Democrazia
Il termine democrazia compare per la prima volta in Erodoto e sta per dire, traducendo letteralmente dal greco, potere (kratos) del popolo (demos). Ma dal III secolo a.C. al XIX secolo 'democrazia' ha subito una lunga eclisse. L'esperienza delle democrazie antiche fu relativamente breve ed ebbe un decorso degenerativo. Aristotele classificò la democrazia tra le cattive forme di governo, e la parola democrazia divenne per oltre duemila anni una parola negativa, derogatoria. Per millenni il regime politico ottimale venne detto 'repubblica' (res publica, cosa di tutti), non democrazia. Kant ripeteva una comune opinione quando scriveva, nel 1795, che la democrazia "è necessariamente un dispotismo"; e dello stesso avviso erano i padri costituenti degli Stati Uniti. Nel Federalista Hamilton parla sempre di "repubblica rappresentativa", mai di democrazia (salvo che per condannarla). Anche la Rivoluzione francese si richiamava all'ideale repubblicano, e solo Robespierre, nel 1794, usò 'democrazia' in senso elogiativo, assicurando così la cattiva reputazione della parola per un altro mezzo secolo. Com'è che d'un tratto, dalla metà del XIX secolo in poi, la parola torna in auge e man mano acquista un significato apprezzativo? La risposta - vedremo - è che la democrazia dei moderni, la democrazia che pratichiamo oggi, non è quella degli antichi.Oggi 'democrazia' è una abbreviazione che sta per liberal-democrazia. E mentre il discorso sulla democrazia degli antichi è relativamente semplice, il discorso sulla democrazia dei moderni è complesso. Separiamone tre aspetti. Per un primo rispetto la democrazia è un principio di legittimità. Per un secondo, la democrazia è un sistema politico chiamato a risolvere problemi di esercizio (non soltanto di titolarità) del potere. Per un terzo, la democrazia è un ideale.
1. La democrazia come principio di legittimità è anche l'elemento di continuità che collega il nome greco con la realtà del XX secolo. La legittimità democratica postula che il potere deriva dal demos, dal popolo, e che si fonda sul consenso 'verificato' (non presunto) dei cittadini. La democrazia non accetta auto-investiture, e tantomeno accetta che il potere derivi dalla forza. Nelle democrazie il potere è legittimato (nonché condizionato e revocato) da libere e ricorrenti elezioni. Fin qui, peraltro, abbiamo stabilito soltanto che il popolo è titolare del potere. E il problema del potere non è soltanto di titolarità; è soprattutto di esercizio.
2. Finché un'esperienza democratica si applica a una collettività concreta, di presenti, di persone che interagiscono faccia a faccia, fino a quel momento titolarità ed esercizio del potere possono restare congiunti. In tal caso la democrazia è davvero autogoverno. Ma in quanti ci possiamo davvero autogovernare? Gli Ateniesi che deliberavano in piazza si aggiravano, si stima, tra i mille e i duemila. Ma se e quando il popolo diventa di diecine o anche di centinaia di milioni di persone, qual è l'autogoverno che ne può risultare?
È il problema risollevato, negli anni sessanta, dal rilancio della formula della democrazia 'partecipativa'. Il cittadino partecipante è il cittadino che esercita in proprio, per la quota che gli spetta, il potere di cui è titolare. L'esigenza di stimolare la partecipazione del cittadino è sacrosanta. La domanda resta: quanto grande, o quanto piccola, è la quota di esercizio del potere che spetta al cittadino che si autogoverna? Un quarantamilionesimo? Un centomilionesimo? John Stuart Mill (v., 1859; tr. it., p. 26) esattamente osservava che l'autogoverno in questione non è, in concreto, "il governo di ciascuno su di sé, ma il governo su ciascuno da parte di tutti gli altri", e ne ricavava che il problema non era più - nella democrazia estesa ai grandi numeri - di autogoverno, sebbene di limitazione e controllo sul governo. Inutile illudersi: la democrazia 'in grande' non può che essere una democrazia rappresentativa che disgiunge la titolarità dall'esercizio per poi ricollegarli a mezzo dei meccanismi rappresentativi di trasmissione del potere. L'aggiunta di taluni istituti di democrazia diretta - quali il referendum e l'iniziativa popolare delle leggi - non toglie che le nostre siano democrazie indirette governate da rappresentanti.
3. A questa constatazione si può rispondere che la democrazia come è (nel fatto) non è la democrazia come dovrebbe essere, e che la democrazia è, prima di tutto e sopra tutto, un ideale. Tale è, in larga misura, la democrazia come autogoverno, come governo del popolo in persona propria su se stesso. Tale è la democrazia egualitaria, e cioè ricondotta a un ideale generalizzato di sempre maggiore eguaglianza. Un elemento ideale o normativo è davvero costitutivo della democrazia: senza tensione ideale una democrazia non nasce e, una volta nata, rapidamente si affloscia. Più di qualsiasi altro regime politico la democrazia va controcorrente, contro le leggi inerziali che governano gli aggregati umani. Le monocrazie, le autocrazie, le dittature, sono facili, ci cascano addosso da sole; le democrazie sono difficili, debbono essere promosse e 'credute'.
Posto che senza democrazia ideale non vi sarebbe democrazia reale, il problema diventa: com'è che gli ideali si rapportano alla realtà, com'è che un dover essere si converte in essere? Gran parte del dibattito sulla democrazia verte, più o meno consapevolmente, su questa domanda. Se fosse realizzato, un ideale non sarebbe più tale. E tanto più una democrazia si democratizza, tanto più la posta sale. Ma fino a che punto può esser alzata? L'esperienza storica insegna che a ideali smisurati corrispondono sempre catastrofi pratiche. Comunque sia, in nessun caso la democrazia così com'è (definita descrittivamente) coincide, né coinciderà mai, con la democrazia per come vorremmo che fosse (definita prescrittivamente). La distinzione testé menzionata tra democrazia in senso descrittivo e democrazia in senso prescrittivo è importante non solo perché centra il dibattito sulla democrazia, ma anche perché ci aiuta a impostarlo correttamente. Dopo la seconda guerra mondiale si è sostenuto che le democrazie sono due, che al tipo occidentale si contrapponeva una democrazia 'popolare' più autentica. L'autodeflagrazione, tra il 1989-1991, dei sistemi comunisti dell'Est europeo e dello stesso regime sovietico ha risolto la questione: la cosiddetta democrazia 'reale' (comunista) tale non era. Ma è pur sempre importante capire com'è che la tesi delle 'due democrazie' sia stata dimostrata e creduta. Una corretta impostazione avrebbe richiesto un confronto tra i due casi condotto - giusta la distinzione tra prescrizioni e descrizioni - due volte: una volta tra gli ideali, e una volta tra i fatti. Ma i sostenitori della democrazia comunista hanno invece incrociato le accoppiate, paragonando gli ideali (non realizzati) del comunismo con i fatti (e i misfatti) delle democrazie liberali. In questo modo si vince sempre; ma solo sulla carta. La democrazia alternativa dell'Est era un ideale senza realtà. La sola democrazia che esiste e che merita questo nome è la democrazia liberale.
Da sempre la parola democrazia ha indicato una entità politica, una forma di Stato e di governo; e questa resta l'accezione primaria del termine. Ma siccome oggi parliamo anche di democrazia sociale e di democrazia economica, è bene stabilire subito che cosa di volta in volta s'intenda.La nozione di democrazia sociale si pone con Tocqueville nella sua Democrazia in America. Visitando gli Stati Uniti nel 1831 Tocqueville fu soprattutto colpito da uno 'stato della società' che l'Europa non conosceva. Si ricordi che a livello di sistema politico gli Stati Uniti si dichiaravano allora una repubblica, non ancora una democrazia. E dunque Tocqueville percepì la democrazia americana in chiave sociologica, come una società caratterizzata da eguaglianza di condizioni e prepotentemente guidata da uno 'spirito egualitario'. In parte quello spirito egualitario rifletteva l'assenza di un passato feudale; ma esprimeva anche una caratteristica profonda dello spirito americano. Democrazia non è dunque, qui, il contrario di regime oppressivo ma di 'aristocrazia': una struttura sociale orizzontale al posto di una struttura sociale verticale. Dopo Tocqueville è segnatamente Bryce che meglio raffigura la democrazia come un ethos, un modo di vivere e convivere, e quindi come una generale condizione della società. Per Bryce (v., 1888) democrazia è sì, prioritariamente, un concetto politico. Ma anche per lui la democrazia americana era caratterizzata da 'eguaglianza di stima', da un ethos egualitario che si risolveva nell'eguale valore che le persone si riconoscono l'un l'altra. Nell'accezione originaria della dizione, dunque, 'democrazia sociale' denota una 'democratizzazione fondamentale', una società il cui ethos richiede ai propri membri di vedersi e trattarsi come socialmente eguali.
Dall'accezione originaria si ricava facilmente un secondo significato di 'democrazia sociale': l'insieme delle democrazie primarie - piccole comunità e associazioni volontarie concrete - che innervano e alimentano la democrazia a livello di base, a livello di società civile. In questo riferimento una dizione pregnante è quella di 'società multi-gruppo', strutturata in gruppi volontari che si autogovernano. Qui, dunque, democrazia sociale sta per l'infrastruttura di microdemocrazie che fa da supporto alla macrodemocrazia d'insieme, alla sovrastruttura politica. Di recente si è affermato anche un uso generico di 'democrazia sociale', che si affianca alle nozioni altrettanto generiche di Stato sociale e di giustizia sociale. Se tutto è, o deve essere, 'sociale', occorre che anche la democrazia lo sia. A detta di Georges Burdeau (v., 1977, p. 54), "la democrazia sociale mira all'emancipazione dell'individuo da tutte le catene che lo opprimono". Ma lo stesso può essere detto dello Stato sociale, dello Stato di giustizia, dello Stato del benessere, di 'democrazia socialista' e anche, ovviamente, dell'eguaglianza. E dunque l'accezione generica poco o nulla aggiunge al discorso.
'Democrazia economica' è, a prima vista, dizione che si spiega da sola. Ma solo a prima vista. Dal momento che la democrazia politica fa pernio sull'eguaglianza giuridico-politica, e che la democrazia sociale verte primariamente sull'eguaglianza di status, in questa sequenza democrazia economica sta per eguaglianza economica, per il pareggiamento degli estremi della povertà e della ricchezza, e quindi per ridistribuzioni che perseguono un benessere generalizzato. Questa è l'interpretazione che potremmo dire intuitiva della dizione. Ma 'democrazia economica' acquista un significato preciso e caratterizzante sub specie di 'democrazia industriale'.Il concetto risale a Sidney e Beatrice Webb (v., 1920), che nel 1897 scrissero Industrial democracy, una massiccia opera successivamente coronata a livello di sistema politico da una più smilza Constitution for the socialist commonwealth of Great Britain. Qui l'argomento è nitido. Democrazia economica è democrazia sul posto di lavoro e nell'organizzazione-gestione del lavoro. Nella società industriale il lavoro si concentra nelle fabbriche e dunque è nella fabbrica che occorre immettere la democrazia. Così al membro della città politica, al polites, subentra il membro di una concreta comunità economica, il lavoratore; e a questo modo si ricostituisce la microdemocrazia, o meglio s'instaura una miriade di microdemocrazie nelle quali si dà insieme titolarità ed esercizio del potere. Nella sua forma compiuta la democrazia industriale si configura dunque come l'autogoverno del lavoratore nella propria sede di lavoro, dell'operaio nella propria fabbrica; un autogoverno 'locale' che dovrebbe essere integrato a livello nazionale da una 'democrazia funzionale', e cioè da un sistema politico fondato su criteri di rappresentanza funzionale, di rappresentanza per mestieri e competenze.In pratica la democrazia industriale ha trovato la sua incarnazione più avanzata nell' 'autogestione' iugoslava, un'esperienza che è ormai da ritenere fallita in chiave economica e fallace in chiave politica; e trova oggi la sua progettazione più ardita, in Svezia, nel piano Meidner (che peraltro resta ancora un progetto). Di regola, e con maggior successo, la democrazia industriale si è assestata su formule di partecipazione operaia alla conduzione dell'azienda - la Mitbestimmung tedesca - e su pratiche istituzionalizzate di consultazione tra direzioni aziendali e sindacati. Una via alternativa è l'azionariato operaio, che può sì essere concepito e disegnato come una forma di democrazia industriale, ma che di per sé comporta comproprietà e partecipazione al profitto piuttosto che democratizzazione.
Democrazia economica si presta anche a essere intesa, generalissimamente, come la visione marxista della democrazia, in funzione della premessa che la politica e le sue strutture sono soltanto 'sovrastrutture' che riflettono un sottostante Unterbau economico. Che il molto discorrere di democrazia economica sia di lata ispirazione marxista, e cioè che discenda dall'interpretazione materialistica della storia, è fuor di dubbio. Tuttavia le 'teorie economiche della democrazia' propriamente dette e precisamente formulate, che esordiscono con Anthony Downs (v., 1957) e che sono poi state sviluppate, in genere, in chiave di social choice, di teoria delle scelte sociali, provengono da economisti, e non hanno alcun sottinteso marxista: si avvalgono di concetti e analogie della scienza economica per interpretare i processi politici (v. Buchanan e Tullock, 1962; v. Riker, 1982).Il fatto è che il marxismo - quanto meno da Marx a Lenin - gioca bene contro la democrazia che dichiara capitalistica e borghese; ma gioca male in casa propria, e cioè quando si tratta di spiegare quale sia la democrazia che rivendica per sé, la democrazia del comunismo realizzato. Lenin in Stato e rivoluzione dice e disdice; ma alla fine la sua conclusione è che il comunismo, abolendo la politica, abolisce al tempo stesso la democrazia. Nel testo che più fa testo, dunque, il marxismo non dispiega una democrazia economica. E il punto da ribadire è che democrazia economica e teoria economica della democrazia sono, a dispetto della prossimità delle dizioni, cose del tutto estranee l'una all'altra.Poste le distinzioni, qual è il rapporto tra democrazia politica, democrazia sociale e democrazia economica? Il rapporto è che la prima è la condizione necessaria delle altre. Le democrazie in senso sociale e/o economico estendono e completano la democrazia in senso politico; sono anche, quando esistono, democrazie più autentiche, visto che sono microdemocrazie, democrazie di piccoli gruppi. Peraltro, se non si dà democrazia a livello di sistema politico, le piccole democrazie sociali e di fabbrica rischiano a ogni momento di essere distrutte o imbavagliate. Per questo 'democrazia' senza qualificazioni sta per democrazia politica. Tra questa e le altre democrazie la differenza non è solo tra un'accezione stretta e un'accezione lata del concetto di democrazia; è soprattutto che la democrazia politica è sovraordinata e condizionante; le altre sono subordinate e condizionate. Se manca la democrazia maggiore facilmente mancano le democrazie minori. Il che spiega perché democrazia sia sempre stato un concetto preminentemente svolto e teorizzato a livello di sistema politico.
Esiste continuità tra democrazia degli antichi e democrazia dei moderni? Chi oggi rivendica l''ideale classico' di democrazia suppone di sì. Fermiamo, allora, le differenze e la distanza. La democrazia greca, così come veniva praticata in Atene nel corso del IV secolo a.C., incarna la massima approssimazione possibile del significato letterale del termine: il demos ateniese ebbe allora più kratos, più potere, di quanto ne abbia mai avuto qualsiasi altro popolo. Nell'agorà, nella piazza, i cittadini ascoltavano e poi decidevano per acclamazione. Tutto qui? No. La polis era sì un'entità relativamente semplice; ma non tanto semplice da risolversi senza residuo in un'assemblea cittadina (ekklesia). La componente assembleare, e per essa l'autogoverno diretto dei cittadini, costituiva la parte appariscente più che la parte efficiente della gestione della città. Intanto esisteva anche una bulè, un consiglio di 500 membri; e la sostanza risiedeva - secondo Aristotele - nel fatto che "tutti comandavano a ciascuno, e ciascuno comandava a sua volta a tutti" (Politica, 1317b), vale a dire in un esercizio del potere effettivamente e largamente distribuito mediante una rapida rotazione nelle cariche pubbliche. Anche così, 'tutti' non erano mai davvero tutti: nemmeno quando il totale è appena di 30.000 cittadini su una popolazione complessiva, al massimo, di 300.000. Eppure l'approssimazione si dava; e si dava perché la maggior parte delle cariche pubbliche era sorteggiata. Tutti si autogovernavano a turno, dunque, nell'accezione probabilistica del termine, in chiave di eguali probabilità. Più e meglio di così, in sede di diffusione generalizzata di esercizio del potere, non si saprebbe davvero come fare.
Ciò posto, giova inquadrare la democrazia degli antichi nella classica tripartizione aristotelica delle forme di governo: governo di uno, dei pochi, dei molti. Per Aristotele la democrazia è la forma corrotta del governo dei molti: tale perché nella democrazia i poveri governano nell'interesse proprio (invece che nell'interesse generale). La democrazia definita come "governo dei poveri a proprio vantaggio" ci colpisce come una straordinaria anticipazione di modernità, come una visione socioeconomica di democrazia. Ma non è così. Intanto, potrebbe sembrare che Aristotele arrivi ai poveri perché i più, i molti, sono poveri. Ma Aristotele avverte che una democrazia sarebbe tale anche se i poveri fossero in minor numero. Il punto è che l'argomento è logico. Aristotele costruisce la sua tipologia complessiva su due criteri: il numero dei governanti, più l'interesse che essi servono (generale o proprio). Così il governo di uno si sdoppia in monarchia (buona) e tirannide (cattiva); il governo dei pochi in aristocrazia (buona) e oligarchia (cattiva perché governo dei ricchi a proprio vantaggio); e il governo dei molti in politeia (buona) e democrazia (cattiva). Quella di Aristotele non era dunque una definizione economica della democrazia, ma uno dei tre casi possibili di malgoverno, di governo nell'interesse proprio.
Meccanismo logico a parte, Aristotele registrava la parabola degenerativa dell'esperienza greca. All'inizio la democrazia era isonomia (che Erodoto, Storie, III, 80, dichiarava, alla metà del V secolo a.C., "il nome di tutti più bello"), eguali leggi, regole eguali per tutti: il che sottintendeva un governo delle leggi (così Aristotele, Politica, 1287a: "è preferibile che governi il nomos, più che qualunque cittadino"). Ma a un secolo da Erodoto il demos aveva già travolto il nomos facendo e disfacendo leggi a suo piacimento; cosicché alla fine troviamo soltanto una città polarizzata e spaccata dal conflitto tra poveri e ricchi. La democrazia ateniese finisce, diremmo noi, nella lotta di classe. Ed è un esito che non sorprende. Il cittadino era tale a tempo pieno. Ne risultava un'ipertrofia della politica in corrispondenza di un'atrofia dell'economia. Il 'cittadino totale' creava un uomo sbilanciato. Da quanto sopra si evince che la democrazia indiretta, e cioè rappresentativa, non è soltanto un'attenuazione della democrazia diretta; ne è anche un correttivo. Un primo vantaggio del governo rappresentativo è che un processo politico tutto intessuto di mediazioni consente di sfuggire alle radicalizzazioni elementari dei processi diretti. E il secondo vantaggio è che la partecipazione non è più una conditio sine qua non; anche senza 'partecipazione totale' la democrazia rappresentativa pur sempre sussiste come sistema di controllo e di limitazione del potere. Il che consente alla società civile, intesa come società prepolitica, come sfera autonoma e autosufficiente, di dispiegarsi come tale. Insomma, il governo rappresentativo libera a fini extrapolitici, di attività economica o altra, l'enorme insieme di energie che la polis assorbiva nella politica. Chi torna oggi a esaltare la democrazia partecipativa non ricorda che nella città antica al lavoro attendevano gli schiavi e che la polis sprofondò in un vortice di troppa politica.
La differenza tra democrazia diretta dei Greci e democrazia rappresentativa dei moderni è anche, e forse ancor più, differenza di distanza storica. Per cogliere questa distanza si deve guardare a quel che nel IV secolo a.C. ancora non c'era, rispetto a quel che si aggiunge dopo, alle acquisizioni successive. Cominciando dalla teoria della sovranità popolare, che è di elaborazione medievale e che si rifà al diritto pubblico romano. Possibile che la nozione di sovranità popolare fosse ignota ai Greci? Dopotutto - si potrebbe osservare - la loro democrazia diretta era l'esatto equivalente di un sistema interamente risolto nella sovranità popolare. Appunto: siccome la loro sovranità popolare era tutto e riassorbiva tutto, proprio per questo la nozione non venne scorporata. Inoltre, il populus dei Romani non era il demos dei Greci. Tra l'altro, nella misura in cui il demos di Aristotele e anche di Platone si identificava con i poveri, nella stessa misura quel demos non era l'intero (l'insieme di tutti i cittadini), ma una parte dell'intero; laddove il populus dei Romani erano tutti, e per di più un tutto estendibile, man mano che populus diventava un concetto giuridico, extra moenia, al di fuori delle mura della città. Così mentre il demos finiva con la fine della piccola città, il populus si poteva estendere per quanto si estendeva lo spazio della res publica.Comunque sia, il punto è che la dottrina della sovranità popolare pone la distinzione - ignota ai Greci - tra titolarità ed esercizio del potere, e trova la sua distintività e ragion d'essere nel contesto di quella distinzione. Per i Greci titolarità ed esercizio erano la stessa cosa: la distinzione non era per loro necessaria. Lo stesso valeva per i 'barbari'. Il mondo che attorniava i Greci, e che finì per travolgerli, poteva soltanto essere, ai loro occhi, un mondo ferreamente sottoposto al dispotismo. E la distinzione tra titolarità ed esercizio del potere è tanto irrilevante nel contesto dei regimi dispotici - quale l'Impero persiano - quanto lo è nel contesto di una democrazia diretta.
Ma la prospettiva dei giuristi medievali era diversa. È vero che anche la repubblica dei Romani era finita in dispotismo, nella sottomissione del populus al princeps, agli imperatori. Ma per lungo tempo i Romani erano stati, a loro modo, liberi. Pertanto i glossatori medievali non potevano accettare l'inevitabilità del dispotismo così come l'avevano intesa i Greci. E la dottrina della sovranità popolare emerge nel contesto di un dominio dispotico che non poteva più essere visto come 'naturale'. Per un verso doveva essere legittimato; per l'altro poteva essere limitato. Nel Digesto Ulpiano aveva stabilito che quod principi placuit, legis habet vigorem (D. I. 4,1), che quel che piace al principe diventa legge; ma diceva anche che il principe ha tale potestà perché il popolo gliel'ha conferita.Conferita in che modo, a che titolo? Per gli uni - noi diremmo i fautori dell'assolutismo - tra popolo e principe era avvenuta una translatio imperii, e cioè un trasferimento non revocabile del potere del popolo al principe. Per gli altri (invero una minoranza), non c'era translatio, ma solo concessio imperii: la trasmissione era solo di esercizio, non di titolarità; e il titolare, il popolo, 'concedeva' tale esercizio mantenendo il diritto di revocarlo. L'essenziale resta che sia per gli uni come per gli altri la titolarità del potere non nasceva nel principe e con lui: gli veniva da trasferimento o concessione del popolo.Poco importa che per secoli e secoli abbiano operato, nel fatto, regimi di translatio. Anche così in teoria erano già poste le premesse che consentivano di superare la microdemocrazia cittadina, e di attuare sistemi a legittimazione democratica nei quali il titolare del potere, il popolo, si limita a 'concedere' l'esercizio. Nel Defensor pacis di Marsilio da Padova, nella prima metà del XIV secolo, quel disegno è già precisato: il potere di fare le leggi, che è il potere principale, spetta unicamente al popolo o alla sua valentior pars, che concede ad altri, alla pars principans, soltanto il potere (revocabile) che noi diremmo esecutivo, il potere di governare nell'ambito della legge.
Che il principio di maggioranza fosse ignoto ai Greci può stupire non meno della tesi che essi ignorassero il principio della sovranità popolare. Si capisce che nell'ekklesia vinceva, di fatto, il voto o l'acclamazione dei più; ma quel fatto era un espediente pratico lasciato passare senza riconoscimento ufficiale, senza una dottrina di sostegno. Fino a Locke il principio sostenuto dalla dottrina è stato l'unanimità, non il diritto della maggioranza di prevalere su una o più minoranze. Restando alla polis, occorre capire bene che l'unità politica dei Greci non era una città-Stato (e ancor meno uno Stato nell'accezione moderna del termine) ma una città-comunità, una koinonia, un'autentica Gemeinschaft nella quale i cittadini vivevano in simbiosi con la loro città, alla quale erano avvinti non solo da un comune destino di vita e di morte (i vinti venivano allora passati a filo di spada o venduti come schiavi), ma anche da un sistema di valori che era indifferenziatamente etico-politico. La città greca si fondava - lo ripetono Platone, Aristotele e Demostene - sull'homonoia, su uno spirito comune, una concordia civica che si fondava a sua volta sulla philia, sull'amicizia. Riconoscere il principio di maggioranza sarebbe, in questo contesto, come validare un principio di disunione, la divisione che porta la città alla rovina. Se è vero (sempre a detta di Aristotele) che la polis non si traduce in homophonia, deve pur sempre consistere di symphonia, deve pur sempre essere, per essere, un tutto armonioso. E l'armonia, alla pari della homonoia, non può accogliere un diritto di maggioranza.
Le tecniche elettorali che vennero poi inizialmente attuate nei comuni medievali non ci arrivano dunque dai Greci (i quali, di regola, sorteggiavano), ma dagli ordini religiosi, dai monaci arroccati nei loro conventi-fortilizi, che nell'alto Medioevo si trovarono a dover eleggere i propri superiori. Non potendo ricorrere né al principio ereditario, né a quello della forza, a loro non restava che eleggere votando. Ma i monaci eleggevano un capo assoluto. Era una scelta grave e importante. Così dobbiamo all'arrovellarsi dei monaci il voto segreto e l'elaborazione di regole di voto maggioritarie. Ma, per loro e poi per tutto il Medioevo e il Rinascimento, la maior pars doveva pur sempre restare congiunta con la melior pars, con la parte migliore. E, alla fine, l'elezione doveva pur sempre risultare unanime (i riottosi venivano sgridati, e anche bastonati). Regole maggioritarie sì; ma diritto di maggioranza no. Il principio consacrante, fino a Locke, era e restava l'unanimità.La svolta avviene con Locke perché con lui il diritto della maggioranza si inserisce in un sistema costituzionale che lo disciplina e controlla. Ma il catalizzatore fu l'emergere di una concezione 'pluralistica' dell'ordine politico. Alla fine del XVII secolo dalle macerie e dagli orrori delle guerre religiose era scaturito l'ideale della tolleranza, mentre la fede cattolica si frammentava nelle sette protestanti. Su queste e altre premesse si venne lentamente affermando l'opinione che la diversità e anche il dissenso sono compatibili con la tenuta dell'insieme, l'idea che la concordia può anche essere discorde, l'idea della concordia discors. In questo caso, la cosa pubblica può essere articolata e anche disarticolata in maggioranze e minoranze. E la regola di maggioranza consente al popolo di uscire dal limbo della finzione giuridica per diventare un soggetto concretamente operante. Se si decide a maggioranza, e la maggioranza decide, allora anche un soggetto collettivo qual è il popolo ha modo di agire e decidere.
I regimi democratici sono a un tempo regimi liberi, regimi di libertà. Ma libertà di chi? "Ateniesi e Romani erano liberi - notava Hobbes (Leviatano, XXI) - vale a dire, le loro città erano libere". Fustel de Coulanges (v., 1864; tr. it., vol. I, p. 325) è l'autore che sostiene al riguardo la tesi estrema: "Avere diritti politici, votare, nominare magistrati, poter essere arconte, ecco ciò che [nelle città antiche] si chiamava libertà; ma non per questo l'uomo è meno asservito allo Stato". Al che si oppone che quantomeno all'epoca di Pericle la libertà individuale dell'Ateniese era assoluta. Chi ha ragione? La controversia, che risale alla celebre orazione del 1819 di Benjamin Constant su La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni, è sterile se non facciamo capo alla concezione dell'uomo degli antichi. Nel definire l'uomo un animale politico Aristotele dichiarava la propria antropologia: egli intendeva che l'uomo è compiutamente tale in quanto vive nella polis e la polis vive in lui. Nel vivere politico i Greci non vedevano una parte o un aspetto della vita: ne vedevano la pienezza e l'essenza. L'uomo non-politico era per i Greci un idion, un essere incompleto e carente (il nostro 'idiota') la cui insufficienza stava, potremmo dire, nella sua debolezza di polis. Insomma, per i Greci l'uomo era, senza residuo, il polites, il cittadino, e la città precedeva il cittadino: era il polites a dover servire la polis, non la polis il polites. Per noi non è così. Noi non riteniamo che i cittadini siano al servizio dello Stato, ma che lo Stato (democratico) sia al servizio dei cittadini. Nemmeno riteniamo che l'uomo si risolva nella politicità, che il cittadino sia 'tutto l'uomo'. Riteniamo invece che la persona umana, l'individuo, sia un valore in sé, indipendentemente dalla società e dallo Stato. Tra noi e gli antichi, dunque, tutto si ribalta. Si ribalta perché nel frattempo c'è stato il cristianesimo, il Rinascimento, il giusnaturalismo e, alla fin fine, tutta la lunga meditazione filosofica e morale che si conclude con Kant. Detto in breve, il mondo antico non conosceva l'individuo-persona, non pregiava il 'privato' (privatus, in latino, è privazione, togliere) come sfera morale e giuridica 'liberante' e promotrice di autonomia, di autorealizzazione.
C'è oggi chi spregia la scoperta dell'individuo e del suo valore usando 'individualismo' in senso derogatorio. Forse troppo individualismo è cattivo; e certo l'individualismo si manifesta in forme deteriori. Ma al tirare delle somme non dovrebbe sfuggire che il mondo che non riconosce valore all'individuo è un mondo spietato, disumano, nel quale uccidere è normale, normale come morire. Era così anche per gli antichi; non più per noi. Per noi uccidere è male; male perché la vita di ogni individuo conta, vale, è sacra. È questa attribuzione di valore che ci rende umani, che ci fa rifiutare la crudeltà degli antichi e, ancor oggi, delle società non-individualistiche. Dunque gli Ateniesi erano liberi o no? Sì; ma non alla stregua del nostro concetto di libertà individuale. Certo, l'età aurea della democrazia ateniese può essere resa come una poliedrica esplosione di spirito individuale. Certo, i Greci hanno fruito di uno spazio privato che era tale nel fatto. Ma i Greci non possedevano (non era per loro possibile conoscerlo) quel concetto di libertà del singolo che si riassume nella formula del 'rispetto dell'individuo-persona'. Quando si nega, allora, che i Greci fossero individualmente liberi si intende dire che nelle loro città l'individuo era indifeso e in balia della collettività. L'individuo non aveva 'diritti', e non fruiva in alcun senso di 'difesa giuridica'. La sua libertà si risolveva senza residuo nella sua partecipazione al potere e nell'esercizio collettivo del potere. A quel tempo era molto. Ma nemmeno a quel tempo 'garantiva' l'individuo. Né si riteneva, a quel tempo, che l'individuo fosse da garantire o che avesse diritti individuali da far valere.Si aggiunga che nelle condizioni moderne nemmeno gli antichi sarebbero in alcun modo liberi. Torniamo a sottolineare che la città greca non si costituiva in Stato. Ora, senza Stato un esercizio collettivo del potere può ancora fare le veci della libertà, può ancora essere un surrogato della libertà (politica). Ma quando arriva lo Stato, quando la piccola città si estende a dismisura, senza limiti, e quando, di conseguenza, titolarità ed esercizio del potere si disgiungono, allora non è più così. Non è solo che la democrazia dei moderni tutela e promuove una libertà che non accetta di risolversi nella sottomissione dell'individuo al potere dell'insieme. È anche che con l'arrivo dello Stato i termini del problema si invertono. Nella città-comunità degli antichi la libertà politica non si affermava in opposizione allo Stato, perché lo Stato non c'era. Ma quando c'è, allora il problema della libertà dallo Stato si pone.La formula 'tutto nella polis' promuove, o può promuovere, una democrazia ad alto tasso di fusione comunitaria. La formula 'tutto nello Stato', che poi si esplica in tutto per lo Stato, è invece la formula dello Stato totalitario. Al modo dei Greci, noi saremmo schiavi.
Tra la democrazia degli antichi e quella dei moderni s'interpone, si è visto, la disgiunzione tra titolarità ed esercizio del potere, il principio di maggioranza e la concezione dell'individuo-persona. Peraltro, per passare dalla prima alla seconda manca ancora l'anello di congiunzione essenziale: il costituzionalismo e, al suo interno, la rappresentanza politica. Il termine 'liberalismo' e il suo derivato 'liberale' sono di conio relativamente recente (attorno al 1810); ma Locke, Montesquieu, Madison e Hamilton (per il Federalista), Benjamin Constant, sono a buon diritto dichiarati 'liberali', e cioè gli autori che hanno concepito politicamente (il percorso più propriamente giuridico attinge ad altri nomi, quali Coke e Blackstone) lo Stato limitato, lo Stato controllato e, così, lo Stato liberal-costituzionale. In coda a Constant si può aggiungere Tocqueville e poi John Stuart Mill; ma specialmente con quest'ultimo arriviamo già allo Stato liberaldemocratico, al quale farà seguito, ai nostri giorni, lo Stato democratico-liberale. Dunque, tre tappe: primo, lo Stato liberale che è soltanto lo Stato costituzionale che ingabbia il potere assoluto; secondo, lo Stato liberaldemocratico che è prima liberale (costituzionale) e poi democratico; terzo, lo Stato democratico-liberale, nel quale il peso specifico delle due componenti si inverte: il potere popolare prevale sul potere limitato.
La genealogia storica complessiva è questa: la democrazia pura e semplice (quella degli antichi) precede il liberalismo; il liberalismo precede la democrazia moderna. Ancora per i costituenti di Filadelfia, così come per Constant, 'democrazia' indicava un cattivo governo, l'esperienza fallimentare degli antichi; e se il Tocqueville del 1835-1840 ammirava la 'democrazia sociale' degli americani, egli pur sempre temeva, nella Democrazia in America, la tirannide della maggioranza e ripudiava il dispotismo democratico, e cioè la democrazia in senso politico. Il giro di boa avviene, con Tocqueville, nel 1848. Fino alla rivoluzione di quell'anno egli aveva nettamente separato la democrazia dal liberalismo. Ma all'Assemblea Costituente Tocqueville dichiarò una nuova e diversa separazione: "La democrazia e il socialismo sono congiunti solo da una parola, l'eguaglianza; ma si noti la differenza: la democrazia vuole l'eguaglianza nella libertà, e il socialismo vuole l'eguaglianza [...] nella servitù". Con questo memorabile passo nasce, nelle coscienze, la liberaldemocrazia. La nuova antitesi, la nuova polarizzazione, non è più tra democrazia e liberalismo, ma tra socialismo da un lato (il nuovo protagonista emerso, appunto, nelle turbolenze del 1848), e liberaldemocrazia dall'altro.
Non è che Tocqueville avesse cambiato idea; coglieva invece, profeticamente, il riallineamento che avrebbe prevalso nel secolo e mezzo successivo. Con l'intuizione dei grandissimi Tocqueville riconcepiva la democrazia, la capiva come una creatura del tutto inedita che sorgeva ex novo dal seno del liberalismo. La democrazia riesumata da Rousseau era solo una creatura di biblioteca. La 'democrazia reale', quella che stava davvero nascendo, era tutt'altra cosa: era, appunto, la democrazia liberale. Per tutto l'Ottocento prevalse, in quel composto, la componente liberale: il liberalismo come teoria e prassi della protezione giuridica, mediante lo Stato costituzionale, della libertà individuale. Ma man mano che il suffragio si estendeva, di pari passo si poneva una liberaldemocrazia nella quale la 'forma' dello Stato sempre più recepiva 'contenuti' di volontà popolare. Alla fine lo Stato liberaldemocratico si capovolge nello Stato democratico-liberale nel quale - nell'ottica tocquevilliana - la bilancia tra libertà ed eguaglianza inclina a favore di quest'ultima.Al momento basta affermare - approfondiremo in seguito - che lo Stato 'giusto', lo Stato sociale, lo Stato del benessere sono pur sempre, in premessa, lo Stato costituzionale costruito dal liberalismo. Dove e quando quest'ultimo è caduto, come nei paesi comunisti, è caduto tutto: in nome dell'eguaglianza si è instaurato il 'socialismo nella servitù'. La lezione che oggi ci viene dall'Est e dalla parabola dell'esperienza comunista conferma quel che la dottrina liberale ha da sempre sostenuto, vale a dire che il rapporto tra libertà ed eguaglianza non è reversibile, che l'iter procedurale che collega i due termini va dalla libertà all'eguaglianza e non, viceversa, dall'eguaglianza alla libertà. Il 'superamento' della democrazia liberale non c'è stato. Oltre lo Stato democratico-liberale non c'è più né libertà, né democrazia.
La democrazia dei moderni è rappresentativa e presuppone, come sua condizione necessaria, lo Stato liberal-costituzionale, la controllabilità del potere. Finora nulla si è detto di un altro strumento di attuazione: i partiti. Già nel 1920 Kelsen asseriva senza mezzi termini: "Solo l'illusione o l'ipocrisia può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici" (v. Kelsen, 1920; tr. it., p. 25). Di quando in quando (a cominciare da Ostrogorski: v., 1902) si torna a sostenere che la democrazia può non solo operare senza partiti, ma che senza partiti funzionerebbe meglio; e anche se questa tesi è poco e mal sostenuta in dottrina, in pratica il problema può essere riproposto, oggi, alla luce della cosiddetta dissoluzione dei partiti americani. In verità, negli Stati Uniti i partiti non hanno mai pesato quanto in Europa, e non hanno mai conseguito la consistenza organizzativa dei partiti di massa europei, specie dei partiti comunisti, o comunque di apparato. La burocratizzazione della socialdemocrazia tedesca che Michels già registrava e denunciava come causa inevitabile di oligarchia attorno al 1910, questa burocratizzazione negli Stati Uniti non è mai arrivata. Peraltro, ai fini del quesito se i partiti siano indispensabili non è necessario che il partito sia 'forte' e che, di conseguenza, il sistema dei partiti sia fortemente strutturato. La tipologia storica dei partiti distingue tra partito dei notabili, partito di opinione, e partito di massa; o anche, correlativamente, tra partiti a orientamento legislativo (largamente quiescenti tra un'elezione e l'altra) e partiti a orientamento elettorale e, tra questi ultimi, tra partiti di mera organizzazione elettorale ovvero partiti capaci di mobilitazione permanente. Ora, il partito 'necessario' è sufficiente che sia il partito di opinione; e nemmeno la dissoluzione dei partiti americani li dissolve, per la verità, al di sotto della soglia nella quale 'canalizzano l'opinione'. E quando si asserisce che la democrazia non si può attuare senza l'intermediazione dei partiti si fa riferimento al sistema partitico come sistema di aggregazione e canalizzazione del voto. Nulla più; ma anche nulla meno. Gli elettori si esprimerebbero a vuoto e creerebbero il vuoto - il caos di una miriade di frammenti - se mancasse il quadro di riferimento e di alternative proposto dai partiti. Difatti ogni volta che una dittatura cade e che si ricomincia a votare, rispuntano i gruppuscoli che si propongono al voto. I superstiti, i votati, diventano partiti. È un processo del tutto spontaneo che di per sé attesta l'inevitabilità dei partiti.
Se i partiti occorrono, la loro necessità non li redime dai loro peccati. È vero che l'intermediazione dei partiti si trasforma, spesso, in un diaframma, o anche in una sopraffazione partitocratica. Ma combattere le degenerazioni e criticare i partiti è un conto, rifiutarli un altro. Ciò posto, un ulteriore e diverso problema investe la diversità dei sistemi di partito, e quindi la questione di quale sistema di partito funzioni meglio e sia, in questo senso, 'funzionale' ai fini del governo democratico. Dopo le cattive esperienze - segnatamente quella della Repubblica di Weimar (1919-1933) - del periodo tra le due guerre mondiali, negli anni cinquanta si affermò la tesi che le democrazie funzionanti erano bipartitiche, o comunque a relativamente pochi partiti, mentre i sistemi troppo frammentati generavano governi instabili, effimeri, e largamente incapaci di governare. Questa tesi è stata successivamente raffinata e modificata. Troppi partiti sono sì troppi; ma il numero dei partiti non è la variabile decisiva; lo è, invece, la polarizzazione del sistema, e cioè la distanza ideologica o di altra natura che separa i partiti e i loro elettori (v. Sartori, 1976).
Se il problema fosse soprattutto di frammentazione, sarebbe rimediato dall'adozione di sistemi elettorali poco o punto proporzionali, e cioè riduttivi del numero dei partiti. Ma se i partiti vengono diminuiti e la polarizzazione rimane, allora non c'è guadagno, e anzi la conflittualità si può acutizzare. Di pari passo non è detto che i governi monocolori che sono la regola dei sistemi bipartitici (e anche dei sistemi a partito predominante operanti, per lunghi periodi, in Svezia, Norvegia, India, e ancor oggi in Giappone) siano a ogni effetto preferibili ai governi di coalizione.La discriminante è se le coalizioni di governo sono scollate, tra partiti 'distanti', come in Italia, oppure, come nei sistemi a bassa polarizzazione, se le coalizioni sono tra partiti 'vicini', amalgamabili. Con il che si torna a dire che il fattore decisivo è la polarizzazione: lo spazio competitivo nel quale 'spazia' il sistema partitico. Se lo spazio competitivo è esteso, se è tra poli estremi molto lontani tra loro, allora la competizione tra partiti è esposta a tentazioni centrifughe, il disaccordo prevale sull'accordo, il sistema diventa 'bloccato', e quindi funziona con difficoltà. Se invece lo spazio competitivo è corto, allora la competizione tende a essere centripeta, la litigiosità bloccante 'non paga', e il sistema consente governabilità.Lijphart (v., 1977) divide le democrazie in due tipi - maggioritaria e consociativa - e sostiene che alle società conflittuali occorre la 'democrazia consociativa', e cioè una gestione della cosa pubblica fondata su 'minoranze concorrenti' (la formula di Calhoun) che ripudiano il principio maggioritario. La teoria di Lijphart convince in parte, e in parte no. Il consociativismo è da raccomandare, e funziona, per le società segmentate quali l'Olanda (a lungo, ma non più, divisa tra cattolici e protestanti), l'Austria (divisa tra cattolici e socialisti), il Belgio (dove il conflitto è etnico-linguistico) e la Svizzera (l'esempio più illustre). Ma le società in questione sono segmentate, non sono polarizzate: le loro 'isole' chiedono soltanto di essere rispettate nella propria identità (il cleavage è isolante, non aggressivo e prevaricante). Dunque non è detto che il consociativismo vada altrettanto bene per le società altamente polarizzate, e certo non sembra applicabile alle religioni militanti (quali il fondamentalismo islamico). Sul punto della distinzione tra democrazia maggioritaria e consociativa torneremo. Qui importa solo notare che il consociativismo rinvia a nozioni come società conflittuale, o 'società divisa', assai meno precise e precisabili della nozione di 'società polarizzata', e che i sistemi di partito si misurano e commisurano meglio - ci sembra - in chiave di polarizzazione. Con ogni probabilità lo Stato dei partiti non è surrogabile. Ma varia, e può essere variato. Il problema del sistema partitico ottimale è sempre aperto e sempre da riaprire. Aggiungi che i partiti facilmente degenerano in centri di eccesso di potere, di 'colonizzazione', di insediamento parassitario e di corruzione. Il che non toglie che la teoria della democrazia i partiti li debba recepire.
In linea di principio, la democrazia - la democrazia liberale - è da definire come un sistema politico fondato sul potere popolare, nel senso che la titolarità del potere appartiene al demos mentre l'esercizio del potere è affidato a rappresentanti periodicamente eletti dal popolo. In termini di esercizio, dunque, il potere popolare si risolve in larghissima parte nel potere elettorale. Il che spiega perché la definizione operativa o applicativa della democrazia dia per scontata la sovranità popolare (la fonte di legittimità) per arrivare subito al meccanismo, come in questa definizione di rito: la democrazia è un sistema pluripartitico nel quale la maggioranza espressa dall'elezione governa nel rispetto dei diritti delle minoranze. Il rispetto dei diritti delle minoranze, e per esso l'interpretazione 'limitata' del principio maggioritario, è un punto nodale che richiede di essere trattato a sé. Soffermiamoci, al momento, sulla riconduzione della democrazia a un sistema pluripartitico. Che i partiti siano necessari si è già veduto. Ma qual è la democraticità di questo assetto? Rousseau sosteneva che chi delega il proprio potere lo perde. Vero? Se tale delega fosse permanente, se fosse una translatio imperii, allora sarebbe vero. Ma è una delega a scadenza e rinnovo periodico, una concessio temporanea, e per di più una delega a titolo rappresentativo: il rappresentante è tenuto ad agire nell'interesse dei rappresentati nell'ambito di strutture e procedure che lo vincolano a questo intento. Dunque Rousseau era nel torto. Anche così, la rappresentanza politica non dà le garanzie della rappresentanza di diritto privato. Come si fa ad assicurare che l'interesse servito dal rappresentante sia davvero quello dei rappresentati (e non l'interesse proprio)? Lo si può fare solo in termini di larghissima approssimazione. Ma qui il meccanismo che più serve è la competizione, non l'elezione. E qui siamo a Schumpeter, alla sua 'teoria competitiva della democrazia'. Nella teoria 'classica' della democrazia - argomenta Schumpeter - la selezione del rappresentante risulta "secondaria rispetto allo scopo primario [...] di investire l'elettorato del potere di decidere le questioni politiche"; ma la realtà è che questo potere è "secondario rispetto all'elezione delle persone che andranno poi a decidere". Da qui la sua citatissima definizione: "Il metodo democratico è quell'assetto istituzionale per arrivare a decisioni politiche nel quale alcune persone acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per il voto popolare" (v. Schumpeter, 1947², p. 269).
La prima cosa da notare è che Schumpeter dice "metodo democratico", spostando così la messa a fuoco su una definizione procedurale del concetto di democrazia. In secondo luogo, il demos è qui riproposto come tertium gaudens, come un terzo che gode dei benefici che gli vengono promessi dai 'concorrenti' che ne corteggiano il voto. Il che implica che dal potere di voto discende un 'accoglimento di preferenze'. Così la democrazia in entrata, in input, si collega alla demofilia in uscita, in output, e più precisamente il potere popolare (di voto) si trasforma in demo-distribuzioni, in benefici di ritorno.Tornando al quesito iniziale, l'interpretazione schumpeteriana dei meccanismi democratici assicura davvero che il rappresentante servirà gli interessi del rappresentato? 'Interessi' è concetto complesso. Interessi immediati e male intesi? Interessi durevoli e bene intesi? Interessi soltanto 'miei', soltanto egoistici? Non occorre perdersi in questo ginepraio. Difatti abbiamo detto che il metodo descritto da Schumpeter assicura l'accoglimento di 'preferenze', l'ascolto di 'domande'. L'obiezione è semmai che il popolo vota di regola ogni quattro anni, e che nell'interregno il rappresentante non è revocabile. L'obiezione può dunque essere che nell'intervallo tra un'elezione e l'altra il rappresentante può fare il sordo e servire soprattutto se stesso. Ma non è così se al meccanismo competitivo colto da Schumpeter si aggiunge, a suo completamento, il "principio delle reazioni previste" enunciato da Carl Friedrich (v., 1946, pp. 589591). In funzione di quel principio l'eletto sconta a ogni momento la prevedibile 'reazione' dei suoi elettori a quel che fa o si propone di fare. Il controllo è dunque continuo, ché quella 'previsione' (di come l'elettore reagirà) è costante.
Da quanto sopra si può ricavare la definizione che segue: democrazia è "la procedura e/o il meccanismo che a) genera una poliarchia aperta la cui competizione nel mercato elettorale b) attribuisce potere al popolo e c) specificamente impone la rispondenza [responsiveness] degli eletti nei confronti degli elettori" (v. Sartori, 1987, p. 156). È complicato perché la democrazia è complicata. E, si noti, questa definizione è soltanto descrittiva (non è, e non pretende di essere, prescrittiva), si limita cioè a spiegare come funziona la macrodemocrazia (politica). È quindi una definizione minima che stabilisce la condizione necessaria e sufficiente ai fini della messa in opera di un sistema che può a buon diritto essere dichiarato democratico. Senza il cosiddetto modello di Schumpeter il funzionamento effettivo della democrazia rappresentativa resta tutto da capire. Ma da qui il discorso prescrittivo atteso a promuovere e sviluppare la democrazia resta tutto ancora da fare. Democrazia è una cosa; grado di democraticità e democratizzazione un'altra.
Si è veduto che Tocqueville e dopo di lui Guido De Ruggiero (v., 1941²) e molti altri equiparano la liberaldemocrazia alla congiunzione tra libertà ed eguaglianza. Ma quale libertà? E cosa s'intende per eguaglianza? La libertà che interessa in questa sede è la libertà politica: la libertà del cittadino nell'ambito dello Stato. È, dunque, una libertà specifica ed eminentemente pratica. Non è la libertà morale; non è il libero arbitrio (la libertà del volere); non è una libertà onnicomprensiva; e tanto meno è una libertà suprema, la 'vera libertà' (così come è stata variamente concepita, per esempio, da Spinoza, Leibniz, Hegel o Croce). Nel Saggio sull'intelligenza umana Locke definisce la libertà come autodeterminazione dell'io ("acting under the determination of the self"), mentre nel secondo dei Due trattati sul governo (v. Locke, 1690; tr. it., p. 251) la definisce come il non essere "soggetto all'incostante, incerto, ignoto, arbitrario volere di un altro uomo". Locke capiva bene, dunque, che in sede politica non si cerca l' 'essenza della libertà' e non interessa l'indagine metafisica sulla sua natura ultima. Per Locke la libertà politica è, in sostanza, libertà dall'arbitrio dei potenti. Altrettanto concreto era stato, prima di lui, Hobbes: libertà significa "assenza di impedimenti esterni" (Leviatano, XXI). Per la verità Hobbes assegnava questa libertà al contesto della "libertà naturale" prima che a quello della "libertà civile"; inoltre, gli impedimenti in questione erano detti of motion, "impedimenti di movimento". Ma questa qualificazione era dettata dalla natura meccanicista della sua filosofia, e cade se cade il meccanicismo. Resta così la formula "assenza di impedimenti esterni" che da allora ha efficacemente sintetizzato la natura e l'ambito della libertà politica.
Successivamente si è detto che la libertà politica è una libertà da (dallo Stato), non una libertà di. E oggi è invalso l'uso di dichiararla una libertà 'negativa'. Fin qui nulla da eccepire. Senonché questa libertà 'negativa' viene poi riletta come una libertà da poco, o persino da nulla. La conclusione così diventa che la libertà che conta è la libertà di, la libertà 'positiva'. Il che non è più esatto. Che la libertà politica sia una libertà incompleta è vero (ma lo è alla stessa stregua di tutte le libertà specifiche, di tutte le libertà declinate al plurale, ognuna delle quali può essere dichiarata, da sola, incompleta). Resta fermo che la libertà da è condizione necessaria di tutte le libertà di. Se siamo impediti - in prigione, o minacciati di prigione - le libertà al positivo diventano lettera morta.Meglio sarebbe, allora, chiamare la libertà politica 'protettiva' (invece di negativa), tale perché è la libertà di poteri minori, di poteri di singoli cittadini, bisognosi di protezione perché facili da schiacciare. Beninteso, la libertà politica non è soltanto libertà da (negativa o protettiva). Quando si dispiega, la libertà politica diventa anch'essa una libertà di (di votare, di partecipare, ecc.); ma deve essere caratterizzata come libertà da, come non impedimento, perché questo ne è l'aspetto pregiudiziale e caratterizzante. Si potrà osservare che il discorso sulla libertà politica precede Hobbes e Locke. Certo; ma fino a Locke e alla costruzione dello Stato costituzionale la salvezza, la salvezza della libertà, era soltanto nella legge. Cicerone lo diceva con mirabile concisione per tutto il mondo antico: "legum servi sumus ut liberi esse possimus" (Oratio pro Cluentio, 43), siamo liberi in quanto sottoposti a leggi. Questa era ancora la formula di Rousseau: l'uomo è libero quando non obbedisce ad altri uomini ma solo alla legge. Sì; ma Rousseau constatava al tempo stesso che l'uomo, nato libero, si trovava ovunque in catene. Quando si afferma lo Stato, e in particolare lo Stato dell'età dell'assolutismo monarchico, la legge da sola non salva più. Non è dunque un caso che il discorso sulla libertà politica ricominci nel XVII secolo. La libertà politica definita come libertà dallo Stato si definisce così quando lo Stato c'è (non prima). Ma da allora questa ne è la definizione pressoché costante.
A questo si oppone, talvolta, che la libertà da è una libertà minore superata da una libertà maggiore: l'autonomia. Si è testé asserito che Rousseau, in tema di libertà, non devia di un millimetro da Cicerone. In tutti i suoi scritti ripete a distesa che la certezza della quale è più certo è che la libertà è governo delle leggi. Ma nel Contratto sociale (I, 8) troviamo questo passo: "l'obbedienza alla legge che ci siamo prescritta è libertà" (corsivo mio). È il passo dal quale si è ricavato che Rousseau concepisce la libertà come autonomia. Ma qui chiediamo al topolino di partorire la montagna. Il fatto è che Rousseau elogiava Spartani e Romani, non gli Ateniesi. La isonomia (eguali leggi) degli Ateniesi era degenerata in licenza, in leggi incerte disfatte e rifatte dalla volubilità del demos. Pertanto Rousseau invocava un Mosè, un Licurgo, un Legislatore 'fondante' che stabilisse una volta per tutte poche, fondamentali e pressoché inalterabili Leggi supreme. Nessuno ha mai ingabbiato la libertà nella fissità delle Leggi (con la maiuscola) più di Rousseau. Quella di Rousseau sarebbe dunque l'autonomia del nulla o quasi nulla fare.
La verità è, ci sembra, che 'autonomia' è un'arbitraria e pasticciata proiezione all'indietro di Kant su Rousseau. L'autonomia, il dare a se stessi la propria legge, è concetto kantiano, che però Kant riferisce alla libertà morale, alla libertà interiore (del volere). La libertà politica è invece una libertà esteriore (di fare). Il contrario della prima è eteronomia; il contrario della seconda è coercizione. La mia volontà resta libera (autonoma) anche se mi trovo in carcere (coercito); ma l'essere interiormente libero non mi rende in alcun modo libero esternamente (dal carcere). Pertanto la tesi che la 'minore' libertà da (libertà liberale) sia superata da una 'maggiore' libertà democratica, l'autonomia, è difficile da accogliere. Che l'autonomia, così come l'autorealizzazione, siano libertà, e ideali di superiore libertà, questo sì. Ma non superano la libertà da: la presuppongono.
Se la libertà politica può essere ricondotta all'idea-base di 'non impedimento', il discorso sull'eguaglianza è molto più complesso. Già Aristotele distingueva nell'Etica Nicomachea (libro V) tra due diversissimi tipi di eguaglianza, l'una 'aritmetica', l'altra 'proporzionale'. Il criterio della prima è 'lo stesso a tutti'; il criterio della seconda è 'lo stesso agli stessi', e pertanto cose eguali agli eguali ma diseguali ai diseguali. Nell'eguaglianza aritmetica ciò che è eguale è identico: punto e basta. Nell'eguaglianza proporzionale (tale, spiegava Aristotele, perché "gli ineguali sono trattati in proporzione alla rispettiva diversità") è invece l'eguaglianza nel diverso, o tra diversi, che assegna a ciascuno il suo: qui vige la regola del suum cuique tribuere. È chiaro che a volte adottiamo la prima, a volte la seconda eguaglianza. Eguali leggi sono tali in quanto identiche per tutti, mentre le tasse dirette sono proporzionali, in proporzione alla ricchezza, e dunque eguali per eguali ma diseguali per diseguali. Ma l'eguaglianza proporzionale pone, man mano che viene approfondita, due problemi: primo, quanta proporzione; secondo, e ancor più difficile, a chi spetta la proporzione. Qui, si ricordi, la regola non è più 'a tutti lo stesso', ma 'lo stesso (eguali quote, privazioni o benefici) a ciascun eguale'. Pertanto la domanda diventa: quale 'stessità' è rilevante? E, correlativamente, quali sono le differenze rilevanti? Sono domande che scoperchiano il vaso di Pandora.Semplificando al massimo, i criteri dell'eguaglianza proporzionale sono riconducibili a due: 1) a ciascuno in ragione dei suoi meriti, capacità o talenti; 2) a ciascuno in ragione dei suoi bisogni (di quanto gli manca). È superfluo sottolineare che ciascun criterio è passibile, in concreto, di innumerevoli interpretazioni. Quali meriti? Quali capacità? E quali bisogni, in che misura? Né le complicazioni finiscono qui.Per dipanarle conviene rifarsi a una prospettiva storica. Storicamente la prima eguaglianza è la isonomia, noi diremmo l'eguaglianza giuridico-politica: eguali leggi, eguale libertà ed eguali diritti. Sono, queste, eguaglianze facili (aritmetiche): eguale si traduce in 'identico per tutti'. C'è poi l'eguaglianza sociale (v. cap. 2, democrazia sociale) che non pone problemi dal momento che si dispiega come un ethos. Di problemi è irta, invece, la terza eguaglianza, l'eguaglianza di opportunità, o nelle opportunità, che è la tipica rivendicazione egualitaria del nostro tempo.
Da una comune dizione qui si diramano e si divaricano, in realtà, due eguaglianze: 1) opportunità come eguale accesso; 2) opportunità come eguale partenza. Eguale accesso vuol dire 'eguale riconoscimento a eguali capacità' e dunque promuove una meritocrazia: eguale carriera (promozione) a eguale talento. Eguale partenza è ben altro, e ben di più. A questo effetto si richiede l'eguagliamento delle posizioni e delle condizioni iniziali della corsa: eguale educazione per tutti per cominciare; ma poi anche un relativamente eguale benestare che cancelli il vantaggio dei ricchi sui poveri. E a questo punto l'eguale opportunità di posizioni di partenza trapassa nell'eguaglianza economica.Finché quest'ultima è relativa - finché è questione di proporzioni - siamo ancora nell'eguaglianza che potremmo chiamare di 'opportunità materiali'. L'eguaglianza economica vera e propria, a sé stante, è invece aritmetica: eguali averi o -nel comunismo - eguale nullatenenza per tutti. Babeuf era egalitario alla lettera. Marx era più sfumato. Nella Critica al programma di Gotha del 1875 Marx enuncia tre criteri: 1) a ciascuno secondo i suoi bisogni; 2) a ciascuno secondo il suo lavoro (il principio del valore-lavoro); 3) da ciascuno in ragione delle sue abilità. Non è facile collegarli e nemmeno decifrarli. Ma siccome in ogni caso il comunismo presuppone l'abolizione della proprietà privata, a questo effetto è chiaro che anche l'eguaglianza economica di Marx era aritmetica: egualmente niente a nessuno.
Il collasso dei regimi comunisti largamente decapita rebus ipsis la versione aritmetico-negativa dell'eguaglianza economica. Ma resta l'istanza della libertà dal bisogno - assicurare a tutti un eguale minimo di decorosa sussistenza - che progredisce man mano nella rivendicazione di 'eguali averi' che effettivamente eguaglino le posizioni di partenza. Come? Finché un relativo eguagliamento degli averi viene perseguito mediante redistribuzioni, e specialmente redistribuzioni di reddito, restiamo nell'ambito di una problematica prevalentemente economica. Ma, intanto, le redistribuzioni in questione devono essere incessanti; inoltre, non bastano mai; talché, alla fine, dalle redistribuzioni si passa agli spossessamenti. E a questo punto il problema diventa eminentemente politico. Eguali condizioni materiali (sia pure elasticamente intese) richiedono uno Stato 'forte', abbastanza forte da imporre espropriazioni e tanto forte da decidere a favore di chi, in che rispetto e in quanta misura. In questo caso lo Stato eguagliante trapassa nello Stato coercitivo che deve spezzare e spazzare via - se vuole riuscire - la 'libertà di resistenza' dei cittadini.
Il nocciolo del problema è che eguali trattamenti (leggi eguali) non producono eguali esiti (eguagliamenti in esito); dal che deriva che per essere resi eguali (più eguali) occorrono trattamenti diseguali (leggi settoriali e discriminazioni compensanti). Se corridori lenti e veloci debbono arrivare al traguardo insieme, i veloci debbono venire penalizzati e i lenti avvantaggiati. Non più, allora, eguali opportunità. Al contrario, o meglio al rovescio, al fine di essere eguagliati in arrivo occorrono in partenza 'opportunità diseguali' (trattamenti preferenziali). Si può sostenere che se così deve essere, sia. Sì, ma leggi settoriali, trattamenti privilegianti, 'discriminazioni', non solo attizzano e moltiplicano la conflittualità sociale (i non-preferiti si ribellano e rivendicano a loro volta privilegi), non solo facilitano l'arbitrio, ma anche ledono la protezione fornita da eguali leggi e, in linea di principio, dal principio 'lo stesso per tutti'. Perché la generalità delle leggi è importante? È importante perché sottopone il legislatore allo stesso danno che le leggi possono infliggere a chi le subisce. Se la norma 'a chi mente viene tagliata la lingua' si applica anche al legislatore che la promulga, quella norma non verrà; se lo esonera, potrà venire.Beninteso, tra libertà ed eguaglianza si danno molte possibili soluzioni di equilibrio, molte possibili compensazioni; ma esiste pur sempre un punto di rottura oltre il quale (per ripetere Tocqueville) ci aspetta "l'eguaglianza nella servitù". Il problema dell'eguaglianza resta dunque apertissimo. Tra libertà ed eguaglianza ci può essere felice congiunzione, ma anche pericolosa disgiunzione. Nelle democrazie liberali la libertà promuove, o quantomeno consente, politiche ed esiti eguaglianti. Nei regimi comunisti l'eguaglianza non ha prodotto libertà e ha livellato soltanto in basso, nel malessere.
Maggioranza sta per 'regola di maggioranza', ovvero per 'l'insieme dei più'. Nel primo caso la nozione di maggioranza è procedurale: indica un metodo di risoluzione dei conflitti e, correlativamente, un criterio decisionale. Nel secondo caso la nozione di maggioranza è sostantiva: indica la parte maggiore, più numerosa, di un aggregato concreto, di una popolazione. E se questa distinzione non viene chiaramente affermata, tutto il discorso s'impasticcia senza rimedio.Siamo soliti dire, in breve, che la democrazia è majority rule, regola-comando della maggioranza. Detto così, è detto troppo in breve. Inoltre, qual è la maggioranza in questione? Procedurale o sostantiva? Di per sé non è chiaro. C'è chi intende l'espressione in un senso, chi nell'altro, e chi - i più - indifferenziatamente. Precisiamo subito, allora, che in questo paragrafo ci occuperemo di 'maggioranza' come regola, criterio o principio, e non di maggioranze sostantive. In tal caso asserire che la democrazia è majority rule significa che in democrazia si decide a maggioranza. Vero? Non del tutto. Spiegato così il principio di maggioranza risulta 'assoluto', senza limiti né freni, laddove la democrazia richiede - per funzionare e durare - un principio di maggioranza 'limitato'. La regola delle democrazie liberali è che la maggioranza governa (prevale, decide) nel rispetto dei diritti della minoranza. Chi dice majority rule dimenticandosi dei minority rights non promuove la democrazia: l'affossa. Il punto teorico è stato formulato con insuperata chiarezza da Kelsen (v., 1920; tr. it., p. 12): "Anche colui che vota con la maggioranza non è più sottomesso unicamente alla sua volontà. Ciò egli avverte quando cambia opinione"; infatti, affinché "egli sia nuovamente libero sarebbe necessario trovare una maggioranza a favore della sua nuova opinione". Si aggiunga che, se le minoranze non sono tutelate, la possibilità stessa di trovare una maggioranza a favore della nuova opinione diventa problematica, poiché chi passa dall'opinione in maggioranza a quella in minoranza si ritroverà tra coloro che non hanno il diritto di far valere la propria opinione. Al limite il punto è che la prima elezione sarà l'unica vera elezione, quella che distingue una volta per tutte tra chi è stato libero (in quel momento iniziale) e chi libero non è stato allora e non sarà mai.
Rispettare le minoranze e i loro diritti è dunque parte integrante dei meccanismi democratici. E non è solo questione di meccanismi. 'Minoranza', vedremo, sta per molteplici referenti. Tra questi troviamo le minoranze religiose, linguistiche, etniche, o altre, e cioè collettività sostantive che tengono alla propria identità e che si costituiscono attorno alla propria lingua, religione, o razza. Queste minoranze sono tanto più reali e compatte quanto più sono 'intense', quanto più sentono fortemente il legame che le caratterizza. E qui il principio maggioritario si ferma o viene fermato, potremmo dire, per forza maggiore. Perché se alle minoranze intense non viene riconosciuto il diritto alla propria identità, esse cercheranno la secessione e rifiuteranno, nel frattempo, lo stesso principio maggioritario.
Passiamo a 'maggioranza' intesa in senso sostantivo e - per partire dall'inizio - al popolo inteso operativamente come l'insieme dei più, come il maggior numero. In tal caso l'espressione majority rule equivale a dire 'comanda la maggioranza del popolo'; e in tal caso la tesi diventa che in democrazia chi decide è la parte maggiore di un'entità detta 'il popolo sovrano'. Vero? Falso? Per molti senz'altro falso, anche se per motivi opposti. Per una schiera la tesi è falsa perché le nostre sono pseudodemocrazie che defraudano il popolo dello scettro che gli compete; per l'altra schiera la tesi è falsa perché la democrazia intesa come potere popolare è impossibile. I nomi che spiccano in questo secondo gruppo sono quelli di Gaetano Mosca e di Roberto Michels; e i loro argomenti non possono venire ignorati.Per la teoria della classe politica di Mosca "in tutte le società [...] esistono due classi di persone: quella dei governanti e l'altra dei governati" e "la prima, che è sempre la meno numerosa [...] monopolizza il potere" (v. Mosca, 1939³, vol. I, p. 83). Il succo della tesi di Mosca è che al comando c'è sempre una minoranza 'organizzata' (nel senso generico di essere relativamente omogenea e solidale). La tesi non era, nel 1884, inedita; ma elevata al rango di 'legge' fa colpo; fa colpo perché distrugge la classica tripartizione aristotelica delle forme di governo. Per la legge di Mosca tutti i governi sono, sempre e ovunque, oligarchie (anche se Mosca non usa il termine, il concetto è questo).
Alla tesi di Mosca è facile obiettare, e si è sovente obiettato, che la sua 'legge' è troppo generica: tanto generica da sfuggire a ogni verifica (o falsificazione). Mosca potrebbe essere smentito solo dall'esistenza di sistemi anarchici privi di ogni comando e di ogni verticalità. Ma se nel mondo reale qualsiasi sistema politico richiede verticalità (lo Stato e strutture di comando), allora abbiamo sempre una stratarchia che è sempre a forma piramidale. Mosca scopre la piramide e la dichiara oligarchica. Ma stratarchia non è oligarchia. Per passare dalla prima alla seconda occorre una 'legge' che predica e produca una minoranza che abbia invariabilmente caratteristiche oligarchiche. Questo passaggio in Mosca non c'è. L'ultimo Mosca concede semmai quel che la sua teoria non gli consente, perché nel 1923 egli distingue tra classi politiche ereditarie (aristocrazie) e classi formate dal basso, e correlativamente distingue tra potere che discende dall'alto (autocrazia) e potere che proviene dal basso. In questo modo, però, lo stesso Mosca spezza in due la sua classe politica e infirma, di riflesso, il significato minoritario-oligarchico (che nega la possibilità della democrazia) della sua legge.L'argomento di Michels (v., 1911; tr. it., p. 522) è diverso. La sua "legge ferrea dell'oligarchia", formulata attorno al 1910, sostiene che l'organizzazione è inevitabile, che di tanto l'organizzazione cresce, di altrettanto snatura la democrazia e la trasforma in oligarchia, e quindi - in conclusione - che "l'esistenza di capi è un fenomeno congenito a qualunque forma di vita sociale" e che "ogni sistema che preveda dei capi è incompatibile con i postulati essenziali della democrazia".Osserviamo, in primo luogo, che in Michels il concetto di organizzazione è centrale e anche assai più preciso di quanto non lo fosse in Mosca. Peraltro nemmeno Michels è preciso su 'oligarchia': definirla un "sistema di capi" non è definizione adeguata e sufficiente. La seconda osservazione è che Michels ricava la sua legge dallo studio della socialdemocrazia tedesca (il grande partito di massa del suo tempo). A questo effetto il terreno di prova di Michels è incomparabilmente più solido di quello di Mosca. Mosca si fondava genericamente sulla storia; Michels su un ben documentato studio di un caso specifico. La storia si può leggere in tanti modi; il caso studiato da Michels fa testo, e la sua analisi della degenerazione organizzativa delle associazioni volontarie (ché tali sono i partiti e i sindacati) è stata ripetuta a dritta e a manca, e quasi sempre confermata, da tre quarti di secolo. Pertanto la critica a Michels non è la stessa che si può fare a Mosca.
In ultima analisi, la confutazione della legge di Michels si trova nella teoria competitiva della democrazia di Schumpeter. Anche se fosse sempre vero che i partiti (e i sindacati) tendono sempre all'oligarchia, dalla premessa 'i partiti non sono democratici' non è lecito cavare la conclusione che 'la democrazia non è democratica'. La prova non è solo troppo piccola ma anche impropria (non pertinente) ai fini di quella conclusione. Michels parte da una democrazia in piccolo e la proietta nella democrazia in grande, nella macrodemocrazia d'insieme. Ma quest'ultima non è in alcun modo un ingrandimento della prima. Ammettiamo pure che nessuna organizzazione politica, o di rilevanza politica, sia mai internamente democratica. Anche così, a livello di sistema politico la democrazia definita da Schumpeter sussiste: sussiste perché è posta dalla dinamica competitiva tra organizzazioni. La democrazia d'insieme non è una somma statica di organizzazioni internamente democratiche; è, invece, prodotta dalle interazioni tra una pluralità di organizzazioni in gara per catturare il voto popolare. Per smontare la tesi di Michels occorre Schumpeter; e chi sconfessa Schumpeter rischia di incappare in Michels.
Passiamo ora a vedere qual è il gioco delle maggioranze - i più - nell'ambito di strutture verticali attese a produrre un parlamento e un governo, e pertanto attese a ridurre aggregati di milioni di votanti in organismi migliaia di volte più piccoli. Data, allora, una necessaria struttura piramidale, e dati altrettanto necessari processi riduttivi, cosa succede in itinere alle maggioranze? Succede che a ogni livello del processo in questione troviamo una maggioranza che per un verso elimina una minoranza e, per l'altro, si ripropone 'in meno', come un minor numero. A livello elettorale è maggioranza chi vince (elegge), minoranza (eliminata) chi spreca il voto. A livello di eletti è maggioranza chi ha votato il partito più votato, minoranza chi ha votato i partiti meno votati. Peraltro, anche gli eletti votati dalla maggioranza sono un piccolissimo numero, un'esigua minoranza, rispetto alla maggioranza elettorale dalla quale derivano. Salendo ancora di un gradino, a livello di parlamento il partito più votato si può trovare in minoranza se altri partiti (di minoranza) si coalizzano contro il partito di maggioranza (relativa). Torniamo ora indietro, all'elettore di partenza. Quante volte può essere battuto, e cioè ritrovarsi in minoranza? Parecchie. All'inizio può votare senza successo, e quindi essere subito eliminato. Ma anche se il suo voto elegge qualcuno, il suo eletto può appartenere a un partito di minoranza che magari non ha nessun peso (in parlamento); oppure può essere un eletto che si trova in minoranza all'interno del proprio partito. Non occorre continuare nell'illustrazione. Il punto è già chiaro, ed è questo: che il 'comando di minoranza' non dimostra per nulla che le democrazie non sono tali, che il popolo che si manifesta nel maggior numero, il popolo dei più, è un sovrano truffato o spodestato. Nella democrazia quel popolo avvia il processo di formazione dei governi; e a ogni livello troviamo una maggioranza che conta più della minoranza che la fronteggia.
Il problema del 'comando di minoranza' si sposta dunque sul terreno della formazione di tali minoranze, della loro natura e anche (non dimentichiamolo, anche se qui non ne trattiamo) dei limiti imposti al loro potere. Se formuliamo il problema in termini moschiani, la domanda è: la classe politica è una (tendenzialmente coesiva e omogenea), e quindi 'classe' in un'accezione sostantiva del termine; oppure è molteplice (una poliarchia antagonistica), e quindi 'classe' nell'accezione classificatoria del termine? Insomma, singolare o plurale? Lo spartiacque è questo. E qui soccorre la verifica, l'accertamento, proposto da Dahl (v., 1958).Se, argomenta Dahl, una ruling elite (davvero 'una') esiste davvero, in tal caso deve risultare empiricamente identificabile. Se c'è, chi è? I dominanti, chi sono? Per accertarlo la nozione di potere va operazionalizzata. Come si fa a stabilire se una persona, o un gruppo, ha potere, e beninteso, un potere decisivo e controllante? Dahl suggerisce che il potere si rivela solo quando una decisione è controversa. Dunque, la prova proposta da Dahl si formula così: per dimostrare l'esistenza di una classe di comando (il sistema di capi di Michels) occorre stabilire che, per tutta una sequela di decisioni controverse, prevale sempre uno stesso gruppo identificabile come tale. Per contro, se questo gruppo non è lo stesso, non perdura, e non prevale regolarmente, allora Mosca, Michels e, negli Stati Uniti, C. Wright Mills (v., 1956) hanno torto: la democrazia esiste e funziona, nella dizione di Dahl (v., 1956 e 1971), come "poliarchia".
Torniamo ora a 'maggioranza' in senso procedurale, come regola di maggioranza, principio maggioritario. Si è già ricordato che questo principio risale a Locke ('i molti' di Aristotele erano una quantità, non una regola decisionale). Perché così tardi? A noi, oggi, il principio maggioritario sembra ovvio. Eppure è stato accettato con molta riluttanza, e nemmeno oggi da tutti. La riluttanza verte, in linea teorica, sul diritto, sul maggior diritto che viene attribuito alla maggioranza. Nella celebre frase di Taine "dieci milioni di ignoranze non fanno un sapere". Difficile negarlo; ma l'argomento prova solo che non tutto (e non il sapere) va a maggioranza, che il principio maggioritario è da usare solo quando occorre. Non è nemmeno necessario elevarlo al rango di 'diritto', o anche di un valore. Basta considerarlo una tecnica, il migliore dei possibili modi di risolvere le controversie pacificamente.La riluttanza perdura tuttavia in chiave pratica. Come si è già accennato di passata, la complicazione è data dall'intensità. Ciascuno di noi sente le questioni con diversa intensità. Alcune nostre preferenze sono deboli, altre forti, appassionatamente e intensamente sentite. La regola maggioritaria ignora la diversa intensità delle preferenze individuali. Ignorandola, di fatto la pareggia: presume che le preferenze siano di eguale intensità. Ma non lo sono. E questo spiega come mai il principio maggioritario non è mai accettato più di tanto, e soprattutto perché non viene accettato affatto dalle minoranze 'intense': i gruppuscoli della contestazione del '68, e poi le minoranze religiose, etniche, linguistiche, se e quando toccate nell'identità che sta loro a cuore, alle quali sono ulteriormente da aggiungere minoranze intense su singole questioni, per esempio l'aborto, il divorzio, l'inquinamento, l'omosessualità. In tutti questi casi finisce che le maggioranze indifferenti (non intense) non premono, oppure cedono, o anche perdono. Le piccole democrazie dirette e l'assemblearismo della contestazione sono il terreno d'azione ideale per 'gruppi intensi' attesi a vincere a ogni costo a dispetto sia del principio maggioritario, sia delle maggioranze sostantive.Non ci possiamo addentrare su quanto l'intensità incida e sposti, tanto a effetto della teoria come della prassi delle democrazie (v. Sartori, 1987, pp. 225-238 e cap. 8 passim). Basterà richiamare come l'intensità si rifletta sul referendum, vale a dire sul modo nel quale un elemento di democrazia diretta può essere inserito nella democrazia rappresentativa.
Premettiamo che le tecniche decisionali possono produrre (nella terminologia che ci proviene dalla teoria dei giochi) esiti a somma positiva, a somma nulla, e a somma negativa. Somma positiva vuol dire che tutti guadagnano qualcosa; somma nulla che chi vince guadagna esattamente quello che la controparte perde; e somma negativa che tutti perdono. La distinzione fondamentale è comunque tra somma positiva e somma nulla. Le elezioni popolari così come il referendum sono entrambe tecniche a somma nulla: o si vince o si perde. Peraltro le elezioni non sono 'finali' nello stesso senso nel quale lo è un referendum.Le elezioni eleggono o non eleggono (a somma nulla) un rappresentante; ma così si avvia un processo che prosegue in parlamento e poi ancora al governo, che non è più, di solito, a somma nulla. Le elezioni decidono chi andrà a decidere; e gli eletti, quando si ritrovano faccia a faccia, dibattono, negoziano, e spesso addivengono a soluzioni (decisioni) di compromesso, il che vuol dire a somma positiva: nessuno perde tutto, e tutti, sia pure in diversissima misura, ottengono qualcosa. Dunque, le elezioni mettono in moto un processo rappresentativo 'continuo' che tende a produrre esiti a somma positiva. Il che implica che quel processo consente di accomodare, o altrimenti di congelare e accantonare, le istanze delle minoranze intense.
Non così il referendum. Qui il voto non elegge chi deciderà, ma decide ipso facto. Il voto referendario è conclusivo ed è necessariamente a somma nulla: la maggioranza (referendaria) vince tutto, e chi resta in minoranza, ivi comprese le minoranze intense, perde tutto. Dal che consegue che nelle società segmentate (divise da, e tra, intense minoranze religiose, etniche, o altre), così come su questioni 'calde' (quali, ad esempio, l'integrazione razziale), il referendum è controproducente: non chiude ma semmai aggrava i conflitti. Chi raccomanda un indiscriminato e sempre maggior decidere diretto del demos e così la democrazia referendaria, ignora (per cominciare) il problema dell'intensità.
Esistono tipi diversi di democrazia rappresentativa? Siccome la realtà è varia, è sempre bene fermare questa varietà in classificazioni e tipologie. Così, in riferimento al potere esecutivo si distingue tra sistemi presidenziali e sistemi parlamentari; in riferimento al sistema partitico tra sistemi pluripartitici e bipartitici, polarizzati e no (v. Sartori, 1976); e in riferimento al principio maggioritario tra democrazie maggioritarie e consociative. Beninteso le dicotomie sopra richiamate ammettono forme miste o intermedie. Così, tra presidenzialismo e no si interpongono sistemi semipresidenziali (la V Repubblica francese) e di governo di gabinetto (Inghilterra); tra il pluripartitismo estremo (frammentazione partitica) e il bipartitismo si interpongono sistemi di pluripartitismo limitato e moderato. Qui ci soffermeremo soltanto sulla già ricordata democrazia consociativa teorizzata da Lijphart. La teoria di Lijphart è stata, all'inizio, tipologica (1968); si è poi sviluppata empiricamente nella contrapposizione tra democrazia maggioritaria e democrazia consociativa (1977); trasformandosi ed estendendosi, alla fine, nella preferenza generalizzata per la "democrazia consensuale" (1984), una dizione che sostituisce, diluendola, quella di democrazia consociativa. Nel primo e secondo Lijphart la democrazia consociativa si applicava alle "società segmentate"; nell'ultimo Lijphart quella dizione è sostituita e diluita da quella di "società plurali". I passaggi in questione sono graduali; ma importa fissarli, ché l'ultimo Lijphart convince assai meno del primo, e anche del secondo.Cominciamo dall'antitesi tra democrazia maggioritaria, il cosiddetto 'modello Westminster', e democrazia consociativa (definibile, in questa contrapposizione, come non-maggioritaria). La domanda immediata è se i due modelli in questione siano 'tipi ideali' (polari o estremi) oppure siano 'tipi empirici' riconducibili quasi senza residuo a casi concreti. Se sono tipi ideali, allora l'antitesi è illuminante. Ma se la contrapposizione tra democrazia maggioritaria e consociativa non è più tra tipi ideali ma invece tra tipi empirici, allora appare forzata. È vero che nei sistemi bipartitici di tipo inglese la distinzione, in parlamento, tra maggioranza e opposizione è più netta che in qualsiasi altro sistema, e questo perché nel bipartitismo il governo è monopartitico, e quindi il governo governa e l'opposizione si oppone. Il che non toglie che il principio maggioritario sia pur sempre, in Inghilterra e nei paesi consimili, 'limitato', e cioè inteso come diritto della maggioranza nel rispetto delle minoranze. Si consideri inoltre che in gran parte dei veri e propri sistemi parlamentari - tali perché hanno nel parlamento il loro epicentro - lo stesso principio maggioritario si afferma "come un principio di compromesso, di accomodamento degli antagonismi politici" (v. Kelsen, 1920; tr. it. p. 66). Democrazia maggioritaria sì; ma non più di tanto.
E la forzatura diventa ancora più marcata quando, nell'ultimo Lijphart, l'opposto di democrazia maggioritaria diventa "democrazia consensuale". La modificazione è più terminologica che di sostanza. Ma la dizione basta di per sé a suggerire che la democrazia maggioritaria non sia consensuale: il che è fuorviante. Di pari passo l'ultimo Lijphart (v., 1984, p. 22) modifica ed estende l'applicabilità della sua formula. Se all'inizio la democrazia consociativa è necessaria per le società segmentate, ora diventa ottimale per le "società plurali". Anche a questo effetto la modificazione è più di dizione che di sostanza, ché le plural societies sono definite "società che sono nettamente divise [...] in sottosocietà virtualmente separate". Ma una volta fatta sparire la parola 'segmentate' il discorso di Lijphart si svolge sull'onda della parola 'plurali'; e man mano le inclusioni crescono: dopotutto, un po' di 'plurale' c'è dappertutto. E così la tesi dell'ultimo Lijphart non è più che il consociativismo è necessario nei relativamente pochi casi nei quali il criterio maggioritario è sicuramente controproducente, ma diventa che il consociativismo-consensualismo è preferibile anche quando non è necessario.
Quale, dunque, il Lijphart che più convince? Premesso che tutte le liberaldemocrazie sono maggioritarie con limiti, è vero che lo sono in diversissima misura. La nozione di democrazia consociativa coglie, e coglie proficuamente, il caso del ricorso minimo a decisioni maggioritarie, il caso nel quale la maggioranza è prodotta da 'minoranze concorrenti' a ciascuna delle quali viene riconosciuto un diritto di veto. Ne risulta, a detta di Lijphart, che il consociativismo è caratterizzato da maxicoalizioni e da un proporzionalismo generalizzato (elettorale e anche spartitorio: la proporz austriaca). Ma la caratteristica decisiva, ci sembra, è quella messa in evidenza dal primo Lijphart (e poi lasciata slittare in penombra), e cioè che il consociativismo richiede - per funzionare come previsto dal modello - "élites cooperative", élites solidali nel neutralizzare le spinte dirompenti delle società segmentate. Tutto ciò posto, la tesi che convince è che la democrazia consociativa sia un rimedio, ma pur sempre un rimedio, per le società 'difficili' a struttura segmentata. La tesi che convince assai meno è, invece, che la democrazia consensuale (e cioè la versione allargata e diluita del consociativismo) sia buona in assoluto, e cioè sempre migliore della democrazia maggioritaria. Intanto, anche il 'modello Westminster' è un modo di gestire il consenso (sarebbe davvero strano che fosse un modo di attizzare il conflitto); e non è per nulla sicuro che ne sia una gestione infelice. Difatti l'obiezione che si può fare al modello raccomandato da Lijphart è che il perenne accomodamento delle divisioni e dei conflitti rischia di consolidarli e anche di moltiplicarli e aggravarli. La pace a ogni costo è costosa e foriera d'impantanamento (si vedano le otto direttrici di marcia della democrazia consensuale riassunte in Lijphart, 1984, p. 30). Senza contare che un sistema affidato, a titolo di condizione necessaria, a élites cooperanti e solidali è un sistema intrinsecamente fragile: bastano, per farlo crollare, élites che scoprano, o riscoprano, il cannibalismo competitivo.
Il Libano, uno dei primi casi di Lijphart, è esploso nel peggiore di tutti i modi possibili. Il Belgio 'consociativo' riesce a sopravvivere facendo di necessità virtù; ma ciò non dimostra che la formula odierna sia superiore a quella preesistente. La Svizzera è l'esempio sempre vincente; ma la Svizzera non dispiega, come società, nessuna delle tensioni che richiedono soluzioni consociative: è tranquillamente 'segmentata' e basta. Si è molto discusso se l'Italia sia consociativa o no. Lo è in parte, ma non abbastanza (la società italiana non è, per esempio, segmentata). Il che non impedisce di chiedere se all'Italia convenga diventare più consociativa o, invece, più maggioritaria. Per l'ultimo Lijphart, sappiamo, la via da battere è sempre la prima. Al che si può opporre che il consociativismo consolida e anche incoraggia la frammentazione, laddove un maggioritarismo ben gestito riesce a ridurla.Diverso è il dibattito sul cosiddetto neocorporativismo, che può essere in qualche modo collegato a quello sul consociativismo, ma con chiara cognizione della rispettiva diversità. La democrazia neocorporativa non è tanto un tipo di democrazia, quanto una trasformazione interna del modo di operare dei sistemi democratici soprattutto (ma non soltanto) a fronte dei conflitti di lavoro e della cosiddetta politica dei redditi. Il neocorporativismo ha molte varianti (v. Schmitter e Lehmbruch, 1979; v. Williamson, 1989), ma l'idea centrale è che sindacati, padronato e Stato gestiscono il sistema economico 'accorpati' in una fitta rete di interessi comuni gestiti 'contrattando' più che lottando (scioperando). Una importante modifica introdotta da questa interpretazione riguarda il ruolo dello Stato, che cessa di essere un arbitro sopra le parti per diventare esso stesso parte. E anche qui il dibattito è se la trasformazione neocorporativa sia da accettare, se e quando si dà, come male minore ovvero come soluzione ottimale.
Liberalismo, un sistema politico, non è liberismo, un sistema economico. Del pari, la liberaldemocrazia è un sistema politico, non un sistema economico. Peraltro la prima distinzione è più netta della seconda.Il costituzionalismo liberale emerge a cavallo tra Sei e Settecento e dunque, nel fatto, assai prima del vangelo liberistico. E nemmeno logicamente si vede perché il liberalismo sia da collegare a stati economici. Il liberalismo pone in essere lo Stato limitato, il controllo del potere e la libertà da (del cittadino); ma non distribuisce beni, non attende al benessere. Difatti il liberalismo è nato in società ancora povere (poverissime per i nostri criteri) e prima della rivoluzione industriale. Non esistono, dunque, specifiche condizioni o precondizioni economiche, né liberistiche, né di ricchezza, né altre, del liberalismo come tale. Ma il problema cambia quando il liberalismo si avvince alla democrazia e in funzione della componente democratica della liberaldemocrazia. Ché la democrazia inevitabilmente, anche se con velocità storicamente molto diverse, approda a distribuzioni e redistribuzioni di ricchezza.Alla fine della seconda guerra mondiale si dava largamente per scontato che, specie nel Terzo Mondo, occorressero in primo luogo riforme economiche (riforma agraria, una più equa distribuzione delle ricchezze, più lo sviluppo industriale), riforme che avrebbero quasi automaticamente generato, nella loro scia, la democrazia politica. Questo era un semplicismo economico propugnato da economisti. Ma anche l'analisi più approfondita e meditata delle condizioni della democrazia che si è successivamente sviluppata su impulso iniziale di S. M. Lipset (v., 1960) dà pur sempre centralità alla componente economica (v. Usher, 1981). Che l'economia sia la 'causa' della democrazia non è più, in questa forma semplicistica, tesi sostenuta da nessuno. Ma la tesi che pur sempre sussiste è che un 'prima' economico debba precedere il 'dopo' democratico. Al che si oppone, o si può opporre, che è la democrazia che viene prima e che 'causa' lo sviluppo economico.In verità, se guardiamo particolareggiatamente ai casi di successo economico e/o - disgiuntamente o congiuntamente - di successo democratico, se ne ricava che non si dà nessun singolo fattore causale che debba necessariamente agire per primo. Se così, il discorso è da spostare su condizioni facilitanti - condizioni che non sono né necessarie né sufficienti - e investe, potremmo dire, 'ottimizzazioni convergenti'. È dunque in chiave di condizioni facilitanti che passeremo tra poco a considerare il nesso tra democrazia liberale ed economia di mercato. Ma prima vediamo in generale.
Come si arriva alla democrazia? In moltissimi modi che si riflettono in una molteplicità d'interpretazioni, teorie e modelli (v. Morlino, 1986, pp. 94-132; v. anche 1980, cap. V). Per dipanare la matassa è utile distinguere tra percorsi, da un lato, e fattori o condizioni dall'altro. Non ci possiamo in alcun modo addentrare nei primi (v. Rokkan, 1970, pp. 72-144); e quanto ai secondi occorre quantomeno ricordare che la democrazia presuppone la 'politica come pace' (non la politica come guerra teorizzata da Carl Schmitt), l'autonomia della società civile (una caratteristica che si riallaccia alla separazione tra pubblico e privato e alla secolarizzazione della politica), e credenze di valore pluralistiche. Si deve altresì sottolineare che tra i fattori culturali il fattore religioso può pesare assai più delle condizioni economiche o socioeconomiche. Basti osservare, a conferma, che ancora nel 1990 è raro imbattersi, in giro per il mondo, in Stati islamici liberi (e men che meno democratici). Nell'area islamica la differenza tra ricchezza (gli Stati ricchi di risorse petrolifere: Iran, Iraq, Arabia Saudita, Indonesia) e povertà non ha fatto, a tutt'oggi, differenza. Dunque i fattori in gioco non sono soltanto economici. Ciò premesso, vediamoli.
Che oggi democrazia e benessere siano frequentemente associati (la correlazione è relativamente forte), è vero, ed è anche abbastanza ovvio. Se la tesi è formulata come la formulava prudentemente Lipset (v., 1960, pp. 49-50), "tanto più un paese è prospero, tanto più è probabile che sostenga la democrazia", allora è difficile da smentire. Ma una correlazione non spiega. Per spiegare occorre quantomeno un'imputazione causale: per esempio che il benessere 'facilita' la democrazia. È vero? Abbastanza, seppure con la grossa, davvero grossa eccezione dell'India, democratica ma povera.Per contro, che la democrazia produca benessere è ipotesi dubbia. Se lo produce, ciò avviene probabilmente perché le democrazie non disturbano i processi economici più di tanto, e cioè lasciano fare il mercato. Ma la democrazia in sé e per sé, come sistema politico, riesce anche a impoverire. L'Uruguay illustra bene questo caso; e molte democrazie intermittenti dell'America Latina sono state, quando in carica, dissipatrici di ricchezza. E se Mancur Olson (v., 1982) ha ragione quando sostiene che qualsiasi società 'vecchia', democrazie incluse (e Inghilterra in testa), rallenta, con le sue incrostazioni irrigidenti, lo sviluppo economico, allora democrazia e declino economico si possono benissimo appaiare. Sia come sia, veniamo al nesso tra democrazia e mercato.
È da più di mezzo secolo che si dibatte se la democrazia presupponga un sistema di mercato. Per la verità questo dibattito è stato largamente deviato sulla nozione di capitalismo e di economia capitalistica. Ma il collasso dei sistemi a economia pianificata ha di per sé rettificato la messa a fuoco: ché la sconfitta dell'economia pianificata è, prima di tutto, la sconfitta del non-mercato, di una economia comandata incapace di fondarsi su un calcolo economico dei costi (come già ben dimostrato da Hayek: v., 1935). Della sostituibilità del capitalismo si continuerà a discutere; ma di quella del mercato no: la vittoria di quest'ultimo è schiacciante. Certo, le formule di mercato possono essere varie (e variamente efficienti-inefficienti); ma l'essenziale del meccanismo - il calcolo dei costi - non è più ripudiabile. È dunque corretto centrare il problema su democrazia e mercato.Cominciamo dal rilevare che il mondo abbonda di sistemi di mercato senza democrazia. Invece tutte le liberaldemocrazie passate e presenti sono, al tempo stesso, sistemi di mercato. Da questa constatazione si ricava la certezza che il mercato non è condizione sufficiente di democrazia, e il quesito se la democrazia trovi nel mercato una sua condizione necessaria. Stabilito che il mercato non dà democrazia, resta da stabilire se la democrazia postuli il mercato. La risposta è: probabilmente sì in chiave di ottimizzazione; forse no in chiave di necessità.
L'argomento è da svolgere sia in sede economica che in sede politica. Il discorso economico si può riassumere così: quanto più una democrazia conta sul benessere ed è attesa a distribuirlo, di altrettanto richiede un'economia in crescita, e cioè una torta crescente che consenta sempre più ampie spartizioni. Vero è che anche il mercato può fallire; vero è che produrre la torta è un conto, suddividerla un altro; ma se la torta non c'è, se la gallina non fa uova, allora nulla. Peraltro, il nesso in questione è posto da un'aspettativa. Se, in ipotesi, ci contentassimo di una democrazia austera, spartana, non spendacciona, allora non è più detto che il mercato ne sia una condizione sine qua non. Oggi però anche le società sottosviluppate, o comunque in stato di autentica povertà (come i paesi devastati dal fallimento delle economie pianificate), ricavano i loro livelli di aspettativa dall'esempio delle società sviluppate.
Passiamo al discorso politico. Per quanto sistema politico e sistema economico siano o diventino strettamente interconnessi, le due cose non sono mai la stessa, e il requisito politico della liberaldemocrazia è la diffusione del potere: una diffusione-dispersione atta a consentire spazio e tutela alla libertà individuale. Non è - come sostengono i marxisti - che la liberaldemocrazia rifiuta un'economia pianificata di Stato perché la democrazia capitalistico-borghese nasce e sussiste per difendere la proprietà privata; è, pregiudizialmente, perché qualsiasi concentrazione di tutto il potere - specie di tutto il potere politico congiuntamente a tutto il potere economico - crea un potere soverchiante contro il quale all'individuo non resta possibilità di difesa. Già lo sapeva Trockij: nel comunismo chi non obbedisce non mangia. Quando lo Stato diventa il solo datore di lavoro, la prigione non occorre più: basta licenziare e non riassumere.
Dunque l'argomento è che i sudditi diventano cittadini (con diritti e 'voce') solo all'interno di strutture politiche, economiche e anche sociali che spezzino il potere concentrato (da non confondere con la centralizzazione del potere) mediante una molteplicità di poteri intermedi e controbilancianti. A questa condizione tassativa qualsiasi ordinamento economico è politicamente accettabile. Se poi quell'ordinamento funziona poco e male sul piano economico, in tal caso è per tornaconto, al fine di massimizzare il benessere, che possiamo preferire il mercato. Ma, si diceva, l'accoppiata democrazia-mercato è ottimizzante; non è ancora dimostrato, a rigore, che sia obbligata e obbligante.
Il sostantivo democrazia denota e circoscrive una cosa, una determinata realtà. 'Democratico' è invece un predicato che connota una proprietà o attributo di qualcosa. Il sostantivo induce a chiedere cosa è, e cosa non è, democrazia. L'aggettivo induce, invece, a graduare: democratico in che misura, quanto. Lo sviluppo quantitativo delle scienze sociali ha diffuso l'idea che la domanda 'cosa è democrazia?' sia obsoleta e superata dalla domanda 'quanta democrazia?'. Ma le due domande non sono fungibili, e sono entrambe corrette a patto che vengano logicamente trattate in modo corretto.Che cosa è democrazia? L'obiezione di rito è che questa domanda porta a dicotomizzare tra democrazia e no. Non è necessariamente così. Certo, la determinazione dei concetti è sempre data, quantomeno in via preliminare, da definizioni a contrario. Il bello è il contrario del brutto, il bene il contrario del male, il caldo il contrario del freddo. Ma non è che questi contrari escludono casi o stati intermedi. Ovviamente ammettono il semibello e il semibrutto, il bene-male, e il tiepido. Chi ha mai stabilito, in logica, che per i contrari in generale tertium non datur? Certo che si dà. Il principio aristotelico del 'terzo escluso' si applica soltanto ai 'negativi', soltanto alla specifica sottoclasse dei contrari che si definiscono per esclusione-negazione reciproca (blu oppure non-blu, sposato oppure non-sposato, vivo oppure morto). Dunque, la domanda 'che cosa è democrazia' non impone dualizzazioni manichee, distinzioni tra tutto e nulla. E niente vieta che anche il cosiddetto trattamento qualitativo del concetto di democrazia includa semidemocrazie, quasi-dittature e tutte le miscele intermedie che vogliamo.
Ciò precisato, è anche importante trovare un contraddittorio, un negativo, che davvero stabilisca dove la democrazia finisce, che cosa 'democrazia' include e che cosa esclude. Perché se non sappiamo a che cosa 'democrazia' si applica, oppure non si applica, tutto diventa nebuloso e il discorso si impantana (anche nell'imbroglio). Per esempio, da che cosa ricaviamo empiricamente le proprietà o le caratteristiche dei sistemi democratici? Ovviamente dalle democrazie che osserviamo, che esistono. Ma se non abbiamo deciso quali sistemi siano o non siano democratici, allora non possiamo decidere quali ne siano le proprietà caratterizzanti. È così che negli ultimi cinquant'anni si è potuto spacciare tutto, o quasi tutto, per democrazia. Il che non ha giovato né alla chiarezza delle idee, né alla causa della democrazia. Tra i possibili negativi di democrazia forse il più calzante è autocrazia. Qui davvero tertium non datur, perché i principî di investitura e di legittimità 'saltano', e cioè non variano per gradi. Autocrazia è autoinvestitura, proclamarsi capo da sé (o per diritto ereditario), laddove il principio democratico è che il potere può essere conferito solo dal popolo, o comunque da quella popolazione sulla quale il potere viene esercitato. Qui abbiamo dunque due criteri che si definiscono senza residuo per esclusione reciproca: aut aut, o così o non così. Il che ci consente di stabilire senza incertezze e in ogni occasione dove c'è democrazia oppure no.
Quando passiamo alla domanda 'quanta democrazia?' l'intento non è più di identificare un oggetto, ma di misurarlo, sia in valori numerici (v. ad esempio Morlino, 1980, appendice; v. Powell, 1982), sia, e molto più spesso, in termini di più-meno. In tal caso non procediamo per opposti, ma per gradi. Il trattamento logico non è più binario o dicotomico (sì-no) come nel procedimento classificatorio, ma invece 'continuo' (maggiore-minore), come in ogni misurazione.In verità, 'quanta democrazia' sta per quanta democraticità: predichiamo qualcosa di qualcosa; il che comporta che il referente si slarga. Le domande possono essere due: primo, in che misura una democrazia è democratica; secondo, e alternativamente, in che misura qualsiasi città politica è democratica. Nel primo caso dobbiamo anzitutto identificare che cosa sia democrazia. Nel secondo caso no: la presunzione è (a torto o a ragione) che in qualche misura o grado vi sia, o possa essere, democraticità ovunque. Ma in ogni caso chi chiede 'quanta democrazia' si deve prima chiedere: democrazia rispetto a quali caratteristiche? Tanto la democrazia scompare come entità, di altrettanto occorre stabilire quali siano le proprietà o attributi della democraticità. Se predichiamo qualcosa, che cosa è che predichiamo? La caratteristica prescelta può essere 'partecipazione', oppure può essere 'principio maggioritario', oppure può essere 'eguaglianza', e poi anche consenso, competizione, pluralismo, costituzionalismo, e così via. Nulla vieta, si intende, di ricondurre 'democraticità' a più di una caratteristica, o anche a tutte quante. Ma se vogliamo approdare, lungo questa via, a un indice di democraticità che le aggreghi in una singola misura, allora si deve tener presente che ogni caratteristica in più aggiunge complicazioni in più.Dunque, 'che cosa è' e 'quanto' sono quesiti diversi (anche in chiave di trattamento logico). Chi non risponde al primo lascia il concetto di democrazia senza definizione, talché nemmeno sappiamo se e quando il termine si applica. Rispondere al secondo quesito sviluppa e precisa l'analisi empirica delle democrazie. Una comprensione esauriente della democrazia è tale, allora, perché li affronta entrambi. Ma in tal caso conviene che prima si stabilisca che cosa la democrazia è, e poi si accerti di quanto una democrazia sia più o meno democratica di un'altra. La tecnica di analisi più proficua è di stabilire, in premessa, gli opposti; e poi di concepirli come i poli estremi del continuo, e più ancora della dimensione, definita da quei poli. Mettiamo che gli opposti prescelti siano democrazia-dittatura oppure democrazia-autoritarismo. In questi e simili esempi la questione di quali sistemi siano più o meno democratici, quali a mezza strada (semidemocratici), e quali più-o-meno non-democratici, si risolve piazzando i casi concreti, i singoli regimi, in punti diversi del continuo, più o meno vicini al polo al quale sono da avvicinare.In ogni caso, qualsiasi teoria della democrazia è tenuta a stabilire che cosa democrazia non è (qual è il confine o criterio che divide la democrazia dai suoi opposti, e ancor più dal suo negativo), per poi passare a misurare quanto una democrazia sia più o meno democratica di un'altra (in funzione delle caratteristiche dichiarate atte ad accertarlo), ovvero se elementi (caratteristiche) di democraticità sussistano in una qualche misura in qualsiasi sistema politico. (V. anche Città-Stato; Comunismo; Corporativismo/Corporatismo; Costituzionalismo; Eguaglianza; Liberalismo; Liberismo; Partiti politici; Regimi politici; Socialismo; Sovranità).
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