Focesi, si comportarono in effetti così.
La militanza del cittadino ha in primo luogo un senso strettamente militare. Più di metà della vita dell'ateniese adulto (fra i diciannove e i sessant'anni) è spesa combattendo: operazioni militari, per terra e per mare, hanno luogo praticamente ogni stagione estiva. Le esigenze di coesione e di integrazione formativa del corpo sociale che questa situazione presenta divengono chiare quando si analizzino sia la tecnica militare in uso nella πόλιϚ dell'età classica, sia i meccanismi decisionali che alla guerra si accompagnano. La πόλιϚ greca ha sostituito il combattimento sui carri e a cavallo, tipico dell'età gentilizia, con la falange oplitica, di cui Maratona rappresentò il modello emblematico. L'oplita è un fante armato di scudo, lancia e spada, che combatte in uno schieramento frontale denso e compatto. Nella tecnica oplitica lo scontro individuale non solo non è importante, ma risulta pericoloso perché porta a scompaginare lo schieramento: è la compattezza di questo a costituirne la forza d'urto, sia in attacco che in difesa. Povera di contenuti militari tecnico-tattici, la tecnica oplitica richiede per contro elevati contenuti di ordine 'morale': la solidarietà fra compagni, la coesione, l'autocontrollo che evita gli eccessi della temerarietà e della viltà; insomma quella virtù della 'temperanza' o autocontrollo, la σωϕϱοσύνη, di cui Jean-Pierre Vernant (v., 1968) ha mostrato il carattere politico e la stretta connessione con il combattimento oplitico.
Altrettanto importanti sono i meccanismi con i quali la guerra viene decisa e governata. È il 'popolo in armi', il corpo dei virtuali combattenti (i cittadini liberi, maschi e adulti, cioè i membri della 'corporazione' cittadina), a deliberare sulla guerra che lo vedrà impegnato: questo richiede evidentemente, per la sicurezza di tutti, un senso elevato di responsabilità collettiva e la capacità di anteporre gli interessi di gruppo alle ambizioni o ai timori individuali, giacché ognuno è in un certo senso ostaggio del gruppo militante di cui fa parte. La regola fondamentale della responsabilità collettiva è ulteriormente sottolineata dal fatto che gli organi politici che governano - dopo le decisioni dell'assemblea - le questioni della pace e della guerra, come in primo luogo la Βουλή, sono formati, come si è detto, da una rappresentanza estratta a sorte nell'ambito dell'intero corpo civico. Il sorteggio delle cariche politiche costituisce, come ha notato Moses I. Finley, una eccezionale "scuola di democrazia"; ed esso presuppone un'assoluta omogeneità di principio fra tutti i cittadini, che ne assicuri la perfetta intercambiabilità.L'uguaglianza fra i cittadini, al di là delle differenze di ceto e di ricchezza - uguaglianza sul campo di battaglia, nell'ἀγοϱά, nel Consiglio - va dunque intesa in senso forte, e costituisce un'esigenza vitale per la sopravvivenza stessa della πόλιϚ. Essa deve estendersi alla vita privata, perché la sregolatezza personale non può che tradursi in comportamenti politici perversi e rovinosi: traumatico in questo senso, e più volte citato come emblematico, il caso di Alcibiade, ricco tanto di doti quanto di ambizioni straordinarie, irriducibili alla medietà omogenea del corpo civico, e destinato quindi a minacciare all'esterno e all'interno gli equilibri e le sorti della città. Simili casi vengono di norma controllati in una società face-to-face come quella della πόλιϚ, in cui la vita di ognuno è sottoposta a una totale visibilità, ed è esposta al controllo quotidiano da parte della comunità. Esistono certo controtendenze a questo controllo, come il segreto di cui si circondano le associazioni oligarchiche (ἐταιϱείαι); ma esistono altresì strumenti repressivi, che vanno dai processi alla pratica dell'ostracismo, grazie al quale l'assemblea può annualmente decidere la messa al bando dei cittadini pericolosi per la comunità. Il controllo del corpo dei cittadini su ognuno dei suoi membri non è tuttavia sufficiente a garantire quella coesione, quell'integrazione, quella omogeneità fondamentale che sono, come si è visto, presupposti necessari per la sicurezza e la sopravvivenza della πόλιϚ. Occorre a questo fine un'attività educativa totale e permanente, che fa della città intiera, come ha scritto Victor Ehrenberg, una "comunità pedagogica". Una comunità che può contare solo marginalmente sugli strumenti scolastici in senso stretto, che restano sempre semiprivati e comunque limitati all'istruzione elementare destinata all'infanzia e alla prima adolescenza; l'educazione vera e propria è piuttosto costruita, sempre con le parole di Ehrenberg (v., 1965²), "non professionalmente ma attraverso la vita comunitaria".
Il primo passo di questo processo di educazione collettiva e permanente è compiuto, dai giovani di sedici anni, con l'entrata nei ginnasi. Le funzioni di questa istituzione sono molteplici: luogo di addestramento fisico, in funzione anche premilitare, il ginnasio è inoltre il primo spazio di contatto fra i giovani e gli adulti, in cui, attraverso la conversazione e il rito del corteggiamento pederastico, gli adolescenti compiono la loro iniziazione a quel 'club maschile' che è la città antica. Segue, dai diciotto ai vent'anni, un servizio paramilitare (ἐϕηβεία), che sancisce l'integrazione sociale del giovane; il matrimonio ne farà in seguito un capofamiglia e quindi un cittadino nel pieno possesso dei suoi diritti e della sua dignità. Ma non si arresta qui il processo di formazione collettiva. Il suo protagonista maggiore, e impersonale, è la legge della città. Come sottolineano, nei dialoghi platonici, due personaggi così diversi come il democratico sofista Protagora e l'oligarchico Callicle (il primo, nel Protagora, con approvazione, il secondo, nel Gorgia, con violento dissenso), la legge è il principale operatore di eguaglianza (ἰσότηϚ) del corpo civico, di cui garantisce l'omogeneità correggendo, propriamente 'raddrizzando', le differenze e le deviazioni personali che potrebbero rendere il cittadino non 'adatto alla propria città'. Dice efficacemente Callicle: "Accalappiandoli fin da bambini, mediante la legge, plasmiamo i migliori, i più forti di noi, e impastoiandoli e incantandoli come leoni, li asserviamo, dicendo loro che bisogna essere uguali agli altri e che in tale eguaglianza consistono il bello e il giusto" (Gorgia, 483E ss.). La funzione formativa e conformante della legge non potrebbe essere meglio descritta che da queste parole di un critico della πόλιϚ clistenica e periclea, nostalgico dell'epoca gentilizia degli eroi, quale Callicle è dipinto da Platone.
Ma la legge non avrebbe una sufficiente efficacia formativa e coercitiva se non esistesse un veicolo potente per la sua interiorizzazione, per il radicamento nelle coscienze del consenso alla norma della città. Questo veicolo è costituito dalla voce stessa del corpo civico nelle occasioni, frequentissime, delle sue riunioni collettive, una voce che rimbomba, come dice Platone, "nelle assemblee o nei tribunali o nei teatri o negli accampamenti o in altra comune adunanza di folla"; di fronte alla sua pressione potente e immediata, come potrebbe il giovane "non dire belle o brutte le medesime cose che dicono costoro? e non occuparsi delle medesime cose di questi? e non divenire simile a loro?" (Repubblica, V, 491E ss.).
Platone individua qui con chiarezza i luoghi e i dispositivi uniformanti e conformanti, rispetto alle esigenze collettive, impiegati dalla città nella sua funzione di comunità educativa permanente. Essi si dividono fondamentalmente in due ordini: quelli politici, militari, giudiziari (l'assemblea, il tribunale, la spedizione militare), in cui i cittadini si confrontano direttamente sulle scelte della πόλιϚ, e si condizionano reciprocamente in direzione dei comuni interessi; e quelli culturali-religiosi (le feste, il teatro) chiamati a svolgere il doppio ruolo di autocelebrazione del corpo civico, nella sua forza e nel suo ordine pacificato, e di riflessione comune sui problemi di fronte ai quali si trovano l'uomo e il cittadino. Un esempio straordinario del ruolo autocelebrativo della festa è offerto dai fregi del Partenone (ora al British Museum) che rappresentano la processione delle Panatenaiche: qui è splendidamente raffigurata l'armonia che la città trionfante ha instaurato fra le sue componenti, sotto l'occhio benevolo delle divinità poliadi, emblemi a loro volta di una compiuta politicizzazione della dimensione religiosa della vita.
Quanto al teatro, non a caso Pausania, come si è visto, ne indicava la presenza come essenziale al riconoscimento della dignità di πόλιϚ a un aggregato urbano. Il ruolo sociale che la città riconosceva allo spettacolo teatrale è già sottolineato dalle sue strutture organizzative: la πόλιϚ è il committente e il finanziatore delle rappresentazioni; ci si attende che l'intera cittadinanza vi partecipi, tanto da istituire un fondo per la retribuzione agli spettatori; le giurie che controllano e giudicano gli agoni teatrali sono composte con meccanismi di rappresentanza per sorteggio del corpo civico, analoghi a quelli delle magistrature. Tutto ciò indica chiaramente come al teatro fosse affidato il compito di contribuire a rafforzare la coesione comunitaria, in un contesto rituale e spettacolare che ribadisce i vincoli culturali della comunità stessa. Ma c'è di più: al teatro è inoltre affidato il compito di rappresentare di fronte alla città, rendendoli comprensibili e quindi controllabili, i problemi di fondo che la sua storia propone. Così, ad esempio, l'Orestea di Eschilo mette in scena la rovina cruenta della storia gentilizia degli eroi, con le sue divinità vendicatrici e le sue tragedie dinastiche, cui si contrappone l'inizio della civiltà della πόλιϚ, con la chiarezza pacificata della legge politica imposta dalla divinità poliade, Atena. L'Antigone di Sofocle, che fu rappresentata di fronte a non meno di diecimila cittadini, problematizza il rapporto fra le leggi 'non scritte', proprie della tradizione religiosa, e le nuove logiche della politica; più tardi, le Baccanti di Euripide tematizzeranno il confronto fra la città e le forme di religiosità dionisiaca. Per finire, l'Edipo a Colono di Sofocle, messo in scena alla fine del V secolo, nel momento della crisi più acuta della città, tornerà a proporre il modello della πόλιϚ come momento insuperabile di civilizzazione e di superamento del conflitto tra gli uomini e tra gli uomini e gli dèi.La funzione insieme problematica ed educativa del teatro risulta così indissolubile dall'esperienza storica della πόλιϚ antica: così come non ci può essere teatro senza città, neppure è pensabile, in tutto il mondo classico, una città senza il suo teatro.
La πόλιϚ si costituisce dunque e si regge su due caposaldi: la dimensione comunitaria ricostituita, fuori dei rapporti agricoli, in ambito politico; e lo sforzo permanente di educazione e di integrazione degli individui in questa comunità. L'uno e l'altro si dimostrano efficaci nel garantire, per più di un secolo, la sopravvivenza e la coesione del modello classico di πόλιϚ che costituisce, dunque, un esperimento di grande rilievo storico; ma non possono tuttavia cancellare una serie di contraddizioni, che stanno alla base dell'esistenza di quel modello e che esso contribuisce anzi a esasperare proprio nel suo sforzo di mediazione e di superamento.
C'è, anzitutto, la contraddizione tra l'originaria definizione territoriale del diritto alla cittadinanza (dovuta alla proprietà di un lotto di terra nel contado) e la presenza nella città di un ceto sempre più numeroso di ex contadini poveri, i teti, ormai privi di ogni rapporto di proprietà con la terra, e tuttavia ammessi alla cittadinanza per eredità. Costoro sottoporranno la πόλιϚ a una pressante richiesta di mantenimento di tipo esclusivamente politico-militare, del tutto extraeconomico, valendosi sia della loro forza numerica in assemblea, sia della loro condizione di rematori nella vitale flotta da guerra; e susciteranno così la reazione esasperata dei ceti abbienti, soprattutto dell'aristocrazia terriera, fino a convincerla, a più riprese, dell'opportunità di spezzare il patto istitutivo della città, e di imporre l'espulsione dei teti dalla cittadinanza.Una seconda contraddizione è quella fra città e campagna, che tende a coalizzare i ceti urbanizzati, sia aristocratici sia popolari, nello sfruttamento dei contadini: si rafforza così da un lato l'unità interna della πόλιϚ, dall'altro se ne spezza l'equilibrio originario, spingendo le masse agricole a un progressivo distacco dalle dinamiche politiche della città, come testimonia efficacemente il teatro comico di Aristofane.
C'è poi la contraddizione di base fra l'aristocrazia e il δήμοϚ nel suo insieme: l'accelerazione, nel IV secolo, dei processi di accumulazione e circolazione monetaria, producendo nuove forme di arricchimento e di corrispondente povertà, determinerà un ulteriore indebolimento dei principî su cui si reggeva il sistema comunitario.Infine, e forse principale, la contraddizione di carattere esterno. La sopravvivenza stessa della πόλιϚ richiede, come si è visto, lo sfruttamento di altre città, chiamate, in quanto suddite, a fornire dazi e tributi: una violazione permanente del diritto strutturale di ogni πόλιϚ alla sua autonomia, che determina uno stato via via più intollerabile di guerre e di ribellioni cicliche. Data anche l'inesistenza di istituti 'sovranazionali' di mediazione, esso determinò alla fine - con il comune esaurimento delle forze di dominatori e dominati - il ricorso a forme di sovranità monarchica, esterna alla città, quale quella proposta dal regno macedone e dai suoi eredi nel IV e nel III secolo, in cui l'autonomia della città veniva sacrificata alla pace interna ed esterna.
Tutto quanto si è venuti dicendo sin qui riguarda naturalmente in primo luogo la vicenda storica della πόλιϚ ateniese, nell'arco di tempo che va da Solone all'assoggettamento alla monarchia macedone dopo la battaglia di Cheronea (338 a. C.). Ma molte delle caratteristiche strutturali di questa vicenda, sia pure con differenze di rilievo, si ripetono nel caso di altre πόλειϚ greche. Ci sono le città a prevalente vocazione commerciale e coloniale, come Corinto e Mileto, impegnate con alterne vicende nella difesa della propria autonomia dai più potenti vicini, e costrette talvolta a subirne le imposizioni anche per quanto riguarda il proprio regime interno (Atene tendeva naturalmente a favorire la costituzione di regimi democratici, contro l'oligarchia favorita da Sparta). C'è appunto il caso di Sparta, in cui una ristretta oligarchia terriera e militare domina su vaste masse contadine in condizione servile (gli iloti), e ricorre quindi in misura minore alla manodopera schiavistica; ma i problemi di coesione interna del corpo civico spartano sono anche maggiori di quelli ateniesi, e le sue contraddizioni non meno pericolose.In tutta la varietà delle loro forme sociali, le πόλειϚ greche non sfuggono a un destino comune, e in un certo senso paradossale. Incapaci strutturalmente di reggere alle proprie tensioni interne e alla permanente situazione conflittuale all'esterno (dovuta all'esigenza di esportare il peso di quelle tensioni), esse finiranno tutte per perdere larga parte della propria autonomia nella comune sudditanza a regni burocraticomilitari di carattere sovranazionale. Ma conserveranno tuttavia, per l'intera durata della civiltà antica, il proprio ruolo di forma insostituibile e insuperabile dell'aggregazione sociale, della vita economica e culturale: anche nell'epoca dei regni e degli imperi il mondo antico continuerà a essere un 'mondo di città', l'uomo antico continuerà a riconoscersi anzitutto come membro di una comunità cittadina. I regni e gli imperi contribuiranno anzi a estendere il modello della πόλιϚ in regioni che fino allora lo ignoravano, come fecero le dinastie seleucidi in Siria e nelle remote regioni dell'Asia ellenizzata, o più tardi i Romani nell'Occidente europeo. Tocca appunto a Roma rappresentare insieme il momento terminale e quello di rottura dell'esperienza della πόλιϚ. La Roma repubblicana ripete certamente i tratti essenziali del modello greco, pur disponendo di un ampio radicamento nel retroterra agricolo che alle πόλειϚ greche era sconosciuto, e che spiega buona parte della sua capacità di resistenza nei momenti di crisi più acuta. La stessa spinta imperiale risponde a esigenze non dissimili da quelle della πόλιϚ ateniese ma, per la composizione della società romana e per la natura delle regioni su cui inizialmente si esercita (più agricole che urbanizzate), essa dà luogo a esiti diversi. C'è nell'imperialismo romano, accanto ai caratteri di pura rapina (in termini di ricchezze e di schiavi), una forte componente di insediamento agricolo e di integrazione con i ceti dominanti dei paesi sottomessi. Tutto ciò determinerà via via la concessione del diritto di cittadinanza a sfere sempre più larghe di popolazione che non partecipano alla vita politica e culturale della città, e che spesso non la conoscono e non ne parlano neppure la lingua. Alla fine di questo processo, in epoca imperiale, l'espressione 'cittadino romano' non significherà più - com'era sempre stato in Grecia - membro della comunità politica di Roma, bensì suddito a pieni diritti di uno Stato 'multinazionale'. Ciò significa la definitiva scomparsa della πόλιϚ, nel suo senso originario, a vantaggio della nuova forma politica statuale, anche se per altri aspetti (sociale, culturale, economico) la città, come si è detto, continuerà a costituire il centro di gravità della società antica.
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di Renato Bordone
1. Il 'comune' in Europa
L'affermazione dell'autogoverno cittadino rappresenta uno dei principali fenomeni che caratterizzano il basso Medioevo, e gli effetti di tale esperienza, pur nelle successive mutazioni politiche, rimasero profondamente radicati nelle strutture istituzionali e sociali dell'Europa. Il 'comune', così come si venne affermando fra l'XI e il XIII secolo, fu il portato della trasformazione di una società in crescita, la conseguenza di una fase che interessò l'intero mondo occidentale e ne orientò gli assestamenti politici ed economici.
Germinato dalle medesime esigenze primarie che favorirono il sorgere della 'signoria' - l'esigenza di colmare un vuoto di potere pubblico egemonizzandolo territorialmente, l'esigenza di proteggere dalla concorrenza esterna i residenti di un'area delimitata, l'esigenza di garantire loro il tranquillo svolgimento delle attività economiche per trarne profitto - il comune, a differenza della signoria, pur sempre circoscritta a uno o a pochi lignaggi, conobbe, nella pienezza della sua espressione, quella dimensione collettiva che lo distingue dalla signoria locale e lo caratterizza in maniera inconfondibile sul piano istituzionale, ma soprattutto su quello politico-sociale. Se infatti nel funzionamento delle strutture amministrative, al momento della maturità tanto del governo comunale quanto di quello signorile-principesco, l'apparato burocratico dei due istituti può apparire molto simile, in quanto entrambi si propongono di monopolizzare il controllo sugli amministrati, diametralmente opposta è la concezione politica sulla quale si basa l'esercizio del potere: là personale, qui, comunque sia, collettivo.
Va da sé che all'origine della diversità di concezione politica si riscontra una diversità che è prima di tutto culturale, cioè frutto della cultura di una società 'altra' rispetto a quella signorile. Una società che alle esigenze primarie ha trovato risposte comunitarie (laddove l'altra si è imposta isolatamente con la forza) in quanto poteva esprimere al suo interno quel minimo di articolazione che ne consentiva il funzionamento, collaudato da una tradizionale attitudine all'agire insieme. Nel trapasso fra l'alto e il basso Medioevo la sola alternativa socioculturale all'élite guerriera, in fase di insignorimento territoriale, che sia in grado di 'pensare politicamente' è costituita dalla cultura cittadina, non certo dal mondo delle campagne, dove le stesse condizioni giuridiche personali stanno attraversando una fase di grave crisi.Il comune, in quanto espressione politica di una certa società individuabile territorialmente come collettività di residenti in un determinato luogo, non può dunque nascere che in città. Ma sarebbe scorretto generalizzare per tutto l'Occidente europeo l'equazione 'società cittadina=comune' senza specificarne meglio l'area e il preciso momento di affermazione, poiché nello schema proposto giocano alcune importanti variabili: intanto lo stesso concetto medievale di città, poi il suo inserimento territoriale e la sua reale composizione sociale. Donde le difficoltà e gli equivoci di certe interpretazioni storiografiche generalizzanti o sviate dalla prospettiva prescelta come punto di osservazione e di riferimento.
Per comprendere la complessità del fenomeno occorre anzitutto tenere presenti le diversificazioni regionali, anche se al tempo stesso non bisogna dimenticare che l'esito comune - o l'aspirazione, anche se non compiutamente realizzata, a un esito in un certo senso 'perfetto' - rimanda a un modello di funzionamento presente in tutta la cultura europea medievale. È, in maniera consapevole o inconscia, il modello della civitas romana, precocemente individuato con piena coscienza nel Regnum Italiae, dove l'esempio continuava con più evidenza a sopravvivere, ma non ignoto a quelle città d'oltralpe che all'idea della romanità si richiamavano.
Per la città italiana, tuttavia, non si trattava soltanto di un modello ideale di cui si sentiva erede diretta: era un tipo di funzionamento sociale ed economico che, nonostante le profonde trasformazioni sopravvenute, continuava ad attribuirle un tradizionale ruolo di centro territoriale nei confronti del contado. Un ruolo che si era andato consolidando con la presenza del vescovo e con la connessa funzione di caput della diocesi: sicché in Italia, dal punto di vista strettamente giuridico, almeno fino al Trecento non sussistevano ambiguità di sorta nel definire la civitas in quanto sede vescovile e, di conseguenza, nell'escludere rigidamente da questa categoria ogni altro insediamento demico.
Non altrettanto si può dire fuori d'Italia: Edith Ennen nel 1956, e poi ancora nel 1972, cercò di costruire una tipologia urbana dell'Europa medievale individuando una zona d'insediamento germanico e scandinavo al di fuori dell'influsso della romanizzazione e due zone di permanenza di città romane, con diversa intensità: quella renano-danubiana e quella mediterranea. Tranne che nell'area mediterranea, dove sono civitates le città di origine romana, nelle altre due aree sono ugualmente definite 'città' insediamenti nuovi che si sono sviluppati nel corso del Medioevo.
La composizione sociale delle città nuove e il loro rapporto con il territorio circostante sono naturalmente diversi rispetto alle città di antico insediamento. Diverso sarà dunque il loro configurarsi come comunità. Anche nelle città di origine romana dell'area renano-danubiana, d'altronde, il contesto politico nel quale si trovano inserite ne ha profondamente alterato le caratteristiche. Possiamo ugualmente parlare in questi casi di 'cultura cittadina' e, più ancora, di 'comune cittadino' nel senso politico-istituzionale attribuito al termine? Soltanto a condizione di distinguere tali città, una volta per tutte, dal 'comune italiano' e collocarle in una corretta cronologia rispetto a esso, in quanto il loro sviluppo civico - culturale, sociale, politico - avviene successivamente all'instaurarsi dell'autogoverno in Italia, poiché esse arrivano più tardivamente - e non tutte - là donde la città italiana era partita, cioè ad assumere per la prima volta (o a recuperare) le caratteristiche della civitas.
2. Città e società
Le caratteristiche della civitas italiana alla vigilia dell'affermazione comunale erano fondate sulla distinzione dei suoi abitanti rispetto a quelli del resto del territorio. In origine l'ordinamento imperiale romano aveva sancito uno stretto nesso fra l'insediamento urbano e il suo territorium (territorium est universitas agrorum intra fines cuiusque civitatis); tale nesso si era interrotto in modo drammatico con i rivolgimenti del tardo Impero e dell'altissimo Medioevo; ricostituito su base amministrativa dal riordinamento circoscrizionale dei Franchi, di fatto era poi stato definitivamente spezzato dai riconoscimenti ai vescovi di età ottoniana, che ridussero a poche miglia attorno alla città l'area di immediata proiezione degli interessi cittadini sul contado.In questo modo la città era divenuta una sorta di area privilegiata, poiché i suoi abitanti avevano continuato a godere di libertà personale, mentre gran parte di quelli del contado erano stati sottoposti agli oneri della signoria locale, ovunque affermatasi per la vigorosa iniziativa dei potentes, detentori di fortezze. La presenza del vescovo, in posizione di concivis e non di dominus, e la sua relazione particolare con l'Impero avevano infatti favorito la conservazione di una condizione di diretta dipendenza dall'autorità pubblica superiore, che si esplicava con il riconoscimento ai cittadini di peculiari libertates, prima fra tutte quella di poter svolgere liberamente i loro commerci.
Una condizione di questo tipo, abbinata a una generale ripresa dell'agricoltura, aveva incrementato la popolazione urbana, attirando in città possessori del contado e milites, talvolta già in precedenza legati vassallaticamente al vescovo per la detenzione di beni del patrimonio della Chiesa, disseminati nel territorio della diocesi. Mercanti, possessori, milites, ai quali vanno aggiunti personaggi di tradizionale residenza urbana, come notai e iudices, costituivano così una popolazione cittadina socialmente articolata e collettivamente interessata al mantenimento delle prerogative della città, alla sua difesa militare e, infine, al suo governo. Fungeva da potente strumento di coesione ideale il patrimonio di tradizioni municipali sviluppatosi attorno alla figura del santo patrono e in seguito arricchito dal recupero in chiave civica del retaggio di una cultura classica che gli intellettuali cittadini andavano riscoprendo e divulgando.Sotto l'aspetto culturale, oltre che sotto quello socioistituzionale, la città italiana si distingueva in maniera netta dal resto del territorio.
Al di fuori dell'Italia - e in modo particolare dell'Italia centrosettentrionale, dove si era affermato ovunque il modello di città vescovile - la situazione sociale delle città appariva più fluida. Nel Mezzogiorno della Francia, dove sopravvivevano città di fondazione romana, la rottura fra città e campagna fu passeggera e accidentale e gli scambi continuarono a sussistere, facilitando la formazione di una società mista, composta di 'borghesi' e di cavalieri, legati vassallaticamente al vescovo o ai signori del contado, spesso riuniti in potenti clan. Qui, tuttavia, il forte sviluppo della signoria rurale favorì un processo di insignorimento 'interno' da parte di tali lignaggi aristocratici cittadini, che erano spesso egemoni di interi quartieri urbani o, come in Linguadoca, esercitavano collettivamente il dominio sulla città.
Fu piuttosto nell'area settentrionale che le antiche città romane, pur senza scomparire, decaddero fisicamente e socialmente di fronte alla supremazia economica e politica raggiunta dalla campagna; in questo caso la città diventa parte integrante del dominio signorile e tende a perdere le caratteristiche che la distinguono nettamente dalla campagna. La composizione sociale delle città di area tedesca appare meno articolata: qui infatti risiedono in prevalenza i ministeriales, la cui condizione giuridica non è totalmente libera, o meglio appare di libertà limitata (servitus et libertas) nei confronti del dominus, per il quale svolgono un ministerium, talvolta anche di natura vassallatico-militare, che in questo caso tende a equipararli alla minore aristocrazia cavalleresca delle altre aree. Accanto ai ministeriales, tuttavia, in quasi tutte le città è presente una categoria di mercanti liberi, la cui organizzazione svolgerà un ruolo primario nello sviluppo politico successivo.
La ripresa commerciale, tra il VII e il X secolo, incide profondamente nel riordino dell'insediamento dell'area nordorientale del Regno franco, provocando la nascita di nuove città. Si tratta di un processo che si sviluppa gradualmente, ma il cui esito rappresenta forse la novità di maggior rilievo nel panorama cittadino europeo: gli empori commerciali (wike), fondati dai mercanti specializzati nel commercio a largo raggio degli articoli di lusso, che si appoggiano ad antichi insediamenti romani o sorgono presso oppida di origine germanica protetti da un castello (definito urbs o civitas), si trasformano nel corso dell'alto Medioevo in vere e proprie città, a seguito anche della loro erezione in sedi vescovili.
Dal punto di vista sociale pare tuttavia permanere una sorta di distinzione all'interno della popolazione, basata sul dualismo insediativo: mentre gli abitanti della sede fortificata appaiono del tutto dipendenti dal signore, i mercanti del wik, pur sottoposti alla sua autorità, tendono a riunirsi in organizzazioni commerciali (le gilde), che tutelano gli interessi dei soli consociati.
Fu proprio l'osservazione di questo caratteristico insediamento, sorto dalla fusione dell'elemento commerciale con l'elemento signorile-militare, a far formulare a Henri Pirenne, nel corso degli anni venti, la sua nota teoria sulla 'nascita della città medievale', secondo la quale la vita urbana sarebbe l'effetto quasi meccanico della rinascita commerciale realizzata dai mercanti, antesignani della 'borghesia' bassomedievale. Dopo un annoso dibattito, oggi una prospettiva storiografica di questo genere, valida per il caso particolare delle Fiandre e dei Paesi Bassi, non è più accettata come spiegazione universale della rinascita urbana medievale, mentre permangono ancora divergenze - spesso motivate dalle diverse situazioni locali - nell'individuazione delle cause generali dell'affermazione del comune come ente politico.
3. La coniuratio
La base del sorgere del comune come ente politico era stata, secondo la nota opinione di Max Weber, "un'usurpazione iniziale mediante un deciso atto di associazione comunitaria, cioè mediante un affratellamento giurato (coniuratio) dei cittadini". "Ma l'autentica patria delle coniurationes - proseguiva Weber nel paragrafo dedicato al Senso sociologico dell'unificazione cittadina - è stata senza dubbio l'Italia. Qui, nella grande maggioranza dei casi, la costituzione cittadina fu creata in origine dalla coniuratio" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, pp. 578 e 579). In questo modo lo studioso cercava di spiegare la solidarietà fra quelle componenti sociali molto diverse fra loro che avevano dato vita al comune.
Sostanzialmente ancora legati a questa interpretazione appaiono oggi alcuni storici del diritto: Gerhard Dilcher, per esempio, tende a definire il comune italiano come un'"associazione di pace sancita da un giuramento" e in quanto tale "fondata su un atto databile di volontà umana" (v. Dilcher, 1988, p. 97). A questa posizione si avvicina, non senza distinzioni, anche Hagen Keller, che sembra tuttavia incline a privilegiare l'aspetto politico-sociale, interpretando il comune come l'"alternativa medievale a un ordinamento fondato sull'arbitrio incontrollabile di un potere signorile esercitato nella consapevolezza della superiorità" (v. Keller, 1988, p. 68). Negli studiosi tedeschi appare dunque centrale il tema della Herrschaft esercitata dai detentori del potere: per fronteggiare e superare le concorrenze signorili, il comune nascerebbe come provvedimento giurato di pace, con forte connotazione religiosa e un significato rivoluzionario rispetto al passato. Per Dilcher, infatti, già il patto giurato della pataria comprenderebbe un proprio diritto e la possibilità di esercitare un potere giudiziario alternativo a quello tradizionale.
Un atteggiamento di questo genere risente dell'intenzione di riportare il particolare caso italiano nell'ambito più generale del movimento comunale europeo. Qui, infatti, all'interno della dominazione di un signore che controlla indiscriminatamente città e territorio extraurbano, alcune categorie di residenti urbani tendono a organizzarsi su base professionale o sociale, talora stringendosi con un giuramento di mutua difesa, per richiedere riconoscimenti a tutela dell'area cittadina, specie di carattere commerciale. La coniuratio, in alcuni casi, è ricordata in connessione a rivolte urbane, non miranti al raggiungimento dell'autonomia cittadina ma legate a episodi contingenti. La fascia di popolazione urbana interessata a tali rivendicazioni non coincide mai con la totalità dei residenti: come le gilde dei mercanti, le coniurationes extraitaliane rispondono a esigenze di categorie professionali o di gruppi sociali, anche se denunciano una tendenziale attitudine da parte dei cives a voler essere considerati distinti dal resto dei dipendenti signorili, fino all'isolamento completo dalla campagna. Ma questa autoidentificazione su base territoriale non solo non significa ancora possibilità di autogoverno, ma neppure solidarietà fra le componenti sociali urbane.
In realtà, come giustamente avvertiva Nicola Ottokar, nelle città d'oltralpe occorre distinguere due momenti: il formarsi di un'unità territoriale e personale e il successivo auto-organizzarsi di tale unità. Per raggiungere quest'ultima è stato necessario superare le differenti condizioni giuridiche, garantendo libertà personale e libera disponibilità delle sostanze, indispensabili per lo sviluppo della ripresa economico-mercantile che caratterizza in queste aree la società cittadina. Nel favorire poi la coesione fra le componenti sociali pare che una certa importanza abbia rivestito, nel corso dell'XI secolo, il movimento delle paci di Dio, avviato dalle autorità religiose e inteso a proteggere i più deboli, che imponeva giuramenti collettivi a tutela della pace.
Per quanto riguarda invece il caso italiano, come abbiamo visto, il mantenimento di una condizione giuridica privilegiata nei confronti del territorio - riconosciuta a tutti i residenti urbani - aveva già da tempo favorito lo sviluppo di una coscienza civica comune. Alfred Haverkamp, a questo proposito, tende a negare che il iuramentum commune - fra l'altro non attestato in tutte le città - abbia significato un salto qualitativo, addirittura 'rivoluzionario', ma ritiene che si sia trattato solo di un altro passo avanti, uguale ad altri, nel processo di consolidamento politico-istituzionale, da considerare in relazione con la posizione dei comuni nel sistema del potere politico-giurisdizionale dell'Impero.
Benché non manchi chi ancora difende la tesi dell''origine privatistica' del comune basata sulla coniuratio di un'élite, tesi sostenuta all'inizio del secolo da Gioacchino Volpe, è ormai opinione diffusa che fin dal principio il comune "ebbe una competenza territoriale, in quanto si estese a tutto il territorio della civitas e venne esercitata su tutti i suoi componenti" (v. Banti, 1977, pp. 224-225), in forza dell'assunzione di un significato 'pubblico', insito nel concetto di civitas, che era andato prendendo forma nel corso dell'XI secolo. Se è vero che la magistratura consolare nasce nelle città come provvedimento d'emergenza per tutelare l'ordine pubblico, turbato dalle concorrenze delle famiglie del ceto dirigente che aspirano all'egemonia urbana, non è men vero tuttavia che la soluzione politica è ricercata e ritrovata solo all'interno di quella concezione pubblica che la città aveva di se stessa in modo inconfondibile e irrinunciabile.
Non va poi dimenticata l'importanza del momento religioso nella formazione di una coscienza civica, in quanto appare molto forte l'unità di Chiesa (della Chiesa cittadina in quanto tale, non necessariamente riformata o patarinica) e popolo - a Pisa, ad esempio, rappresentata dall'Opera Sancte Marie, in cui la cittadinanza si riconosceva negli interessi e nelle aspirazioni comuni - ma non va neppure sopravvalutata: così, a proposito della pataria milanese, bisognerà osservare che la "sovrapposizione di una tematica etico-religiosa alle tensioni già vive nella città spostò l'interesse dei gruppi sociali dal problema dell'assetto politico-istituzionale a quello del funzionamento interno del potere ecclesiastico, creando momentanei organi di governo della popolazione sostanzialmente estranei a preoccupazioni permanenti di natura politico-amministrativa", anche se resero "più spontaneo e ovvio [...] quell'orientamento verso impegni collettivi sul piano politico-sociale, mentre il sempre più rigido inquadramento del metropolita nella disciplina ecclesiastica imposta da Roma faceva più urgente la creazione di un organo, il consolato, che realizzasse l'unità istituzionale e l'autonomia delle città meglio di quanto ormai riuscisse al metropolita" (v. Tabacco, 1989, p. 79).
4. Le istituzioni
È consuetudine individuare la nascita del comune nel momento in cui, nelle fonti, cominciano a ricorrere stabilmente delle magistrature nuove rispetto al regime precedente. Consuetudine non del tutto corretta, in quanto troppo legata alla casualità della sopravvivenza documentaria, ma utile, di larga massima, per cogliere il momento della sopravvenuta affermazione di strutture amministrative e politiche di autogoverno da parte dei cittadini. Ciò non significa, naturalmente, che il processo di maturazione indirizzato a questa meta non abbia conosciuto forme intermedie di rappresentanza delle città, costituite da commissioni straordinarie o deleghe temporanee a figure rappresentative quali gli iudices cittadini - forme delle quali qualche scarsa traccia è rimasta nelle fonti italiane -, ma di certo la comparsa dei consules rappresenta un fatto completamente nuovo rispetto al passato, nonostante la cultura notarile tenda da principio a fornire un'immagine di continuità con il regime precedente, collocandoli nel quadro tradizionale delle strutture cittadine.
La comparsa dei primi consoli avviene pressoché contemporaneamente in parecchie città italiane (verso il 1085 a Pisa e a Lucca, nel 1095 ad Asti, nel 1097 a Milano, nel 1098 ad Arezzo, nel 1099 a Genova, nel 1105 a Pistoia e a Ferrara, nel 1112 a Cremona, nel 1123 a Piacenza) e, con un leggero ritardo rispetto all'Italia, anche nel Mezzogiorno della Francia (ad Arles nel 1131, a Nizza nel 1144, a Narbona nel 1132, a Tolosa nel 1152). È più tardiva invece nel caso delle città tedesche, dove una magistratura paragonabile al consolato si afferma soltanto nel corso del Duecento (a Colonia nel 1216) e comunque non prima del 1198, anno in cui compare a Spira un Rat paragonabile al collegio consolare.
Differenziate a seconda delle regioni geografiche appaiono anche le competenze della magistratura collegiale, che soltanto nel caso delle città italiane si può affermare abbia fin dall'inizio assunto in sé la somma dei poteri politico-amministrativi sulla comunità per la particolare natura delle popolazioni urbane. La pienezza dei poteri, infatti, investe la difesa militare, l'amministrazione della giustizia e la riscossione dei proventi fiscali, e viene esercitata dal collegio consolare mediante l'elaborazione di norme vincolanti tutti gli abitanti della città (più tardi definite giuridicamente dagli statuti municipali), senza renderne conto a nessun altro se non alla civitas stessa.
Nella Francia settentrionale, e in misura minore in quella centrale, sono invece i signori territoriali, tramite una 'carta di comune', a concedere talvolta a gruppi di abitanti di alcune città di poter formare un'associazione giurata che in un certo senso regolamenta e coordina l'esercizio dei diritti signorili, pur senza alterare in linea di principio le istituzioni cittadine in quanto prerogativa dei soli associati. Molto più numerose delle 'carte di comune' sono nella medesima area le 'carte di franchigia' che riconoscono all'intera comunità residente in città diritti civici e garanzie giuridiche, regolamentando l'amministrazione della giustizia, i doveri militari e le imposizioni fiscali sotto il controllo di un funzionario regio o signorile (prévôt), i cui poteri lasciano tuttavia spazio ai rappresentanti della città per ciò che concerne l'ordinario funzionamento cittadino.
Carte di comune e carte di franchigia denunciano l'aspirazione degli abitanti (i 'borghesi') a essere collettivamente considerati come distinti, all'interno della signoria, dai dipendenti della campagna e a poter partecipare, almeno parzialmente, all'amministrazione, anche se l'autorità regia o signorile non è mai del tutto esautorata e sostituita dalle magistrature cittadine. L'autogoverno - sia pure con tali limiti - fornisce di fatto un elemento complementare, atto a individuare i caratteri di civitates a villes di origine medievale la cui identificazione come centri urbani è tutt'altro che immediata come in Italia, ma procede piuttosto da considerazioni di tipo demografico, di estensione topografica, di importanza religiosa e commerciale.
Anche nel Mezzogiorno della Francia, accanto a città di origine romana si sviluppano nuovi insediamenti urbani, individuabili con i medesimi criteri, ma a differenza dell'area precedente, caratterizzata da una composizione prevalentemente 'borghese' che tende a emarginare o a escludere gli elementi nobiliari, qui la popolazione delle città, soggette comunque a un signore, appare più articolata socialmente per la presenza di cavalieri e nobili fra i residenti. L'assunzione del consolato come istituzione autonoma e rappresentativa della cittadinanza (villes de consulat) avviene con il consenso del signore, al quale i consoli prestano generalmente l'omaggio feudale; le loro competenze tuttavia sono notevolmente estese rispetto ai rappresentanti delle città settentrionali, anche se talvolta al signore è riservata almeno una parte nell'amministrazione della giustizia. L'estrazione sociale dei consoli non è omogenea per tutte queste città, ma in origine appare ovunque netta la prevalenza degli elementi della nobiltà cittadina, affiancati soltanto sul finire del XII secolo dai borghesi, che compaiono sempre più numerosi nel consiglio e nell'assemblea generale. Consolato, consiglio e assemblea rappresentano i tre organi essenziali dell'organizzazione cittadina, regolata da statuti municipali soggetti a periodiche revisioni, che, ben più delle carte di comune e di franchigia, esprimono la volontà politica della classe dirigente.
Il passaggio alla registrazione scritta di consuetudini o concessioni signorili rappresenta certo un momento ineludibile del costituirsi delle popolazioni urbane come comunità capaci di autogoverno, specie fuori d'Italia. In particolare nel Regno tedesco, dove nel corso del XII secolo si moltiplicano le creazioni ex novo di insediamenti a carattere cittadino, e le comunità spesso ricevono, all'atto stesso della fondazione, riconoscimenti simili alle carte di franchigia francesi, modellati sulle costituzioni delle città preesistenti, ispiratrici, come nel caso di Colonia, di intere 'famiglie' di ordinamenti costituiti secondo il medesimo diritto. Nella prima metà del secolo, tuttavia, tali costituzioni non concedevano forme di gestione autonoma agli abitanti, ma affidavano competenze amministrative ai ministeriales delegati dal vescovo-signore, che operavano al tempo stesso nell'ambito pubblico cittadino e in quello patrimoniale della Chiesa, non sempre chiaramente distinti. Successivamente, però, interessi comuni avevano portato a un avvicinamento, e spesso alla fusione, di dipendenti vescovili e borghesi-mercanti della città: dove le due componenti non rimasero distinte - come nell'area meridionale, in cui i ministeriales si trasformarono in nobiltà urbana con caratteristiche cavalleresche - assunsero insieme responsabilità cittadine di ordine pubblico e diedero vita sul finire del XII secolo al consiglio (consolare), magistratura in grado di esercitare una forma di autogoverno.
L'autonomia che le città tedesche raggiunsero fu in alcuni casi molto maggiore di quella delle città francesi nel loro complesso, anche se continuava a conservarsi qualche forma di dipendenza dal potere superiore (il vescovo o il principe territoriale). Città notevolmente autonome furono infine le Reichsstädte, che dipendevano in maniera diretta dall'imperatore sia che appartenessero in origine al patrimonio regio, sia che fossero state innalzate a tale rango da una successiva concessione imperiale.
Da quanto abbiamo detto appare evidente che fuori d'Italia è il concetto di città (ville, Stadt) come luogo distinto dalla campagna a doversi affermare, prima ancora dell'organizzazione politica cittadina, e quando ciò avviene, si afferma contemporaneamente un apparato di potere urbano funzionante sotto il controllo del signore, al quale la città dovrà sottrarre prerogative politiche tramite franchigie o riconoscimenti per potersi amministrare in modo autonomo. La mancanza di unità giuridica territoriale incide anche sulla composizione sociale della cittadinanza, favorendo, a seconda delle situazioni, i raggruppamenti professionali o quelli nobiliari, che spesso continueranno a manifestare l'egemonia dei loro interessi politico-economici in modo da caratterizzare le singole città (città di borghesi, città di mercanti, città di nobili).
5. Composizione e trasformazione sociale
Molto più articolata della società urbana d'oltralpe - anche nei casi in cui la persistenza dell'insediamento e la specializzazione professionale dei suoi abitanti avevano dato origine ad associazioni cittadine interne, come la Richerzeche di Colonia -, la società che vive nelle città del Regno italico si presenta con caratteristiche di mobilità, in parte sconosciute al mondo germanico prevalentemente ordinato per 'ceti' giuridici. Ciò non significa che siano mancati anche in Italia, specie nella cosiddetta 'Longobardia', tentativi di organizzazione sociale per ordines, mutuati dall'ordinamento feudale delle campagne (la nota tripartizione originaria dei consoli milanesi - ricordata da Ottone di Frisinga - in capitanei, valvassori e cives), ma in un ambiente di precoce e vigorosa assunzione di una precisa coscienza cittadina, come quello italiano, "chi diviene civis pare troncare rapidamente il cordone ombelicale con il suo mondo d'origine, assumendo presto quella 'mentalità cittadina' che scava un solco profondo fra le mura urbane e la campagna esterna" (v. Bordone, La società..., 1987, p. 148).
Il distacco e la distinzione favoriscono la possibilità di intraprendere attività economiche remunerative, sicché nella stessa Milano, fin dalla metà dell'XI secolo, accanto agli ordines di ascendenza feudale compaiono in primo piano i negotiatores. L'accentuato rilievo assunto dagli indicatori economici contribuisce poi a una autorappresentazione della società cittadina, diffusa un po' ovunque, stratificata in maiores, medii et minores, secondo una formula derivata dal diritto giustinianeo (che si inserisce nella precoce ripresa di interesse e di vigore del diritto romano nel mondo cittadino italiano) ora caricata però di un più complesso significato sociale. Soltanto un'analisi puntuale, svolta presso ogni singola realtà cittadina, sarebbe in grado di restituire contenuti e confini precisi a ciascuna delle generiche categorie; tuttavia si può con buona approssimazione ritenere che, oltre alle disponibilità economiche - riflesse nell'equivalente stratificazione dei ruoli d'imposta comunali -, contribuisse alla collocazione dei singoli il loro stile di vita.
A tale proposito è opportuno rilevare come uno stile di vita militare non fosse esclusivo appannaggio delle stirpi signorili del contado o dei personaggi inseriti in clientele vassallatiche: la cultura dei ceti eminenti cittadini fu comunque una cultura cavalleresca e cortese, nonostante i cespiti della loro rendita fossero in gran parte commerciali. A differenza di quanto avveniva fuori d'Italia con la distinzione fra 'borghesi' e 'feudali', i maiores formavano una classe mista come estrazione (là dove, almeno, membri dell'aristocrazia rurale si inurbarono precocemente), ma sostanzialmente omogenea come comportamento, perché l'ethos cavalleresco era qui frutto dell'elaborazione della cultura urbana. E questo contribuisce a spiegare una caratteristica del comune italiano che ne accompagnerà l'esistenza: la turbolenza endemica dell'aristocrazia cittadina mirante a ottenere la supremazia con il ricorso ai mezzi propri della società signorile (guerre private, vendette, ecc.).
Lo scontro delle parti che contrassegna la vita politica del Duecento non può però essere ricondotto - come si riteneva in passato - soltanto a tale logica di concorrenza interna, mascherata da conflitto sociale con l'assunzione di connotati 'popolari'. Il ruolo svolto dai medii e dai minores fra il XII e il XIII secolo è infatti tutt'altro che indifferente e pesa sulle stesse trasformazioni istituzionali, intese come razionalizzazioni del sistema sollecitate da parte di più larghi strati sociali: così il passaggio da un generale 'arengo' a un più circoscritto 'consiglio di credenza'; così soprattutto il trapasso dalla magistratura dei consoli a quella del podestà forestiero, prescelto per superare le concorrenze interne all'aristocrazia consolare e per mantenere la pace cittadina. Solo con la nascita dell'organizzazione politica del populus, tuttavia, i ceti inferiori, già organizzati in societates a base territoriale-rionale, riescono ad affermarsi come organismo unitario in grado di aspirare all'esercizio del potere.
La vittoria del popolo - appoggiato da quei membri dell'aristocrazia che cercano affermazioni personali - produce un allargamento della partecipazione politica agli strati inferiori e provoca un allontanamento dei maiores precedenti (provvedimenti antimagnatizi), ma al tempo stesso favorisce la promozione dello strato superiore popolare (i 'grandi di popolo') a una posizione resa analoga a quella dei magnati dall'assunzione da parte di tale strato dei costumi e dei comportamenti degli sconfitti. Vivace mobilità e processi di imitazione di un modello aristocratico contrassegnano in permanenza la dinamica sociale cittadina in Italia, intimamente collegata con l'affermazione politica. Il processo tenderà infatti ad arrestarsi, cristallizzandosi, quando, con l'avvento della signoria, verrà meno la possibilità di esercitare l'autogoverno in seguito anche ai mutati rapporti intercittadini.
Tutte le signorie dell'Italia settentrionale - secondo Ernesto Sestan (v., Le origini..., 1968) - sono nate infatti col concorso diretto o indiretto anche di forze estranee alla città teatro della nuova signoria, poiché i futuri signori spesso erano esponenti di forze nuove che non appartenevano a una sola città, ma trovavano solidarietà e consapevolezza di analoghi interessi di parte in una costellazione composita di 'comuni di estrinseci' e 'comuni di intrinseci', di cui erano i capi militari e politici.
Dal punto di vista sociale si va così creando una nuova categoria di maggiorenti cittadini, meno vincolati che in passato a una singola città (dove tuttavia continuano a partecipare alla pur ridotta vita politica, costituendone il patriziato urbano), bensì proiettati in un sistema di rapporti intercittadini, non solo italiani ma europei (v. Rossetti, 1989). Sviluppando una vocazione alla circolazione di persone e di forze che la città italiana ha manifestato fin dall'XI secolo con il contributo dato dai suoi abitanti al commercio internazionale, le grandi famiglie cittadine di questa nuova aristocrazia, impegnate oltr'alpe nella finanza e negli affari, rappresentano l'estremo esito di quel processo di mobilità socioistituzionale che ha avuto proprio nella vita cittadina il suo elemento catalizzatore.
Al di fuori d'Italia, in particolare nei paesi di lingua tedesca, il ritardo con cui la collettività urbana assume responsabilità politiche si riflette anche sul piano dei rapporti sociali, posticipando nel tempo quella fase di contrasti che appare invece precoce nel mondo cittadino italiano. Una più lenta formazione della classe dirigente e la persistenza delle distinzioni cetuali non evitarono tuttavia che nel gruppo dei maggiorenti si manifestassero, nel Trecento, competizioni spesso sfociate in disordini cittadini, un tempo interpretati come lotta di classe fra le corporazioni e il patriziato. È invece orientamento recente della storiografia tedesca (v. Haverkamp, 1984) vedere piuttosto in tali contrasti lo scontro di concorrenze interne alla classe dirigente, paragonabile a quanto avviene presso l'aristocrazia cittadina della prima età comunale italiana. Ciò non significa certo che nel mondo tedesco siano mancate istanze, anche di carattere sociale, a un allargamento della rappresentanza politica: anzi, la borghesia degli artigiani e dei commercianti 'minori' riuscì talvolta, come nel caso di Colonia sul finire del Trecento, a ottenere la creazione di una cittadinanza unitaria con caratteri formalmente 'popolari'. E magistrature sostanzialmente paritetiche - almeno all'apparenza - si affermarono anche in altre aree, come in Provenza, dove in alcuni casi i consigli cittadini furono nel Trecento equamente suddivisi fra i nobili, i mediocres e la plebs.
L'esperienza della vita urbana, in conclusione, fu ovunque di stimolo a una maggiore mobilità sociale, rispetto alle campagne, rimescolando le forze tradizionali, ma soltanto nel caso italiano riuscì a produrre una società nuova, radicalmente diversa dalle strutture del passato.
Solamente il comune cittadino italiano raggiunse dunque quella pienezza di significato che gli consentì non solo di porsi politicamente alla pari delle principali potenze signorili, ma di diventare nel corso del Due-Trecento il maggiore responsabile della creazione in Italia del 'principato territoriale', con la costituzione di un districtus da esso dipendente, ereditato e conservato dai regimi successivi fino all'età moderna. Si può dunque definire 'Stato' o, secondo una definizione storiografica tradizionale, 'città-Stato' questo particolare ente politico? Gli storici suggeriscono oggi una certa cautela, per l'ambiguità di fondo che deriva dallo stretto nesso che nella vita delle città italiane intreccia la lotta politica, il conflitto sociale e gli esiti istituzionali. Perennemente teso alla sperimentazione istituzionale - che si manifesta con l'oscillazione dei tipi di assemblea, la variabilità del numero dei consoli, i tentativi di razionalizzazione con l'instaurarsi del regime podestarile - il comune pare talvolta costituire un semplice raggruppamento di forze in mezzo ad altre associazioni, di chiaro segno politico o sociale, con le quali sembra confondersi, talaltra pare invece coordinarle ponendosene al di sopra; sempre, tuttavia, ne subisce le sollecitazioni. Nel turbolento mondo cittadino, attraversato da tensioni diverse, costellato di coaguli di potenziale eversione, il comune come ente politico non garantisce la stabilità; nel suo pur vitale dinamismo appare come una forma di potere costituzionalmente di segno debole, forse in quanto depositario di contenuti di libertà 'pubblica' di cui tutte le forze si sentono autorizzate ad appropriarsi (si pensi al caso significativo del 'comune degli estrinseci', durante le lotte civili contrapposto al 'comune degli intrinseci').
Eppure, se si considerano - al di là dei risultati e degli sviluppi a cui il comune è soggetto nel corso della sua esistenza - gli intenti perseguiti con determinazione, sia all'interno sia all'esterno, non si può non riconoscergli dei caratteri che lo imparentano da vicino con il concetto di Stato, almeno sotto tre aspetti: l'assunzione del monopolio giurisdizionale, il controllo complessivo dell'attività dei cittadini, il significato territoriale dell'esercizio del potere.
I consoli infatti assommano fin dall'origine le funzioni essenziali per il mantenimento ordinato della città - il comando militare dell'esercito cittadino e l'amministrazione della giustizia -, ereditandole dal regime precedente e, si direbbe, potenziandone la portata. Se per il primo aspetto l'esigenza prioritaria della difesa collettiva giustifica il tipo di autorità esercitata, per il secondo l'esercizio della giurisdizione consolare individua modi efficaci di composizione degli interessi in contrasto, dimostrando - come è stato recentemente rilevato (v. Padoa Schioppa, 1989) - energia e autorità superiori a quelle dei giudicanti del secolo precedente. Nel corso della prima metà del XII secolo le mansioni all'interno del collegio tuttavia si vanno presto specializzando, seppure con ondeggiamenti, fra i consoli di giustizia e i consoli del comune. L'articolazione delle magistrature e la moltiplicazione degli uffici - sulla quale ci informa, ad esempio, il Breve consulum pisano, che nel 1162 elenca già oltre una cinquantina di funzionari, tra giudici, tesorieri, misuratori, estimatori, controllori della moneta, sovrintendenti alla viabilità, ecc. - appaiono segni inequivocabili dell'intento dell'ente di intervenire politicamente e di controllare amministrativamente ogni attività della vita cittadina.
La complessità della burocrazia cittadina non ha in questo momento nell'Italia centrosettentrionale termini di paragone possibili presso le corti dei dinasti locali, ancora articolate in modo elementare, perché profondamente diverso appare il rapporto stabilito fra governo e sottoposti. Nel recupero di elementi propri di una pubblica amministrazione il comune, sollecitato da esigenze economiche, riscopre, ad esempio, l'imposta fondiaria basata sull'estimo (e in seguito sul catasto immobiliare), sperimentando di volta in volta formule funzionali ai bisogni e congeniali alla popolazione. La ricognizione delle proprietà dei cittadini, ovunque ubicate, e il loro allibramento rappresentano un provvedimento di natura tendenzialmente 'statale', perché esso implica il riconoscimento di un tipo di giurisdizione che è insieme personale e territoriale, in grado di inquadrare in un unico nesso uomini e terre.
La territorialità, fondamento originario delle prerogative dei residenti urbani, fa maturare nella coscienza della classe dirigente un duplice ordine di conseguenze politico-giuridiche: instaura il principio, prima inusitato, del diritto di cittadinanza, riconosciuto ai possessori residenti a particolari condizioni collegate con la partecipazione e l'assolvimento degli obblighi comunali militari e fiscali, creando così una distinzione fra cives e non cives; esporta, se così si può dire, all'esterno delle mura il controllo sugli abitanti, proiettando sul contado le istituzioni cittadine.
Il processo avviene per gradi, miscelando il vecchio e il nuovo, adattando con disinvoltura i provvedimenti alle circostanze, delineando costruzioni territoriali non omogenee né talora contigue, ma con il traguardo finale di un completo inglobamento dell'intera diocesi all'interno del territorio della città, anche mediante l'elaborazione di un'ideologia della 'comitatinanza', secondo la quale ogni città detiene un diritto particolare nei confronti del suo comitatus storico. Non può sfuggire, in questa deliberata ripresa di un termine di tradizione carolingia, l'esplicito intento di ricollegarsi a un'esperienza pubblica con valore legittimante. Il comune, in sostanza, proprio nel creare (o nel ri-creare, come si voleva credere) una circoscrizione territoriale di tipo pubblico, si colloca in una prospettiva di tradizione statuale, pur ricorrendo a mezzi diffusi nel mondo signorile e consueti nel regolare i rapporti di potere fra le forze concorrenti, come il contratto feudale.
Il modello elaborato dal comune nella creazione di un territorium dipendente, i cui abitanti sono soggetti alla suprema autorità cittadina, manifesterà nel tempo una vigorosa tenuta e costituirà a lungo una sorta di inquadramento politico-amministrativo non facilmente eludibile, impedendo - o rendendo comunque difficile - la creazione e il riconoscimento giuridico di nuove entità cittadine, al di fuori delle tradizionali civitates comunali (v. Chittolini, 1990). L'instaurarsi dell'autorità di un signore, sopravvenuta come intervento 'pacificatore' delle violenze e delle divisioni cittadine, ereditò infatti quelle strutture territoriali e quegli ordinamenti amministrativi senza alterarne le funzioni, pur svuotandoli progressivamente dei contenuti politici di autogoverno.
Successivamente, come ritiene Giorgio Chittolini (v., 1979, p. 16), "il nuovo Stato regionale, soprattutto quello principesco, rinuncia forse a quanto di assoluto e totalitario vi era nelle esigenze di accentramento del comune medievale", favorendo così, oltre che le richieste autonomistiche delle 'quasi-città' del contado, anche le aspirazioni nobiliari di quei maggiorenti cittadini che si stanno creando centri di potere signorile in campagna, senza tuttavia abbandonare il loro inserimento nel patriziato urbano. Ma il sistema si smaglia (forse) senza però sfaldarsi completamente, in quanto la nuova geografia amministrativa resta basata su un'organizzazione provinciale in cui la città mantiene funzioni e prerogative di capoluogo e centro di governo sugli antichi contadi.
Non solo: il nuovo 'Stato' si modella nei suoi funzionamenti essenziali - esercito, fisco, giustizia, burocrazia - sull'esempio fornito dall'esperienza comunale: esso infatti discende direttamente dall'impianto stabilito dal comune, in quanto gli strumenti burocratico-amministrativi elaborati dalla normativa cittadina sono in gran parte confermati dagli statuti 'riformati' (cioè esautorati nel loro significato politico) dal principe. La 'cultura istituzionale' del principato è, in conclusione, la cultura del comune cittadino, sia pure adattata alle nuove esigenze di dominio, poiché non esiste un'alternativa a tale modello.
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