Società di massa
Le ricerche sui gruppi i cui membri agiscono in modo simile pur non essendo i gruppi medesimi strutturati hanno fatto emergere una sottodisciplina denominata, in contrapposizione alla psicologia dell'individuo, 'psicologia della massa'. Tale sottodisciplina, sviluppatasi a partire dagli studi pionieristici di Gustave Le Bon, Gabriel Tarde e Scipio Sighele, si basa sull'ipotesi euristica che quando l'individuo si trova coinvolto emotivamente in una folla, la sua psiche e la sua condotta subiscono profonde modificazioni e persino alterazioni patologiche. Diverso il significato del termine 'massa' nelle teorie elitistiche, dove esso sta a indicare tutti coloro che non svolgono funzioni direttive e che costituiscono il materiale umano su cui si esercita l'influenza delle minoranze creative, protagoniste del processo storico. Si entra, invece, nella specifica problematica delle teorie della società di massa quando con il termine massa si intende la totalità dei cosiddetti 'uomini-massa', che sono individui senza radici, esclusi da qualsiasi tipo di comunità e, come tali, condannati all'alienazione. In questa accezione, la massa si contrappone alla classe in quanto risulta priva di omogeneità culturale, di solidarietà interna e di autocoscienza. 'Massa' è anche detta la moltitudine indifferenziata degli anonimi destinatari dei messaggi elaborati e diffusi dai mezzi di comunicazione di massa (stampa, radio, televisione) o l'insieme dei non-qualificati a fronte dei gruppi formati da individui selezionati e qualificati. Infine, 'società di massa' è un'espressione adoperata per indicare una società iperorganizzata, dove, in nome degli imperativi impersonali della razionalità funzionale, la vita quotidiana è stata pianificata in tutte le sue espressioni fino ad assumere le forme di una gigantesca macchina.
Di fronte a una tale polisemia, non pochi studiosi hanno proposto la soppressione dell'espressione 'società di massa'; tanto più che essa è così pregna di pregiudizi ideologici e di connotazioni negative da risultare inutilizzabile per una descrizione wertfrei del mondo contemporaneo. E tuttavia il concetto di società di massa continua a essere presente con notevole frequenza nella letteratura sociologica per indicare tachigraficamente i tratti diacritici della moderna civiltà industriale. D'altra parte, sembra difficile espungere completamente la categoria della società di massa, poiché essa è strettamente legata ad alcune delle più penetranti analisi della dirompente irruzione dei movimenti totalitari (bolscevismo, fascismo, nazismo) che fra le due guerre ha dato inizio all'"era delle tirannidi" (E. Halévy). Sicché, anche coloro che hanno duramente criticato le teorie della società di massa, hanno dovuto convenire che ad esse va riconosciuto il merito di aver cercato di individuare le cause profonde, strutturali e culturali del subitaneo collasso di quello che Stefan Zweig chiamò il "mondo della sicurezza", animato dalla fede in un progresso ininterrotto e dalla convinzione che la vittoria della ragione illuministica avrebbe reso ormai impossibile ogni forma di estremismo politico.
Se le prime teorie della società di massa sono state elaborate per dare ragione dell'insorgenza, improvvisa quanto sconvolgente, dei movimenti totalitari, successivamente esse sono state utilizzate per mettere sotto accusa il capitalismo opulento e le sue caratteristiche forme di vita. Alla 'nostalgia del mondo della sicurezza' ha fatto seguito la 'nostalgia del totalmente altro', tipica degli intellettuali a vocazione profetico-rivoluzionaria, che è sfociata in un rifiuto globale della civiltà moderna, percepita come il trionfo della meccanizzazione, della razionalità strumentale, della manipolazione universale e della tecnologia scientifica. Tale, soprattutto, l'immagine della moderna società industriale che è stata proposta dalla Scuola di Francoforte, i cui più influenti rappresentanti - Theodor W. Adorno, Max Horkheimer e Herbert Marcuse - hanno rimproverato alla democrazia liberale di essere esattamente il contrario di quello che pretende di essere, opponendole un modello di organizzazione sociale concepito come piena realizzazione della razionalità sostanziale e dei valori del socialismo. In tal modo, la categoria della società di massa ha subito una trasformazione radicale: da arma spirituale della critica reazionaria della democrazia si è convertita in arma spirituale della critica progressista del capitalismo. Tuttavia, anche nella sua versione di sinistra essa ha mantenuto inalterato il suo significato di condanna della Zivilization (civiltà materiale) in nome della Kultur (civiltà spirituale). Ciò ha indotto Daniel Bell a negare ogni valore scientifico alla teoria della società di massa e a vedervi nient'altro che una ideologia di protesta romantica contro la civiltà industriale. Lo stesso Bell, peraltro, ha riconosciuto che il concetto di società di massa è in qualche modo indispensabile per descrivere il fenomeno dell'inserimento delle classi lavoratrici in strutture sociali dalle quali in passato erano escluse e per analizzare le strategie adottate dalle democrazie occidentali al fine di garantire alla maggioranza della popolazione un elevato tasso di partecipazione nel quadro delle istituzioni della civiltà liberale.
L'ingresso delle masse quali protagoniste della scena sociale è stato il fenomeno più rilevante degli ultimi due secoli. A una civiltà rigorosamente aristocratica, basata sull'esclusione istituzionalizzata delle classi lavoratrici, è subentrata, per tappe successive e grazie soprattutto alle conseguenze di lungo periodo della rivoluzione industriale, una civiltà caratterizzata dalla fruizione, da parte di categorie sociali sempre più ampie, di quei beni - merci, servizi, conoscenze, diritti, ecc. - che nelle società preindustriali erano patrimonio esclusivo di esigue minoranze. Tale processo di integrazione progressiva degli esclusi, che Karl Mannheim ha proposto di chiamare "democratizzazione fondamentale", è stato percepito dalle classi privilegiate come un fenomeno che avrebbe portato inevitabilmente alla degradazione delle forme di vita della civiltà occidentale.
Già agli inizi dell'Ottocento Benjamin Constant teorizzava la necessità di escludere i non proprietari dalla fruizione dei diritti politici per impedire la distruzione dello Stato costituzionale e il trionfo della tirannide. Non diversa la preoccupazione che assillò Jacob Burckhardt, e che lo portò a pronosticare l'avvento dei "terribili semplificatori", i quali, con la loro politica iperdemagogica tesa ad abbattere le istituzioni liberali, avrebbero raso al suolo tutto ciò che per secoli aveva rappresentato l'orgoglio dell'Europa: la libertà, la razionalità, la Kultur. Qualche anno dopo gli faceva eco Friedrich Nietzsche, descrivendo il movimento democratico-socialista come una gigantesca "sollevazione della plebe e degli schiavi" che sarebbe sfociata, se non fosse stata energicamente contrastata, in un perverso ribaltamento della gerarchia naturale dei valori. Con il suffragio universale, la "morale degli inferiori" avrebbe trionfato sulla "morale dei signori" e ciò avrebbe portato non solo all'"universale abbrutimento dell'Europa", ma anche alla "degenerazione complessiva dell'umanità". Contro una siffatta prospettiva, Nietzsche auspicò la creazione di una "razza di dominatori, i futuri signori della terra: una nuova, enorme aristocrazia edificata sulla più dura autolegislazione", in cui sarebbe stata "conferita una durata di millenni alla volontà di violenti uomini filosofici e di tiranni artisti; una specie superiore di uomini che, grazie alla loro sovrabbondanza di volontà, sapere, ricchezza e influsso", si sarebbero serviti "dell'Europa democratica per prendere in mano le sorti della terra, per plasmare, come artisti, l'uomo stesso" (cfr. La volontà di potenza, Milano 1992, p. 517). E auspicò altresì la costituzione di un nuovo partito - il "partito della vita" - che avrebbe realizzato la più grande di tutte le missioni: "l'allevamento dell'umanità al superamento di se stessa, includendovi l'inesorabile annientamento di tutto ciò che era degenere e parassitario" (cfr. Ecce homo, Milano 1997, p. 51).
Se Constant, Burckhardt e Nietzsche espressero le apprensioni tipiche delle classi privilegiate di fronte all'ascesa sociale delle masse lavoratrici, Le Bon le elaborò in modo sistematico in alcuni volumi, di cui il più noto è la Psicologia delle folle. Dopo aver analizzato con notevole acume psicologico l'"anima collettiva" della folla, concepita come una realtà riscontrabile in tutte le società e in tutti i tempi, Le Bon concentra la sua attenzione sul ruolo che essa ha nella civiltà occidentale. Questa, a suo dire, è entrata in una fase patologica poiché, a partire dalla Rivoluzione francese, le folle, che un tempo apparivano episodicamente sulla scena della storia, sono diventate le protagoniste assolute sotto forma di masse permanentemente mobilitate dai sindacati e dai partiti socialisti, con il risultato che la politica ha cessato di essere un'attività razionale e responsabile ed è diventata azione cieca e distruttiva. Ormai, non si stanca di reiterare Le Bon, si è aperta l'"era delle folle", che altro non è che l'era dello strapotere delle classi lavoratrici, con le loro fantasie utopistiche, le loro ingenue idee di eguaglianza e di sovranità popolare e il loro peculiare modus operandi, tutto dominato da impulsi ciechi e irrazionali. E si è aperta altresì l'"era dei meneurs", che sono i capi naturali delle masse rozze e incolte, coloro che ne esprimono le credenze, le passioni e gli interessi e che, precisamente per questo, sono destinati a sostituire le tradizionali élites, con conseguenze rovinose per la cultura.
Al di là degli indubbi meriti scientifici, sottolineati soprattutto da Sigmund Freud nel saggio Psicologia delle masse e analisi dell'Io, l'opera di Le Bon costituisce la più tipica espressione ideologica dell'orrore aristocratico di fronte alla democrazia, identificata con il dominio, tirannico e distruttivo al tempo stesso, delle masse. L'idea che sta alla base della sua visione apocalittica del futuro dell'Europa è che l'ingresso delle classi popolari nell'arena politica rappresenta una terrificante minaccia per la civiltà in quanto tale. Tutto ciò che è personale, qualificato, elevato, razionale è destinato a essere spazzato via dall'avanzata delle masse. Queste faranno precipitare l'Europa nella barbarie in quanto, guidate da capi improvvisati e demagogici, instaureranno, in luogo del governo dei migliori, quel reggimento politico che Aristotele aveva chiamato oclocrazia.
A partire dagli anni trenta si assiste a una proliferazione di teorie della società di massa il cui principale obiettivo è quello di fornire una eziologia della travolgente irruzione dei movimenti totalitari sulla scena europea. Spetta a José Ortega y Gasset il merito di aver aperto la strada che sarebbe stata successivamente esplorata da Wilhelm Reich, Erich Fromm, Emil Lederer, Sigmund Neumann, Hannah Arendt e William Kornhauser. Nella sua Ribellione delle masse, destinata ad avere uno straordinario successo di pubblico, troviamo non pochi motivi tipici della critica aristocratica della democrazia, percepita come il predominio della quantità sulla qualità, del collettivo sull'individuo, dell'irrazionalità sulla razionalità. Ma troviamo altresì un'interpretazione del fascismo quale logico approdo dell'ascesa al pieno potere sociale delle masse. L'idea chiave su cui Ortega fonda la sua diagnosi della crisi in cui era precipitata l'Europa all'indomani della grande guerra è che lo sviluppo economico ha fatto emergere un nuovo tipo antropologico: l'uomo-massa. Presente in tutte le classi sociali, l'uomo-massa è diventato l'anonimo dominatore della scena europea, e si tratta di un dominatore esiziale per le istituzioni e i valori della civiltà liberale in quanto il suo specifico modo d'essere è caratterizzato dall'ermetismo spirituale, dal rifiuto del dialogo, dalla propensione all'azione diretta e dalla pretesa di imporre i suoi gusti e le sue preferenze al di fuori di ogni disciplina e autodisciplina. Ciò fa dell'uomo-massa una sorta di primitivo che si aggira in un mondo complesso la cui gestione richiede elevate qualità intellettuali e morali, mentre egli è un essere mediocre, volgare e privo di coscienza storica. In particolare, sfugge all'uomo-massa la percezione che una civiltà è un'accumulazione di esperimenti, di istituzioni, di conoscenze, di valori, insomma una tradizione culturale preziosa quanto fragile. L'assenza di coscienza storica fa dell'uomo-massa una sorta di "barbaro verticale", generato spontaneamente dalla rivoluzione industriale, dalla tecnologia scientificamente orientata e dalla democrazia. Ma - avverte Ortega - la democrazia senza una cultura del dialogo e dei limiti della giurisdizione potestativa della sovranità popolare è destinata a degenerare in statalismo onnivoro e autodistruttivo, come è attestato dalla strategia adottata dal fascismo al potere.
Tipico movimento di uomini-massa diretto da capi estemporanei e privi di coscienza storica, il fascismo, nella misura in cui intende instaurare il dominio totale dello Stato sulla società civile, è l'anti-Europa. Ciò che per secoli ha caratterizzato l'esperimento di vita collettiva compiuto nel "laboratorio europeo" è stato il pluralismo, vale a dire la coesistenza, competitiva e perfino conflittuale, di una molteplicità di forze sociali e culturali; il che ha impedito la reductio ad unum della società europea. Per contro il fascismo, non diversamente dal bolscevismo, è dominato dal progetto di rendere onnipotente lo Stato, di modo che nulla al di fuori di esso possa nascere e crescere. Il che, a giudizio di Ortega, rivela il senso profondo della "ribellione delle masse": il rifiuto dell'intera tradizione liberale in nome di un nazionalismo tribale e aggressivo che, qualora non venisse arginato da un vigoroso movimento europeista, farà precipitare i popoli d'Occidente in una insensata e autodistruttiva guerra fratricida.
Ancorché diversamente articolate e condotte con strumenti di analisi diversi da quelli utilizzati da Ortega, le teorie della società di massa elaborate da Reich, Fromm, Lederer, Neumann e Arendt nel ventennio successivo alla pubblicazione della Ribellione delle masse giungono tutte alla stessa conclusione; e cioè che i successi dei movimenti totalitari vanno spiegati tenendo costantemente presente il nuovo tipo antropologico apparso sulla scena europea fra le due guerre. In particolare, nelle Origini del totalitarismo della Arendt, che può essere considerata l'opera nella quale la problematica e le categorie ermeneutiche della letteratura sulla società di massa trovano la loro formulazione più organica e compiuta, si insiste sull'idea che il fenomeno del totalitarismo, sia nella versione comunista che in quella nazista, può essere compreso solo a partire dal processo di atomizzazione che ha trasformato le classi in masse. Essendo venute meno le pareti protettive delle classi, sono emerse le condizioni strutturali per la formazione dell'uomo-massa: un essere privo di relazioni sociali normali, di vincoli comunitari, di valori interiorizzati e, proprio per questo, irresistibilmente attratto dai movimenti totalitari, i soli capaci di soddisfare in qualche modo il suo bisogno di appartenenza. In aggiunta, gli effetti atomizzanti e alienanti della massificazione spontanea, generata dal collasso delle tradizionali strutture comunitarie, vengono intensificati dalla massificazione programmata dagli stessi movimenti totalitari, determinati ad annientare tutte le associazioni intermedie onde poter manipolare a piacimento il materiale umano su cui si esercita la loro smisurata volontà di dominio. L'analisi del peculiare linguaggio profetico adoperato da Hitler durante le oceaniche adunate organizzate dagli attivisti nazisti induce la Arendt a sottolineare con particolare vigore il fatto che uno degli aspetti più inquietanti dei movimenti totalitari è che in essi il leader svolge il ruolo di "funzionario delle masse". Egli può suggestionare e mobilitare le masse proprio in quanto ne incarna i desideri più profondi. Sicché il travolgente successo dei movimenti totalitari non è stato affatto un mero fenomeno congiunturale, bensì la manifestazione più spettacolare di un processo storico iniziato nell'Ottocento, il secolo in cui la rivoluzione industriale, trasformando le classi lavoratrici in plebe, ha preparato il terreno di coltura degli uomini-massa e dei loro leaders naturali: i costruttori della società totalitaria, vero e proprio laboratorio in cui si compiono esperimenti tesi a realizzare la mutazione biologica dell'umanità in nome del nichilistico principio 'tutto è possibile'.
Mentre a giudizio di Ortega y Gasset e di Hannah Arendt gli esiti totalitari della massificazione costituiscono una inversione della linea di sviluppo della civiltà occidentale, i 'teorici critici' della Scuola di Francoforte li interpretano come il naturale approdo della specifica logica che presiede al funzionamento della società capitalistico-borghese. La loro tesi centrale, non dissimile da quella formulata dall'Internazionale comunista, è che, dal momento che il passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista si è compiuto sulla base dello stesso ordinamento economico centrato sul mercato e sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, si può e si deve giungere alla conclusione che è il liberalismo stesso a generare il regime totalitario, il quale altro non è che l'organizzazione politica della società borghese corrispondente allo stadio monopolistico del capitalismo. L'instaurazione delle dittature fasciste, pertanto, non è affatto un incidente della storia, bensì un fenomeno iscritto nel codice genetico della moderna civiltà industriale. Ciò che, sin dalla nascita, ha caratterizzato quest'ultima è il progetto di estendere la logica della razionalità funzionale non solo alla natura, ma anche alla organizzazione sociale e agli esseri umani. Gli strumenti principali di questa smisurata volontà di dominio e di manipolazione della realtà sono la scienza, la tecnologia, la fabbrica, l'industria culturale e l'apparato statale. Grazie a essi, la modernità ha potuto materializzare il suo ideale: la società scientificamente amministrata, dove gli uomini stessi sono ridotti a cose fra le cose. Ed è appunto questo il totalitarismo: la reificazione universale.
Da questo punto di vista le differenze, se di differenze si può parlare, fra Stato liberale e Stato fascista sono minime. Entrambi perseguono un obiettivo: il dominio impersonale della razionalità strumentale su tutti i settori della vita. Inculcando, attraverso una intensa opera di indottrinamento, gli imperativi funzionali dell'organizzazione scientifico-tecnologica della produzione e della riproduzione della vita materiale, la società industriale fa sì che gli uomini sentano il dovere di agire secondo i criteri della razionalità strumentale; e ciò li trasforma in esseri spersonalizzati, atomizzati, reificati. Sicché, in definitiva, la massificazione degli uomini, che è la nota dominante della civiltà moderna, va imputata alla scienza, alla tecnologia e all'industrialismo. Tutte cose che possono essere riassunte in una parola: illuminismo.
Nella Dialettica dell'illuminismo Adorno e Horkheimer riconoscono che ciò che ha caratterizzato la filosofia dei Lumi è stato il progetto di liberare gli uomini, di emanciparli dalla superstizione e da tutto ciò che li opprimeva. Pure, nel razionalismo illuministico era già in germe il "nuovo tipo di barbarie" manifestatosi compiutamente nel XX secolo. Avendo identificato la ragione con la calcolabilità, l'illuminismo ha indicato una strada in fondo alla quale non poteva che esserci il "dominio livellatore dell'astratto", dunque una società matematizzata, ove la quantità ha sostituito in tutto e per tutto la qualità e gli individui, nella misura in cui anche le loro relazioni più intime cadono sotto la legge della reificazione, sono sottoposti a un perverso processo di disumanizzazione progressiva.
La lettura del processo di modernizzazione esposta nella Dialettica dell'illuminismo si fa più cupamente pessimistica con L'uomo a una dimensione di Marcuse, l'opera grazie alla quale le tesi della Scuola di Francoforte contribuirono a creare quella nuova sensibilità che sarebbe sfociata nella contestazione studentesca. Marcuse esordisce ribadendo che totalitario non è solo il dominio esercitato con il terrore e i campi di sterminio; totalitario è anche il dominio di una organizzazione tecnico-economica che opera mediante un'astuta manipolazione dei bisogni da parte degli interessi costituiti, la quale preclude per tale via l'emergere di un'opposizione efficace contro l'insieme del sistema. Il risultato di tale manipolazione universale, condotta con l'imponente strumentazione dell'industria culturale, è la formazione di un tipo antropologico non dissimile, nei suoi tratti essenziali, dall'"uomo eterodiretto" descritto in forma idealtipica da David Riesman nella Folla solitaria: l'"uomo a una dimensione", il quale, fruendo di una "confortevole e ragionevole non libertà", si è docilmente fatto integrare dal sistema. Ciò significa, a giudizio di Marcuse, che la concezione positivistica della ragione ha trionfato su tutta la linea: ha creato un universo totalitario non più terroristico bensì consensuale, animato dalla "illusione della sovranità popolare" e dominato da un mastodontico apparato tecnologico che è riuscito a trasformare il mondo intero in materia di amministrazione totale, assorbente in sé anche gli amministratori. La stessa classe operaia, cui Marx aveva assegnato la missione storica di abbattere il dominio del capitale, ha accettato la logica del sistema, rendendo così impensabile l'idea stessa di rivoluzione. In tal modo, l'ottimismo millenaristico di Ragione e rivoluzione, dove Marcuse, confidando sulla infinita potenza della "negazione dialettica tendente a demolire la realtà data", aveva intravisto la via della liberazione dalla società opulenta, cede il passo a una visione disperata e disperante del futuro dell'umanità, ormai irrimediabilmente prigioniera della 'gabbia d'acciaio' costruita dalla razionalità tecnologica. Di fronte alla società industriale avanzata, percepita come un mondo ermeticamente chiuso e ottusamente soddisfatto di sé, l'autore dell'Uomo a una dimensione non vede che una sola possibilità di riscatto morale per i pochi che sono riusciti misteriosamente a sfuggire agli effetti ottenebranti della manipolazione universale: il gran rifiuto.
Con The politics of mass society di William Kornhauser la teoria della società di massa si trasforma in una teoria generale dei requisiti sociali di una democrazia pluralista. Secondo il teorema fondamentale delle teorie elitistiche, la chiave per intendere la dinamica dell'esistenza storica delle società è la dialettica élites/masse. Combinando fra loro queste due variabili, Kornhauser costruisce quattro tipi ideali di società: a) la società tradizionale, caratterizzata dalla inaccessibilità delle élites (che sono aristocrazie tendenzialmente chiuse e isolate dalle masse) e dalla scarsa plasmabilità delle non élites, la cui vita è regolata da valori e norme rivestiti di sacertà e, come tali, dotati di una notevole solidità; b) la società pluralista, caratterizzata dall'accessibilità delle élites (resa possibile dalle istituzioni della democrazia rappresentativa e dal reclutamento del personale politico fra le classi subalterne) e dalla scarsa plasmabilità delle non élites, spontaneamente organizzate in una molteplicità di associazioni; c) la società totalitaria, caratterizzata dalla inaccessibilità delle élites e dalla completa plasmabilità delle masse su cui lo Stato e il partito rivoluzionario esercitano un controllo ideologico capillare; d) la società di massa, caratterizzata dall'accessibilità delle élites e dalla plasmabilità delle masse il cui comportamento, data la struttura atomistica degli aggregati che le compongono, è particolarmente instabile.Alla luce di questa tipologia si può dire che il tratto fondamentale e decisivo della società di massa è la presenza di un doppio movimento: dal basso verso l'alto (massificazione delle élites) e dall'alto verso il basso (manipolazione delle masse).
E si può altresì dire che essa si presenta come un tipo di società in bilico fra la società totalitaria e la società pluralista. Richiamandosi esplicitamente alle celebri analisi di Tocqueville della democrazia moderna, Kornhauser pone l'accento sul fatto che l'assenza di un'articolata struttura di corpi intermedi facilita l'isolamento dei gruppi primari e lascia il campo libero allo Stato, il cui interventismo diventa sistematico e onnipervasivo. Accade così che il cittadino può partecipare alla vita politica solo per il tramite delle strutture dello Stato e/o di altre organizzazioni di dimensioni nazionali. Queste, diventando sempre più centralizzate e burocratizzate, contribuiscono potentemente alla creazione di "folle solitarie". Tanto più che l'esposizione ai mass media, ove le associazioni intermedie risultino assenti o assai deboli, facilita l'atomizzazione del corpo sociale. Donde il rafforzamento di quella che Max Weber giudicava essere l'inclinazione tipica della democrazia di massa: la selezione cesaristica dei capi attraverso l'acclamazione plebiscitaria.
In definitiva, per Kornhauser la società di massa va considerata come un assetto sociale anomico che emerge quando le tradizionali comunità di base franano e, conseguentemente, vengono meno le loro funzioni coesive e protettive. Allora si manifesta una spersonalizzante uniformità di stili di vita e un generale appiattimento dell'orografia intellettuale e morale, ma non verso l'alto, bensì verso il basso. Sicché i confini che dividono le élites dalle masse diventano sempre più confusi, senza che ciò porti a un elevamento delle masse; anzi, si palesa la tendenza delle élites ad abbassarsi, a diventare masse esse stesse. Si ha invece una democrazia pluralista quando le associazioni intermedie sono così numerose e solide da impedire l'isolamento degli individui e da rendere possibile un'ampia e multiforme partecipazione alla vita politica e culturale non necessariamente mediata dalle strutture burocratiche statali. Ove la società civile si presenta come un sistema di poteri e contropoteri in grado di autoregolarsi, gli attori sociali possono sfuggire alla manipolazione dei mass media e dei demagoghi e agire come cittadini consapevoli dei loro diritti e muniti degli strumenti indispensabili per esercitarli. Allora, e solo allora, la tendenza al conformismo e al dispotismo della maggioranza, che è tipica della società di massa, viene frenata e la pianta-libertà trova il suo più appropriato terreno di coltura.
A partire dal momento in cui il 'proletariato interno' della società capitalistico-borghese, organizzato in sindacati e partiti, ha preso a premere per ottenere i pieni diritti di cittadinanza è emerso un ineludibile interrogativo: è possibile estendere alle classi inferiori una cultura superiore senza che questa degradi sino a perdere irrimediabilmente le sue proprietà? Con questo interrogativo non si sono misurati solo i teorici della società di massa, ma anche gli studiosi che hanno affrontato il problema del radicamento delle istituzioni liberal-democratiche e dello sviluppo dell'individualismo in una società nella quale le tradizionali agenzie di socializzazione sono state, in tutto o in parte, sostituite dai mezzi di comunicazione di massa. Ne è scaturito quello che è stato definito un "dibattito interminabile e feroce" (B. Rosenberg), il quale negli ultimi decenni si è concentrato sulla onnipervasiva influenza della televisione, il più potente strumento di socializzazione del mondo contemporaneo. All'ottimistica visione dei socialisti e dei radicali, che davano per scontata la formazione, a mano a mano che il processo di democratizzazione fondamentale avanzava, di una 'cultura proletaria' di rango superiore alla 'cultura borghese', si è progressivamente sostituita una visione pessimistica, o quanto meno assai problematica, della 'cultura di massa'. Laddove la cultura popolare delle società tradizionali era una produzione spontanea e perciò autentica delle classi subalterne, la cosiddetta masscult, tipica delle società che sono entrate nella fase del consumo di massa, si presenta come un prodotto artificiale, costruito in un laboratorio da tutti coloro che maneggiano i potenti strumenti dell'industria culturale. Essi sono quelli che Vance Packard ha definito i "persuasori occulti", veri e propri manipolatori di professione, dominati da una preoccupazione assorbente: vendere il prodotto da loro confezionato a una massa di acquirenti la più vasta possibile.
Di qui la mediocre qualità dei programmi televisivi. Ideati per un pubblico composto da milioni di anonimi consumatori, essi devono di necessità presentare caratteristiche tali da risultare adatti alla psicologia e ai gusti dell'uomo medio. D'altra parte, proprio perché così concepiti, i programmi televisivi tendono a mantenere l'uomo medio entro il recinto di una cultura standardizzata, fatta di stereotipi e di luoghi comuni e trasmessa utilizzando moduli espressivi banali se non addirittura triviali. Per questo la televisione è stata accusata, persino da studiosi per nulla inclini a demonizzare la civiltà occidentale, di essere una "cattiva maestra" (K.R. Popper) e di fomentare la transizione dal 'mondo delle cose lette' al 'mondo delle cose viste', dominato da parte a parte dalla video-cultura e dal video-potere. Per la prima volta nella storia dell'umanità la realtà non è più raccontata, bensì fatta percepire in presa diretta. Ma ciò non significa che la realtà che viene mostrata sia la realtà oggettiva, senza alcuna aggiunta estranea. Tutto il contrario: è una realtà, quella che scorre davanti allo sguardo distratto del telespettatore, inevitabilmente selezionata, manipolata, costruita; una realtà, insomma, che ha solo la parvenza dell'oggettività. Ciò ha portato Giovanni Sartori a paventare la sostituzione quasi completa dell'homo sapiens con l'homo videns, quindi l'avvento di un 'animale oculare' che sa solo quello che vede, che vede senza sapere e che, di conseguenza, è un essere la cui struttura mentale non è più intessuta di concetti, bensì solo di immagini.
Ancora e sempre ci troviamo di fronte alla presenza di quel tipo antropologico - l'uomo-massa - conformista, passivo e ipermanipolabile che tante apprensioni ha suscitato sin dal suo primo apparire. Tanto più che i grandi mezzi di comunicazione di massa sono proprietà dei 'signori dell'economia', i quali, per ciò stesso, dispongono di un formidabile potere occulto. Il che, naturalmente, non può non suscitare inquietanti interrogativi sul destino della democrazia liberale o, quanto meno, sulla sua capacità di allevare nel suo seno milioni di individui autodiretti, in grado di esercitare i loro diritti politici in modo critico e razionale. D'altra parte, è indubbio che è proprio attraverso i mass media che le classi subalterne sono state strappate alla cultura 'parrocchiale' e messe a contatto con i prodotti di una cultura a carattere sempre più cosmopolita. In definitiva, tutto sembra indicare che i mass media presentano una ineliminabile ambivalenza. Grazie a essi, la cultura superiore ha cessato di essere patrimonio esclusivo delle élites ed è stata democratizzata; ma, contemporaneamente, essi sono i principali imputati del trionfo della mediocrità standardizzata. Il che costringe a pensare che il grido d'allarme lanciato dai primi teorici della società di massa non esprimeva solo la loro retriva nostalgia per l'antico regime, bensì attirava l'attenzione su quello che continua a essere il grande tema della moderna civiltà industriale: la creazione di una cultura al tempo stesso di massa e di qualità. (V. anche Democrazia; Pluralismo; Totalitarismo).
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