Civiltà
Il termine 'civiltà', al pari dei suoi omologhi nelle lingue neolatine e nell'inglese, deriva dal latino civilitas, una parola coniata nella seconda metà del primo secolo d.C. (la si trova per la prima volta in Quintiliano) come equivalente del greco politeia, sulla base della corrispondenza tra polis e civitas. Di questa origine la parola latina ha mantenuto a lungo l'impronta: nell'età imperiale essa è stata impiegata per designare soprattutto la condizione di cittadino, e spesso il diritto di cittadinanza (in questa accezione essa compare, per esempio, anche nella Vulgata). Su questa base essa è venuta però assumendo un significato più esteso, per indicare i costumi e il modo di vita della città in quanto comunità politica, oppure i comportamenti e il modo di sentire più elevato dell'abitante della città, in quanto distinti da quelli dell'abitante della campagna o del barbaro. Nella prima di queste due accezioni civilitas viene addirittura considerata sinonimo di latinitas, mentre nella seconda la si trova spesso associata ad altri termini come 'clemenza' o 'moderazione' o 'benignità', e simili. Nel latino medievale permane l'originario significato politico; e infatti la parola designa in primo luogo il diritto di cittadinanza (negli statuti di Firenze civilitas e cittadinantia sono impiegate come sinonimi) o l'appartenenza a una città, e in senso più ampio l'ordinamento politico-giuridico della città, la sua costituzione. A fianco di esso si diffonde l'uso metaforico: la civilitas diventa sempre più un equivalente di humanitas o di urbanitas, e più precisamente di una humanitas che ha la propria base nei costumi dell'abitante della città. Nei testi di Alberto Magno, dove pure è prevalente il significato politico, si trova anche una definizione estensiva di civilitas come "modo di vivere onesto secondo virtù". Questo significato più esteso si consolida nel corso dei secoli, e lo ritroviamo infatti entrato nell'uso comune nel Cinquecento, allorché Erasmo intitola un suo trattato De civilitate morum puerilium (1530). Contemporaneamente si afferma un'accezione tecnico-giuridica: al pari dell'aggettivo civilis e dell'avverbio civiliter, anche civilitas viene a indicare un tipo di diritto distinto da quello penale. Fin dal XII secolo emerge l'antitesi tra causa 'civile' e causa 'criminale', finché nel Trecento il termine civilitas si trova usato anche per indicare una multa in denaro, contrapposta alla pena detentiva o a quella capitale.
Questa pluralità di significati permane nelle lingue neolatine, ma con un graduale spostamento di accento dall'originario significato politico a un significato più ampio, riferito ai costumi e al comportamento degli individui appartenenti a una data società. Dante, per esempio, nella Monarchia e negli altri scritti in latino usa la parola per indicare la comunità politica e il suo ordinamento; ma nel Convivio la parola italiana corrispondente, civilitade, designa un qualsiasi ordinamento fondato su leggi, sia esso il mondo in quanto retto dai motori angelici, sia l'umanità nel suo complesso, considerata come una città governata da Dio. In seguito gli scrittori politici del Cinquecento impiegano ancora il termine nel senso di cittadinanza; però il suo significato si allarga a indicare, in Machiavelli, non soltanto le arti finalizzate al "bene comune degli uomini" e gli ordinamenti che ne derivano, ma anche il comportamento del cittadino che si conforma all'interesse della città. Questa trasformazione semantica appare più marcata nel francese. Nicole Oresme usa ancora civilité per designare le istituzioni o il governo di una comunità; ma tra Quattro e Cinquecento il termine indica ormai anche il diritto della città o l'arte di governare. Ed è soprattutto l'uso metaforico a estendersi. Nel XV secolo la civilité viene sempre più a significare "l'osservanza delle convenienze e dei riguardi in uso tra le persone che vivono in società", ossia un comportamento che ha sì le sue radici nell'appartenenza alla comunità cittadina, ma che è proprio non più di tutti i residenti in città bensì di un particolare strato sociale - il ceto aristocratico, e poi anche quello altoborghese - e che costituisce il prodotto di un processo educativo a ciò rivolto. Nella seconda metà del Cinquecento cominciano a diffondersi, sul modello di Erasmo, dei trattatelli sulla civilité puérile, che si propongono di "insegnare la civiltà ai fanciulli". Non a caso era ormai comparso, a partire dal XV secolo, il corrispondente termine negativo, incivilité, per designare la 'mancanza di civiltà' che si può riscontrare non soltanto nel selvaggio o nel barbaro, ma in chiunque non abbia appreso o non rispetti le regole del comportamento civile. Nel 1680 il dizionario di Richelet registra la parola definendola come "la scienza che insegna a non fare e a non dire nulla che non sia onesto e appropriato nel commercio della vita", e menzionando inoltre il significato secondario di "libro che insegna le regole della civiltà (la civiltà francese)". Dieci anni dopo il dizionario di Furetière è più preciso: la civilité è definita come "maniera onesta, dolce e gentile (polie) di agire, di conversare insieme"; e nel 1694 la prima edizione del dizionario dell'Académie française reca "onestà, cortesia, maniera onesta di vivere e di conversare nel mondo", aggiungendo il plurale civilitez nel senso di "complimenti e altri doveri". Definitivamente staccato dal riferimento a un contesto politico, il termine designa sempre più un comportamento esteriore (tanto che Voltaire, nella prefazione a Zaïre, arriva a subordinare la civilité alla politesse), un comportamento fatto di buone maniere, conforme ai modelli di una società che ha il proprio centro nella vita di corte.Non molto diversa è la vicenda del termine inglese civility, che compare verso la fine del XIV secolo (nella grafia ciuylite o ciuilitie). Anche qui lo troviamo usato, all'inizio, soprattutto con un significato politico, per indicare il diritto di cittadinanza o il 'governo civile' o l'ordinamento della società, ma anche la conformità a questo ordinamento oppure l'arte di governo. Nei secoli successivi, tuttavia, esso acquista sempre più, analogamente al corrispondente termine francese, il significato di 'buone maniere', risultato dell'educazione raffinata che è propria di un particolare ceto sociale. Parallelamente si afferma però l'antitesi tra civility e barbarity: la civility viene così a designare la liberazione dalla barbarie, uno stato di vita superiore. Già nel 1549 il traduttore inglese della Bibbia, Miles Coverdale, scriveva che "Cristo è, per il selvaggio e per il barbaro, ciuilitie", strumento di promozione a una forma o a un livello di vita più elevato. Non che questa accezione manchi in francese, o in italiano; ma nell'inglese risulta più accentuata. La civility appare come una condizione di vita più propriamente umana, conseguita da un popolo o anche da un individuo, ma al tempo stesso come un obiettivo per chi viva ancora allo stato di barbarie. Questa famiglia di termini, e in particolare la parola francese, si è rivelata però inadatta a diventare il veicolo della moderna idea di civiltà, che si afferma - con le caratteristiche che vedremo appresso - nel corso del Settecento. Su civilité gravava l'affinità con politesse, il riferimento primario al comportamento esteriore e alle maniere di una società raffinata. Per esprimere la nuova idea occorreva una parola nuova, anche se imparentata con l'antica; occorreva un neologismo. E questo fu trovato in civilisation e nei suoi corrispondenti nelle altre lingue: civilization in inglese, civilizzazione in italiano, civilización in spagnolo, Zivilisation (o anche Zivilisierung) in tedesco. Si trattava di una parola che non procedeva direttamente dal vecchio termine, ma che derivava piuttosto dal verbo civiliser e dal relativo participio, impiegato anche in forma aggettivale. Il verbo era usato fin dal Cinquecento per indicare il passaggio da una condizione di vita primitiva a una condizione più progredita; e i dizionari di fine Seicento lo registrano con il significato di "rendere gentile, civile, onesto", oppure di "raffinare i costumi". In quanto all'aggettivo, esso si trova già negli Essais di Montaigne e nel Discours de la méthode di Cartesio, che lo usa come sinonimo di policé per designare la condizione di popoli che non sono più barbari o selvaggi. Accanto a questo compare però il significato tecnico-giuridico di civiliser, nel senso di "trasformare in civile una causa penale". E proprio da quest'ultimo si passa per la prima volta - a quanto è dato sapere finora - al sostantivo civilisation: il Dictionnaire de Trévoux, che per primo lo riporta nel 1771, mette per prima l'accezione giuridica, specificandola come "un atto di giustizia, un giudizio che rende civile un processo penale", e soltanto in via secondaria fa cenno all'equivalenza fra civilisation e sociabilité, richiamandosi a L'ami des hommes di Mirabeau. I due significati rimarranno affiancati per qualche decennio nei dizionari, fino a quando nel 1798 la quinta edizione del dizionario dell'Académie française si limiterà, lapidariamente, a definire civilisation come "azione di civilizzare o stato di chi è civilizzato". Ma intanto la parola era ormai diventata di dominio comune. Ancora assente in Voltaire e - salvo prova contraria - nei volumi dell'Encyclopédie, essa si diffonde rapidamente all'interno della scuola fisiocratica e in autori a essa vicini. Il primo uso attestato lo si trova appunto nel libro di Mirabeau apparso nel 1757; e ancora Mirabeau lo impiega di nuovo nel Traité de l'impôt del 1760, seguito dall'abate Baudeau nelle Ephémérides du citoyen (1767) e nella Première introduction à la philosophie économique (1771), da Simon Nicolas Henri Linguet nella Théorie des lois civiles ou Principes fondamentaux de la société (1767), dall'abate Raynal nella fortunata Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes (1770). Gli anni settanta segnano il definitivo successo del nuovo termine: esso è adottato dal barone d'Holbach nel Système social (1773), ma anche da Diderot nella Réfutation d'Helvétius (1773-1774) e in altri testi successivi. A questa data il nuovo termine ha soppiantato police, confinato in un ambito più ristretto, e assume la duplice valenza registrata nel 1798 dal dizionario dell'Académie française: la civilisation è per un verso il processo mediante cui un popolo (o anche uno strato sociale) passa a un livello di esistenza superiore allo stato selvaggio e alla barbarie, per l'altro verso lo stato che esso raggiunge in virtù di tale processo.Di poco posteriore, e probabilmente importato dal francese, è il termine inglese civilization. Nella biografia di Samuel Johnson il suo autore, James Boswell, registra sotto la data del 23 marzo 1772 il rifiuto di includere nella quarta edizione del dizionario la nuova parola accanto a civility, e il proprio rispettoso dissenso nei confronti di tale decisione. Il biografo aveva ragione: già allora il termine aveva preso piede nel lessico inglese. Fin dal 1767 Ferguson lo impiega più volte nell'Essay on the history of civil society; la stessa cosa fa John Millar nelle Observations concerning the distinction of ranks in society (1771); poco dopo vi ricorre pure Adam Smith in vari passi dell'Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776). Ancora successivo è il termine tedesco Zivilisation, che compare per la prima volta nella Reise um die Welt di Georg Forster (1778) e che nel decennio successivo viene accolto anche da Herder nelle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit. Soltanto in italiano il vecchio termine resiste alla penetrazione del neologismo di origine francese: civilizzazione sarà usato sia dal Manzoni sia da Leopardi (nello Zibaldone), ma per rendere il significato processuale della parola francese si farà ricorso piuttosto a un altro termine, 'incivilimento'.
Insieme al nuovo termine nasce e si sviluppa anche l'idea di civiltà. Più precisamente, l'idea sorge prima ancora della parola destinata a diventarne il sostegno linguistico; sorge nel corso della prima metà del Settecento, attraverso il distacco dalla nozione seicentesca di politesse e attraverso il contemporaneo mutamento di significato della nozione di police. La politesse esprimeva l'ideale dell'honnête homme, osservante delle buone maniere, e di una società fondata su costumi raffinati, prodotto di un'educazione aristocratica; a essa si collegano sovente attributi come quelli di gentilezza, delicatezza, finezza, gradevolezza, addirittura di galanteria. La politesse è, secondo la prima edizione del dizionario dell'Académie française, "una certa maniera civile, onesta, gentile (polie) di vivere, di agire, di parlare, acquisita mediante la consuetudine (usage) del mondo"; e gli altri dizionari non si discostano molto da questa definizione. La police si riferisce invece all'organizzazione politica, alle leggi che ne garantiscono il mantenimento: ancora l'Académie française la definisce, sempre nel 1690, come "ordine, regolamentazione che si osserva in uno Stato, in una repubblica, in una città", mentre il dizionario di Furetière sottolinea la contrapposizione alla barbarie, rilevando l'assenza di police nei selvaggi d'America al momento della scoperta. La nuova idea di civiltà lascia cadere le implicazioni aristocratiche connesse al significato tradizionale di politesse e la trasforma da caratteristica di un particolare ceto sociale, distinto dalla massa del popolo, in caratteristica propria di determinati popoli pervenuti a un certo livello di sviluppo, in antitesi ad altri che non l'hanno ancora raggiunto; in luogo di un significato sociologico le attribuisce un significato più ampio, un significato storico-sociale. Al tempo stesso la nuova idea assume - o tende ad assumere - l'organizzazione politica come elemento discriminante, accanto ad altri, del livello attinto dai popoli in possesso di police. Sullo sfondo di questa trasformazione c'è la distinzione, emersa già nel XVII secolo, fra tre stati successivi di sviluppo dell'umanità, corrispondenti a tre categorie di popoli: lo stato selvaggio, la barbarie e la condizione, appunto, dei popoli civili.
La distinzione si salda, verso la metà del XVIII secolo, con una concezione del processo storico come passaggio di ogni popolo dall'uno all'altro stato; si salda cioè con la visione di un perfezionamento graduale dell'umanità, fondato sull'intrinseca perfettibilità della natura umana. La civilisation viene così a designare il processo attraverso cui i popoli si trasformano dapprima da selvaggi in barbari, e poi da barbari in civili, o anche lo sforzo diretto a 'civilizzare' un popolo; ma designa al tempo stesso il punto di arrivo, lo stato finale di questo processo, sia che venga considerato storicamente realizzabile oppure prospettato come puro limite. Essa esprime cioè, da un lato, la direzione di ogni popolo, e dell'umanità nel suo complesso, dall'altro il termine verso cui questo sviluppo tende: una condizione di vita non perfetta in sé, ma comparativamente più perfetta rispetto agli stati che la precedono. In realtà, però, la civilisation intesa come lo stato più elevato attingibile da un popolo non segna la fine del processo; è essa stessa un momento processuale, un movimento verso un livello sempre crescente di perfezione. Se ciò che distingue l'uomo da tutte le specie animali è la perfettibilità, lo sviluppo dell'umanità verso la perfezione non può che essere indefinito. La civiltà si presenta quindi come un ideale normativo, sulla cui base è possibile costruire una filosofia della storia come progresso.Spetta indubbiamente a Voltaire, che pur non usa ancora - come si è detto - il termine civilisation, il merito di aver per primo collegato l'idea di civiltà con la nozione di progresso, delineando in tal modo una visione generale della storia. Nel Siècle de Louis XIV, pubblicato nel 1751, l'individuazione delle quattro grandi epoche dello spirito umano avviene ancora sulla base di criteri 'classicistici' di perfezione artistico-letteraria; ma la considerazione del carattere cumulativo del sapere scientifico conduce ad affermare la superiorità dell'ultima epoca rispetto alle tre precedenti, e quindi ad applicare alla loro successione il concetto di perfezionamento. Nell'Essai sur les moeurs, di pochi anni successivo, la posizione di Voltaire appare assai più precisa ed elaborata. Gli avvenimenti storici sono riconducibili a due principî, che possono spiegarne l'uno la somiglianza e l'altro la diversità; e questi principî sono la natura umana e la coutume (che potremmo forse tradurre con 'consuetudine'). Le vicende politico-militari, il succedersi dei regni, dei sovrani, delle guerre e delle battaglie costituiscono l'elemento ricorrente, uniforme, della storia; i costumi, le arti e le lettere, lo sviluppo del sapere sono invece il dominio della coutume - ed è su questo versante, non sull'altro, che si compie il cammino progressivo dell'umanità. La natura umana, in quanto caratterizzata da un insieme di sentimenti e di passioni sempre eguali, non può mutare; ma c'è un altro aspetto in cui essa è perfettibile, o almeno rende possibile il perfezionamento degli uomini. Non già che il progresso che ne deriva sia necessario: non lo è in quanto certi popoli hanno perfezionato i loro costumi e sviluppato il loro patrimonio di conoscenze, mentre altri se ne sono dimostrati finora incapaci, e non lo è soprattutto perché certi popoli civili sono ritornati indietro, alla barbarie o anche allo stato selvaggio. Ma quel che più conta è il processo complessivo; e questo ci mostra che il cammino della civiltà, pur conoscendo arresti e periodi di decadenza, è proceduto nel corso dei secoli. O, almeno, è quanto è avvenuto nel mondo europeo.
Per Voltaire, dunque, la civiltà è un processo di perfezionamento che si compie nei costumi, nelle manifestazioni artistico-letterarie, nel sapere scientifico e nella filosofia che lo riflette; non c'è invece progresso in campo politico, e forse neppure sul terreno economico (anche se la ripresa della vita cittadina e la riattivazione del commercio segnano per lui la via di uscita dalla 'barbarie' medievale). Ben presto, però, l'idea di civiltà si arricchisce anche di una dimensione politica attraverso il richiamo alla contrapposizione tra dispotismo e governi moderati, formulata da Montesquieu, e la sua traduzione in termini storici. Già Montesquieu, in realtà, aveva dato a essa una portata storico-geografica, presentando l'Asia come il continente dei grandi imperi, governabili soltanto con un regime dispotico, e l'Europa come la culla delle altre forme di governo, caratterizzate dallo 'spirito di libertà'. Nelle Recherches sur l'origine du despotisme oriental (1761), e poi ne L'antiquité devoilée par ses usages (1766), Nicolas-Antoine Boulanger compie un passo ulteriore verso la storicizzazione dell'antitesi: l'umanità esce dallo stato selvaggio in virtù di una legislazione che si realizza in un regime teocratico mettendo capo, attraverso la dissoluzione di questo, al dispotismo; in seguito il dispotismo entra in crisi lasciando spazio a nuove forme di governo, cioè al governo repubblicano e al governo monarchico. Lo sviluppo della civiltà comporta così la nascita di istituzioni politiche fondate sulla libertà. Con il fallimento della politica di alleanza tra i 'lumi' e l'assolutismo monarchico, che si consuma nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Settecento, questa prospettiva si consolida; ed essa viene accolta non soltanto da Diderot, ma dall'intero movimento fisiocratico.La libertà a cui guardano i fisiocrati non è però soltanto né principalmente politica; è soprattutto libertà di produzione e di circolazione dei beni. La visione del cammino storico dell'umanità si arricchisce di un'altra dimensione. Già Montesquieu, distinguendo (nel libro XVIII dell'Esprit des lois) tra popoli selvaggi e popoli barbari, aveva caratterizzato i primi come popoli cacciatori e i secondi come pastori, capaci di riunirsi anche se privi di una residenza stabile. Egli non si spingeva a enunciare un'analoga corrispondenza tra popoli civili e agricoltura; ma questa era implicita nella sua analisi, e in ogni caso poteva facilmente esserne derivata. Il superamento della barbarie richiede il legame alla terra e, come momento successivo, il sorgere della città come luogo d'incontro, come centro della vita economica oltre che politica: tale connessione viene ben presto istituita da molti, e si ritrova in parecchi articoli dell'Encyclopédie. Per una scuola di pensiero, come quella fisiocratica, che vedeva nell'agricoltura l'unica attività realmente produttiva, si trattava di un nesso evidente. Ma, soprattutto, era il commercio a venir considerato fattore di incivilimento. Questa tesi trova una formulazione esplicita nell'Histoire des deux Indes di Raynal: il commercio mette i popoli a contatto tra loro, li spinge ad associarsi, promuove la diffusione delle conquiste realizzate da un popolo civile (o più civile) verso altri popoli.
Lo sviluppo della civiltà comporta dunque non soltanto un progressivo raffinamento dei costumi, lo sviluppo delle arti e delle scienze, ma anche un graduale trapasso da un'esistenza fondata sulla caccia ad altri tipi di esistenza che hanno la loro base prima nella pastorizia, poi nella coltivazione della terra e infine nel commercio. Il suo punto di partenza è lo stato di natura, uno stato che ben poco ha in comune con l'immagine del paradiso terrestre della narrazione biblica o con la condizione del 'buon selvaggio' della tradizione primitivistica, ripresa dal giovane Rousseau. Lo stato di natura è una condizione di vita in cui, quando pur sussiste, l'organizzazione sociale è presente in forma minima; in cui la libertà significa essere in balia degli altri, privi di difesa e anche di sostentamento; è una condizione di carenza di risorse e soprattutto d'ignoranza. E l'uscita da esso non si attua mediante un contratto che segni la nascita subitanea della società, e quindi di un sistema di garanzie per la sopravvivenza dell'individuo, come voleva il giusnaturalismo seicentesco, ma comporta un lungo, faticoso processo che si compie percorrendo una serie obbligata di stadi, al termine del quale c'è, finalmente, lo stato civile. Questo processo è anche problematico, nel senso che le conquiste realizzate sono sempre esposte al rischio di una perdita, che i popoli civili possono non soltanto arrestarsi nel loro cammino, ma addirittura regredire a uno stato inferiore: come osserva Voltaire, in molte regioni una volta civili dell'Asia e dell'Europa abitano oggi popoli selvaggi o barbari. Eppure, in questo processo si deve riconoscere una continuità. È soprattutto Turgot a sottolinearlo, nel Tableau philosophique des progrès successifs de l'esprit humain (1750) e in altri scritti di poco posteriori. Nelle epoche di decadenza, in cui le arti e le scienze sembrano offuscate, le arti meccaniche, più direttamente legate ai bisogni della vita, si conservano e perfino si sviluppano; esse rappresentano una specie di tessuto connettivo che sottostà allo sviluppo della civiltà.Anche in altri autori questo sviluppo assume in misura crescente, col trascorrere dei decenni, un carattere continuo. Sono le conquiste stesse della civiltà a consolidarlo, a far ritenere possibile per il futuro ciò che non lo è stato in passato: un cammino ininterrotto. Quando, nel carcere rivoluzionario, Condorcet scrive l'Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain, egli è ben persuaso che nessun limite è posto al perfezionamento dell'umanità, che il suo progredire potrà sì essere più o meno rapido, ma non conoscerà mai un arresto, e tanto meno un ritorno all'indietro. Dopo il cammino che l'umanità ha compiuto per passare dallo stato selvaggio alla barbarie e quindi alla civiltà, dopo le nove 'epoche' da essa percorse, viene la decima epoca, quella che segnerà la fine della diseguaglianza tra le nazioni e della diseguaglianza all'interno stesso di ogni popolo, e che vedrà il "perfezionamento reale dell'uomo", il miglioramento della stessa natura umana. L'idea di civiltà acquistava così una connotazione utopica: iniziato col distacco dallo stato di natura, lo sviluppo della civiltà è destinato a trasformare la natura umana, a rendere l'uomo diverso e migliore. La critica di Rousseau veniva assorbita trasponendo lo stato ideale dell'umanità dal remoto passato a un futuro altrettanto remoto.
La connessione tra civiltà e libertà politica, che nella cultura illuministica francese si ritrova in un filone di origine montesquieuiana del tutto estraneo a Voltaire, è invece centrale nella contemporanea riflessione inglese. Fin dal 1742, nel saggio On the rise and progress of the arts and sciences, Hume stabilisce un'esplicita connessione tra lo sviluppo delle arti e delle scienze e l'esistenza di un governo libero. È bensì vero che tale sviluppo può aver luogo anche sotto un regime dispotico: una volta sorte, le arti e le scienze possono trapiantarsi al di fuori del loro terreno di origine, ma soltanto un governo libero offre le condizioni indispensabili per il loro inizio. Esiste quindi una correlazione generale da un lato tra barbarie e dispotismo, dall'altro tra progresso in campo artistico-letterario o in campo scientifico e libertà politica; e ciò in quanto tale progresso richiede una sicurezza che può essere data soltanto dal governo del diritto, dall'assenza dell'arbitrio. A questa correlazione se ne aggiungono, secondo Hume, altre due. In primo luogo, la nascita della civiltà e del sapere trova condizioni favorevoli nell'esistenza di una molteplicità di Stati indipendenti tra loro collegati dal commercio e da rapporti politici, e non invece nella presenza di un'unica grande organizzazione statale: ne offrono esempi sia la Grecia antica sia l'Europa moderna. In secondo luogo, mentre una monarchia favorisce - con la vita di corte - l'affermarsi delle buone maniere, e perciò anche lo sviluppo delle arti, il governo repubblicano è più favorevole al progresso scientifico: lo prova, tra l'altro, il confronto tra la Francia e l'Inghilterra, che tra le monarchie europee è forse la più affine a una repubblica.All'inizio degli anni quaranta Hume non usa ancora la parola civilization, né la userà in seguito; talvolta egli fa ricorso a civility, più spesso a politeness o a perifrasi equivalenti. Il neologismo compare invece più di due decenni dopo - ed è la prima volta, a quanto pare, che lo s'incontra - nell'Essay on the history of civil society di Adam Ferguson, pubblicato nel 1767. Qui troviamo anche una teoria dello sviluppo dell'umanità come "progresso dalla rozzezza alla civiltà", da uno stato primitivo a un livello di esistenza superiore. Ciò che contraddistingue l'uomo dagli animali è il fatto che nella specie umana si può riscontrare uno sviluppo non soltanto del singolo individuo, ma anche della specie: uno sviluppo che si compie nel corso delle generazioni e che conduce a un graduale perfezionamento delle facoltà umane. Come già Hume nel saggio On the original contract (1748), così anche Ferguson respinge l'ipotesi di una società sorta in virtù di un contratto consapevolmente stipulato: l'esistenza di una società è connaturata all'essere umano, anche se l'ampiezza della società varia col tempo. Ma si tratta appunto, all'inizio, di un'esistenza rozza, in piccoli gruppi, in cui l''invenzione' compie i primi passi. Lo sviluppo dell'umanità coincide quindi con la storia della formazione della società civile, cioè di un'organizzazione politico-sociale complessa, e per di più differenziata da popolo a popolo. Se l'umanità primitiva è caratterizzata dall'uniformità dei costumi, il cammino verso la civiltà comporta il sorgere di differenze non soltanto all'interno della società, ma anche tra le diverse società.
Rispetto all'analisi di Hume il quadro dello sviluppo dell'umanità delineato da Ferguson risulta assai più articolato. Anch'egli fa ricorso alla consueta distinzione tra stato selvaggio, barbarie e civiltà, ma cerca di precisarla in termini socioeconomici, correlandola in primo luogo con l'istituto della proprietà. Lo stato selvaggio non conosce ancora la proprietà, che nasce soltanto con il passaggio alla barbarie. Nei popoli selvaggi, i quali traggono il proprio sostentamento dalla caccia e dalla pesca, o dai prodotti naturali del suolo, il possesso individuale è limitato alle armi e alle vesti; l'abitazione e gli oggetti di uso quotidiano sono possesso della famiglia; tutto il resto rimane di proprietà comune. Nei popoli barbari si afferma la proprietà privata, ma essa non è ancora garantita da leggi. Soltanto più tardi, nella società civile, si perviene al riconoscimento giuridico della proprietà e alla definizione delle sue varie forme: le leggi civili, e con esse le istituzioni politiche che contraddistinguono la civiltà, trovano il loro fondamento nell'esigenza di garantire la proprietà. Lo sviluppo del governo procede di pari passo con quello dell'ordinamento economico della società.Strettamente collegata con questo processo è la divisione della società in classi, che si accompagna alla progressiva divisione del lavoro. Nello stato selvaggio vi sono soltanto differenze di età, di talenti e di disposizioni personali, non ancora differenze di occupazione e quindi di posizione sociale. Queste ultime si affermano, insieme con il sorgere della proprietà, nel passaggio dallo stato selvaggio alla barbarie; ed è in questo momento che nasce anche la distinzione tra liberi e schiavi. Con il distacco dalla barbarie anche la schiavitù tende a scomparire e la società si suddivide in classi differenziate in base alla funzione economica: accanto alle arti meccaniche si sviluppano le arti liberali, e ognuna diventa oggetto dell'attività specializzata di un gruppo particolare. Anche la guerra, che nei periodi precedenti era una occupazione comune a tutti i membri della società, si trasforma in un compito specifico, affidato a una classe di persone che vengono a costituire l'esercito. Il risultato di questo processo è lo "stato di complicazione" proprio della civiltà: uno stato in cui la molteplicità delle occupazioni dà luogo al moltiplicarsi delle posizioni sociali. All'eguaglianza naturale dell'uomo primitivo si contrappone, nella società civile, una crescente distinzione dei 'ranghi' che definiscono la collocazione sociale dell'individuo. Ma ciò comporta anche un'importanza crescente di quest'ultimo: nello stato selvaggio, e ancora nelle nazioni barbare, l'individuo è niente e la comunità è tutto, mentre nelle moderne nazioni europee la società è organizzata in vista del soddisfacimento dei bisogni dell'individuo. E ciò richiede lo sviluppo di istituzioni libere: la società civile è quella in cui i cittadini godono del più alto grado di libertà.Questi temi non sono esclusivi di Ferguson; essi si ritrovano pure in altri esponenti della scuola scozzese. Nelle Observations concerning the distinction of ranks in society (1771) John Millar collega quello che egli chiama l'"avanzamento di un popolo nella civiltà" o anche il "progresso della civiltà" con l'articolarsi della società in 'ranghi' differenti. Analogamente, in Wealth of nations, pubblicata cinque anni dopo, Adam Smith analizza il processo della divisione del lavoro e le sue conseguenze - un processo che Ferguson aveva considerato centrale per lo sviluppo della società civile. E pure Smith fa ricorso, anche se saltuariamente, al nuovo termine.
Più che un processo, dunque, la civiltà designa - nella cultura inglese e scozzese della seconda metà del XVIII secolo - il termine ad quem dello sviluppo dell'umanità; designa una condizione contrapposta alla barbarie precedente, nella quale le arti e le scienze sono pervenute, sotto la protezione di governi liberi, a un grado di perfezione non più superabile. Questa è appunto la condizione della 'società civile'. Si tratta però di una condizione di cui non è affatto assicurata la permanenza anche nel futuro. Già Hume considerava naturale, e anzi inevitabile, la decadenza dei popoli una volta giunti alla perfezione, e accennava alla necessità di un "suolo fresco" per l'ulteriore sviluppo della civiltà. Ferguson ritiene che l'umanità abbia proceduto due volte nella storia "dagli inizi rozzi a gradi molto elevati di raffinatezza": la prima volta nell'antichità, la seconda nell'Europa moderna. E come dallo stato di civiltà attinto nel mondo antico l'umanità è ritornata indietro a un'esistenza barbara, così nulla garantisce che il livello attuale sia destinato a mantenersi: il progresso può arrestarsi, i popoli possono precipitare nella decadenza, sia per un "rilassamento dello spirito nazionale" sia anche per una "debolezza del carattere". Perché la società civile possa permanere occorre rafforzare la solidarietà tra gli individui, e soprattutto realizzare il "governo delle leggi": un governo fondato su istituzioni libere, che tuttavia comporta anche - come aveva già osservato Hume - una certa misura di autorità.Siamo lontani dalla visione di un perfezionamento continuo dell'umanità a cui metteva capo, nell'ultimo decennio del secolo, la cultura illuministica francese. La civiltà rappresenta un livello di esistenza superiore che si consegue con lo sviluppo della società civile; in quanto tale essa dev'essere definita in termini socioeconomici oltre che politici. Questa prospettiva verrà ripresa un secolo dopo, anche se sulla base di differenti presupposti teorici, dall'antropologia evoluzionistica al suo sorgere. In Ancient society (1877) Lewis Henry Morgan delinea sette stadi successivi di evoluzione della specie umana, caratterizzandoli per un verso in base allo sviluppo delle invenzioni e delle scoperte, per l'altro verso in base allo sviluppo delle istituzioni e al diverso tipo di organizzazione sociale che vi si collega. Nei tre stadi in cui si suddivide lo stato selvaggio - quello inferiore, quello intermedio e quello superiore - l'uomo si nutre di frutti, oppure di caccia e di pesca; prima scopre il fuoco, infine perviene a inventare l'arco e la freccia. Nei tre stadi corrispondenti della barbarie vengono addomesticati gli animali, e in seguito si coltivano e si irrigano i campi; l'uomo giunge a costruire edifici in pietra e in mattone cotto, infine a lavorare il ferro. L'ultimo stadio, quello della civiltà, ha invece inizio con l'invenzione dell'alfabeto e con la produzione di documenti letterari. A questo progresso nei modi di sussistenza e nelle tecniche di produzione corrisponde un analogo sviluppo sul versante delle istituzioni. Lo stato selvaggio e la barbarie conoscono un'organizzazione sociale fondata su rapporti parentali, cioè un'organizzazione gentilizia: l'unica forma di società esistente nel primo è la gens, caratterizzata da una discendenza in origine in linea femminile e poi in linea maschile, mentre nella seconda si sviluppano la fratria, la tribù e infine la confederazione di tribù. La civiltà è invece contraddistinta da un'organizzazione propriamente politica, fondata sul territorio e sulla proprietà; in essa soltanto si afferma lo Stato. Questo passaggio si è compiuto per la prima volta nel periodo arcaico della storia greco-romana: le tribù della Grecia omerica e le tribù latine dei tempi di Romolo forniscono, secondo Morgan, l'"esemplificazione più alta e completa dello stadio superiore della barbarie", corrispondente a quello attinto dalle tribù indiane del Nordamerica pervenute a un'organizzazione confederale. Per quanto accidentale sia la sua comparsa in un determinato momento, la civiltà è però il risultato necessario di un processo evolutivo che è connaturato alla specie umana. Perciò, una volta che la si è raggiunta, non la si può più perdere. La garanzia di permanenza della civiltà, che l'illuminismo al suo tramonto traeva dalla fiducia in un perfezionamento senza fine, veniva qui offerta dall'impostazione evoluzionistica della nuova scienza dell'uomo.
Tra fine Settecento e metà Ottocento l'idea di civiltà subisce un processo di graduale storicizzazione. Essa viene assunta a idea-guida, a criterio selettivo e al tempo stesso valutativo per delineare la formazione e le fasi di sviluppo della società moderna, oppure per spiegare i motivi del tramonto del mondo antico. Vi contribuiscono in maniera decisiva opere come la View of the progress of society in Europe from the subversion of the Roman Empire to the beginning of the XVIth century, premessa da William Robertson alla History of the reign of the Emperor Charles V (1771) o come la History of the decline and fall of the Roman Empire (1776-1788) di Edward Gibbon o ancora come An historical view of the English government (1787) di John Millar - opera in cui il duplice problema del passaggio dalla barbarie alla civiltà e della ricaduta nella barbarie viene affrontato in riferimento a un contesto storico specifico. Tale processo di storicizzazione si riflette, sul piano linguistico, nell'introduzione del plurale civilisations (di cui Lucien Febvre ha indicato il primo uso ne Le vieillard et le jeune homme dello scrittore tradizionalista Pierre-Simon Ballanche, apparso nel 1819: ma esso si trova già in un testo di Mirabeau del 1767) o civilizations, ma soprattutto nella sempre più frequente specificazione del singolare con un aggettivo che qualifica la civiltà in termini storico-geografici. La civiltà viene a configurarsi come una realtà complessa, fatta di costumi, di progresso intellettuale, di sviluppo politico ed economico; ma si presenta, al tempo stesso, come una realtà storicamente determinata e - quel che più conta - rintracciabile nei popoli più diversi. In realtà già Voltaire, nella Philosophie de l'histoire (1765) poi premessa all'Essai sur les moeurs, aveva indicato nei Cinesi un popolo civilizzato prima ancora del sorgere della civiltà nella regione tra Egitto e Mesopotamia; e Ferguson aveva accennato al problema della permanenza plurisecolare della civiltà cinese. All'inizio del nuovo secolo la civiltà ha ormai cessato di costituire un attributo esclusivo dei popoli antichi e dell'Europa moderna: lo studio delle lingue e delle culture orientali e l'interesse etnografico per i 'selvaggi americani' - entrambi largamente diffusi nel Settecento - sfociano nel riconoscimento, per esempio, della "civiltà abortita" dei Cinesi (secondo l'espressione impiegata da Constantin Volney ne Les ruines, ou méditations sur les révolutions des empires del 1791), o addirittura di una "civiltà dei selvaggi" (come scrive, qualche anno dopo, ancora Volney). Con Alexander von Humboldt l'uso storico-geografico del termine si avvia a diventare corrente.A questo riconoscimento fa riscontro il sorgere della nozione di una specifica civiltà europea, con caratteristiche peculiari che ne fanno un unicum. Essa si trova formulata esplicitamente nell'Histoire de la civilisation en Europe (1828) di François Guizot. Egli muove da una duplice definizione della civiltà: una definizione generale e una definizione specificamente riferita all'ambito europeo. In linea generale, la civiltà è per Guizot un 'fatto', oggetto quindi di descrizione e di narrazione; è una realtà racchiusa "entro confini cronologici e geografici determinati", che abbraccia tutte le manifestazioni di vita di un popolo o di un insieme di popoli. In quanto tale, la civiltà comprende le istituzioni, il commercio e l'industria, la forma di governo e le guerre. Accanto all'aspetto sociale vi è però anche un aspetto individuale della civiltà, cioè quello che comprende "le credenze religiose e le idee filosofiche, le scienze, le lettere, le arti". Per questa sua portata onnicomprensiva l'idea di civiltà viene a esprimere "il fatto del progresso, dello sviluppo", di uno sviluppo che non è soltanto perfezionamento della vita sociale, ma anche progresso della vita individuale.
La storia della civiltà coincide perciò, illuministicamente, con la storia dell'umanità e dei rapporti che in essa s'intrecciano tra vita sociale e vita individuale. Si tratta ora di determinare, su tale base, quali siano i caratteri che distinguono la civiltà europea rispetto alle altre civiltà, sia quelle asiatiche che quelle del mondo antico.Guizot fa ricorso, nel procedere a questa definizione, all'antitesi tra unità e varietà. Ciò che contraddistingue tutte le altre civiltà è la loro unità, la loro dipendenza da un unico principio - si tratti del principio teocratico che è prevalso nell'antico Egitto e in India, oppure del dominio di una casta conquistatrice che ha imposto la propria forza ai popoli assoggettati, o ancora della 'semplicità' che informa la civiltà greca in tutti i suoi aspetti. Nell'Europa moderna coesistono invece principî diversi: il potere spirituale e il potere temporale sono separati, le varie forme di governo sono compresenti e si combinano tra loro, la letteratura e l'arte esprimono un contenuto molteplice. Ciò che contraddistingue la civiltà europea è appunto questa "varietà delle forme, delle idee, dei principî", la loro lotta reciproca e il loro tendere verso un'unità che si costituisce sulla base non dell'uniformità, ma delle differenze; è la libertà che da essa procede. Di tale varietà Guizot rintraccia le basi all'origine stessa della civiltà europea, nelle diverse componenti del suo processo di formazione - la società municipale romana, la società cristiana fondata sulla Chiesa, la società barbarica; la segue nei periodi successivi, dall'età feudale all'epoca di transizione rappresentata dall'affrancamento dei Comuni e dall'espansione dell'Europa verso oriente, fino alla nascita delle monarchie moderne e alla Riforma religiosa; la ritrova, infine, nell'Europa moderna, costituita da una pluralità di nazioni. E a questo punto la nozione di civiltà europea viene ad articolarsi in rapporto alla coesistenza di tradizioni nazionali diverse.La civiltà europea, infatti, non è il prodotto di un solo popolo; è la risultante del contributo di differenti popoli. Tra questi contributi Guizot sottolinea - nell'ultima lezione dell'opera - l'importanza decisiva di quello inglese: la civiltà inglese manifesta in misura eminente quella varietà che costituisce il carattere distintivo della civiltà europea. Mentre sul continente i diversi elementi costitutivi di quest'ultima si sviluppano successivamente, in momenti diversi, in Inghilterra essi sono sempre intrecciati: "mai un elemento antico scompare completamente, mai un elemento nuovo trionfa completamente né un principio sociale consegue un dominio esclusivo". Per questo motivo il popolo inglese è pervenuto per primo allo scopo di ogni società, ossia alla libertà. Ma al riconoscimento della priorità storica dell'Inghilterra fa riscontro, in maniera alquanto contraddittoria, la tesi della centralità della civiltà francese. Anche se è stata talvolta superata da altre nazioni, dall'Italia in campo artistico o dall'Inghilterra nelle istituzioni politiche, la Francia è stata pur sempre, secondo Guizot, "il centro, il focolare della civiltà dell'Europa"; ha dato una formulazione generale alle idee sorte altrove, promuovendone la diffusione, e ha perciò camminato "alla testa della civiltà europea".
Alla superiorità della civiltà europea rispetto alle altre civiltà corrisponde quella della civiltà francese in ambito europeo. Se la civiltà europea è l'unica realmente universale, poiché in essa è scomparso il "carattere della specialità", e quindi "non è né ristretta, né esclusiva, né stazionaria", la civiltà francese è il necessario tramite di ogni principio che l'Europa ha prodotto nel corso dei secoli; essa possiede, al massimo grado, un valore universale.L'affermazione del primato di una civiltà nazionale all'interno della più generale civiltà europea non si trova certamente soltanto in Guizot, né è esclusivamente francese. Già Louis de Bonald aveva indicato nella Francia la "primogenita della civiltà europea"; e nell'età della Restaurazione il primato francese viene variamente esaltato soprattutto da storici come Jules Michelet ed Edgar Quinet, che non di rado si richiamano, per sostenerlo, ai principî e all'eredità della Rivoluzione. Per esempio, Michelet, analogamente a Guizot, riconosce ai popoli meridionali dell'Europa una superiorità in campo artisticol-etterario e a quelli settentrionali un'analoga superiorità nello sviluppo scientifico e filosofico, ma attribuisce alla Francia il merito di aver realizzato la sintesi tra queste due direzioni di sviluppo. Il primato viene così giustificato, di solito, in base al carattere universale della civiltà francese e alla sua capacità diffusiva. Un analogo primato viene però rivendicato anche ad altri paesi, e in particolare all'Italia (il nazionalismo tedesco, come si vedrà, non fa ricorso all'idea di civiltà). Per Vincenzo Gioberti il primato dell'Italia discende dal fatto di essere la culla del cristianesimo e la sede del papato: esso ha la propria base nella religione, la quale costituisce "un sistema di civiltà universale, che sovrasta alle speciali culture e tutte le abbraccia". In altri autori, invece, esso è giustificato - in contrapposizione alla civiltà francese o tedesca - mediante il richiamo all'antica Roma.
Connotata in senso nazionale, l'idea di civiltà si associa spesso con quella di una missione civilizzatrice propria di una singola nazione, che può rivolgersi sia alle altre nazioni europee sia ad altri popoli. Essa assume in tal modo un significato ideologico, caricandosi di valenze nazionalistiche e, più tardi, marcatamente colonialistiche. Ciò avviene per la prima volta, forse, in occasione della guerra franco-prussiana del 1870. La difesa della Francia minacciata diventa, agli occhi di molti autori francesi, la difesa non soltanto della civiltà francese, ma della civiltà in quanto tale, contro la barbarie tedesca. Così Victor Hugo, che già molti anni prima aveva definito il popolo francese come il "missionario della civiltà in Europa", attribuendo alla Francia una posizione centrale corrispondente a quella di Roma nel Medioevo, esalta in Parigi la "capitale della civiltà", e quindi del genere umano "nel suo passato e nel suo avvenire"; e più tardi, nel saggio Paris et Rome, contrappone al legame col passato della sede papale la spinta verso il futuro della città che ha formulato la Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Mai sopita, anzi spesso ricorrente nei decenni successivi, la rivendicazione della civiltà francese e della sua missione riprende prepotentemente in occasione della prima e poi ancora della seconda guerra mondiale: lo scontro tra Francia e Germania, espresso in termini ideologici, diventa la difesa della civilisation francese e del suo carattere universale contro la Kultur tedesca.
La missione civilizzatrice non è però monopolio di una singola nazione; talvolta viene attribuita alla stessa civiltà europea, in antitesi alla condizione di barbarie dei popoli colonizzati o alla minaccia di una nuova barbarie, quella del totalitarismo. Il nesso tra l'idea di civiltà e la politica coloniale di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento è evidente, e si ritrova nei contesti più diversi - per esempio nella cultura fascista ai tempi della conquista dell'Etiopia, e ancora in Francia all'epoca della guerra d'Algeria. Più recente, ma non meno significativa, è la contrapposizione al totalitarismo: dapprima al nazismo, poi al comunismo. Essa dà luogo per un verso a una restrizione, per l'altro verso a un allargamento della nozione di civiltà europea. Da questa vengono infatti espunti gli elementi ritenuti incompatibili con la tradizione liberale che ne costituisce la sostanza - il nazionalismo germanico oppure l'ideologia bolscevica; mentre il suo orizzonte geografico viene esteso a comprendere l'America, e in particolare gli Stati Uniti. La civiltà europea tende così a trasformarsi nella civiltà occidentale, inglobando quella americana di cui pur si riconosce (talvolta non senza accenti polemici) la specificità; al limite, essa si trasforma in civiltà atlantica. Nel periodo della 'guerra fredda' l'Atlantico appare come un mezzo di collegamento tra due parti, geograficamente dislocate, di un'unica civiltà sorta in Europa ma diffusasi oltreoceano, la cui salvaguardia vien fatta coincidere con la difesa dei valori democratico-liberali; e il confine tra civiltà e nuova barbarie è collocato non più ai margini orientali, ma nel cuore stesso del continente europeo.
Quando, negli anni settanta del XVIII secolo, il termine Zivilisation comincia a penetrare nella lingua tedesca, esso s'incontra con un altro termine che gli impedisce di assumere quel valore emblematico che riveste invece la corrispondente parola francese o inglese. Questo termine, anch'esso di origine latina e come tale già diffuso nel linguaggio filosofico tedesco (Samuel Pufendorf lo impiega largamente nel De jure naturae et gentium del 1672), è Cultur, poi nella grafia Kultur: esso si trova, accompagnato da un complemento di specificazione, sin dalla fine del secolo precedente, e comincia a essere usato in modo 'assoluto' soltanto dopo la metà del Settecento. Ancora nel 1784 Moses Mendelsohn, nel saggio Über die Frage: was heißt aufklären?, lo registra come un neologismo, distinguendolo da Aufklärung: quest'ultimo termine si riferisce alla sfera del conoscere, mentre Cultur concerne invece l'ambito pratico, cioè "la bontà, la finezza e la bellezza nelle attività artigianali, nelle arti e nei costumi sociali", nonché le corrispondenti capacità e consuetudini soggettive. Ma già due anni prima, nel 1782, il filologo Johann Christian Adelung lo aveva assunto come termine-chiave nel suo Versuch einer Geschichte der Cultur des menschlichen Geschlechts, contrapponendo la 'cultura' alla natura e interpretando la storia dell'umanità come il trapasso da un'originaria condizione animale a gradi sempre più elevati di cultura. Il termine è ampiamente usato da Herder, che nelle Ideen rivendica a ogni popolo il possesso di una cultura, designandola come "il fiorire della sua esistenza". Per lungo tempo, dopo di allora, i due termini Cultur e Zivilisation coesistono, e vengono per lo più considerati sinonimi.
Eppure, già negli anni ottanta s'incontra qualche tentativo di distinguerli. Il più importante (e il più noto) è quello compiuto da Kant nella Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht del 1784. La nozione di cultura viene da lui riferita all'arte e alla scienza, quella di civiltà "a ogni specie di maniera e di convenienza sociale"; a entrambe egli contrappone la moralità, collegandola tuttavia alla cultura e non alla civiltà, ritenuta qualcosa di esteriore rispetto a essa. Altrove Kant caratterizza lo stato attuale di esistenza dell'uomo come una condizione di cultura e di civiltà, ma non ancora di moralità: in una pagina del Nachlaß si legge che gli uomini, nel loro progredire verso la perfezione, "sono sì coltivati e civilizzati, ma non sono divenuti morali", in quanto "abbiamo il più alto grado di cultura che possiamo possedere senza moralità", e "la civiltà ha raggiunto anch'essa il suo massimo". Civiltà, cultura e moralità sembrano così disporsi secondo una scala gerarchica. Questa impostazione viene ripresa da Wilhelm von Humboldt, il quale sostituisce però al concetto di moralità quello di Bildung, ossia di 'formazione' della personalità (che riprende, almeno in parte, il significato della paideia greca). Nel saggio Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues (1836) egli definisce la civiltà come l'"umanizzazione dei popoli nelle loro istituzioni e usanze esterne, e nel modo di sentire che a esse si riferisce"; rispetto a essa la cultura si colloca a un livello superiore, poiché "al raffinamento dello stato sociale aggiunge la scienza e l'arte"; infine la Bildung è "qualcosa di più elevato e più interiore", in quanto designa l'armonico conformarsi della sensibilità e del carattere alle supreme aspirazioni spirituali ed etiche. Pur riconoscendo la funzione positiva della civiltà, Humboldt la pone quindi su un gradino più basso della cultura, e a fortiori della 'formazione' interiore della personalità.Ben presto, però, questa subordinazione della civiltà alla cultura si trasforma in un'esplicita contrapposizione tra i due termini. In un saggio del 1815, An die Unschuld, den Ernst und den Edelmut meines Zeitalters und meines Vaterlandes, il pedagogista Johann Heinrich Pestalozzi distingueva nel processo di formazione dell'uomo un duplice fondamento: un fondamento sensibile, che l'uomo ha in comune con tutti gli animali, e un fondamento superiore, proprio della natura umana. E questa distinzione, di origine kantiana (anche se trasposta in un contesto diverso da quello originario), veniva da lui correlata con quella tra civiltà e cultura, nel senso che la civiltà deriva dal primo fondamento, e riveste quindi un carattere "sensibile", mentre la cultura "etica e spirituale" trova la sua base nel secondo. Lungi dal rappresentare un attributo specifico dell'umanità, la civiltà è il prodotto della natura sensibile dell'uomo, e ne designa il legame con il mondo animale. E infatti la formazione dell'uomo esige la subordinazione della civiltà alle "leggi superiori della formazione umana", cioè alla sua natura spirituale: la cultura significa l'"elevazione della nostra specie all'umanità", cioè una trasformazione dell'attività sregolata della natura sensibile (e animale) in una condizione regolata da leggi morali. Non si tratta però, secondo Pestalozzi, di un semplice rapporto gerarchico tra due elementi della natura umana: le leggi della civiltà e le leggi della cultura sono non solo differenti, ma opposte. Dall'eterogeneità di origine discende infatti anche una differenza sociologica: la civiltà riguarda la massa, mentre la cultura è un'acquisizione individuale. Sullo sfondo dell'antitesi tra civiltà e cultura viene a profilarsi un'opposizione che sarà largamente ripresa nella seconda metà del secolo: quella tra la massa e l'individuo.
Per tutto l'Ottocento la distinzione gerarchica tra civiltà e cultura s'intreccia - specialmente nel pensiero tedesco - con la loro esplicita contrapposizione. È pur vero che in sede storiografica i due termini sono spesso considerati sinonimi, e che talvolta la civiltà viene addirittura a designare il complesso delle manifestazioni di un'epoca, comprendendo anche lo sviluppo della tecnica e dell'industria, mentre il termine 'cultura' è usato in senso più ristretto, cioè con riferimento precipuo all'attività intellettuale e ai suoi prodotti. Ma le connotazioni valutative che si erano delineate all'inizio del secolo non vengono meno. La civiltà è sovente qualificata come qualcosa di esteriore, di estraneo alla natura peculiare (e superiore) dell'uomo, e quindi di artificiale, mentre la cultura è definita come un processo interiore, connaturato all'essenza della personalità umana: la civiltà viene così a coincidere con la cultura materiale, in antitesi alla cultura vera e propria, che è intrinsecamente 'spirituale'. A queste caratterizzazioni se ne aggiunge un'altra, di chiara derivazione romantica: la civiltà è 'meccanica', e si sviluppa mediante un'accumulazione di risultati, mentre la cultura è 'organica'. Di conseguenza soltanto la cultura è realmente creativa; la civiltà è invece un processo estensivo anziché intensivo, circoscritto entro l'ambito del sapere scientifico e delle sue applicazioni. Questi motivi ricorrono, variamente combinati, nella letteratura filosofica e anche sociologica di fine secolo, e ancora dei primi decenni del Novecento. Non manca chi, come per esempio Paul Barth in Die Philosophie der Geschichte als Soziologie (1897), inverte il rapporto, privilegiando la civiltà come "dominio dell'uomo su se stesso" nei confronti della cultura intesa come "dominio dell'uomo sulle risorse e sulle forze naturali", e facendo così rientrare nella seconda l'economia e il progresso tecnologico. Ma si tratta di un'eccezione isolata. Più sovente la civiltà è considerata come il superamento dello stato di natura, sulla cui base sorge e si afferma la cultura: per Leopold Ziegler, che nel 1903 dedica un volume a illustrare l'essenza della cultura, la civiltà è il presupposto indispensabile di quest'ultima, in quanto la cultura può essere prodotta soltanto dall'uomo che si sia liberato dalla lotta quotidiana con la natura, ma rimane pur sempre confinata a un livello subordinato. In altri autori prevale invece l'opposizione: la civiltà riguarda la sfera della tecnica, mentre la cultura si riferisce alla creazione artistica: l'una è il 'corpo', l'altra è l''anima' dello sviluppo dell'umanità.
Quest'antitesi assumerà, allo scoppio della guerra, un significato apertamente ideologico, anche se con segno opposto a quello che si affermava contemporaneamente in Francia. Il valore positivo diventava la Kultur, considerata un prodotto peculiare (e talvolta esclusivo) del mondo germanico, in contrapposizione al carattere esteriore, artificiale e superficialmente 'razionalistico' della civilisation. Emblematica è, a questo proposito, la posizione di Thomas Mann negli anni 1914-1915, qual è espressa specialmente nei Gedanken im Kriege. Civiltà e cultura sono per lui termini antitetici: la cultura "è compiutezza, stile, forma, portamento, gusto, è una certa organizzazione spirituale del mondo" che può comprendere tutte le manifestazioni di vita dell'uomo, anche le più irrazionali, mentre la civiltà "è ragione, illuminismo, mitezza, costumatezza, mentalità scettica, dissoluzione". Mann riprende così la vecchia polemica herderiana contro la ragione illuministica; ma al tempo stesso - richiamandosi a Nietzsche - viene a identificare la civiltà con lo 'spirito borghese' e con la democrazia. La 'cultura' gli appare l'espressione della profondità dell''anima tedesca', e la guerra in corso viene presentata come una lotta in difesa della cultura contro la superficiale civiltà europeo-occidentale. Quest'antitesi trova una formulazione in termini storici in un saggio di Ernst Troeltsch sullo "spirito della cultura tedesca", raccolto in Deutschland und der Weltkrieg (1915). Il concetto anglosassone di civiltà designa "il diritto naturale degli individui, il loro controllo sullo Stato, la libertà delle Chiese, il carattere privato delle convinzioni personali e l'influenza dell'opinione pubblica sul governo e sui privati"; quello francese indica il 'progresso' dell'umanità, e riveste un "carattere logicamente necessario, razionalistico"; al contrario, alla nozione tedesca di cultura "inerisce un qualcosa di romantico, di individualistico-irrazionale". Era questo un riconoscimento non privo di risvolti autocritici, che si discostava chiaramente dall'esaltazione della cultura corrente in quegli anni; e infatti Troeltsch lo svilupperà più tardi proponendo, nei saggi raccolti in Der Historismus und seine Probleme (1922), una "sintesi culturale" che mettesse insieme i valori delle diverse tradizioni nazionali europee. Anche nel dopoguerra, però, l'antitesi tra civiltà e cultura avrà larga eco, e troverà anzi una più precisa sistemazione teorica nell'opera di Oswald Spengler.
Nei Gedanken di Thomas Mann, e in maniera assai più marcata in Der Untergang des Abendlandes, è presente il riferimento alla critica che Nietzsche aveva condotto nei confronti del processo di democratizzazione inteso come una caratteristica fondamentale della civiltà di massa. Ma i presupposti di questa critica si trovano già in uno scritto di Jakob Burckhardt che risale agli anni tra il 1868 e il 1873, pubblicato postumo (nel 1905) con il titolo Weltgeschichtliche Betrachtungen. Se in sede storiografica - e soprattutto in Die Cultur der Renaissance in Italien (1860) - Burckhardt aveva utilizzato il concetto di cultura in un significato 'totale', che abbraccia tutte le manifestazioni di una certa epoca storica, in questo scritto egli ne dà una formulazione più ristretta, distinguendo la cultura dallo Stato e dalla religione. Stato, religione e cultura sono infatti considerate le tre 'potenze' della storia; ma mentre le prime due sono espressione, rispettivamente, del bisogno politico e del bisogno religioso, e avanzano una pretesa di validità universale, almeno entro l'ambito della nazione o della comunità dei fedeli, la cultura comprende invece i prodotti dell'attività spontanea dello spirito, e non pretende di valere universalmente. In tal modo la cultura appare priva del carattere coercitivo che è proprio delle altre due potenze; agisce su di esse modificandole e corrodendole; rappresenta, insomma, la critica di entrambe. Se è vero che fra le tre potenze intercorrono sempre, in maggiore o minor misura, rapporti di condizionamento reciproco, è però la cultura a svelare, nelle varie epoche, l'inadeguatezza delle istituzioni politiche e religiose. Su questo sfondo Burckhardt delinea una teoria delle crisi storiche, intese come momenti di sviluppo accelerato all'interno del processo storico. Lungi dall'essere soltanto negative, le crisi sono segni di vitalità; liquidano il passato, ne eliminano in modo traumatico le sopravvivenze. In ogni crisi si manifesta uno "spirito innovatore", si risvegliano energie sopite.
Burckhardt è consapevole di vivere in un'epoca di crisi che ha avuto inizio con la Rivoluzione francese e che è continuata attraverso la Restaurazione, il Quarantotto e il conflitto franco-prussiano del 1870. Le idee rivoluzionarie hanno messo in questione tutte le istituzioni tradizionali, sia politiche che religiose; hanno avanzato l'esigenza di una religione senza Chiesa e di uno Stato fondato sull'eguaglianza dei cittadini. Ma mentre da un lato vien messo in questione, dall'altro lo Stato accresce il proprio potere, perché da esso ci si attende il soddisfacimento di ogni aspirazione; lo Stato abbraccia l'intera comunità nazionale, intervenendo in ogni campo. Anche la cultura si trasforma diventando cultura universale, priva di limiti nazionali o di classe. Così il processo rivoluzionario sfocia nella rivendicazione dell'eguaglianza sociale, nella democratizzazione della società, nel dominio delle masse. E ciò avviene per la prima volta nella storia: mai il mondo antico aveva conosciuto un rivolgimento così generale e, al tempo stesso, tanto radicale. Le crisi delle città greche hanno avuto un carattere locale; in quanto a Roma, le sue rivoluzioni non sono mai approdate a quella crisi radicale, che è rappresentata appunto dal dominio delle masse. Mentre sopravvivono molte istituzioni del passato - dinastie, burocrazie, caste militari - l'epoca postrivoluzionaria assiste allo sviluppo dell'opinione pubblica, alla diffusione della stampa e delle comunicazioni; la spinta verso l'eguaglianza s'intreccia con uno sviluppo senza precedenti dell'industria e, parallelamente a questo, con l'approfondirsi delle tensioni sociali. L'emergere della civiltà di massa comporta una crisi epocale; e di fronte a essa Burckhardt assume un atteggiamento di sospettosa riserva, che tende a esprimersi in una diagnosi pessimistica.
Nietzsche riprende questa diagnosi accentuandone i toni negativi e riportandola al quadro di una storia naturale della morale. In Jenseits von Gut und Böse (1886) egli distingue, nella storia dell'umanità, un periodo "premorale" e un periodo "morale", a cui dovrà far seguito, in futuro, un'epoca contrassegnata dal superamento della morale: nel primo il valore o il disvalore di un'azione è giudicato in base alle sue conseguenze, mentre nel secondo è derivato dalla sua origine, e più precisamente dall'intenzione che l'ispira. Nel periodo premorale prevale una società aristocratica, fondata sul riconoscimento di una gerarchia e di differenze di valore tra gli uomini, la quale non rifugge dall'uso della forza e vuol anzi dominare "su razze più deboli, più costumate, più pacifiche, forse esercitanti il commercio o dedite alla pastorizia, o su antiche culture marcescenti"; in seno a essa si afferma una stirpe dominante, con una "morale di signori". Al contrario, nel periodo morale si compie un processo di democratizzazione, e quindi di livellamento e di 'mediocrizzazione': in luogo della "morale dei signori" si sviluppa una "morale da schiavi", cioè una morale "essenzialmente utilitaria", che vuol proteggere gli inferiori, gli oppressi, i sofferenti. Tale è appunto, per Nietzsche, la situazione dell'Europa contemporanea, dove il movimento democratico ha dato luogo a un processo di omogeneizzazione che comporta l'"ascesa di un tipo umano essenzialmente sovranazionale e nomade", il quale aspira a realizzare l'eguaglianza ma è, in realtà, predisposto alla schiavitù. Ed egli ricorre, nel caratterizzare questa fase di sviluppo dell'umanità, al termine "civiltà": le "culture superiori" sono quelle in cui prevale (o sopravvive) la "morale dei signori", mentre le società che a esse succedono vedono il graduale prevalere della "morale degli schiavi".
Se nella prima delle Unzeitgemäße Betrachtungen (scritta nel 1873) la cultura designava ancora, in conformità al senso attribuitole da Burckhardt nella sua opera storica, l'"unità dello stile artistico in tutte le manifestazioni di vita di un popolo", ed era contrapposta al sapere e all'erudizione fine a se stessi, negli scritti degli anni ottanta il suo significato risulta per così dire storicizzato; e l'antitesi tra civiltà e cultura viene riformulata in modo da indicare due diverse epoche contrassegnate da opposti caratteri. In un frammento dell'autunno 1887, infatti, Nietzsche afferma che "i culmini della cultura e della civiltà divergono", avvertendo che "non ci si deve lasciar sviare in merito al loro fondamentale antagonismo". Le culture sono, considerate in una prospettiva morale, "periodi di corruzione", e quindi epoche positive, mentre le civiltà sono "epoche di voluto e forzato addomesticamento dell'uomo", in cui non c'è posto per le "nature più spirituali e più ardite". La civiltà succede alla cultura quando la volontà di potenza si attenua o è sottoposta a prescrizioni morali, quando viene disconosciuta la preminenza dei valori vitali, quando prevale la spinta verso la democrazia e, con questa, una società in cui la massa soffoca la capacità creativa dell'individuo: essa rappresenta una fase storica successiva alla cultura, ma soprattutto una fase di decadenza. La qualificazione della civiltà in termini di civiltà di massa conduce inevitabilmente a caratterizzarla come un'epoca di crisi.
In questa valutazione di Nietzsche si affermava, seppure in forma affatto personale, una tendenza largamente diffusa nel tardo Ottocento non solo tedesco. Di fronte allo sviluppo tecnico-produttivo e all'importanza crescente dell'economia industriale si sottolineavano sempre più gli aspetti 'materiali' della civiltà, e quindi si tendeva a identificarla con il progresso economico concepito in termini di benessere crescente. D'altra parte l'ascesa del movimento operaio portava a scorgere nella dimensione di massa un elemento distintivo se non della civiltà in generale, certo almeno della società industriale contemporanea; e contro di essa si rivendicava la funzione creativa delle minoranze, le sole in grado di dar luogo a una cultura superiore, svincolata da criteri utilitaristici. I due filoni si congiungevano mettendo capo a una critica aristocratico-conservatrice della civiltà, in cui l'incipiente anti-industrialismo (non di rado condiviso anche dalle dottrine socialistiche) si innestava sull'opposizione alla democrazia e al movimento operaio, e che trovava alimento in miti nazionalistico-romantici variamente declinati, spesso anche in chiave razzistica.
Questi motivi confluiscono, all'indomani della prima guerra mondiale, nell'opera di Spengler, e si definiscono concettualmente attraverso il duplice richiamo a un Goethe interpretato in senso biologizzante e soprattutto a Nietzsche. Spengler si propone di delineare una "morfologia della storia universale" concepita come terreno di sviluppo di una molteplicità di culture: la cultura è l'unità fondamentale del processo storico, e al di là di essa non sussiste alcuna unità superiore alla quale le varie culture possano venir ridotte. Di cultura, infatti, si può parlare non al singolare, ma soltanto al plurale; e l'unico legame tra le culture è costituito dall'appartenenza alla medesima specie, la quale ha - al pari di ogni altra specie biologica - un proprio ciclo vitale, che va dalla nascita alla morte. Nel corso di questo ciclo ogni cultura realizza il complesso delle proprie possibilità, geneticamente determinate, dando 'forma' alla natura e alla storia stessa, cioè creando una propria immagine sia del "divenuto", del mondo naturale, sia del "divenire" storico. Sulle modalità del sorgere di una cultura Spengler è piuttosto evasivo (e soltanto più tardi, negli scritti postumi raccolti sotto il titolo di Urfragen, tenterà di approfondire il problema); in ogni caso, però, una cultura nasce distaccandosi dal grembo dell'umanità primitiva, e tale nascita rappresenta un salto rispetto al livello di vita primitivo, nel quale l'uomo appartiene ancora a una specie zoologica. Segno visibile, anzi presupposto di questo sorgere è il passaggio da un'esistenza nomade a un'esistenza stabile, e più precisamente l'insediamento in città: se la storia universale è fatta di culture, ogni cultura ha il proprio centro in questo "fenomeno originario dell'esistenza umana" che è la città. La vita contadina è astorica; soltanto nella città si formano i ceti, nasce la borghesia, si sviluppa la vita politica. Ma la città rende possibile, e promuove, anche lo sviluppo dello 'spirito', cioè delle forme specifiche che costituiscono il mondo simbolico di una cultura - arte, religione, scienza, filosofia ecc. Il passaggio alla vita urbana è pure la base per la formazione dei popoli, cioè di comunità etniche e linguistiche che, acquistando coscienza della loro unità di razza e di lingua, diventano nazioni, e tendono quindi a organizzarsi politicamente in forma di Stati. Non soltanto la storia universale è "storia di città", ma è "storia di Stati".
La Zivilisation rappresenta invece la fase terminale di una cultura, la fase del suo declino, l'anticamera di una morte ineludibile. Tra cultura e civiltà vi è dunque per Spengler - non diversamente che per Nietzsche - un rapporto di successione nel tempo: lungi dal costituire un livello di vita preliminare e preparatorio rispetto alla cultura, la civiltà ne è la vecchiaia. Essa è contrassegnata dal progressivo esaurirsi delle possibilità costitutive di una cultura, dal suo irrigidimento, dal "rovesciamento" dei valori. In luogo della città, con la sua articolazione in ceti e in classi, troviamo la metropoli, nella quale si concentrano masse improduttive e informi. Il regime che riflette questa situazione è la democrazia, ma una democrazia destinata a trasformarsi in cesarismo, così com'è avvenuto nell'antica Roma. I ceti originari - nobili e sacerdoti - che avevano guidato il cammino di una cultura, e così pure la borghesia, cedono il passo al "quarto stato", cioè a un'entità dai contorni indefiniti. A ciò si accompagna il venir meno del primato della politica, la sua sostituzione con il dominio onnipervadente dell'economia. A fianco dello 'spirito' si colloca, come valore supremo, il denaro. All'inversione del rapporto tra politica ed economia fa riscontro la caduta della fede nei valori tradizionali: mentre la cultura ha creato un mondo simbolico, con un proprio sistema di valori, la civiltà si limita a interpretarli, anzi li critica. La morale diventa problema, alla religione subentra un diffuso clima di irreligiosità. Anche l'Occidente, al pari delle culture che lo hanno preceduto nella storia universale, è ormai giunto alla fase della civiltà; né esso può sottrarvisi, poiché la civiltà è l'"inevitabile destino di una cultura". Anzi, proprio la comparazione con le vicende delle altre culture consente di prefigurare le tappe future del suo "tramonto".
La caratterizzazione della civiltà contemporanea in termini di civiltà di massa, congiunta a una valutazione negativa del processo di democratizzazione, metteva così capo alla prognosi di una crisi più o meno imminente, ma pur sempre necessaria. E proprio questa connessione sarà largamente ripresa - in riferimento diretto o indiretto all'opera di Spengler - nella letteratura sulla 'crisi della civiltà' fiorita nel periodo tra le due guerre. In un saggio pubblicato nel 1930, La rebelión de las masas, José Ortega y Gasset addita nell'avvento delle masse sulla scena storica il fenomeno centrale dell'epoca contemporanea. Si tratta, a suo parere, di una svolta radicale che si è compiuta nel corso dell'Ottocento, e che ha la sua base nella democrazia liberale, nel progresso scientifico e nell'industrialismo; in virtù di essa le masse hanno soppiantato le minoranze e dato luogo a un nuovo tipo umano, quello - appunto - dell'uomo-massa. Siamo così di fronte a una crisi storica per molti versi analoga a quella che si è verificata al momento del tramonto del mondo antico: con la differenza, però, che quest'ultimo è caduto sotto l'invasione di popoli barbari i quali hanno fatto irruzione dall'esterno, mentre l'avvento delle masse costituisce un'"invasione verticale", proveniente dall'interno stesso della società europea. Ma l'avvento delle masse presenta, agli occhi di Ortega, aspetti sia positivi che negativi. Positivo è senza dubbio l'innalzamento del livello medio dell'umanità, con la conseguente possibilità di espansione dei desideri vitali; negativa è invece la preoccupazione esclusiva per il benessere, e soprattutto l'indocilità delle masse, la loro indisponibilità a farsi dirigere, ossia la loro "ribellione". Ma la radice della crisi è ancor più profonda. L'uomo-massa contemporaneo non è , in realtà, un uomo civilizzato, ma è un "primitivo" che vive in mezzo a un mondo civilizzato, di cui sfrutta le conquiste tecniche; è un uomo, quindi, caratterizzato da una "carenza morale". E proprio questa lo espone al pericolo incombente dello statalismo, del quale Ortega avverte la presenza nel fascismo pervenuto al potere.
Non molti anni dopo, in un volume significativamente intitolato In de schaduwen van morgen (La crisi della civiltà, 1935), Johan Huizinga muoveva da un'analisi del concetto di cultura - equiparato, in sostanza, a quello di civiltà - per presentare una diagnosi del nostro tempo. La cultura esige, in generale, tre condizioni: un equilibrio tra valori spirituali (cioè intellettuali, morali, estetici) e valori materiali, l'orientamento verso un ideale condiviso dalla comunità, e infine il dominio sulla natura, anche su quella umana. Di queste tre condizioni nessuna appare realizzata nel mondo attuale: i valori spirituali sono subordinati alla ricerca del benessere, della potenza, della sicurezza; manca un ideale in grado di orientare la cultura e di conferirle unità; la natura umana si sottrae all'imposizione di una norma etica. A ciò fa riscontro, è vero, lo sviluppo dei mezzi a disposizione dell'umanità; ma si tratta di un progresso esteriore, che può condurre tanto alla salvezza quanto alla rovina, e che non può impedire la crisi della civiltà. E questa coinvolge anche la scienza, che se da un lato ha ampliato i suoi confini pervenendo "ai limiti della capacità pensante", dall'altro non si è ancora tradotta in una concezione 'armonica' del mondo, e quindi non è divenuta civiltà. Anzi, al progredire del sapere scientifico si accompagnano il tramonto dello spirito critico e una generale tendenza all'irrazionalità. Se per Ortega la minaccia veniva dal livellamento e dall'iperdemocrazia, che lascia spazio all'intervento crescente dello Stato, per Huizinga le "ombre del domani" provengono dallo sviluppo stesso della civiltà contemporanea, dalla sua incapacità di soddisfare i requisiti di una cultura vera e propria; e l'unica possibilità di salvezza che egli indica consiste in una 'catarsi' morale, in una purificazione dello spirito da attuare mediante l'ascesi, il sacrificio, la rinascita del senso etico.
L'idea di civiltà si è dunque venuta sviluppando, come si è visto, al di fuori di precisi contesti disciplinari; in particolare, essa è rimasta estranea alla sociologia ottocentesca, sia alle grandi teorie positivistiche della società sia alle nuove impostazioni che si sono venute delineando negli ultimi decenni del secolo. Le dicotomie formulate dalla sociologia ottocentesca sono quelle tra status e contratto nel caso di Henry Sumner Maine, o tra "comunità" e "società" nel caso di Tönnies (1887), o ancora tra solidarietà meccanica e solidarietà organica nel caso di Durkheim (1893); mai essa ha fatto ricorso alla distinzione tra cultura e civiltà, che pur presentava qualche affinità con quelle coppie concettuali. Bisogna attendere l'inizio del Novecento per incontrare qualche tentativo di definizione sociologica della civiltà, di solito in correlazione con il concetto di cultura. Nel 1910 Alfred Weber definisce la civiltà come un processo al tempo stesso esterno e interno: da una parte essa segna il progressivo dominio della natura da parte dell'uomo, dall'altra designa lo sviluppo intellettuale che accompagna il passaggio dell'uomo dallo stato primitivo a uno stato superiore. Ma questo duplice processo non è altro che la continuazione dello sviluppo biologico dell'umanità, e ha in esso la sua radice; la cultura, invece, procede oltre, svincolandosi dai condizionamenti naturali ed esprimendo l'essenza spirituale, o "metafisica", propria di ogni epoca. In un saggio successivo, Prinzipielles zur Kultursoziologie (1920), Weber distingue nella storia umana non più due, ma tre processi: il processo della società, il processo della civiltà e il movimento culturale. Il primo abbraccia l'insieme dei rapporti politico-sociali, le forme di organizzazione della società e le istituzioni del governo; il secondo coincide con il progresso della razionalizzazione e si attua attraverso la scoperta di un mondo da dominare tecnicamente; il terzo dà luogo alla creazione di un complesso di simboli, cioè di mondi simbolici differenti tra loro e dal contenuto irripetibile. Il processo della civiltà è lo strumento essenziale dell'umanità nella sua lotta per l'esistenza: esso ha una valenza utilitaria e si svolge linearmente, accumulando nuovo sapere e pervenendo a nuove invenzioni. Invece il movimento culturale si realizza in una molteplicità di 'forme' spirituali, del tutto indipendenti dalle condizioni materiali di esistenza, le quali possono venir studiate soltanto in una prospettiva tipologica.
Anche in altri contesti disciplinari è raro incontrare una definizione esplicita di civiltà, e più ancora una precisa distinzione tra cultura e civiltà. L'eccezione più rilevante è rappresentata dalla psicanalisi e, in particolare, dall'opera del suo fondatore, in cui si può trovare una teoria della civiltà fondata sul parallelismo tra sviluppo culturale e sviluppo dell'individuo. Ma il termine che Freud impiega è Kultur, non Zivilisation, anche se egli si rifiuta di vedere tra di essi una qualsiasi differenza. Già in Totem und Tabu (1912-1913), richiamandosi agli studi sul totemismo di James George Frazer e di William Robertson Smith, egli aveva fatto coincidere la nascita della cultura con il passaggio dall'orda primitiva, intesa darwinianamente, a un'organizzazione sociale in cui, con la proibizione dell'incesto, l'individuo incontra per la prima volta un limite al soddisfacimento dei propri impulsi sessuali; e ne aveva fornito una spiegazione attraverso l'ipotesi del parricidio originario, cioè dell'uccisione del padre tiranno da parte dei figli, che suscita in questi un senso di colpa per il delitto compiuto. Lo sviluppo culturale ha origine con la repressione dell'istinto, con l'affermarsi di un divieto che comporta la rinuncia al rapporto sessuale con la madre (e, interpretato in forma estensiva, con tutte le donne del gruppo familiare). Più tardi, dal saggio Jenseits des Lustprinzips (1920) a Die Zukunft einer Illusion (1927) e a Das Unbehagen in der Kultur (1930), Freud ha ripreso questa interpretazione approfondendola attraverso la distinzione tra principio del piacere e principio di realtà, e soprattutto attraverso il riconoscimento della presenza nell'uomo di impulsi aggressivo-distruttivi che si affiancano, e si contrappongono, a quelli sessuali. Su questa base egli perviene a definire la cultura/civiltà come "la somma delle realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali e che servono a due scopi: a proteggere l'umanità dalla natura e a regolare le relazioni degli uomini tra loro". Accanto al sapere scientifico, che consente il progressivo assoggettamento della natura, e all'organizzazione sociale essa comprende quindi le attività rivolte al perseguimento della bellezza, della pulizia, dell'ordine; comprende non solo l'arte, ma anche i sistemi religiosi, le speculazioni filosofiche, gli ideali che gli uomini si prefiggono. Condizione per il suo sviluppo è però sempre la limitazione della possibilità di soddisfare gli impulsi sessuali, l'affermarsi di divieti (a cominciare da quelli concernenti il cannibalismo, l'incesto, l'omicidio), l'accettazione di norme che gli individui interiorizzano nel proprio Super-Io; è, insomma, il complesso meccanismo della repressione e della sublimazione.
La cultura/civiltà si contrappone alla sessualità, e cerca di controllarne le manifestazioni, perché deve, per svilupparsi, sottrarre a questa l'energia di cui ha bisogno; in tal modo non soltanto giunge a controllarla, ma anche la indebolisce. E questo indebolimento lascia spazio, però, proprio a quegli impulsi aggressivo-distruttivi che il soddisfacimento del piacere relegava in secondo piano, mettendo così in pericolo l'esistenza stessa della cultura/civiltà. Nel suo sviluppo e nel suo "disagio" attuale Freud scorge quindi l'espressione di una lotta eterna tra Eros e Thanatos, radicata nella natura dell'uomo.Non soltanto Alfred Weber, ma anche la concezione freudiana stanno sullo sfondo dello sforzo più rilevante che la sociologia contemporanea abbia compiuto per elaborare una teoria della civiltà in termini processuali, quello di Norbert Elias in Über den Prozess der Zivilisation (1936-1937). Elias lascia cadere la nozione di cultura così come l'aveva definita Alfred Weber, e soprattutto i presupposti filosofici di tale nozione; invece accoglie da lui la nozione di civiltà/civilizzazione come movimento progressivo, che agisce nel senso di ridurre anziché di accentuare le differenze sociali (o nazionali). Tuttavia il contenuto con cui la nozione è connotata appare alquanto diverso. Mentre Weber tendeva a identificare il processo della civiltà con il progresso tecnico-scientifico, Elias lo concepisce - richiamandosi al significato cinque-seicentesco di civilité, piuttosto che a quello settecentesco di civilisation - come mutamento dei costumi, come trasformazione delle 'buone maniere' e delle convenzioni concernenti il comportamento a tavola, i bisogni naturali, le relazioni tra i sessi, e via dicendo. Non lo sviluppo del sapere o della tecnica, bensì quello dei comportamenti socialmente accettati rappresenta per lui l'asse portante della civiltà, o almeno di quella europea a cui la sua analisi si riferisce. Ma tale sviluppo s'intreccia con la trasformazione dei rapporti di potere, con l'ascesa della monarchia come potenza dominante, con il sorgere di nuovi ceti legati a essa e alla vita di corte. La vicenda storica della civiltà europea viene così riassunta nel graduale trapasso dalla società cavalleresco-cortese del Medioevo a una società assolutistico-curiale, in cui il potere centrale asservisce a sé la nobiltà feudale e acquista il monopolio della violenza legittima, mentre nuovi strati di formazione borghese ascendono verso il vertice sociale. Anche l'antitesi tra la 'civiltà' francese e la 'cultura' tedesca viene ricondotta da Elias alla diversa collocazione della borghesia dai due lati del Reno - all'assimilazione dei costumi di corte da parte della borghesia francese, e all'emarginazione dei ceti intellettuali emergenti da parte dell'aristocrazia tedesca. In quanto costituita da un insieme di comportamenti socialmente accettati, e di regole che li sanzionano, la civiltà rappresenta quindi un meccanismo di controllo degli impulsi individuali. Nel corso del suo sviluppo si può riscontrare, globalmente, un progressivo trapasso da forme di eteroregolamentazione a forme di autocontrollo; ma si può anche cogliere un graduale ampliamento della gamma dei comportamenti accettati. Nel caso europeo, ad esempio, il venir meno delle differenze di comportamento tra strati superiori e strati inferiori aumenta le varianti del comportamento 'civile', e quindi anche i modi di espressione dell'affettività.
Non soltanto in Alfred Weber e in Elias, ma anche in altri sociologi - si pensi, ad esempio, alla distinzione tra civiltà e cultura in termini, rispettivamente, di mezzi e di fini, proposta da Robert MacIver nel 1931 - il processo della civiltà si presenta come un processo specifico, anche se pur sempre coestensivo con lo sviluppo storico dell'umanità. Diverso è il significato che la civiltà riveste in antropologia, nei casi non frequenti in cui essa ne tenta una definizione. La civiltà assume infatti un significato 'globale', comprendendo la totalità delle manifestazioni di una società, ma viene al tempo stesso limitata a una fase, la più recente, della storia umana. Non a caso il recupero della nozione di civiltà in sede antropologica avviene in collegamento con il ritorno a un'impostazione evoluzionistica, anche se modificata rispetto a quella dell'antropologia di fine Ottocento. In Man makes itself (1936) e in altre opere posteriori Gordon Childe riprende da Morgan la tripartizione di stato selvaggio, barbarie e civiltà, facendo coincidere il primo con il Paleolitico e la seconda con il Neolitico; ma alla prospettiva di uno sviluppo lineare e continuo sostituisce la concezione di una successione di livelli che comporta dei salti di carattere 'rivoluzionario'. Childe reinterpreta i risultati della più recente ricerca archeologica alla luce del materialismo storico: da questo punto di vista un rilievo decisivo assumono il progresso tecnologico e, insieme a questo, il processo di trasformazione socioeconomica. Come il trapasso dal Paleolitico al Neolitico si compie in virtù di una rivoluzione che ha la sua base nella scoperta dell'agricoltura e nello scambio dei prodotti agricoli, così anche il sorgere della civiltà comporta una rivoluzione. Tra il quarto e il terzo millennio a.C., in un'area del globo che va dalla Mesopotamia e dall'Egitto alla valle dell'Indo, l'uomo perviene - in virtù di una serie di scoperte decisive come l'impiego della forza di trazione animale, l'invenzione dell'aratro e della ruota ecc. - a produrre eccedenze alimentari che consentono di mantenere gruppi sociali non impegnati direttamente nel lavoro produttivo; la società si articola allora in strati distinti che assolvono funzioni diverse, dal culto all'artigianato e al commercio. Ma tutto questo processo si compie in un contesto nuovo, ossia nelle città. La svolta che segna la nascita della civiltà è la rivoluzione urbana: un processo che comprende l'invenzione della scrittura, il suo impiego nell'amministrazione dei beni, la regolazione delle acque a scopo agricolo, la costruzione di edifici pubblici. L'origine della civiltà coincide (e su questo punto Childe s'incontra con Spengler) con la nascita delle città.
Anche per Childe, come per tutto il filone neoevoluzionistico dell'antropologia novecentesca che da lui prende le mosse, il processo della civiltà rimane perciò sostanzialmente unitario, pur nelle varianti che esso abbraccia. Di civiltà si parla così al singolare, non al plurale. E invece proprio il riconoscimento dell'esistenza di una molteplicità irriducibile di civiltà caratterizza l'approccio 'storico', largamente diffuso non soltanto in sede storiografica ma anche nei tentativi contemporanei di formulare una teoria generale della storia su base comparativa. È il caso, soprattutto, di Arnold J. Toynbee, che in A study of history (un'opera in dodici volumi pubblicata tra il 1934 e il 1961) si richiama, seppur polemicamente, a Spengler e alla concezione spengleriana della storia come sviluppo di culture tra loro eterogenee, non riconducibili a un processo unitario. E la nozione toynbiana di civiltà corrisponde infatti a quella spengleriana di cultura, seppur svincolata dai suoi presupposti organicistici (né Toynbee ha remore nel tradurre Kultur con civilization). Ogni civiltà costituisce un "campo intelligibile di studio storico", cioè un ambito di fenomeni determinato spazio-temporalmente che può essere indagato, in linea di massima, di per sé. Toynbee respinge quindi una concezione lineare (ed eurocentrica) della storia, traducendo la concezione spengleriana nei termini di una metodologia empirica; ma nella storia vede non un semplice teatro, bensì il luogo d'incontro tra le civiltà, il luogo in cui esse agiscono l'una sull'altra. Ogni civiltà è isolabile solo astrattamente; in realtà, la storia ci mostra a ogni passo rapporti di filiazione, di scambio, di scontro, di espansione e di assimilazione tra le varie civiltà.
Come per Spengler le culture posseggono un loro ciclo vitale, così per Toynbee l'esistenza delle civiltà si svolge attraverso una successione di fasi distinte: la nascita, la crescita, il crollo, la disgregazione. E tuttavia lo schema di spiegazione che egli adotta è esplicitamente antifatalistico, anzi antideterministico: sullo sfondo non c'è l'organicismo spengleriano, ma c'è piuttosto l'"evoluzione creatrice" di Bergson. Le civiltà, infatti, non sono organismi, ma sono società complesse che hanno superato il livello dell'umanità primitiva, distinguendosi qualitativamente dalle società primitive; la loro nascita avviene non già attraverso il distacco di un'"anima", bensì mediante la "risposta" positiva di un gruppo umano a una "sfida" che gli vien posta dall'ambiente, naturale o sociale, in cui si trova a vivere. Il processo genetico di una civiltà coincide perciò con una serie di risposte riuscite ad altrettante sfide. E il principio di "sfida e risposta" vale a spiegare anche i momenti successivi della vita di una civiltà. Una civiltà si sviluppa finché è capace di rispondere positivamente alle sfide che incontra sul suo cammino; quando questa capacità viene meno, la sua crescita si arresta; una serie di risposte mancate comporta la sua disgregazione. Ma questo processo non ha nulla di inevitabile. Proprio la fase della disgregazione può segnare, anzi, la nascita di una nuova civiltà, "figlia" della precedente, così com'è avvenuto nel rapporto tra la civiltà antica e quella europeo-occidentale. In essa, infatti, la minoranza che aveva diretto lo sviluppo della civiltà si trasforma - una volta perduto il proprio potere creativo - in minoranza dominante, dimostrandosi incapace di assimilare le forze sociali emergenti; nascono così un proletariato esterno e un proletariato interno, i quali cercano per vie divergenti un'uscita dalla disgregazione. Ma, mentre il proletariato esterno può dar luogo soltanto a una conquista violenta (com'è avvenuto nel caso dei popoli barbari invasori), quello interno si rivela capace di una "trasfigurazione", che si realizza attraverso una chiesa universale portatrice di una nuova fede. La salvezza di una civiltà nella fase della disgregazione può venire soltanto dal proletariato interno, e mette capo alla sua trasformazione in una nuova civiltà. Nella storia si ha quindi, per Toynbee, non soltanto la coesistenza di civiltà differenti sorte in diversi ambiti geografici, ma anche una successione di civiltà nel tempo, la quale dà luogo a un progresso: questo, però, si realizza non all'interno del corso storico, ma su un piano metastorico, e può venir espresso con l'immagine del carro che avanza in virtù del movimento circolare delle sue ruote. In tal modo Toynbee è approdato - fin dall'analisi della disgregazione apparsa nel 1939 - a una specie di teologia storica che ben poco ha in comune con l'impianto comparativo della sua indagine. E tuttavia la sua opera rimane ancor oggi il tentativo più cospicuo di una concezione della storia come storia delle civiltà che il pensiero contemporaneo abbia prodotto.
Nelle scienze sociali la nozione di civiltà occupa, come si è visto, un posto marginale. A differenza del concetto di cultura, che da oltre un secolo - cioè a partire dalla definizione datane da Edward Burnett Tylor in Primitive culture (1871) - è diventato un concetto-chiave della scienza antropologica, essa non ha neppur trovato un significato univoco; e continua a essere impiegata, quando lo è, in accezioni disparate le quali di solito riprendono, tutt'al più in forma modificata, qualcuna delle varianti che abbiamo incontrato nel percorrerne la storia. Anche quando è venuta a cadere l'antitesi ideologica tra civiltà e cultura, l'esigenza di distinguere i due termini ha contrassegnato qualsiasi tentativo di definizione della civiltà. Se la nozione di civiltà deve designare qualcosa di determinato, la si deve differenziare in qualche maniera dal concetto di cultura, così come questo è impiegato nelle scienze sociali e, in particolare, dalla disciplina che da esso ha tratto la propria denominazione - l'antropologia culturale.Un primo criterio di distinzione, corrente più nel linguaggio ordinario (ma anche in quello storiografico), consiste nel considerare la civiltà comprensiva della cultura, facendo riferimento a un significato 'parziale' - e quindi non antropologico - di cultura. In questo senso la civiltà designa l'insieme (o, se si preferisce, la totalità) delle manifestazioni di una società complessa, geograficamente determinata, in una data epoca storica o in una successione continua di epoche; mentre per cultura si intende invece un sotto-insieme della civiltà, quello che abbraccia l'attività intellettuale e i suoi prodotti, in quanto distinta dalle sfere della vita politica e della vita economica (ma anche, in ultima analisi, dai costumi). Così Toynbee, per esempio, ritiene che la vita di ogni civiltà si svolga su tre piani distinti e di valore diseguale - quello economico, quello politico, quello culturale - e che la sua essenza debba essere cercata appunto nella cultura, dove si manifesta il suo potere creativo. Di conseguenza, analizzando il processo di diffusione della civiltà europeo-occidentale negli altri continenti, egli ne ravvisa il limite nel fatto che esso è avvenuto sul terreno politico ed economico, senza che le altre civiltà ne abbiano assimilato gli aspetti costitutivi. Un criterio di questo genere, tuttavia, rimane piuttosto vago, anche perché non viene mai precisato l'ambito, geografico o cronologico, in riferimento al quale si può parlare di civiltà come "campo intelligibile di studio storico" (per riprendere l'espressione di Toynbee), anziché di una parte territorialmente determinata o di una fase di sviluppo di una civiltà. Anche i tentativi di definire la 'struttura' di una civiltà, come quello compiuto da Paul Schrecker in Work and history (1948), non hanno dato buon esito, poiché si sono risolti di solito in un'elencazione delle sue diverse 'province'.
Opposto è il secondo criterio, che considera la cultura comprensiva della civiltà, richiamandosi al significato 'totale' del concetto di cultura adottato dall'antropologia contemporanea. Esso risulta specificato in due varianti. In primo luogo, la civiltà viene intesa come un aspetto della cultura, come il suo apparato tecnico-strumentale - qualcosa di simile a ciò che, da parte di alcuni antropologi, viene chiamato col nome di 'cultura materiale'. In questo senso la nozione di civiltà è stata impiegata (o forse solo formulata) da sociologi come MacIver o come Robert E. Park. In secondo luogo, la civiltà viene considerata come una sottospecie della specie 'cultura': una civiltà è una cultura superiore, vale a dire una cultura letterata, pervenuta all'uso della scrittura o a un livello di vita urbano. Così, per esempio, Malinowski ritiene che per civiltà si possa intendere "un aspetto specifico delle culture più progredite", mentre Clyde Kluckhohn e W. H. Kelly la definiscono come "la cultura di un popolo che vive nelle città". Siamo qui dinanzi a un significato che, mantenendo la connessione originaria dell'idea di civiltà con la nozione di progresso, la circoscrive a quelle culture che sono pervenute, nel loro processo evolutivo, a un livello superiore di vita. Da questo punto di vista ogni popolo, ogni società possiede una cultura (anzi, società e cultura vengono comunemente considerate coestensive), mentre non ogni società vive in condizioni 'civili'. Le caratteristiche che consentono di discriminare tra culture primitive e culture-civiltà sono, in sostanza, quelle indicate da Childe (e, prima di lui, da Morgan): la differenziazione delle funzioni, l'articolazione della società in ceti e classi, l'emergere di un gruppo che assolve compiti politico-amministrativi e - più o meno distinto da esso - di un ceto sacerdotale, la nascita delle città e la concentrazione in esse delle attività non agricole, la scoperta della scrittura e il suo impiego, anzitutto, per usi di registrazione o sacrali. Ma non sempre queste caratteristiche si trovano tutte insieme; ancor meno è possibile definirle univocamente. In realtà, il passaggio dalle culture preletterate (o preurbane) alle culture-civiltà si presenta come un trapasso graduale, che può avvenire lungo percorsi diversi. Inoltre, una volta attribuito anche alla nozione di civiltà un significato 'totale', rimane il problema - che già abbiamo visto - di determinare i criteri che permettono di addivenire all'individuazione delle varie civiltà. Il concetto di cultura si è dimostrato capace di un uso (relativamente) neutrale, e quindi ha trovato diritto di cittadinanza nelle scienze sociali; la nozione di civiltà conserva sempre una dimensione assiologico-valutativa più o meno esplicita, espressa in chiave ora positiva ora negativa ma probabilmente ineliminabile, che glielo ha impedito.
Su questo terreno si può scorgere la vera differenza tra le due nozioni. Nel corso della sua storia il concetto di cultura ha subito una serie di allargamenti dapprima in direzione etnologica (ed etnografica), poi anche etologica: ha consentito di riconoscere non solo l'esistenza, ma anche il 'valore' dei costumi di ogni popolo, quali che fossero le sue condizioni di vita e la sua organizzazione sociale; più di recente è servito a ridurre la distanza dell'essere umano dall'animale, o almeno da alcune specie animali, rintracciando in queste la presenza di forme di apprendimento e quindi di 'abiti' non trasmessi ereditariamente, al pari di quelli che costituiscono il contenuto culturale delle società umane. Oggi il concetto di cultura ha un ambito di riferimento che travalica il mondo umano, e che anzi ne mette in questione i confini. Al contrario, la nozione di civiltà è servita piuttosto a discriminare: tra l'Occidente e le società extraeuropee, tra un gruppo di società (e di culture) considerate superiori e quelle rimaste a uno stato 'primitivo', tra certi strati sociali che guidano il processo di civilizzazione (nel senso di Elias) e altri che cercano di adeguarvisi o ne sono emarginati, tra certe forme di attività cui viene attribuito un valore intrinseco e altre ritenute strumentali. Non già che una funzione del genere sia, di per sé, illegittima; forse, in certi momenti, può anche essere preziosa. Ma non è una funzione che rientri nei compiti specifici delle scienze sociali, o che possa essere assolta con i loro strumenti metodologici. (V. anche Cultura; Evoluzione culturale; Società di massa).
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