Abstract
La cittadinanza europea, istituita dal Trattato di Maastricht del 1992, è automaticamente attribuita a chiunque abbia la nazionalità di uno Stato membro. Benché gli Stati risultino liberi di stabilire i criteri per la concessione della propria cittadinanza, devono rispettare i principi fondamentali del diritto comunitario, e il loro operato è soggetto al sindacato della Corte di giustizia.
Dalla cittadinanza europea deriva una serie di diritti e doveri, questi ultimi solo menzionati. I diritti sono enunciati nell’art. 20 ss. TFUE, ma si ritrovano anche nel TUE e in altre parti del TFUE, oltre che nella Carta dei diritti fondamentali. Alcuni di questi diritti possono essere fatti valere nei confronti dell’Unione, altri, soprattutto il diritto di libera circolazione e soggiorno, rispetto agli Stati membri. È riscontrabile, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, la tendenza a ricavare dallo status di cittadino europeo un nucleo di diritti essenziali che possono essere fatti valere anche nei confronti del proprio Stato di origine.
Tra i risultati più significativi del Trattato di Maastricht del 7.2.1992 va annoverata l’istituzione della cittadinanza europea: a termini dell’allora art. 8 TCE (ora art. 20 TFUE) è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. Da tale status deriva una serie di diritti e doveri; mentre però i primi sono espressamente elencati e disciplinati nel Trattato e nelle norme derivate, i secondi sono solo menzionati e risultano sinora privi di oggetto.
L’attribuzione della cittadinanza europea ha costituito la conclusione di un processo diretto ad allargare la sfera dei beneficiari del diritto di libera circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati membri e l’inizio di un percorso, tuttora non terminato, che mira non solo a definire ed arricchire lo status del cittadino europeo ma a farne «lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri», come ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia (la prima volta tale principio fu affermato dalla Corte nella sentenza Grzelczyk del 20.9.2001, causa C–184/99, in Raccolta, 6193 ss., punto 31), e il presupposto per un più diretto rapporto con l’Unione. Tale cittadinanza si aggiunge infatti a quella nazionale con caratteri giuridici e politici autonomi: essa si fonda non sull’appartenenza a un popolo costituitosi in Stato ma sulla volontà espressa dai Paesi membri di creare un’Unione sempre più stretta tra i rispettivi popoli e di rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei propri cittadini all’interno di uno spazio politico europeo, obiettivo cui una cittadinanza comune appare strumentale.
Nel momento in cui si creava l’Unione, e la CEE si trasformava in Comunità europea, si è voluto sottolineare che i Trattati prendevano in considerazione l’individuo non più solo nella sua veste di soggetto economicamente attivo ma come destinatario e protagonista del processo di integrazione europea. Questo risultato, del resto, era stato preparato da un’opera normativa e giurisprudenziale che, alla vigilia degli anni ’90, aveva portato a una riconsiderazione dei presupposti del diritto di libera circolazione, garantito ormai a tutti i cittadini degli Stati membri nel rispetto di condizioni minime poste a garanzia dello Stato ospite: il possesso di un reddito sufficiente e di un’assicurazione medica. Al Consiglio europeo di Dublino del 28.4.1990 fu dunque avanzata dalla presidenza spagnola la proposta di istituire una cittadinanza europea, complementare di quella nazionale, idonea a conferire diritti ulteriori rispetto a quelli già derivanti per i cittadini degli Stati membri dalle precedenti norme dei Trattati, da far valere in parte direttamente nei confronti dell’Unione, in parte verso gli Stati membri.
L’importanza della cittadinanza europea, nelle intenzioni dei redattori del Trattato di Maastricht, non consisteva tanto nei singoli diritti che ne derivavano, quanto nella sua capacità intrinseca di attribuire un plus, quantitativo e qualitativo, anche ai vari diritti che venivano conferiti in base alla cittadinanza degli stati nazionali: questi si sommavano a quelli espressamente indicati negli articoli 8/8E TCE, venendo a costituire, nel loro insieme, uno status molto più articolato, che trovava nella cittadinanza europea il fattore unificante.
Le norme relative all’istituzione della cittadinanza europea e l’elenco dei diritti che a questa cittadinanza conseguono non furono inserite nel Trattato dell’Unione, che si limitava a richiamare nel preambolo la volontà di istituire tale cittadinanza, ma nel Trattato CE. Tale scelta fu principalmente dettata dall’intento di assoggettare le disposizioni sulla cittadinanza alla competenza, soprattutto interpretativa, della Corte di giustizia, all’epoca priva di giurisdizione sul TUE.
Il criterio di attribuzione della cittadinanza europea, che concerne solo le persone fisiche, è stato individuato, come accennato, nel possesso della cittadinanza di un Paese membro; rimane competenza degli Stati determinare i criteri di conferimento della cittadinanza nazionale, unico presupposto di quella europea. La Dichiarazione n. 2 annessa al Trattato di Maastricht, infatti, prevede che «ogni qualvolta nel Trattato si fa riferimento a cittadini degli Stati membri, la questione se una persona abbia la nazionalità di questo o quello Stato sarà definita soltanto in riferimento al diritto nazionale dello Stato membro interessato».
Nel Trattato di Amsterdam si è specificato che la «cittadinanza dell’Unione costituisce un complemento della cittadinanza nazionale e non si sostituisce a quest’ultima» (art. 17, par. 1 TCE). Veniva, in tal modo ribadita l’importanza primaria delle cittadinanze nazionali, rispetto alle quali quella europea appariva di natura derivata, quasi ancillare.
I presupposti per l’attribuzione della cittadinanza europea non sono stati modificati dal Trattato di Lisbona: sia l’art. 9 TUE che l’art. 20 TFUE riprendono, salvo un punto su cui si tornerà di seguito, il dettato dell’art. 17 TCE. Spetta di conseguenza agli Stati membri indicare in piena autonomia, nel momento in cui entrano a far parte dell’Unione, chi goda dello status di proprio cittadino, status da cui deriva poi automaticamente la cittadinanza europea, come è stato affermato nella sentenza Kaur (sentenza del 20.2.2001, causa C–192/99, in Raccolta, I–1237 ss.).
Tale decisione è stata confermata dalla Corte di giustizia, che ha ribadito la piena libertà, per uno Stato membro, di determinare in modo vincolante per gli altri Paesi i presupposti di attribuzione della propria cittadinanza, anche se i criteri risultano molto liberali (sentenza del 19.10.2004, Zhu e Chen, causa C-200/02, in Raccolta, I–9925 ss.). A fronte di queste univoche conclusioni sull’automatismo dell’attribuzione della cittadinanza europea come mera conseguenza di quella di uno Stato membro – comunque concessa – la giurisprudenza si è espressa recentemente in termini più problematici sulla questione dell’esistenza di limiti, derivanti dal diritto comunitario o dell’Unione, relativi alla concessione, e soprattutto alla revoca, della cittadinanza nazionale.
In realtà, la Corte aveva già affermato nel caso Airola (sentenza del 20.2.1975, causa 21/74, in Raccolta, 221 ss.) che sono inaccettabili, ai fini dell’attribuzione della cittadinanza nazionale, criteri che non rispettino la parità tra i sessi e finiscano quindi per “imporre”, suo malgrado, la cittadinanza del coniuge al soggetto debole. Rimasta isolata, tale sentenza ha però avuto il merito di sottolineare, sin dal 1975, l’importanza della tutela dei principi fondamentali, anche in una materia rientrante nella competenza degli Stati. Di recente, nella sentenza Rottmann (sentenza del 2.3.2010, causa C–135/08, in Raccolta, I–1449 ss.), la Corte di giustizia ha affermato la giustiziabilità della revoca di una naturalizzazione, in quanto essa incide sullo status di cittadino europeo, che è disciplinato dal Trattato.
Il principale problema affrontato dalla Corte nel caso di specie era quello della natura meramente interna, come sostenuto dagli Stati membri intervenuti e dalla Commissione, dei criteri di attribuzione e revoca della cittadinanza nazionale. Secondo questa tesi, poiché il signor Rottmann – austriaco naturalizzato tedesco che si era visto privare di questa cittadinanza e, per aver perduto a seguito della naturalizzazione, quella austriaca, era divenuto apolide – non rivendicava diritti derivanti dalla cittadinanza europea, ma impugnava meramente la revoca della cittadinanza nazionale che ne costituisce il presupposto, il ricorso in via pregiudiziale avrebbe dovuto essere dichiarato irricevibile. La Corte, invece, dopo aver ribadito in via di principio la competenza in materia di attribuzione e revoca della propria cittadinanza degli Stati membri, ha affermato che comunque, nell’esercizio di tale competenza, questi sono tenuti a rispettare il diritto comunitario qualora le situazioni ricadano nell’ambito del diritto dell’Unione, e che «con tutta evidenza, la situazione di un cittadino dell’Unione che (…) si trova alle prese con una decisione di revoca della naturalizzazione adottata dalle autorità di uno Stato membro, la quale lo ponga (…) in una situazione idonea a cagionare il venir meno dello status conferito dall’art. 17 CE e dei diritti ad esso correlati, ricade, per sua natura e per le conseguenze che produce, nella sfera del diritto dell’Unione» (punto 42). Pertanto (punto 45), «gli Stati membri devono, nell’esercizio della loro competenza in materia di cittadinanza, rispettare il diritto dell’Unione…».
Con questa sentenza la Corte ha definitivamente risolto la questione se le norme sulla revoca della cittadinanza nazionale, e, di conseguenza, dell’Unione, costituiscano materia di rilevanza comunitaria: l’importanza dello status così acquisito fa sì che vicende che vengano a condizionarlo o a porvi termine non possano sfuggire al sindacato giurisdizionale. Il cittadino europeo diviene in senso proprio soggetto di un ordinamento diverso da quello nazionale, ordinamento da cui deriva il suo status e davanti ai cui organi può chiedere giustizia nei confronti non solo di singole violazioni di propri diritti, ma anche di decisioni che su tale status incidano. Quanto al modo di operare di tale sindacato, la Corte ha affermato che, proprio perché configurata come limite all’esercizio di un diritto comunitariamente tutelato, la decisione di revocare la cittadinanza nazionale deve rispettare il principio di proporzionalità: spetta quindi «al giudice del rinvio verificare se la decisione di revoca in questione nella causa principale rispetti il principio di proporzionalità per quanto riguarda le conseguenze che esso determina sulla situazione dell’interessato in rapporto al diritto dell’Unione , in aggiunta, se del caso, all’esame di proporzionalità di tale decisione sotto il profilo del diritto nazionale». La Corte non si è pronunciata sull’ulteriore questione, proposta dal giudice a quo, dell’eventuale obbligo per l’Austria di riattribuire la propria nazionalità al ricorrente per evitarne la perdita della cittadinanza europea. Ha però affermato, in via generale, che i giudici austriaci avrebbero dovuto decidere secondo i principi affermati in ordine alla revoca. Tali principi, infatti, “si applicano tanto allo Stato membro di naturalizzazione quanto allo Stato membro di cittadinanza originaria” (punto 62 s. della sentenza).
A maggior ragione, le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza valgono rispetto a una cittadinanza che, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (vedi art. 9 TUE e art. 20 TFUE) non è più “complementare” rispetto a quella statale, ma “aggiuntiva”: è chiaro infatti che la sua autonoma rilevanza la fa rientrare ancor di più, come afferma la Corte, nella sfera del diritto dell’Unione. Tale modifica, già presente nel Trattato sulla Costituzione europea (v. art. I–10), è stata interpretata da parte della dottrina come un importante sviluppo dell’istituto: si sarebbe infatti configurata la cittadinanza europea non più come sussidiaria di quella nazionale, ma come una vera e propria seconda cittadinanza, dotata di “autonomia di status” (Triggiani, E., L’Unione europea secondo la riforma di Lisbona, Bari, 2008, 31 ss.), e non più incondizionatamente legata agli sviluppi della sottostante cittadinanza nazionale. La cittadinanza europea, quindi, presuppone certamente il possesso della cittadinanza di uno Stato membro ma, una volta attribuita, diventa soggetta alla normativa comunitaria. Acquista in tal modo maggiore pregnanza l’affermazione che lo status di cittadino europeo è destinato a diventare lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri, in quanto garantisce la posizione del cittadino europeo nei confronti del proprio Stato anche in ipotesi che sembrino rientrare nella competenza esclusiva di quest’ultimo.
I diritti di cittadinanza sono nati, originariamente, soprattutto per completare il diritto di libera circolazione, permettendo ai cittadini dei Paesi membri di spostarsi e soggiornare nella Comunità anche senza motivazioni di ordine economico e di integrarsi meglio nella società dello Stato di residenza, ottenendo il diritto di voto alle elezioni locali e al Parlamento europeo. A tali diritti il Trattato di Maastricht aveva aggiunto la facoltà di presentare petizioni al Parlamento europeo e di rivolgersi al Mediatore europeo, nel caso di cattiva amministrazione da parte delle istituzioni comunitarie, oltre alla possibilità di avvalersi della protezione diplomatica di un Paese membro in uno Stato terzo in cui il proprio Paese non fosse rappresentato.
All’attribuzione di una cittadinanza europea corrispondeva quindi più uno status di straniero privilegiato (per questa nozione, Cartabia, M., La cittadinanza europea, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1995, 3 ss.) che quel complesso sinallagma di diritti e doveri che costituisce, almeno negli ordinamenti statali, la conseguenza dell’attribuzione della cittadinanza stessa; l’Unione non assumeva, infatti, nei confronti dei propri cittadini, alcun obbligo particolare, in quanto il diritto di petizione e di rivolgersi al Mediatore europeo concerneva, come chiarito da altri articoli del Trattato, anche i residenti. Inoltre, mentre per effetto di una normativa e di una giurisprudenza comunitaria attenta a garantire la libertà di circolazione, l’ambito dei diritti a questa collegati si è ampliato notevolmente, altrettanto non è avvenuto per quanto concerne i diritti verso l’Unione. L’aggiunta, col Trattato di Amsterdam, di nuovi diritti, quale quello di accesso ai documenti o alla protezione dei dati personali, è risultata sempre condivisa con i residenti extracomunitari.
Il Trattato di Lisbona ha definitivamente chiarito che l’elenco dei diritti derivanti dalla cittadinanza europea non è esaustivo, ma si limita a richiamare quelli che appaiono più caratterizzanti tale status (l’art. 20, par. 2, enuncia espressamente che i cittadini europei godono “tra l’altro” dei diritti elencati di seguito e disciplinati in dettaglio dagli articoli 21 ss. TFUE), e che disposizioni in merito si trovano anche in altre disposizioni dei Trattati; in particolare, ai diritti dei cittadini europei fanno riferimento anche gli articoli 9, 10 e 11 TUE. L’art. 25 TFUE, par. 2, prevede inoltre che il Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale, su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, possa adottare disposizioni intese a completare i diritti elencati nell’art. 20 TFUE; queste disposizioni dovranno essere approvate dagli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali.
I diritti del cittadino europeo appaiono eterogenei non solo per quanto ne concerne il contenuto, ma, soprattutto, il soggetto tenuto a garantirli. L’atipicità della cittadinanza europea consiste infatti, oltre che nell’essere una cittadinanza senza nazionalità e senza i doveri che di solito da tale status derivano, nel fatto che i relativi diritti incidono in massima parte sul rapporto tra cittadino europeo e Stati membri, e, tra questi, lo Stato ospite diverso dal proprio. Solo con il Trattato di Lisbona si è cercato di evidenziare ed arricchire i diritti di cui gode il cittadino rispetto all’Unione e alle sue istituzioni. Inoltre, diritti che vengono inseriti tra quelli tipizzanti lo status del cittadino europeo spettano anche, come accennato, a quanti meramente risiedono nel territorio dell’Unione; la Carta dei diritti fondamentali, del resto, riprende questa sistematica. I diritti del cittadino possono quindi essere divisi in due categorie: quelli di cui il cittadino è titolare direttamente rispetto all’Unione e quelli che può fare valere verso gli Stati membri.
È nella configurazione dei diritti che il cittadino europeo può vantare nei confronti dell’Unione che, con il Trattato di Lisbona, si sono conseguiti i risultati più significativi, non tanto per il numero e la rilevanza dei diritti attribuiti ex novo, quanto per un tentativo di sistematizzazione di norme, già esistenti, che permettono ora di parlare di uno status anche politico del cittadino europeo. Tale evoluzione appare conseguenza, più che di una riflessione sui diritti di cittadinanza, del dibattito relativo al deficit democratico di cui veniva accusata l’Unione: infatti, lo status “politico” del cittadino europeo viene preso in considerazione nel TUE nel Titolo relativo ai “principi democratici”. Il processo di istituzione della cittadinanza europea è qui dato per acquisito, e si punta ad evidenziare in quale modo l’Unione si legittimi, attraverso i presupposti della democrazia rappresentativa e partecipativa: oggetto reale delle disposizioni in esame è quindi la natura democratica dell’Unione, di cui beneficiano i suoi cittadini. Nel TFUE si riprende invece la vecchia impostazione di enunciare specificamente quali diritti competono al cittadino europeo, con un’elencazione che appare ormai riduttiva.
Le disposizioni del TUE che fanno menzione di diritti dei cittadini europei sono gli artt. 9, 10 e 11.
L’art. 9 TUE assicura il principio di eguaglianza dei cittadini, affermando che questi beneficiano di eguale attenzione da parte delle sue istituzioni, organi e organismi in tutte le loro attività. Si tratta di un principio di portata maggiore e al contempo più limitata, ratione personae, di quello enunciato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione all’art. 20, che sancisce l’eguaglianza di tutte le persone davanti alla legge. Infatti, sembra riferirsi solo ai cittadini – come confermato anche dalla seconda parte dell’art. 9, che indica chi siano, appunto, i cittadini europei – ma concerne qualunque tipo di attività posta in essere dall’Unione e quindi non solo quelle aventi un rilievo normativo o giurisdizionale.
Ai sensi dell’art. 10, i cittadini svolgono un duplice ruolo di garanti della rappresentatività democratica dell’Unione: direttamente, in quanto votanti al Parlamento europeo, indirettamente, in quanto elettori dei parlamenti nazionali dinanzi ai quali sono responsabili i membri dei rispettivi governi che fanno parte del Consiglio (par. 2). Il par. 3 enuncia il loro diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione e dispone che le decisioni siano prese «nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini». Il principio di prossimità appare più ampio di quello di sussidiarietà, costituendo una regola generale che deve impostare l’operato dell’intera Unione; la trasparenza delle decisioni assume a sua volta rilievo costituzionale, garantendo la possibilità di un controllo “democratico” sull’azione delle istituzioni e degli organi. Funzionali alla partecipazione politica dei cittadini europei alla vita dell’Unione, infine, sono i partiti politici europei, che contribuiscono a «formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione» (par. 4).
L’art. 11 TUE completa il quadro dei diritti “politici” del cittadino europeo verso l’Unione, affermando il principio della democrazia partecipativa. Tale principio consta in larga parte nella riaffermazione dell’impegno da parte delle istituzioni di attenersi a condotte ispirate alla trasparenza e a consultare, per quanto possibile, le associazioni rappresentative e, in generale, la società civile. Attraverso la democrazia partecipativa si mira pertanto ad avvicinare i cittadini europei alle istituzioni, di cui il principio della democrazia rappresentativa ha già garantito la legittimità.
I diritti sinora citati erano già deducibili da precedenti disposizioni dei Trattati; un’importante novità è stata invece introdotta nell’art. 11, par. 4, che prevede la facoltà per un milione almeno di cittadini di un numero significativo di Stati membri di invitare la Commissione a presentare una proposta «su materie in merito alle quali i cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione dei Trattati». Si consente in tal modo ai cittadini di svolgere un ruolo diretto nell’esercizio del potere legislativo dell’Unione. Il regolamento per dare attuazione a tale diritto è stato adottato il 16 febbraio 2011 (Regolamento 211/2011 del Parlamento e del Consiglio del 15.2.2011, in GUUE L 65 del 11.3.2011) con le modalità indicate nell’art. 24, par. 1, TFUE.
Oltre ai diritti propri esclusivamente di cittadini europei, il diritto primario riferisce alla cittadinanza dell’Unione diritti che possono essere fatti valere nei confronti di quest’ultima da tutti coloro che risiedono nel territorio degli Stati membri; tali diritti si ritrovano sia nel TFUE che nella Carta dei diritti fondamentali. L’art. 20, par. 2, lett. d), TFUE enuncia il diritto di petizione, il diritto di adire il Mediatore europeo e quello di rivolgersi – e ricevere risposte – nella propria lingua nazionale alle istituzioni ed organi comunitari.
Non figurano invece tra i diritti enunciati nella Parte seconda del TFUE il diritto alla trasparenza degli atti e di accesso ai documenti, richiamato nell’art. 15 TFUE, tra le disposizioni di applicazione generale, per sottolineare l’importanza centrale che nel sistema dell’Unione ha acquistato il principio di trasparenza. Ai diritti sinora citati del cittadino europeo, va aggiunto quello relativo a una buona amministrazione, enunciato dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali e che, benché sia inserito nel Titolo V di quest’ultima sulla cittadinanza, spetta a “ogni persona”. Si tratta di un diritto in larga parte di origine giurisprudenziale, che riunisce alcuni dei principi nel tempo elaborati dalla Corte di giustizia in merito a un corretto comportamento delle istituzioni e organi comunitari.
Il diritto di circolazione e di soggiorno nei territori degli Stati membri costituisce il nucleo essenziale della cittadinanza europea; anche altri diritti che da essa derivano, quali quello di votare alle elezioni del Parlamento europeo o a quelle comunali nel Paese ospite, si ricollegano funzionalmente al primo, mirando a renderne più agevole la fruizione, attraverso una migliore integrazione nella società locale.
In realtà, l’espressione “diritto di circolazione e soggiorno” concerne fattispecie che hanno raggiunto un diverso grado di completezza normativa. Se per i cittadini europei il diritto di libera circolazione in senso proprio è oramai in gran parte acquisito, e si pongono questioni per certi versi residuali, come ad esempio la non totale “comunitarizzazione” del Trattato di Shengen o i perduranti controlli alle frontiere, il diritto di soggiorno, per la sua maggiore incidenza sull’ordinamento dello Stato ospite, appare non ancora compiutamente realizzato. La copiosa normativa al riguardo, che ha avuto origine dai Trattati istitutivi delle Comunità, con riguardo ai lavoratori subordinati ed autonomi, e si è poi estesa ai cittadini europei, presenta tuttora questioni non completamente risolte; il trattamento non discriminatorio rispetto ai nazionali, infatti, costituisce un obiettivo solo parzialmente raggiunto, nonostante l’opera della giurisprudenza volta a interpretare estensivamente il testo dei Trattati e delle norme secondarie.
Preliminare all’esame dei diritti che derivano dalla libertà di soggiorno, comunque, risulta la questione se essi possano essere fatti valere anche nei confronti del proprio Stato di origine da parte dei cittadini europei che non si siano mai avvalsi della libertà di circolazione; se si possa cioè configurare un diritto di soggiorno che derivi dalla cittadinanza europea e presenti caratteri di autonomia rispetto al diritto di circolazione, al cui previo esercizio non sarebbe più imprescindibilmente collegato. Ciò avrebbe rilevanti conseguenze rispetto al diritto al ricongiungimento familiare, che il diritto dell’Unione connette al diritto di soggiorno. È evidente come questa ipotesi differisca da quella dei diritti attribuiti a chi, dopo essersi recato in un altro Paese membro, faccia ritorno nel proprio Stato di origine: una volta infatti che si sia entrati nell’ambito di applicazione del diritto comunitario, perché, appunto, si è fruito della facoltà di soggiornare in altro Paese membro, la situazione di una persona risulta sicuramente “comunitarizzata” e permette quindi di far valere anche diritti di cui, in ipotesi, non dispongono gli altri connazionali, come, ad esempio, il diritto di farsi raggiungere, o seguire da un Paese membro in cui era avvenuto il ricongiungimento familiare, nello Stato di origine da un familiare cui altrimenti sarebbe stato rifiutato l’ingresso (cfr. la sentenza dell’11.12.2007, causa C–291/05, Eind, in Raccolta, I–10719 ss.).
Il superamento della distinzione tra cittadini “dinamici”, che si sono avvalsi della libertà di circolazione, e “statici” comporterebbe l’operatività dei diritti dei cittadini europei nell’intero territorio dell’Unione, compreso il territorio dello Stato nazionale, a meno che non sia diversamente specificato (la conclusione varrebbe anche per il diritto di voto al Parlamento europeo e alle elezioni locali. Per il diritto alla protezione diplomatica destinatari dell’obbligo sono, per definizione, Stati diversi da quello nazionale). Sono evidenti le conseguenze che ne discenderebbero: i cittadini europei potrebbero avvalersi dei diritti di cittadinanza sanciti dal Trattato anche praeter o contra le leggi del proprio ordinamento, e si verrebbe così a concretizzare un nucleo di diritti riconosciuti dall’Unione che caratterizzerebbe lo status del cittadino europeo in quanto tale, e non più in quanto cittadino di uno Stato residente in altro Paese membro. La prassi giurisprudenziale recente offre taluni spunti in questa direzione, anche se, come si vedrà, non univoci.
Sino alla sentenza nel caso Ruiz Zambrano (sentenza dell’8.3.2011, causa C–34/09, in Raccolta, I-1177 ss.), i diritti concernevano solo il cittadino dinamico, mentre per quello statico si poneva il rischio che la sua situazione risultasse, in quanto determinata esclusivamente dalle norme nazionali, meno garantita, dandosi così adito alle c.d. discriminazioni alla rovescia. Nella rilevazione del previo esercizio della libertà di circolazione, la Corte aveva adottato criteri molto estensivi, giungendo a prefigurarla, in certi casi, anche solo in potenza (cfr. la sentenza del 2.10.2003, causa C–148/02, Garcia Avello, in Raccolta, I–11613 ss.), ma senza pervenire a ricavare dalla cittadinanza europea stessa di un individuo il suo diritto ad esigere dal proprio Stato l’applicazione di norme comunitarie relative al diritto di soggiorno. Dalla giurisprudenza della Corte risultava quindi confermata la tesi che vede nella cittadinanza europea uno status di straniero previlegiato, senza attribuirle un significato più ampio rispetto a quello di tutelare il cittadino che si sposta nel territorio dell’Unione.
I principi contenuti nella sentenza Rottmann del 23.3.2010 sulla rilevanza per l’ordinamento dell’Unione della cittadinanza in sé, e non solo dei diritti che da essa conseguono, hanno peraltro contribuito a una svolta giurisprudenziale relativamente ai cittadini stanziali, che si può cogliere nella sentenza Ruiz Zambrano.
Adita per accertare se le disposizioni del Trattato sulla cittadinanza europea ostino al rifiuto da parte di uno Stato membro del diritto di soggiorno e di lavoro a un cittadino di Paese terzo che si faccia carico dei figli, cittadini dello stesso Stato membro, in tenera età, e che non si sono mai avvalsi della libertà di circolazione, la Corte ha affermato che, poiché lo status di cittadino europeo è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri, l’art. 20 TFUE «osta a provvedimenti nazionali che abbiano l’effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento reale ed effettivo dei diritti attribuiti dal loro status di cittadino dell’Unione». Infatti, il rifiuto di concedere un permesso di soggiorno e di lavoro nell’ipotesi in considerazione avrebbe portato alla conseguenza che i figli del ricorrente sarebbero stati costretti ad abbandonare il territorio dell’Unione; questi ultimi, cittadini dell’Unione, sarebbero stati quindi, di fatto, nell’impossibilità di godere realmente dei diritti loro attribuiti. Per il principio dell’effetto utile, di conseguenza, la Corte, ha affermato la vigenza dell’art. 20 TFUE anche in ordine ai rapporti tra lo Stato di origine e propri cittadini che rivendicavano il diritto al ricongiungimento familiare. Di rilievo appare nella sentenza il riferimento a un “territorio dell’Unione”, nozione che viene a connotare non solo la somma dei diversi territori dei Paesi membri ma uno spazio unitario in cui operano diritti e valori condivisi, e all’interno del quale possono essere fatti valere i diritti di cittadinanza.
La sentenza in esame ha quindi ampliato la sfera di operatività del diritto dell’Unione, rendendo soggette a sindacato giurisdizionale, per verificarne il rispetto dei diritti del cittadino europeo, anche le norme dello Stato di origine, a prescindere dal previo esercizio della libertà di circolazione. È evidente il rilevante impatto pratico che dai principi affermati può prodursi sul piano della politica di immigrazione relativamente alla concessione dei permessi di soggiorno e lavoro, rimasta, in via di principio, competenza degli Stati membri (si spiega quindi perché, nel caso Ruiz Zambrano, numerosi Stati membri, oltre alla Commissione, siano intervenuti per affermare che questioni quali quelle presentate alla Corte non rientravano nell’ambito di applicabilità del diritto dell’Unione); più in generale, dalle due decisioni adottate a breve distanza, Rottmann e Ruiz Zambrano, sembrava ricavabile una linea giurisprudenziale favorevole a “usare” lo status di cittadino europeo per comprimere le residue competenze statali, ricollegando, per il principio dell’effetto utile, alla sfera di applicabilità del diritto europeo materie che i Paesi membri hanno voluto riservarsi.
Ulteriori pronunce hanno però evidenziato, se non un ripensamento, una maggiore cautela della Corte di giustizia, che, adita su questioni simili, ha specificato la natura “eccezionale” della conclusione raggiunta nel caso Ruiz Zambrano. In particolare, nel caso Dereci, in cui si faceva questione del diniego di un permesso di soggiorno a una serie di familiari extracomunitari di cittadini europei residenti in Austria, non privi di mezzi di sostentamento, ha affermato l’incompatibilità con l’art. 20 TFUE non più dei provvedimenti nazionali che «abbiano l’effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento reale ed effettivo dei diritti attribuiti dal loro status di cittadini dell’Unione», ma solo di quelli che impediscano il «godimento reale ed effettivo del nucleo essenziale dei diritti attribuiti conferiti dallo status suddetto» (punto 62 della sentenza Derecy del 16.11.2011, causa C–256/11, in www.curia.eu.int). La Corte ha specificato che il criterio discretivo tra applicare o meno l’art. 20, par. 1, consiste nella constatazione che, a seguito di un provvedimento nazionale, il cittadino si veda costretto ad abbandonare il territorio dell’Unione considerato nel suo complesso, e ha quindi “un carattere molto particolare” e vi si può ricorrere solo “in via eccezionale”. Di recente, la Corte ha ribadito tale eccezionalità, che opera solo se il rifiuto del diritto di soggiorno ad un cittadino di Paese terzo familiare di un cittadino europeo comporti per quest’ultimo l’obbligo di fatto di «lasciare il territorio dell’Unione nel suo insieme, privandolo quindi del godimento effettivo del nucleo essenziale dei diritti conferiti dallo status» di cittadinanza (sentenza dell’8.5.2013, Ymeraga, causa C–87/12, punti 36 e 45, in www.curia.eu.int).
a) Con il Trattato di Maastricht è stato espressamente riconosciuto «il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri» a tutti i cittadini dell’Unione europea, alle condizioni e con i limiti fissati nel Trattato e negli atti adottati in applicazione dello stesso (art. 8A, ora art. 21 TFUE); è inoltre prevista la possibilità per il Consiglio di adottare, con la procedura legislativa ordinaria, disposizioni per facilitare l’esercizio di questo diritto (art. 21, par. 2, TFUE). Il Trattato di Lisbona ha innovato queste disposizioni inserendo la possibilità per il Consiglio di adottare all’unanimità, consultato il Parlamento, norme anche in materia di sicurezza sociale e di protezione sociale (art. 21, par. 3).
La libertà di circolazione e di soggiorno delle persone aventi la cittadinanza europea e dei loro familiari è attualmente regolamentata, oltre che dagli articoli 20 e 21 del TFUE, da alcuni atti derivati, tra i quali assume un’importanza fondamentale la Direttiva 2004/38/CE che disciplina in via generale la materia (Direttiva 2004/38 del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai diritti dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, in G.U.U.E. L 158 del 30.4.2004).
b) Il diritto suddetto compete a qualunque cittadino europeo, a prescindere dall’età e dalla capacità di farlo valere. Funzionale a tale diritto risulta l’istituto del ricongiungimento familiare, in quanto necessario per garantirne l’effetto utile: l’impossibilità di avvalersi della libertà in questione anche per i propri familiari può infatti costituire una remora a spostarsi in un altro Paese e comporta anche una discriminazione vietata dall’art.18 TFUE (prima art. 12 CE), essendo fondata sulla cittadinanza. Gli aspetti più interessanti di tale questione concernono i familiari che non siano a loro volta cittadini europei, e che quindi possano avvalersi della libertà in questione solo per effetto del loro rapporto con un cittadino di uno Stato membro.
Per familiare (art. 2, par. 2), si intendono il coniuge; il partner che «abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata, sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante»; i discendenti diretti di età inferiore a 21 anni o a carico e quelli del coniuge o partner e gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner. L’art. 35 prevede, inoltre, la possibilità per gli Stati di adottare le misure necessarie per rifiutare, estinguere o revocare diritti conferiti in base alla Direttiva in caso di abuso di diritto o di frode, come potrebbe essere un matrimonio fittizio.
c) Il diritto di un cittadino europeo di entrare nel territorio di uno Stato membro è subordinato, secondo l’art. 5 della Direttiva, al possesso di una carta di identità, o di un passaporto, in corso di validità; per i familiari extracomunitari, è richiesto il possesso di un passaporto. Gli eventuali controlli alla frontiera devono essere volti a identificare la persona e accertarne la cittadinanza. Lo Stato di ingresso è altresì tenuto a concedere ogni possibile agevolazione al cittadino europeo sprovvisto di documenti, come pure ai suoi familiari.
d) Una delle maggiori innovazioni apportate dalla Direttiva 2004/38 alla libertà di circolazione e di soggiorno consiste certamente nell’aver distinto il diritto di soggiorno in tre lassi temporali, cui corrispondono diritti, condizioni di godimento e formalità amministrative differenti.
i) L’art. 6 della Direttiva prende in considerazione un soggiorno sino a tre mesi, stabilendo che entro tale lasso di tempo i cittadini europei (così come i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro) hanno diritto a soggiornare senza alcuna condizione o formalità, salvo il possesso di una carta di identità o di un passaporto.
ii) Più complessa è la disciplina per soggiorni che si protraggano per periodi superiori a tre mesi.
Innanzitutto, si può rilevare, rispetto a tale tipo di soggiorno, una perdurante differenza di trattamento tra i diritti di cui dispone un qualunque cittadino, e quelli riconosciuti ai lavoratori, sia subordinati che autonomi. L’art. 7 infatti distingue quattro tipologie di cittadini europei che possono avvalersi del diritto di soggiornare per un periodo superiore ai tre mesi: a) i lavoratori subordinati o autonomi; b) quanti dispongono di risorse economiche per sé e per i familiari sufficienti a non divenire un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo del soggiorno e di un’assicurazione malattia che copre tutti i rischi; c) gli studenti, purché siano a loro volta in possesso di un’assicurazione medica e dichiarino di disporre per sé e i familiari di risorse economiche sufficienti; d) i familiari di cittadini che rientrino nelle tre categorie sopra indicate. Dall’appartenenza alle varie categorie discendono diritti e obblighi diversi. Un’innovazione comune a tutte, comunque, è che, diversamente da quanto prima disposto, la Direttiva 2004/38 non prevede più la concessione di una carta di soggiorno per i cittadini europei, ma solo per i loro familiari, non aventi la cittadinanza di uno Stato membro.
iii) Ai sensi dell’art. 16 della Direttiva, infine, «il cittadino dell’Unione che abbia soggiornato legalmente e in via continuativa per cinque anni nello Stato membro ospitante ha diritto al soggiorno permanente in detto Stato»; tale diritto si estende anche ai suoi familiari, non aventi la cittadinanza dell’Unione, che abbiano soggiornato a loro volta assieme al cittadino per il medesimo periodo. Caratteristica essenziale di tale diritto è che il soggiorno non è più subordinato all’essere persona economicamente attiva o in possesso di un reddito sufficiente e di un’assicurazione sanitaria; ai fini del soggiorno, viene quindi garantita la parità di trattamento con i cittadini nazionali, sussistendo l’unico limite (anche questo, si vedrà, soggetto a restrizioni) dei motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza.
e) Limitazioni al diritto di ingresso e di soggiorno dei cittadini europei possono essere poste per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica: tali limitazioni sono subordinate a rigorose garanzie materiali e procedurali. Poiché, infatti, si tratta di eccezioni al godimento di una libertà fondamentale, i limiti devono risultare necessari per la protezione di interessi imperativi dello Stato e non devono eccedere quanto necessario per ottenere un tal fine. Le cause che possono impedire l’ingresso o causare l’allontanamento del cittadino europeo o del suo familiare vanno ricondotte alla pericolosità sociale: questa può derivare o dall’esistenza di patologie fisiche [tale limite può impedire l’ingresso nello Stato membro o comportare l’allontanamento se la malattia si manifesti entro tre mesi dall’ingresso (art. 29). La Direttiva non contiene un elenco delle malattie rilevanti, ma fa riferimento alle norme epidemiologiche dell’OMS], o da comportamenti personali che, sebbene non vengano definiti, devono costituire «una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società». L’ art. 28, par. 1, dispone inoltre che, prima di adottare un provvedimento di allontanamento per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, lo Stato ospite tiene conto di «elementi quali la durata del soggiorno dell’interessato nel suo territorio, la sua età, il suo stato di salute, la sua situazione familiare ed economica, la sua integrazione sociale e culturale nello Stato membro ospitante e l’importanza dei suoi legami con il paese di origine». Una tutela rafforzata concerne infine il minorenne, in possesso della cittadinanza europea, che non può essere allontanato o espulso, se non per motivi imperativi di pubblica sicurezza, a meno che «l’allontanamento sia necessario nell’interesse del bambino, secondo quanto contemplato nella convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo» (art. 28, par. 3, lett. b).
Sempre ai sensi dell’art. 28, dopo l’acquisizione del diritto di soggiorno permanente, i cittadini dell’Unione e i loro familiari non possono essere allontanati se non per “gravi motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza”; dopo dieci anni di soggiorno, il cittadino europeo non può essere espulso se non per “motivi imperativi di pubblica sicurezza definiti dallo Stato ospite”.
L’art. 22 TFUE disciplina il diritto di voto dei cittadini europei alle elezioni comunali e al Parlamento europeo. Con tale diritto si intende agevolare la libera circolazione delle persone, permettendo loro di partecipare alle decisioni politiche in sede locale e di concorrere alla scelta dei membri del Parlamento europeo: il principio cardine consiste infatti nell’obbligo, per gli Stati, di far accedere a determinate votazioni i cittadini di altri Paesi membri che ivi risiedono, alle stesse condizioni dei nazionali, così permettendo una loro migliore integrazione nella società in cui vivono. Tale diritto è rimasto sostanzialmente immutato, nella sua formulazione, a partire dal Trattato di Maastricht: le modifiche operate rispetto all’originario art. 8B concernono solo la procedura per adottare le modalità di attuazione, che potranno aggiungersi alle due direttive con cui il diritto di voto alle elezioni locali e quello al Parlamento europeo sono già stati disciplinati rispettivamente nel 1994 (Direttiva 94/80 del 19.12.1994, in GU L 368 del 31.12.1994, che fissa «le modalità dell’esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni municipali per i cittadini dell’Unione che risiedono in uno Stato membro del quale non hanno la nazionalità». La Direttiva è stata più volte aggiornata per tener conto delle successive adesioni) e nel 1993 (Direttiva 93/109 del 6.12.1993, in GU L 329 del 30.12.1993, relativa «alle modalità per l’esercizio del diritto di voto e di eleggibilità dei cittadini dell’Unione al Parlamento europeo», a sua volta aggiornata).
L’articolo consta di due paragrafi, il primo concernente il voto alle elezioni locali, il secondo al Parlamento europeo; principi comuni concernono l’estensione del diritto all’elettorato passivo, il rispetto del principio di eguaglianza di trattamento con i nazionali e la possibilità di porre delle deroghe in ragione di particolari situazioni negli Stati membri.
a) Il TFUE riconosce l’elettorato attivo e passivo ai cittadini di un Paese membro residenti in altro Stato alle stesse condizioni dettate per i cittadini di detto Stato: come specificato nella direttiva di attuazione, non può quindi essere richiesto, di norma, ai residenti un periodo minimo di soggiorno se la stessa condizione non opera anche per i nazionali; altrettanto vale per le condizioni di accesso all’elettorato attivo e passivo, quali l’età o le cause di incapacità. L’art. 22 TFUE consente di inserire disposizioni derogatorie se le circostanze lo giustifichino: in attuazione di tale disposto (già presente nell’art. 8B), la Direttiva 94/80 prevede all’art. 12 la possibilità di imporre un previo periodo minimo di residenza per i cittadini europei nei comuni in cui il loro numero superi una certa quota dei votanti: di tale deroga si avvale solamente il Lussemburgo; l’art. 5 della Direttiva permette infine a uno Stato di escludere l’eleggibilità dei cittadini europei a talune funzioni direttive dell’amministrazione comunale, come quella di sindaco. Diversi Stati dell’Unione si avvalgono di questa facoltà (vedi la Relazione della Commissione europea al Parlamento e al Consiglio riguardante l’applicazione della Direttiva 94/80 del 9.3.2012, COM(COM2012) 99 final).
b) L’art. 22, par. 2, CE conferisce ai cittadini europei il diritto di voto al Parlamento europeo nel Paese membro ove risiedono, alle stesse condizioni dei nazionali.
L’elemento che maggiormente distingue la disciplina sul diritto di voto attivo e passivo alle elezioni locali da quella relativa al Parlamento europeo è la cura posta nella Direttiva 93/109 per evitare la possibilità di un doppio voto, nel paese di origine e in quello di residenza, secondo un principio che era già stato affermato nell’Atto sull’elezione a suffragio universale diretto del 1976 (art. 8: «Per l’elezione dei membri del Parlamento europeo ogni elettore può votare una sola volta»). È rispettata la libertà di scelta del cittadino, che deve esprimere la volontà di votare nel paese di residenza anziché in quello di origine: in caso contrario, diversamente da quanto previsto nell’art. 7, par. 2, della Direttiva 94/80, anche se nello Stato di residenza il voto al Parlamento europeo è obbligatorio, il cittadino europeo non soggiace a tale dovere (art. 8). Le deroghe contemplate nell’art. 14 seguono la medesima ratio dell’art. 12 della Direttiva 94/80.
Il diritto alla protezione diplomatica del cittadino europeo nel territorio di uno Stato terzo - nel quale lo Stato di cui è originario non è rappresentato - da parte di qualsiasi Paese membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Paese, appare come il più problematico e meno realizzato tra quelli enunciati. Già presente nel Trattato di Maastricht (art. 8C) e disciplinato ora dall’art. 23 TFUE, fa infatti riferimento ad un istituto (la c.d. protezione diplomatica), proprio del diritto internazionale, sviluppatosi in altro contesto e con diversi presupposti. Nella prassi, si è chiarito come il diritto di rivolgersi alle autorità diplomatiche di un altro Paese membro concerna non tanto la protezione diplomatica in senso proprio, quanto l’assistenza in caso di difficoltà.
Sebbene così limitata, la protezione di cui all’art. 8C richiedeva agli Stati membri una duplice azione: fissare tra loro le disposizioni necessarie per attuare l’articolo e iniziare i negoziati con gli Stati terzi.
Rispetto agli accordi conclusi con Stati terzi, i risultati sono oltremodo scarsi in quanto non sono stati conclusi accordi ad hoc, né dagli Stati membri né dall’Unione né dalla Comunità: solo in alcuni accordi sulla pesca, talvolta, la Comunità ha ottenuto che le proprie delegazioni in loco potessero intervenire nei procedimenti in cui fossero coinvolti cittadini comunitari. Rispetto agli obblighi degli Stati membri inter se, è stata adottata nel 1995 una decisione intergovernativa (la decisione 95/553/CE riguardante la tutela dei cittadini dell’Unione europea da parte delle rappresentanze diplomatiche e consolari è stata presa dai Rappresentanti dei Governi degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio, il 19.12.1995, in GUCE L 314 del 28.12.1995), il cui contenuto conferma quanto sopra detto a proposito della natura “assistenziale” e “umanitaria” della protezione da accordare, protezione di norma erogata dagli ufficiali consolari (secondo l’art. 5, par. 1, infatti, questa tutela comprende: a) l'assistenza in caso di decesso; b) l'assistenza in caso di incidente o malattia grave; c) l'assistenza in caso di arresto o di detenzione; d) l'assistenza alle vittime di atti di violenza; e) l'aiuto ed il rimpatrio dei cittadini dell'Unione in difficoltà. L’elenco non è esaustivo). La situazione è rimasta immutata sino al 2006 , anche a causa del lungo periodo occorso per il recepimento negli Stati membri della decisione 95/553/CE, entrata in vigore solo nel 2002. La ripresa del dibattito sulla tutela diplomatica è avvenuto con la presentazione del Libro Verde della Commissione (cfr. Libro Verde della Commissione sulla protezione diplomatica dei cittadini dell’Unione europea nei Paesi terzi del 12.11.2006, COM(2006)12 final), in cui si sottolineava la necessità di rendere più incisivo il diritto alla protezione diplomatica data la cospicua mole di cittadini europei che si spostavano, per i più vari motivi, fuori dall’Unione; l’urgenza di migliorare la tutela si è scontrata però con il permanere di profonde obiezioni da parte degli Stati e soprattutto con il fatto dell’esistenza di 27 diversi sistemi di protezione diplomatica.
Trattato sull’Unione europea - TUE; Trattato sul funzionamento dell’Unione europea - TFUE; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; Direttiva 93/109 del 6.12.1993, in GU L 329 del 30.12.1993, relativa «alle modalità per l’esercizio del diritto di voto e di eleggibilità dei cittadini dell’Unione al Parlamento europeo»; Direttiva 94/80 del 19.12.1994, in GU L 368 del 31.12.1994, che fissa «le modalità dell’esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni municipali per i cittadini dell’Unione che risiedono in uno Stato membro del quale non hanno la nazionalità»; Direttiva 2004/38 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29.4.2004, in G.U.U.E. L 158 del 30.4.2004, relativa «ai diritti dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri»; Regolamento 211/2011 del Parlamento e del Consiglio del 16.2.2001, in GUUE L 65 dell’11.3.2011, «riguardante l’iniziativa dei cittadini».
Adam, R., Prime riflessioni sulla cittadinanza dell’Unione, in Riv. dir. intern., 1992, 622 ss.; Lippolis, V., La cittadinanza europea, Bologna, 1994; Cartabia, M., La cittadinanza europea, in Enc. giur. Treccani, , Roma, 1995, 3 ss.; Villani, U., La cittadinanza dell’Unione europea, in Studi in ricordo di Antonio Panzera, Bari, 1995, II, 1001 ss.; Triggiani, E., L’Unione europea secondo la riforma di Lisbona, Bari, 2008; Morviducci, C., I diritti dei cittadini europei, Torino, 2010; Baruffi, M.C., a cura di, Libera circolazione e diritti dei cittadini europei, Roma,2012; Triggiani, E., a cura di, Le nuove frontiere della cittadinanza europea, Bari, 2011; Nascimbene, B. - Rossi Dal Pozzo, F., Diritti di cittadinanza e libertà di circolazione nell’Unione europea, Padova, 2012.