EGUAGLIANZA
di Ronald M. Dworkin
Sebbene per molti secoli l'eguaglianza abbia costituito un potente ideale politico, tuttavia il problema di darne un definizione adeguata è stato relativamente trascurato. In quest'articolo esamineremo le principali problematiche relative a questo tema e proporremo un argomento a favore di una determinata concezione dell'eguaglianza.
Cominceremo col distinguere le differenti questioni che deve affrontare ogni trattazione generale dell'eguaglianza.
Politici e filosofi hanno dibattuto i pro e i contro dell'eguaglianza in differenti ambiti, ad esempio nella sfera politica e in quella economica. La questione preliminare che deve affrontare ogni studio dell'eguaglianza, quindi, è se gli ideali di eguaglianza in queste sfere distinte sono autonomi, oppure se derivano tutti da un principio egualitario più generale e astratto, secondo il quale il sistema politico ed economico della comunità in ogni suo aspetto deve trattare tutti i cittadini come eguali, vale a dire con eguale rispetto e considerazione.Si tratta di una questione di importanza cruciale. Attualmente tutte le democrazie occidentali - e la maggior parte delle altre nazioni civilizzate - accettano l'idea dell'eguaglianza nella sfera politica. Sussiste la convinzione che, in linea di principio, nessun individuo adulto dovrebbe avere un potere politico maggiore degli altri. Se si rigetta l'idea di un principio di eguaglianza astratto e generale, si può scegliere tra una serie di aspirazioni egualitarie che possono anche apparire in conflitto tra loro. Poiché negli Stati Uniti, ad esempio, la maggioranza si oppone all'eguaglianza economica, quanti ritengono che l'eguaglianza politica e quella economica sono ideali indipendenti affermano che accettare la prima significa rifiutare la seconda, anche come ideale. Se però si accetta il principio egualitario più astratto secondo il quale il governo deve trattare tutti i cittadini come eguali o con eguale considerazione, e si riconosce che l'eguaglianza politica è una conseguenza di tale principio astratto, allora se ne dovranno accettare le conseguenze - quali che siano - anche nella sfera economica.In questo articolo descriveremo quali conseguenze comporti accettare l'idea di un principio di eguaglianza astratto e generale. Tratteremo quindi come problemi di interpretazione le questioni più specifiche relative alla definizione dell'eguaglianza politica e di quella economica, e all'eventuale conflitto tra di esse o con altri valori. Analizzeremo le diverse concezioni dell'eguaglianza politica ed economica, e individueremo e giudicheremo gli eventuali conflitti chiedendoci quale di esse fornisca l'interpretazione migliore del principio egualitario più astratto e quale soluzione dei conflitti con altri ideali - se ve ne sono - sia più conforme a tale principio astratto.
È necessario stabilire innanzitutto cosa sia l'eguaglianza economica prima di chiederci se e in che misura essa sia desiderabile, e se e in che misura sia in conflitto con altri ideali politici come la libertà, l'efficienza economica e l'eguaglianza politica. Il criterio per stabilire l'eguaglianza economica è stato definito in due modi diversi. In un caso si afferma che l'eguaglianza economica riguarda le risorse di cui dispongono gli individui, sicché definire l'eguaglianza significa trovare una definizione dell'eguaglianza di risorse in termini di ricchezza o di reddito. Si può affermare, ad esempio, che due individui hanno risorse eguali quando i loro redditi sono diversi, ma solo perché uno sceglie di lavorare più dell'altro, o perché pur lavorando allo stesso modo uno ha preferito dedicarsi al mondo degli affari e l'altro all'insegnamento universitario? I critici dell'eguaglianza economica di solito assumono che l'eguaglianza di risorse significhi che tutti gli individui devono avere la stessa quantità di ricchezza a prescindere da quanto lavorano o spendono. Presentato in questo modo il principio di eguaglianza viene ovviamente ridicolizzato, ma è lecito chiedersi se sia davvero questa l'interpretazione più adeguata dell'eguaglianza di risorse.Nel secondo caso l'eguaglianza economica non viene valutata in rapporto alle risorse, bensì al benessere raggiungibile attraverso le risorse di cui dispone l'individuo. Se l'eguaglianza economica si identifica con l'eguaglianza di benessere, occorre specificare in che termini va definito quest'ultimo: in termini di felicità, per cui due individui sono uguali sul piano economico quando sono egualmente felici? oppure in termini di soddisfazione dei desideri, per cui due individui non sono eguali se non hanno ottenuto ciò che vogliono nella stessa misura? oppure ancora in termini di qualità della vita giudicata in base a qualche criterio oggettivo, sicché una politica rigorosamente egualitaria potrebbe obbligare gli individui a conformarsi a valori etici che rifiutano?Occorre stabilire quale di queste due definizioni generali sia preferibile prima di optare per una delle sue formulazioni più specifiche. La definizione dell'eguaglianza in termini di benessere sembra cogliere meglio i reali interessi degli individui, i quali mirano fondamentalmente al benessere attribuendo alle risorse un valore puramente strumentale. L'interpretazione dell'eguaglianza economica come eguaglianza delle risorse appare convincente per un altro motivo: essa sostiene che la ricchezza e le altre risorse dovrebbero essere egualmente distribuite tra tutti, ma che il modo in cui vengono impiegate e la capacità di costruirsi un'esistenza soddisfacente riguardano esclusivamente la sfera delle decisioni e delle scelte individuali, non lo Stato.
Secondo un'opinione largamente diffusa, comune a tutti gli orientamenti politici, l'eguaglianza sarebbe in conflitto con altri valori sicché la questione più importante, sul piano pratico, non è se si debba accettare o respingere l'ideale dell'eguaglianza, bensì in che misura sia legittimo privilegiare l'eguaglianza a scapito di altri ideali. Secondo i politici di destra l'eguaglianza si può ottenere solo pagando un prezzo inaccettabile in termini di libertà, in quanto essa richiederebbe di limitare la libertà di investimento e di spesa degli imprenditori. I politici di sinistra accettano la premessa di fondo di questo argomento, ossia che l'eguaglianza è in conflitto con la libertà, ma ne respingono le conclusioni; a loro avviso infatti la libertà è un valore borghese proprio perché impedisce di realizzare adeguatamente l'eguaglianza. La tesi secondo cui eguaglianza e libertà sono in conflitto è accettata anche dai politici di centro, i quali però rifiutano le soluzioni radicali di tale conflitto proposte dalla destra e dalla sinistra in favore di una soluzione di compromesso in cui non viene realizzata né la piena libertà, né la piena eguaglianza.Ma è poi fondata questa convinzione condivisa pressoché da tutti, che eguaglianza e libertà spesso sono in conflitto, oppure esiste la possibilità di conciliare le due cose in modo da avere solo i vantaggi comportati da ciascuna? E se è così, tale conciliazione è solo un caso fortunato e probabilmente transitorio, oppure i due valori sono così strettamente connessi che la violazione dell'uno comporta necessariamente la violazione dell'altro? Per rispondere a tali questioni è indispensabile analizzare il concetto di libertà oltre che quello di eguaglianza. Si tratta in ogni caso di questioni estremamente importanti sul piano pratico. L'argomento più forte - almeno retoricamente - contro l'eguaglianza è che la sua piena realizzazione comporta un grave sacrificio della libertà, e tale argomento richiede una verifica empirica oltreché filosofica.Secondo un'opinione largamente diffusa, d'altro canto, l'eguaglianza non sarebbe in conflitto solo con la libertà, ma anche con importanti valori politici quali la prosperità, la cultura e la comunità. È vero, come molti ritengono, che l'ineguaglianza è indispensabile per garantire agli investimenti e all'industria gli incentivi economici necessari all'economia moderna per sopravvivere e per prosperare? È lecito affermare che l'eguaglianza economica non è auspicabile in quanto una società che si preoccupa esclusivamente di eliminare le ineguaglianze economiche avrà ben poco da investire nell'arte e nella cultura, e inoltre perché solo una società in cui alcuni sono molto ricchi può fornire la ricchezza privata e la raffinatezza del gusto indispensabili alla creatività artistica? È fondata la tesi dei marxisti e di altri 'comunitaristi' secondo la quale l'eguaglianza economica distruggerebbe i valori comunitari, in quanto una società in cui ognuno si preoccupa di valutare la propria quota di ricchezza o di benessere in base a un presunto diritto a una distribuzione egualitaria è una società atomistica formata da individui fondamentalmente egoisti e scarsamente sensibili agli interessi della comunità nel suo complesso? È vero, infine, che l'eguaglianza economica sarebbe antidemocratica in quanto nelle moderne società sviluppate la maggioranza politica è formata da individui le cui condizioni economiche sono migliori di quelle delle classi inferiori, che essi non sono disposti a sostenere economicamente?
Problemi analoghi sorgono allorché si cerca di definire l'eguaglianza politica o la democrazia. È lecito affermare che l'eguaglianza politica esiste solo quando gli individui hanno eguale potere politico? E in questo caso, cos'è il potere politico, e in che modo si può misurare e confrontare il potere politico di diversi individui? Il potere riguarda l'impatto generale del singolo sulle decisioni politiche, ossia la sua incidenza diretta, oppure riguarda l'influenza generale, ossia l'incidenza che egli ha non in prima persona bensì attraverso la sua influenza su altri?
Si tratta ancora una volta di problemi di grande rilevanza pratica. Se l'eguaglianza politica è solo eguaglianza di impatto, essa può essere garantita, almeno per quanto riguarda le elezioni generali, dal suffragio universale e paritario, ossia da un sistema in cui in via di principio ogni cittadino adulto ha il diritto a esprimere un voto. Se però l'eguaglianza politica è anche eguaglianza di influenza, allora essa richiede tra le altre cose eguale accesso alle informazioni e ai media. L'eguaglianza di impatto sembra più facile da ottenere, ma fornisce anche un'interpretazione meno soddisfacente della reale eguaglianza politica. L'eguaglianza di influenza sembra più adeguata sotto questo punto di vista, ma quasi impossibile da ottenere. Quale di queste due interpretazioni è la più adeguata - ammesso che una di esse lo sia? Oppure dobbiamo respingerle entrambe in quanto considerano solo l'input - ossia gli aspetti procedurali dell'eguaglianza politica - trascurando l'output - ossia le decisioni concrete che scaturiscono dal processo politico? Anche quando gli individui hanno eguale impatto ed eguale influenza, le decisioni politiche possono svantaggiare sistematicamente un determinato gruppo (ad esempio i più poveri, o una minoranza etnica, razziale o religiosa) che viene costantemente sconfitto alle elezioni e trattato ingiustamente. È lecito parlare ancora di eguaglianza politica in una situazione di questo tipo?
Abbiamo affermato che al giorno d'oggi nessuno, nelle democrazie occidentali, metterebbe in discussione il principio egualitario astratto secondo il quale il sistema politico deve trattare tutti i cittadini come eguali, e i problemi più specifici relativi all'eguaglianza devono essere considerati problemi relativi all'interpretazione più adeguata di tale principio astratto. Supponiamo tuttavia che esso venga messo in discussione. Quali sono gli argomenti a favore dell'eguaglianza nella sua forma astratta? Occorre distinguere in proposito due tipi di argomenti, che potremmo definire 'strumentali' e 'intrinseci'. I primi sono abbastanza noti: secondo la tradizione utilitarista, ad esempio, l'eguaglianza è auspicabile perché (e quindi solo se e nella misura in cui) garantisce un incremento del benessere generale. L'utilitarismo quindi difende l'eguaglianza politica perché, tra le altre cose, una consultazione popolare o un referendum in cui ognuno ha diritto a esprimere un voto rappresenta il sistema più efficace per assicurare che i rappresentanti eletti tutelino gli interessi della maggioranza e governino quindi per realizzare la massima felicità per il maggior numero di persone. Il principale argomento degli utilitaristi in favore dell'eguaglianza economica si richiama al principio dell'utilità marginale decrescente. Se normalmente gli individui producono un benessere addizionale sempre minore con incrementi marginali di risorse, allora una anteriore distribuzione approssimativamente egualitaria delle risorse produrrà un'utilità media maggiore rispetto a una distribuzione fortemente diseguale.
Gli argomenti 'strumentali', tuttavia, difficilmente possono essere argomenti a favore di un'eguaglianza totale, perché nella maggior parte dei casi è più probabile che si ottenga lo scopo desiderato consentendo una certa ineguaglianza anziché insistendo su una distribuzione perfettamente egualitaria. Secondo gli utilitaristi, ad esempio, gli incentivi finanziari concessi agli investitori e agli imprenditori in deroga al principio dell'eguaglianza possono aumentare la produzione favorendo un incremento di utilità nel lungo periodo. Anche l'eguaglianza politica, assai più popolare di quella economica, è stata messa in discussione con argomentazioni di stampo utilitaristico. Le elezioni potrebbero fornire un profilo più esatto delle preferenze, tenendo conto della loro intensità oltre che della loro distribuzione, se i collegi elettorali fossero organizzati in modo che quanti hanno interessi particolari in una determinata materia abbiano maggior potere decisionale in merito rispetto agli altri cittadini sostanzialmente indifferenti. Un sistema elettorale che desse un potere sproporzionato agli agricoltori, ad esempio, potrebbe assicurare una politica agraria di maggior valore utilitario complessivo rispetto a quella consentita dal sistema 'una persona, un voto'.
Gli argomenti 'intrinseci' a favore dell'eguaglianza assumono varie forme. John Rawls, ad esempio, propone una teoria costruttiva della giustizia secondo la quale i principî di giustizia più saldi sono quelli che verrebbero scelti, in quanto costituiscono la struttura fondamentale della società in cui vivono, da tutti i membri di una collettività ai quali una 'cortina di ignoranza' impedisse ogni consapevolezza delle proprie convinzioni etiche, delle proprie capacità e della propria collocazione nella società. In queste condizioni, secondo Rawls, gli individui sceglierebbero una teoria della giustizia caratterizzata da due principî fondamentali. Il primo postula eguale libertà per tutti, e quindi l'eguaglianza politica, il secondo una certa forma di eguaglianza economica che ammette solo quelle ineguaglianze di ricchezza che comportano benefici per i gruppi più svantaggiati. Ciò si verifica, ad esempio, allorché si forniscono degli incentivi che incrementano il benessere generale e quindi migliorano la situazione degli strati sociali più svantaggiati. Rawls quindi propone una forma di eguaglianza politica che privilegia l'eguaglianza d'impatto rispetto a quella di influenza. Egli distingue tra la libertà e il suo valore - ossia il beneficio che deriva concretamente a qualcuno dal suo possesso - e sostiene che l'autentica eguaglianza politica consiste nell'eguaglianza della prima e non del secondo. Rawls inoltre opta per una forma di eguaglianza economica in cui l'eguaglianza è valutata in termini di risorse e non di benessere. Gli strati sociali più svantaggiati infatti non sono definiti come il gruppo caratterizzato dal minor grado di felicità o di soddisfazione dei desideri, bensì come il gruppo che ha la quota minore di 'beni primari', ossia di determinati tipi di risorse specificati da Rawls.Come lo stesso Rawls tiene a sottolineare, egli considera l'eguaglianza politica non già come un postulato fondamentale di moralità politica, bensì come la conseguenza di una metodologia costruttivista che non assegna un valore assiomatico all'eguaglianza. Altri autori attribuiscono all'eguaglianza un valore più fondamentale; essi sostengono che l'ineguaglianza è incompatibile col principio della dignità umana, e considerano quindi il diritto all'eguaglianza un diritto umano fondamentale. Altri ancora preferiscono una definizione dell'eguaglianza politica che comprenda anche l'eguaglianza di influenza oltre che di impatto, mentre per quel che riguarda l'eguaglianza economica rigettano il principio di differenza di Rawls in favore di un concetto di eguaglianza più radicale, secondo il quale ogni ineguaglianza - anche quelle che si traducono in benefici per gli strati più svantaggiati - è incompatibile col principio della dignità umana e quindi va rifiutata. Ciò sembrerà poco plausibile finché si ritiene che il problema della giustizia sia quello di stabilire gli interessi di quali gruppi dovrebbero essere favoriti a spese di altri; per quanti si trovano al fondo della scala sociale infatti sembra ingiusto che si rifiutino quelle ineguaglianze che si tradurrebbero in una migliore tutela dei loro interessi. Questo argomento a favore dell'ineguaglianza tuttavia assume che l'eguaglianza non rientri tra gli interessi degli individui; esso rifiuta la concezione platonica secondo la quale la giustizia non può consistere soltanto nel tutelare o favorire gli interessi degli individui, perché gli interessi stessi dipendono da ciò che prescrive il principio di giustizia. In quale maniera si potrebbe difendere l'eguaglianza se si accettasse una qualche forma di questa concezione platonica?
Qual è il metro adeguato dell'eguaglianza economica: il benessere, le risorse o una combinazione di entrambi? Come abbiamo già accennato, esiste un argomento apparentemente naturale e piuttosto convincente a favore del benessere; 'benessere' non è che un sinonimo di 'star bene', ed è questo che sta realmente a cuore agli uomini. Le risorse hanno un'importanza solo strumentale, come mezzi per ottenere il benessere. Di conseguenza sembra ingiusto mirare a rendere eguali gli individui in ciò che per essi ha solo un valore strumentale - le risorse che possiedono o controllano - anziché in ciò che interessa loro effettivamente, ossia il benessere. A una considerazione più approfondita però la plausibilità di tale argomento è solo illusoria: per poter utilizzare il benessere quale criterio dell'eguaglianza economica occorre infatti definire un concetto di benessere adatto a tale scopo, ma una volta adottata una determinata definizione la tesi secondo cui l'eguaglianza va intesa come eguaglianza di benessere non è più convincente.Supponiamo, ad esempio, di adottare la concezione benthamiana del benessere, secondo la quale questo consiste nel piacere e nell'assenza del dolore. Gli individui però hanno opinioni assai diverse sull'importanza del piacere nella loro esistenza: sebbene quasi tutti apprezzino il piacere e l'assenza del dolore, nessuno in pratica ritiene che ciò sia l'unica cosa che conta. Alcuni sono disposti a rinunciare in misura notevole al piacere per ottenere altre cose cui attribuiscono maggior valore: ad esempio un lavoro ben fatto, o il rispetto degli amici o dei colleghi. Poiché gli individui attribuiscono un'importanza diversa al piacere rispetto ad altre cose, non sembra giusto che la politica consideri universalmente condiviso un determinato scopo tra gli altri, sicché gli individui dovrebbero essere uguali rispetto a esso. Lo stesso discorso vale se si definisce il benessere non in termini di piacere bensì di soddisfazione di qualsivoglia desiderio o ambizione. Gli individui infatti attribuiscono diverso valore anche alla soddisfazione dei propri desideri e ambizioni: a seconda che la si reputi più o meno importante si sceglieranno ambizioni più o meno difficili da realizzare. Ancora una volta, sembra sbagliato adottare come criterio di eguaglianza il grado di soddisfazione dei desideri degli individui, dato che essi hanno opinioni del tutto divergenti sull'importanza da attribuire a tale obiettivo.
Dalle precedenti considerazioni si può trarre la seguente conclusione: l'autentica eguaglianza si realizza quando gli individui dispongono di eguali risorse e sono quindi in grado di decidere essi stessi quali esperienze, ambizioni e obiettivi sono importanti per loro, e di utilizzare le risorse di cui dispongono tutti in egual misura per perseguire i propri ideali. Anche in questo caso tuttavia occorre specificare cosa si intende per eguaglianza di risorse, individuando un criterio che consenta di stabilire quale distribuzione delle risorse sia una distribuzione egualitaria. A nostro avviso il criterio più adeguato è il seguente: l'eguaglianza distributiva si realizza pienamente solo quando le risorse di cui dispongono i singoli individui sono eguali dal punto di vista dei loro costi di opportunità, ossia del valore che esse avrebbero nelle mani di altre persone. Nessuna distribuzione delle risorse è pienamente egualitaria se non supera il 'test dell'invidia', ossia se non dà luogo a una situazione in cui nessun membro della comunità invidia l'insieme di risorse possedute da un altro membro di essa.L'invidia in questo caso rappresenta un fenomeno di ordine economico, non psicologico: un individuo invidia l'insieme di risorse possedute da un altro individuo quando preferirebbe avere quelle risorse anziché le proprie e sarebbe quindi disposto a fare il cambio. Il test dell'invidia, ovviamente, si applica anche quando il benessere che le persone raggiungono attraverso le risorse in loro possesso non è eguale. Se gli obiettivi o le ambizioni o i progetti di x sono più facili da realizzare di quelli di y, o se la personalità di y presenta altre differenze significative al riguardo, y avrà rispetto a x un livello di benessere assai maggiore. L'eguaglianza delle risorse in questa concezione non è eguaglianza di benessere.In determinate condizioni che illustreremo tra breve il test dell'invidia potrebbe essere superato - e si potrebbe ottenere una perfetta eguaglianza distributiva - attraverso una sorta di asta walrasiana in cui tutte le risorse fossero messe all'incanto tra individui dotati di eguali risorse iniziali per fare le offerte, ad esempio un'eguale quantità di gettoni utilizzabili solo per partecipare all'asta. Se una vendita all'asta di questo tipo venisse ripetuta concludendosi solo allorché non vi fosse più nessuno che desiderasse continuarla, il test dell'invidia sarebbe superato: nessuno preferirebbe il pacchetto di risorse che qualcun altro si è assicurato all'asta, perché altrimenti avrebbe acquistato quel pacchetto al posto del proprio. Questa situazione ideale tuttavia non può essere realizzata per le seguenti ragioni. Le risorse controllate dagli individui sono di due tipi, personali e impersonali. Le risorse personali sono rappresentate da quelle qualità fisiche e intellettuali - la salute fisica e mentale, la forza, le capacità ecc. - che contribuiscono alla riuscita dei progetti o programmi individuali. Le risorse impersonali fanno parte dell'ambiente esterno e possono essere possedute e scambiate: la terra, le materie prime, i beni di consumo ecc., nonché i diritti e interessi legali variamente distribuiti relativi a tali risorse. L'asta ipotizzata in precedenza riguarda solo le risorse impersonali, e poiché al termine dell'asta le risorse personali resteranno distribuite in modo ineguale, il test dell'invidia non sarà superato. Anche se le risorse materiali, impersonali, di x saranno eguali a quelle di y, x continuerà a invidiare l'insieme di risorse di y che comprendono anche la sua salute e le sue capacità. Allorché l'asta sarà terminata, e ognuno comincerà a utilizzare le proprie risorse iniziali per la produzione e gli scambi, i vantaggi di alcuni in termini di salute e di talento finiranno ben presto per distruggere anche l'eguaglianza iniziale delle risorse impersonali. Conseguenze analoghe avrebbero le differenze di fortuna: ad esempio, gli investimenti di x possono aver successo e quelli di y fallire per motivi che nessuno dei due era in grado di prevedere.
Perché si possa realizzare l'eguaglianza di risorse occorrono quindi dei meccanismi di compensazione che pongano rimedio nella misura del possibile alle ineguaglianze relative alle risorse personali e alla fortuna. Tali ineguaglianze tuttavia non possono essere compensate totalmente, e di fatto è piuttosto difficile giustificare i meccanismi di compensazione sulla base del principio egualitario nella sua forma più ovvia. Supponiamo che ci si limiti a un trasferimento periodico di ricchezza dai ricchi ai poveri - diciamo una volta l'anno - finché il test dell'invidia non venga nuovamente superato in quanto tutti hanno la stessa ricchezza misurata in termini di costi di opportunità. Tale politica influenzerebbe la produzione globale della società nonché i suoi costi, e di conseguenza inciderebbe sulla condizione di ciascun individuo comportando per molti - inclusi alcuni tra i più poveri - un peggioramento rispetto alla condizione precedente. I programmi di compensazione devono quindi essere giustificati, agli occhi di quanti hanno subito una perdita per causa loro, con un qualche argomento in grado di spiegare perché il cambiamento favorisca in ogni caso l'eguaglianza. Un argomento potrebbe essere il seguente. Esistono meccanismi di compensazione che utilizzano un sistema di tassazione e redistribuzione - in fondi o in risorse, come ad esempio l'assistenza medica - modellato su un ipotetico mercato delle assicurazioni che potrebbe esistere nella realtà se l'eguaglianza iniziale fosse più autentica. Se tutti disponessero di fondi eguali e potessero stipulare polizze assicurative alle stesse condizioni, con premi stabiliti in rapporto al concreto tasso di rischio, come accade in qualsiasi mercato assicurativo, per quale ammontare l'individuo medio si assicurerebbe, e con quale premio, contro infortuni, invalidità, disoccupazione o riduzione del reddito? Potremmo servirci delle risposte a domande di questo tipo per progettare un sistema fiscale in cui le tasse pagate siano pari ai premi versati nell'ipotetico mercato delle assicurazioni e la redistribuzione alla copertura assicurativa totale. Un programma di tassazione redistributiva di questo tipo non garantirà una perfetta compensazione (anche se esso fosse realizzato, il test dell'invidia non verrebbe superato), ma ridurrà senza dubbio l'ineguaglianza delle risorse.
Si tratta ora di stabilire in che modo questa concezione dell'eguaglianza delle risorse risponda all'obiezione formulata in precedenza, secondo la quale le risorse hanno per gli individui un valore puramente strumentale per il conseguimento del benessere, e chiunque sia interessato alle risorse in se stesse, solo per il gusto di possederle, è un feticista patologico. In questa prospettiva, sarebbe irrazionale cercare di rendere gli individui eguali sul piano delle risorse, che essi desiderano solo in quanto strumenti, ignorando la distribuzione del benessere cui invece attribuiscono un valore intrinseco. Tuttavia la tesi secondo la quale l'eguaglianza economica consiste nell'eguaglianza delle risorse non nega che gli individui abbiano a cuore il proprio benessere, ma si basa piuttosto su una concezione particolare del rapporto tra eguaglianza e benessere. Secondo tale concezione, la giustizia è parte integrante del benessere e di conseguenza è necessaria una definizione dell'eguaglianza che non dipenda da considerazioni relative al benessere, ma sia anteriore a esse, in modo che gli individui possano scegliere il tipo di vita che realizza il loro benessere in base a una qualche nozione di equa distribuzione delle risorse. La teoria dell'eguaglianza di risorse, in altre parole, riprende la concezione platonica secondo la quale giustizia e benessere sono così strettamente connessi che non è possibile il benessere senza far riferimento alla giustizia.
Come abbiamo già accennato, la teoria che individua nel benessere il criterio dell'eguaglianza perde la sua plausibilità allorché si specifica un determinato concetto di benessere. Se però si accetta l'idea che giustizia e benessere sono interdipendenti, vi sono ulteriori ragioni per sostenere che, sebbene gli individui attribuiscano un'importanza fondamentale al benessere mentre considerano le risorse solo come strumenti, tuttavia l'eguaglianza va espressa in termini di risorse e non di benessere. In primo luogo il procedimento contemplato dall'eguaglianza di benessere, per cui l'individuo deve stabilire in che cosa consista il proprio benessere prima di poter determinare quale distribuzione assicuri un eguale benessere per tutti, è logicamente inconsistente e inservibile; chi ritiene che il proprio benessere dipenda dal fatto di vivere in condizioni di eguaglianza non può servirsi di una teoria o di una concezione dell'eguaglianza che utilizza il benessere come criterio di una distribuzione egualitaria.In secondo luogo, se si sostiene che spetta allo Stato assicurare l'eguaglianza di benessere, si compromette o si snatura il compito etico rappresentato dal vivere. Parte di tale compito etico che ogni individuo deve affrontare - per certi versi la parte più importante ed esaltante - consiste nell'individuare quale dei possibili modelli di vita sia realmente il migliore per lui. Le procedure che lo Stato deve utilizzare per creare l'eguaglianza di benessere sminuiscono questo compito, in quanto il governo deve assicurare che gli individui vivano nel modo migliore possibile a prescindere dalle scelte di vita che essi compiono. Probabilmente si tratta di un'impresa destinata al fallimento in quanto i governanti commetteranno vari errori, in primo luogo nel decidere quale sia il tipo di vita 'migliore' per differenti individui. In questo caso tale tentativo avrebbe effetti rovinosi anziché migliorare la qualità della vita, perché i governanti trasferirebbero risorse per favorire degli errori. Ma anche se essi riuscissero a migliorare la qualità della vita di tutti i cittadini, ciò avverrebbe a prezzo della responsabilità individuale; il singolo, alla fine, non sarà in alcun modo responsabile della progettazione della propria vita, che sarà egualmente buona indipendentemente dalla sua sensibilità etica.In sintesi, la teoria dell'eguaglianza delle risorse sostiene non che gli individui siano feticisti, ma che benessere e giustizia sono dinamicamente interrelati. Nello scegliere il modello di vita che ritiene migliore, chi considera il benessere in questi termini si baserà su una serie di intuizioni o di assunti relativi alla nozione di equa distribuzione e alle connessioni e ai rapporti tra la propria vita e quella degli altri. Compito del governo sarà allora quello di creare i presupposti in base ai quali gli individui possono decidere automaticamente quale modello di vita sia migliore per loro. Questa formula ovviamente lascia aperte una serie di questioni; ad esempio non stabilisce se sia più opportuno che il governo sensibilizzi i cittadini alle diverse virtù dei vari modelli di vita possibili, o se sia preferibile invece che sostenga, attraverso sovvenzioni o altri mezzi, forme di vita che si sono dimostrate altamente pregevoli per altri. Adottare la concezione dell'eguaglianza basata sull'eguale distribuzione delle risorse non significa necessariamente accettare l'idea di uno Stato indifferente e noncurante.
Consideriamo ora un'altra obiezione alla concezione dell'eguaglianza sopra delineata, correlata alla prima e basata su una distinzione assai netta ed evidente tra personalità e circostanze. Per quanto possibile gli uomini dovrebbero possedere o controllare eguali risorse, sia impersonali che personali. Queste ultime però non includono i gusti, i progetti, le ambizioni e altri aspetti della personalità in virtù dei quali un individuo può considerare la propria vita migliore o peggiore di quella di un altro che dispone di risorse identiche. Nessuno quindi ha diritto a una maggiore quantità di risorse solo perché i suoi gusti sono più dispendiosi, le sue ambizioni più rischiose, o perché è più esigente verso se stesso. In caso contrario infatti la teoria dell'eguaglianza delle risorse verrebbe a coincidere con quella dell'eguaglianza di benessere. La distinzione tra personalità e circostanze è quindi di estrema importanza per l'intera teoria dell'eguaglianza delle risorse.
Un'ovvia obiezione a tale distinzione è che i gusti e le convinzioni sfuggono al nostro controllo non meno delle capacità o della fortuna; poiché la teoria dell'eguaglianza delle risorse annovera quest'ultima tra le circostanze, e quindi in linea di principio come un ambito in cui dovrebbe sussistere l'eguaglianza, è incoerente non considerare allo stesso modo anche gusti e convinzioni. È vero che i gusti possono essere in qualche misura educati: ci si può sforzare ad esempio di imparare ad amare la musica classica o lo sci. Tuttavia gli sforzi in questo senso dipenderanno dalla convinzione che sia desiderabile essere una persona con i gusti in questione, e non si può scegliere di acquisire tale convinzione - o qualsiasi altra credenza che esprime la nostra personalità - così come non si è scelto di avere le convinzioni che si hanno. Occorre quindi trovare un'altra risposta all'obiezione.
La tesi dell'eguaglianza delle risorse non parte dal presupposto che preferenze o ambizioni si scelgano così come si sceglie una cravatta, bensì sostiene che esse siano oggetto di una riflessione in base alla quale si decide quali di esse perseguire e in che modo. Questa riflessione presenta inoltre una certa struttura: la distinzione tra handicaps e capacità da un lato e gusti e convinzioni dall'altro è una distinzione interna a tale struttura, e proprio per questo è essenziale per l'eguaglianza. In questa prospettiva l'eguaglianza mira a rendere eguali gli individui rispetto alle circostanze, intese come l'insieme di opportunità e limitazioni che il singolo incontra nell'individuare e nel perseguire il modello di vita che la riflessione gli indica come il più adatto.È chiaro che capacità e handicaps sono circostanze in questo senso, ed è altrettanto chiaro che convinzioni e preferenze non lo sono. Sarebbe incoerente da parte di un individuo considerare le proprie convinzioni - ad esempio la persuasione che il suo unico scopo nella vita è quello di creare monumenti - come una limitazione della buona qualità della vita che può condurre. Se egli è convinto che edificare monumenti sia essenziale per condurre una buona vita, dovrà ritenere essenziale anche avere tale convinzione; essa non può essere un limite, in quanto definisce il concetto di 'vita buona' per quell'individuo. La distinzione tra handicaps e personalità quindi è tanto poco arbitraria quanto l'etica stessa, ed è importante nella politica in quanto è al centro della nostra vita etica come individui. La teoria dell'eguaglianza delle risorse vuol essere in armonia con le riflessioni dell'individuo eticamente consapevole, offrendogli una concezione della giustizia che può essere utilizzata sul piano etico sia nella vita privata, in una prospettiva personale, sia nella vita pubblica in una prospettiva politica. Se gli individui non possono considerare le proprie convinzioni come limitazioni, allora non possono accettare una teoria della giustizia che non distingua tra handicaps e convinzioni.
Come abbiamo già accennato, è assai diffusa la convinzione che per poter realizzare una genuina eguaglianza economica sia necessario limitare determinate libertà, ad esempio la libertà contrattuale e di scambio, o la libertà di ricorrere a istituti di istruzione privati. Tale argomento è stato utilizzato sia dalla sinistra per sostenere l'illegittimità di tale libertà, sia dalla destra per condannare l'eguaglianza in quanto minaccia per la libertà. Se però si accetta l'eguaglianza distributiva, le libertà rilevanti dal punto di vista etico - la libertà di espressione, di religione e di opinione, o la libertà di scelta nella sfera personale - diventano condizioni necessarie dell'eguaglianza anziché essere, come spesso si crede, ideali politici indipendenti potenzialmente in conflitto con essa. Lo stesso non si può dire per tutte le concezioni dell'eguaglianza, poiché molte di esse definiscono l'eguaglianza distributiva servendosi di criteri che non tengono in alcun conto la qualità distintiva e il valore della libertà. Per la teoria che identifica nel benessere - inteso come soddisfazione dei gusti e delle preferenze - il criterio dell'eguaglianza, ad esempio, è egualitaria quella distribuzione in cui le preferenze degli individui sono egualmente soddisfatte, ma poiché è una circostanza del tutto contingente in che misura essi preferiscano la libertà ad altre risorse che si potrebbero ottenere rinunciando ad essa, è assai dubbio che la tutela delle libertà eticamente importanti possa essere sempre legittimata in quanto favorisce l'eguaglianza di benessere. La teoria dell'eguaglianza di risorse invece offre un'interpretazione assai più sensibile al carattere e all'importanza speciali della libertà, in quanto fa dipendere un'equa distribuzione non già da un mero risultato misurabile direttamente - come la soddisfazione di preferenze o desideri - bensì da un processo di decisioni coordinate in cui gli individui che si assumono la responsabilità delle proprie ambizioni e dei propri progetti, e accettano come parte integrante di tale responsabilità l'appartenenza a una comunità di eguali, sono in grado di valutare i costi reali che tali progetti e ambizioni comportano per gli altri, e riformulano costantemente tali progetti in modo da utilizzare solo un'equa quota delle risorse che in via di principio sono a disposizione di tutti.
Per una società reale, di conseguenza, la possibilità di realizzare l'eguaglianza distributiva dipende dall'adeguatezza della procedura di discussione e di scelta che essa stabilisce a tale scopo. Perché un processo del genere risulti adeguato occorre un alto grado di libertà, in quanto i costi effettivi che comporta per gli altri il fatto che un individuo disponga di determinate risorse e opportunità possono essere accertati solo se le ambizioni e le convinzioni delle persone sono autentiche e le loro scelte e decisioni commisurate a esse. La libertà quindi è necessaria all'eguaglianza, secondo tale concezione, non sulla base della dubbia e assai fragile ipotesi che gli uomini considerino le libertà fondamentali più importanti di altre risorse, ma perché la libertà - a prescindere dal fatto che gli individui la valutino o meno al di sopra di ogni altra cosa - è essenziale per ogni processo di definizione e di realizzazione dell'eguaglianza. Ciò non significa rendere la libertà strumentale all'eguaglianza distributiva, o viceversa; i due concetti piuttosto si fondono in una descrizione più adeguata di una regola di distribuzione egualitaria sul piano procedurale, ossia tale da riservare un eguale trattamento a tutte le persone.
La teoria dell'eguaglianza delle risorse, di conseguenza, ci impone di considerare in modo diverso certe controversie politiche - ad esempio quelle relative all'istruzione e all'assistenza sanitaria privata - che secondo un'opinione largamente diffusa impongono una scelta tra libertà ed eguaglianza. Se limitare la libertà di scelta nel campo dell'istruzione e dell'assistenza sanitaria contribuisse davvero ad assicurare l'eguaglianza delle risorse - come avverrebbe ovviamente con l'introduzione di determinate limitazioni - nessun ideale di libertà difendibile risulterebbe compromesso, e i liberali non avrebbero obiezioni. Tuttavia non tutte le restrizioni della libertà che si presume promuovano l'eguaglianza distributiva agiscono effettivamente in questo senso, e limitare quelle libertà fondamentali dal punto di vista morale la cui tutela sta maggiormente a cuore ai liberali può contribuire raramente, se mai vi riesce, a promuovere l'eguaglianza così intesa. La teoria dell'eguaglianza delle risorse offre una spiegazione delle nostre convinzioni intuitive sull'importanza della libertà assai più persuasiva di quella proposta da tutte quelle teorie che considerano libertà ed eguaglianza come valori indipendenti e talvolta in conflitto tra loro.
Secondo la concezione dell'eguaglianza economica delineata in precedenza, un'asta delle risorse in cui ogni partecipante parta con eguali capacità di offerta determinerà una distribuzione egualitaria. Ciò però avverrà solo se i beni saranno messi all'asta in una forma opportunamente astratta. Supponiamo che alcuni partecipanti all'asta vogliano associarsi per comprare un'area sufficientemente estesa da potervi costruire uno stadio. Il prezzo che essi dovranno pagare dipenderà tra le altre cose dalle dimensioni dei lotti messi all'asta. Se il banditore vende lotti di dimensioni non inferiori a quelle necessarie alla costruzione di uno stadio (e supponendo che la legge vieti di rivendere tali aree dopo averle suddivise una volta terminata l'asta), il prezzo pagato dai costruttori di stadi in questo caso sarebbe sicuramente inferiore a quello che pagherebbero se il banditore offrisse lotti di varie dimensioni, maggiori o minori a seconda delle esigenze dei compratori e ciò pregiudicherebbe l'eguaglianza per le seguenti ragioni.
Secondo la teoria dell'eguaglianza delle risorse ogni individuo dovrebbe ricevere una quota eguale di risorse, misurata in base al costo che hanno per i progetti e i piani degli altri le scelte compiute da ciascuno in base ai propri gusti e alle proprie preferenze. È questa la concezione dell'eguaglianza distributiva propria di tale teoria, l'interpretazione che essa propone del modo in cui l'organizzazione della proprietà privata di una comunità può garantire l'eguale trattamento di tutti i suoi membri. Se si accetta tale interpretazione, si deve riconoscere che un'asta è più equa - ossia assicura una distribuzione realmente egualitaria - quando offre maggiori opportunità di scelta e quindi tiene maggiormente conto della varietà dei progetti e delle preferenze individuali. Se si deve pagare lo stesso prezzo per la terra, sia che si desideri possedere solo un piccolo cottage, sia che si intenda amministrare una vasta tenuta, queste preferenze non influiscono sulle restanti disponibilità per l'investimento in altre risorse, e questa mancanza di duttilità del mercato incide non solo sulle scelte del singolo, ma di riflesso anche su quelle degli altri. I tifosi di calcio, ad esempio, pagano un prezzo differente per i biglietti dello stadio - e di conseguenza competono con gli altri per altri beni in termini diversi - da quello che pagherebbero se le risorse di ognuno rispondessero con maggior precisione alle dimensioni delle sue preferenze. La mancanza di flessibilità costituisce un difetto generale del programma di eguaglianza delle risorse. Sono preferibili quindi aste più astratte, non perché i costi di determinate risorse sarebbero in questo modo maggiori o minori, o perché si avrebbe un benessere generale maggiore o più egualitario, bensì perché l'obiettivo principale della concezione dell'eguaglianza basata sulle risorse - rendere la distribuzione il più rispondente possibile alle scelte compiute dai diversi individui nel formulare i propri piani e progetti - può essere conseguito meglio attraverso la flessibilità assicurata dall'astrattezza. È questa la giustificazione del principio di astrattezza, secondo il quale il reale costo di opportunità di qualunque risorsa trasferibile è il prezzo che altri pagherebbero per esso in un'asta che offrisse le risorse nella forma più astratta possibile, vale a dire nella forma che permette la maggior flessibilità nel sintonizzare le offerte ai piani e alle preferenze individuali. È necessario quindi che l'asta offra le risorse in questa forma astratta se vuole garantire una distribuzione egualitaria.
Ovviamente possono sorgere gravi problemi quando i beni e le opportunità sono messi sul mercato nella loro forma più astratta, ma in molti casi ciò non comporta particolari difficoltà. Il principio di astrattezza richiede che le risorse naturali siano messe sul mercato nella forma più indifferenziata possibile: il ferro piuttosto che l'acciaio, terreni non coltivati piuttosto che campi di grano ecc. Esso richiede inoltre, come dimostra il precedente esempio dello stadio, che i beni messi all'asta siano il più possibile divisibili, in modo che si possano fare offerte su unità indefinitamente piccole di ciascuna risorsa (ma non talmente piccole che una singola unità risulti inutilizzabile). Il principio in questione infine richiede il riconoscimento di titoli legali di proprietà che favoriscano la divisibilità, come ad esempio diritti di accesso oppure titoli di proprietà limitati nel tempo piuttosto che assoluti.
Le considerazioni precedenti hanno una conseguenza importante in ordine al ruolo della libertà in una situazione di eguaglianza delle risorse. Il principio dell'astrattezza impone alcuni vincoli giuridici alla libertà totale, perché le risorse non possono essere adattate ai piani e ai progetti dei singoli individui se questi non possono contare sul fatto di poter controllare le risorse che acquistano. Tuttavia l'imposizione di vincoli giuridici al di là di quelli strettamente necessari alla sicurezza compromette l'astrattezza: se ad esempio le leggi di una comunità vietano la realizzazione di sculture satiriche, la creta non vi sarà messa all'asta nella sua forma più astratta, in quanto quel divieto impedisce a chi vuole esprimersi in questo modo di adattare pienamente le proprie risorse ai propri progetti. Il principio di astrattezza richiede quindi che gli individui siano lasciati liberi di utilizzare come vogliono, compatibilmente con il principio di sicurezza, le risorse che acquistano - incluso il tempo libero che cercano di assicurarsi e di tutelare attraverso il loro programma di offerte.L'idea che per realizzare l'eguaglianza sia necessario presentare i beni e le opportunità in forma astratta presuppone quindi che la libertà di scelta sia essenziale all'eguaglianza, e ciò costituisce un passo significativo verso la riconciliazione tra eguaglianza e libertà. È opportuno soffermarsi inoltre su un'altra, immediata conseguenza del principio di astrattezza. Sembra che accettare tale principio significhi aderire alla tesi della tradizione liberale iniziata da John Stuart Mill, secondo la quale i divieti giuridici non possono essere legittimati unicamente dal fatto che la condotta oggetto del divieto offende una qualche religione dominante od ortodossia morale. Tale conclusione liberale potrà sembrare eccessiva; si potrebbe obiettare che essa viola il principio di astrattezza anziché derivare da esso, in quanto molti ritengono che si possa condurre una vita degna solo in una comunità la cui cultura pubblica individua e prescrive una morale comune che contempla, ad esempio, il rispetto dell'ortodossia religiosa, una serie di limitazioni nel comportamento sessuale nonché certe tradizionali distinzioni di ruolo tra i sessi e tra le classi sociali. Nella maggior parte dei casi una cultura pubblica di questo tipo può essere preservata solo dichiarando illegali i comportamenti ritenuti immorali. Se non si riuscisse a far rispettare la morale si negherebbero alla maggioranza le opportunità che essa richiede e ciò altererebbe il costo reale delle opportunità che restano disponibili alla minoranza.
Questa obiezione si basa su un fraintendimento del tipo di neutralità cui mira la teoria dell'eguaglianza delle risorse. Non si tratta di rendere ogni modello di vita egualmente facile, ma di far sì che le risorse e le opportunità che consentono agli individui di realizzare i loro piani o progetti o modelli di vita siano fissate dai costi comportati per gli altri dal fatto che essi hanno tali risorse e tali opportunità, piuttosto che da un qualche giudizio collettivo sulla diversa importanza dei singoli individui o sul diverso valore dei progetti o delle opzioni morali personali. La neutralità intesa in questo senso non assicura la realizzabilità di qualunque modello di vita. Chi volesse condurre una vita da esteta raffinato ammassando nella propria abitazione privata imponenti collezioni d'opere d'arte non potrebbe farlo in una situazione di eguaglianza delle risorse, in quanto non potrebbe permettersi i costi di opportunità comportati da quel tipo di vita e stabiliti in un'asta in cui ciascuno avesse eguali capacità d'offerta, nemmeno se fosse disposto a sacrificare ogni altra cosa. Questo avviene non perché l'eguaglianza di risorse comporti una mancanza di neutralità nei confronti del collezionista, bensì al contrario in quanto comporta una perfetta neutralità rispetto a quest'ultimo e agli altri individui che desiderano anch'essi studiare le opere d'arte o goderne la bellezza.
La concezione di stampo liberale dei costi di opportunità estende questa nozione di neutralità anche alle condizioni sociali oltreché alle diverse risorse richieste da differenti modelli di vita. Le esigenze sociali di ogni individuo - la situazione sociale che egli ritiene necessaria per realizzare il tipo di vita scelto - vengono valutate stabilendo in quale misura esse possano essere soddisfatte all'interno di una struttura egualitaria che tiene conto dei costi comportati da tali esigenze per gli altri individui. In un'asta condotta in base a questi criteri ha un certo peso senza dubbio anche la consistenza numerica. Se saranno abbastanza numerosi, quanti desiderano la tutela e il rafforzamento dell'omogeneità religiosa riusciranno a ottenere in parte ciò che vogliono, e allo stesso modo i collezionisti, se saranno sufficientemente numerosi, saranno in grado di allestire meravigliosi musei. I seguaci di una determinata fede, che hanno bisogno di una comunità di correligionari per prosperare, possono ritenere che le loro convinzioni siano condivise da un numero di persone sufficientemente elevato da consentire la creazione di una comunità religiosa particolare senza violare la legge. Nessuna minoranza - religiosa, sessuale o culturale che sia - avrà peraltro garantite le condizioni sociali ideali. Anche in questo caso ha un ruolo importante la consistenza numerica: la situazione di una determinata minoranza sarebbe senza dubbio migliore, sotto vari punti di vista, se un maggior numero di persone condividesse le sue idee o i suoi gusti, in modo da rendere meno dispendiose le sue attività. Anche le prospettive delle minoranze, per le stesse ragioni, dipenderanno dai costi di opportunità, valutati in modo neutrale, delle loro scelte per gli altri. L'eguaglianza delle risorse quindi, lungi dall'essere incompatibile con la libertà, implica l'affermazione di un principio fortemente liberale: l'autentica eguaglianza non può essere realizzata in una società in cui vengano negate libertà importanti o in cui i limiti giuridici alla libertà siano giustificati in base a ragioni di ordine religioso o morale.
Ogni teoria che si proponga di definire l'eguaglianza politica, individuando un criterio per misurare il potere politico e stabilire in quali casi si possa parlare di eguaglianza, deve attuare una comparazione sia orizzontale che verticale. Nel primo caso si confronterà il potere di diversi privati o gruppi di privati cittadini, nel secondo si confronterà il potere di questi ultimi con quello degli individui che ricoprono cariche pubbliche. Se l'eguaglianza politica è definibile in termini di eguaglianza di potere politico, occorre tener presenti entrambe le dimensioni. L'eguaglianza di potere a livello orizzontale non è sufficiente a creare un'autentica democrazia. Nelle dittature totalitarie i privati cittadini sono eguali sotto questo riguardo in quanto nessuno ha alcun potere politico. Le false democrazie in cui esiste un unico partito sono di solito assai sollecite nel garantire a ogni cittadino il diritto di esprimere un voto, ma l'unico voto possibile è per quel partito. Per definire l'eguaglianza politica si rende quindi necessario ricorrere anche alla dimensione verticale.
Sembra assurdo che in democrazie rappresentative quali quella italiana o statunitense possa esistere un'autentica eguaglianza di potere verticale. Come si potrebbero riformare le strutture e le procedure politiche americane in modo da attribuire a ogni cittadino maggiorenne lo stesso potere sulle scelte politiche della nazione che ha un membro del Congresso appena eletto, per non parlare del Presidente, senza distruggere lo stesso sistema di governo rappresentativo? La concezione dell'eguaglianza politica come eguaglianza di potere politico, quindi, sembra invischiata sin dall'inizio in un dilemma: se insiste solo sull'eguaglianza orizzontale, sull'eguaglianza tra i governati, i suoi requisiti più essenziali potrebbero essere soddisfatti da dittature palesemente antidemocratiche; se viceversa tiene conto anche dell'eguaglianza verticale, allora è totalmente irrealistica.
Il dilemma menzionato sopra va tenuto presente quando si cerca di definire l'eguaglianza di potere. Occorre distinguere in proposito due interpretazioni dell'eguaglianza: quella di impatto e quella di influenza. La differenza intuitiva tra le due forme è la seguente: l'impatto di un individuo nella sfera politica è dato dall'incidenza che possono avere le scelte o i voti che egli esprime direttamente; l'influenza, invece, è l'incidenza che un individuo può avere non solo direttamente, ma anche inducendo altre persone a pensare, a votare o a scegliere come lui.
Questa distinzione tra impatto e influenza politica suggerisce una possibile soluzione al dilemma menzionato in precedenza. L'eguaglianza verticale è ovviamente impossibile se viene intesa in termini di eguaglianza di impatto. Un sistema rappresentativo è necessariamente caratterizzato da notevoli differenze di impatto in senso verticale, e tuttavia è ragionevole aspirare all'eguaglianza verticale come ideale, se l'eguaglianza in questione viene intesa in termini di influenza. È addirittura possibile concepire un sistema pienamente rappresentativo in cui sussista l'eguaglianza di influenza, perlomeno nella misura in cui questa è misurabile con precisione. Supponiamo che i governanti considerino loro dovere votare come desidera la maggioranza di coloro che rappresentano; supponiamo inoltre che le elezioni si tengano con sufficiente frequenza, che sussista un buon livello di comunicazione tra rappresentanti e rappresentati e che vi siano meccanismi di destituzione abbastanza efficienti e poco costosi da assicurare che i rappresentanti adempiano effettivamente tale dovere. In queste circostanze verrebbe realizzata un'approssimativa eguaglianza di influenza. Poiché il senatore X voterà a favore di una riduzione delle tasse se e solo se riterrà che la maggioranza dei suoi elettori sia favorevole a tale provvedimento, il fatto che egli stesso preferisca una riduzione delle tasse non aumenta le probabilità che egli voti a favore più di quanto le aumenterebbe l'analoga preferenza di uno qualsiasi dei suoi elettori.
Anche sul piano dell'eguaglianza orizzontale sarebbe del tutto implausibile un'eguaglianza di potere concepita come eguaglianza di impatto, ma per ragioni opposte: anziché essere un obiettivo troppo arduo, è un obiettivo troppo poco significativo. L'eguaglianza di impatto richiede che ogni cittadino abbia eguali diritti di voto, e che il sistema elettorale si basi sul principio 'una testa, un voto'. Essa però non è in grado di giustificare una delle nostre idee fondamentali relative alla democrazia, ossia che essa richiede non solo il suffragio universale ma anche la libertà di parola e di associazione nonché altri diritti e libertà politiche. L'eguaglianza di impatto nella sfera politica non viene inficiata se la censura nega a un individuo il diritto di esprimere pubblicamente le proprie opinioni concedendo ad altri lo stesso diritto, o se vi è qualcuno abbastanza ricco da controllare un quotidiano e qualcun altro troppo povero per comprarne anche solo una copia. Occorre quindi concepire l'eguaglianza non semplicemente in termini di impatto, bensì in termini di influenza se vogliamo anche solo cominciare a esporre le ragioni per cui la censura costituisce una negazione dell'eguaglianza del potere politico.
L'eguaglianza di influenza è davvero un ideale attraente? Non avremmo forse qualche esitazione nel favorire l'eguaglianza verticale di influenza nel modo appena descritto, ossia facendo sì che i rappresentanti agiscano come vorrebbe la maggioranza dei loro elettori e adottando meccanismi elettorali che punirebbero coloro che si comportassero diversamente? Vogliamo realmente garantirci nella misura del possibile la loro obbedienza? Storicamente si è affermata la tesi opposta, espressa da Burke nel suo famoso discorso agli elettori di Bristol, in cui egli rifiutava in linea di principio di votare secondo le preferenze dei suoi elettori (anche se oggi sembrano ben pochi i politici disposti a sostenere questa posizione).
L'eguaglianza di influenza può sembrare un ideale assai più attraente nella dimensione orizzontale che non in quella verticale, ma si tratta di un'apparenza ingannevole. La principale attrattiva dell'eguaglianza orizzontale di influenza deriva dalla convinzione che sia ingiusto che alcuni privati cittadini abbiano maggior influenza politica di altri solo perché sono più ricchi. Tale convinzione intuitiva può essere interpretata in due modi diversi. Da un lato la si può ritenere fondata sull'assunto che qualunque significativa disparità di influenza tra i privati cittadini equivale a una grave mancanza di eguaglianza politica. Dall'altro lato si può evitare qualunque riferimento all'eguaglianza di influenza come ideale generale affermando, ad esempio, che è ingiusto che alcuni siano ricchi come Rockefeller perché ciò viola i principi dell'eguaglianza distributiva; inoltre, la sproporzionata influenza politica conferita dalla ricchezza ad alcuni individui è una conseguenza particolarmente deprecabile dell'ingiustizia in quanto consente a costoro, tra le altre cose, di perpetuare e di moltiplicare gli altri ingiusti vantaggi di cui godono.
Questi due modi di criticare l'influenza politica di un Rockefeller sono naturalmente molto diversi tra loro. Il primo non bada alla causa che determina le sproporzioni di influenza, ma assume solo che l'influenza aggregata, qualunque sia la sua fonte, debba essere eguale. Il secondo non considera l'influenza aggregata e condanna l'influenza sproporzionata di Rockefeller solo sulla base della particolare origine di tale influenza. Possiamo contrapporre le due obiezioni immaginando un mondo in cui sia valida la prima ma non la seconda. Supponiamo che gli obiettivi distributivi dell'eguaglianza economica siano stati realizzati, ma che alcuni individui abbiano ancora maggiore influenza politica di altri. Ciò può accadere per tutta una serie di ragioni, ma considereremo solo quei motivi che di per sé non sollevano problemi, in quanto dobbiamo stabilire se l'ineguaglianza di influenza sia criticabile in quanto tale. Alcuni, allora, potrebbero avere maggiore influenza perché hanno deciso di investire nella campagna elettorale una quota maggiore delle proprie ricchezze - inizialmente eguali a quelle degli altri. Oppure possono aver investito di più negli studi e nella formazione professionale, sicché gli altri sono più inclini a consultarli o ad ascoltare i loro consigli. Oppure ancora, possono aver condotto un'esistenza talmente virtuosa o segnata dal successo che gli altri si fidano maggiormente di loro, o sono più disposti a seguirli. La prima versione dell'obiezione all'influenza sproporzionata di un Rockefeller si applicherebbe in ogni caso anche a costoro. La maggior influenza esercitata da individui politicamente motivati o competenti o carismatici verrebbe considerata come una carenza nell'organizzazione politica e si farebbe il possibile per ridurla o eliminarla. La seconda versione dell'obiezione invece non sarebbe valida, a meno che non si abbia qualche altra ragione, indipendente dall'assunto che l'influenza politica debba essere eguale, per rifiutare una situazione in cui alcuni individui siano più motivati politicamente, più competenti o più carismatici di altri.
Consideriamo l'opinione assai diffusa e del tutto giustificata secondo la quale nella maggior parte delle società le donne hanno troppo poco potere. Quanti sostengono questa tesi potrebbero ritenere difettosa un'organizzazione sociale in cui la donna media non abbia nella sfera pubblica la stessa influenza (misurata in base a qualche criterio specificato) esercitata dall'uomo medio. Tuttavia altri che condividono la stessa opinione potrebbero intendere qualcosa di completamente diverso, ossia non che uomini e donne dovrebbero avere in media, di diritto, la stessa influenza, bensì che la minore influenza che attualmente hanno le donne dipende da una combinazione di ingiustizia economica, pregiudizi e altre forme di oppressione e di preconcetti, alcuni dei quali, forse, sono così fondamentali da costituire parte integrante della cultura della società. La differenza tra queste due posizioni emerge nel modo più chiaro se si cerca di immaginare una società in cui la discriminazione economica, sociale e culturale delle donne sia stata abolita. Se in tale società il potere medio dell'uomo e della donna continuasse a essere diseguale - il che potrebbe verificarsi sia in un senso che nell'altro - questo fatto, in sé, costituirebbe un difetto nell'organizzazione sociale?
Una volta compreso che le nostre più serie preoccupazioni relative all'ineguaglianza di potere politico possono essere motivate senza far ricorso all'ideale dell'eguaglianza di influenza, siamo in condizioni di stabilire se esista qualche ragione, oltre l'intento di spiegare tali preoccupazioni, per accettare quell'ideale. A mio avviso la risposta è negativa. Una società egualitaria vuole che l'impegno politico dei suoi cittadini scaturisca da un interesse comune e profondo per la giustizia dei risultati, ossia per l'equità delle decisioni distributive; essa li incoraggia a inorgoglirsi o a sentirsi umiliati per i successi o gli insuccessi della comunità come se fossero i propri, e mira a perseguire quell'obiettivo comune dell'attività politica. L'ideale dell'eguaglianza di influenza tuttavia si oppone a tale aspirazione. Quando gli uomini desiderano più influenza di quella che hanno o ritengono di non averne abbastanza, il loro interesse per la collettività è mera finzione, perché di fatto essi continuano a considerare il potere politico come una risorsa distinta anziché come una responsabilità collettiva. Una società egualitaria inoltre ha a cuore un'altra funzione dell'attività politica, quella cioè di dare ai cittadini la maggiore libertà possibile di estendere alla sfera politica il proprio agire e le proprie esperienze morali. Ma chi accetta l'eguaglianza di influenza come un limite politico non può considerare la propria vita politica come un agire morale, perché tale limite mina la premessa cardinale della convinzione morale, ossia che solo la verità conta. Condurre una campagna politica accettando limiti di influenza autoimposti non sarebbe un agire come esseri morali ma soltanto un inutile e vuoto cerimoniale.
Dalle considerazioni fatte in precedenza occorre trarre delle conclusioni forti. Né l'eguaglianza di impatto né l'eguaglianza di influenza costituiscono interpretazioni adeguate dell'idea più fondamentale di eguaglianza del potere politico. Tuttavia non vi sono altre interpretazioni più convincenti. Dobbiamo quindi abbandonare la concezione comune dell'eguaglianza politica come eguaglianza di potere politico tra tutti i cittadini. Quale alternative restano? Il concetto di eguaglianza politica potrebbe essere ridefinito, anziché in termini di potere ex ante sulle decisioni politiche, facendo invece riferimento alla natura della procedura politica. L'eguaglianza politica si avrebbe allora quando le procedure politiche si fondano sull'assunto che gli individui hanno diritto a un eguale rispetto.
Ciò riguarda in parte il risultato della procedura politica nonché la sua definizione. Se una struttura politica è tale che, date le preferenze, gli egoismi, le alleanze e le inimicizie degli individui, il semplice voto maggioritario priverà sempre qualche gruppo delle risorse cui ha diritto, allora in quella comunità una struttura politica puramente maggioritaria non garantirebbe l'eguaglianza politica. Ma l'eguaglianza politica non riguarda solo i risultati del processo politico: una tirannia illuminata in cui un singolo governante onnipotente distribuisca risorse e opportunità con perfetta giustizia non realizzerebbe l'eguaglianza politica.
La procedura, così come il risultato, deve trattare gli individui in modo eguale, e in una procedura egualitaria occorre distinguere due elementi: il simbolismo e la facoltà di agire. L'eguaglianza richiede che la distribuzione dei voti implichi un'attestazione simbolica dell'eguale status di tutti i cittadini. L'eguaglianza richiede inoltre che la politica dia a ciascuno l'opportunità di fare dell'agire politico un'estensione dell'agire morale. Il requisito del simbolismo stabilisce che le decisioni politiche che suddividono la comunità globale in collegi distribuendo i voti all'interno di ciascuno di essi non debbano essere motivate dalla - e non possano essere interpretate come conseguenze della - posizione di svantaggio di alcuni cittadini o di privilegiamento di alcuni di essi rispetto ad altri. Ciò fornisce un argomento prima facie convincente in favore di soluzioni che garantiscano quella che abbiamo definito in precedenza eguaglianza orizzontale di impatto nella comunità politica. Ma a una considerazione più attenta questo si rivela un argomento debole, perché la funzione simbolica consente delle deroghe da tale principio, purché tali deroghe non incidano negativamente sulla posizione o l'importanza di coloro che vedono diminuito il loro potere d'impatto.La storia e le convenzioni hanno un ruolo importante quando si applicano queste considerazioni sul piano pratico. La storia di gran parte delle democrazie occidentali rende intollerabile per tali società qualunque deviazione dal principio di eguaglianza di impatto all'interno delle circoscrizioni elettorali, ossia dall'eguaglianza del voto. Ma questa stessa storia non attribuisce all'eguaglianza di impatto lo stesso ruolo simbolico quando si tratta di stabilire le modalità di divisione di una collettività in collegi elettorali minori. In parte il motivo è ovvio: per ragioni pratiche le decisioni relative a tale divisione possono dar luogo solo a un'eguaglianza d'impatto approssimativa, in quanto esse non possono essere matematicamente perfette e in ogni caso diventano obsolete nel corso delle successive riorganizzazioni delle circoscrizioni. La storia di gran parte delle democrazie occidentali inoltre offre esempi piuttosto vistosi di decisioni di questo tipo in cui l'eguaglianza di impatto è stata negata per ragioni che palesemente non avevano niente a che fare con una minore considerazione per coloro il cui impatto politico veniva in questo modo ridotto: si pensi al caso del Senato negli Stati Uniti d'America.Il requisito della facoltà di agire è assai più complesso. Sussiste un'ovvia connessione tra questo requisito e la libertà di parola o le altre libertà politiche. Non possiamo rendere la nostra vita politica una estensione della nostra vita morale se non ci viene garantita la libertà di esprimere le nostre opinioni nel modo che riteniamo adeguato alla nostra integrità morale. L'opportunità di attestare le nostre convinzioni è altrettanto importante a tal fine quanto l'opportunità di comunicarle ad altri; le due cose di fatto spesso si fondono. Così come negare a qualcuno la facoltà di praticare il culto conforme alla propria fede significa privarlo di una componente fondamentale della vita religiosa, allo stesso modo negare a qualcuno l'opportunità di attestare il proprio impegno per la giustizia così come egli la intende non significa semplicemente limitare la sua facoltà di azione politica, bensì vanificarla.
Ma l'esigenza che venga riconosciuta la facoltà di agire non si esaurisce nel riconoscimento della facoltà di espressione e di impegno. Per impegnarsi nella politica come agenti morali occorre avere la certezza che ciò che si fa non cade nel vuoto, e una procedura politica adeguata deve lottare contro ostacoli formidabili al fine di tutelare questa potenziale capacità per tutti gli individui. In altre parole, il processo politico deve assicurare a ogni cittadino un certo peso politico. L'organizzazione dei collegi elettorali ha un suo ruolo in questo senso, ed è importante a questo proposito rilevare la differenza tra sistema mediato e sistema diretto o finale. Il sistema collegiale è mediato quando le elezioni scelgono i rappresentanti che esprimono collegialmente una singola decisione che riguarda la comunità politica complessiva, come nel caso delle elezioni a livello nazionale del Senato. Il sistema è finale quando le elezioni decidono direttamente una qualche questione che riguarda la giurisdizione circoscrizionale, come nel caso dei referendum su questioni specifiche. Entrambi i sistemi conferiscono peso politico ai singoli cittadini di un grande paese, ma in modi diversi: il sistema mediato dà maggior peso ai cittadini su importanti materie di rilevanza nazionale, e in questo modo accresce la facoltà d'azione morale nell'ambito della comunità nel suo complesso; nel sistema finale il cittadino ha maggior peso politico su questioni di rilevanza relativamente minore.
Ovviamente la divisione in collegi elettorali non è l'unico mezzo che una procedura politica egualitaria può e deve impiegare per conferire peso politico al cittadino. In collegi di grandi dimensioni, o in collegi intermedi all'interno di grandi nazioni, il peso del singolo voto è trascurabile. Così lo scopo della politica di assicurare la possibilità di agire può essere raggiunto solo garantendo a ognuno l'accesso a media influenti, se lo desidera, o dando a ognuno un'eguale opportunità di influenzare gli altri se è in condizione di farlo. Questa, si potrebbe dire, è l'altra faccia della libertà di espressione e di accesso, considerata dal punto di vista della possibilità di azione. Nelle nostre società caratterizzate dall'ineguaglianza la causa principale dell'ineguaglianza di accesso è l'ineguaglianza di ricchezza. Se la distribuzione delle risorse fosse più egualitaria, aumenterebbe automaticamente il peso politico di ampi strati della popolazione. Se però anche così l'industria dei media consentisse l'accesso a un'audience politica solo a quanti investono o lavorano in tale settore, l'obiettivo della democrazia di garantire la facoltà di agire richiederebbe di assicurare o fornire in qualche altro modo eguali possibilità di accesso a tutti i cittadini.Sulla natura dell'eguaglianza si può trarre un'importante conclusione generale. Se una comunità è realmente egualitaria nel senso astratto discusso in precedenza - se accetta il principio dell'eguale trattamento di tutti i suoi membri - allora non può considerare l'impatto o l'influenza politica come risorse da ripartire in base a qualche criterio di eguaglianza, allo stesso modo in cui si ripartiscono le materie prime, la terra o gli investimenti. In una società egualitaria la politica è una questione di responsabilità, non un'altra forma della ricchezza.
L'ultimo problema relativo all'eguaglianza è di natura esplicitamente normativa. Non viene più messo in questione, almeno al livello della retorica e del ragionamento politico, il fatto che il governo debba essere egualitario nel senso astratto, perseguendo strutture e scelte politiche che garantiscano un eguale trattamento di tutti i cittadini. Se possibile, però, si dovrebbe cercare una qualche giustificazione politica o filosofica più fondamentale di tale principio egualitario astratto, non solo per una forma di responsabilità intellettuale, ma anche perché individuare le radici dell'eguaglianza astratta in altre idee ci aiuterà a definire quella particolare concezione dell'eguaglianza economica e politica che costituisce la migliore interpretazione dell'eguaglianza astratta.Le radici dell'eguaglianza vanno cercate in una teoria più generale della giustizia. Consideriamo per cominciare le conseguenze che comporta per una teoria della giustizia la tesi platonica che, come si è detto, è parte integrante dell'interpretazione dell'eguaglianza economica come eguaglianza di risorse. In questa interpretazione giustizia e benessere si fondono perché il benessere di ogni individuo dipende tra le altre cose dall'equità della distribuzione delle risorse. Ma se si accetta la concezione platonica anche in questa sua forma più debole, la maggior parte degli argomenti pro o contro le diverse teorie della giustizia della filosofia politica contemporanea sono irrilevanti.
Gli argomenti più autorevoli sul problema della giustizia riguardano le conseguenze che le differenti teorie comportano per gli interessi di diversi individui. Molti ad esempio ritengono che un argomento assai solido sia quello secondo il quale un modello di giustizia che consenta all'individuo di trattenere per sé l'intero profitto di ciò che produce sia alla fine nell'interesse di tutti, o quasi, perché le persone capaci sarebbero incentivate a produrre di più. Questo tipo generale di argomentazione però perde la sua validità una volta che si accetta la tesi secondo la quale la giustizia è parte integrante degli interessi delle persone.
Una teoria della giustizia infatti non può basarsi sull'argomento che una società organizzata secondo i principî di tale teoria avrà più risorse aggregate; ciò infatti significa assumere che avere una maggiore quantità di risorse sia effettivamente nell'interesse di quanti di fatto beneficeranno di tali maggiori risorse. Una maggiore ricchezza è effettivamente negli interessi della maggioranza solo se il sistema che la rende possibile è giusto. Senza dubbio un sistema economico giusto produrrebbe maggiori risorse per tutti, ma chi accetta l'idea che giustizia e benessere sono tutt'uno non può sostenere che un sistema è giusto solo perché ha tali conseguenze, e considererà queste ultime nell'interesse di tutti solo se avrà qualche altra ragione per ritenere giusto il sistema che le ha prodotte.Siamo abituati a considerare la giustizia in base al modello conflittuale proposto dalle teorie del contratto sociale. Secondo tale modello, gli individui divisi da interessi contrastanti si rendono conto a un certo punto che è necessario arrivare a un compromesso al fine di tutelare gli interessi superiori di ciascuno: la convivenza pacifica, secondo Hobbes, o il diritto al giusto rispetto reciproco, secondo Rawls, oppure la realizzazione delle condizioni per la comunicazione reciproca cui aspira ogni individuo. Questo modello induce a considerare il problema della giustizia in una prospettiva particolare: la ragionevolezza delle diverse ipotesi cioè viene giudicata sulla base di un confronto tra l'estensione e la rilevanza dei diversi interessi che in base a ciascuna di esse gli individui dovrebbero sacrificare o abbandonare. Questo approccio a mio avviso è sostanzialmente insoddisfacente, in quanto le nostre intuizioni sulla giustizia sono già incorporate nelle nostre idee su ciò che è ragionevole chiedere. Esso tuttavia può costituire un modo appropriato di organizzare e sviluppare queste intuizioni: giudichiamo giuste le istituzioni che sarebbero approvate da quanti condividono le nostre opinioni su quali siano gli interessi fondamentali e quali quelli marginali. Il concetto di eguaglianza funziona abbastanza bene, anche se non necessariamente molto bene, nelle filosofie politiche che procedono in questo modo. In via di principio è irragionevole chiedere a chi parte già svantaggiato di fare maggiori rinunzie, sicché tale approccio ha un'impronta egualitaristica. In determinati casi però l'insistenza sull'eguaglianza risulta irragionevole e dottrinaria, ad esempio qualora un piccolo vantaggio per i poveri si possa ottenere solo a prezzo di ingenti sacrifici per tutti gli altri.
Ma la concezione della giustizia come compromesso tra diversi interessi, sulla quale si fonda questo approccio, non è più utilizzabile una volta che si accetta la premessa della teoria dell'eguaglianza delle risorse, ossia che la giustizia è una componente del benessere. In che termini va concepita allora la giustizia? Essa ha un ruolo dinamico nella vita di ogni individuo eticamente consapevole: definisce quali risorse egli può utilizzare e contribuisce così a definire il compito etico rappresentato dal vivere. Se non si può valutare la validità di una teoria della giustizia chiedendosi se essa abbia conseguenze giuste per gli individui, è possibile però valutarla in termini etici, chiedendosi se essa sia in accordo con altre nostre convinzioni su quale sia il modo giusto di vivere. In questa prospettiva il carattere distintivo di tutte le teorie non egualitarie è il seguente: esse sono accettabili dal punto di vista etico solo se è giustificata la tesi secondo la quale la vita di alcune persone è più importante di quella di altre, non sul piano delle conseguenze, in ragione cioè dell'impatto che esse possono avere sul mondo, ma esclusivamente in quanto appartengono a una determinata categoria di persone. Vi sono sempre state categorie di persone che hanno preteso di avere un'importanza speciale in quanto discendenti dei Borboni, o appartenenti alla razza bianca, o membri di un popolo eletto da Dio, oppure in quanto persone di particolare lignaggio, o talento, o bellezza o persino ricchezza. Tale pretesa però è in contrasto con la nostra convinzione etica più profonda, secondo la quale è importante il modo in cui si vive non in virtù di particolari attributi o proprietà che alcuni possiedono e altri no, bensì esclusivamente in quanto esseri umani. Per gli individui eticamente consapevoli, vivere una vita degna comporta - e in un certo senso comincia con - il tentativo di dare una risposta al problema dell'identità personale, e tale questione presuppone che il compito etico rappresentato dal vivere sia più astratto e universale rispetto al compito etico rappresentato dal vivere in un determinato ruolo, che non si tratta di un compito ipotetico nel senso kantiano, indirizzato solo a chi ha determinate caratteristiche o proprietà, bensì di un compito categorico, che riguarda tutti gli uomini. Dovrei scegliere un modello di vita conforme al fatto di essere un aristocratico italiano, se lo fossi? È questo che definisce la mia identità in senso etico? Oppure è il fatto di essere cattolico, o microbiologo, o di avere una intonazione perfetta? Quali di questi fatti e circostanze relativi al mio io dovrei prendere come parametri nell'individuare un modello di vita appropriato? Quali altri dovrei considerare come semplici opportunità o limiti? Rispondiamo al problema dell'identità in primo luogo e sostanzialmente come persone e successivamente, poiché in quanto persone rispondiamo inizialmente in un certo modo, come aristocratici, o cattolici o individui dotati di un talento particolare.
Le teorie non egualitarie della giustizia quindi, la cui conseguenza è che individui con caratteristiche particolari o in una situazione particolare hanno a disposizione una maggiore quantità di risorse, non possono essere accettate da persone eticamente consapevoli, le quali quindi devono accettare l'eguaglianza nel suo senso astratto. Mentre le teorie non egualitarie si scontrano con le convinzioni etiche menzionate in precedenza, una teoria egualitaria adeguata conferma tali convinzioni e ne costituisce una logica conseguenza, conformandosi all'austerità kantiana della nostra situazione etica. Individuare l'origine dell'etica in qualcosa di più contingente della natura umana significa oscurare e sminuire la forza categorica dell'imperativo etico che impone di vivere bene.L'argomentazione che ci ha portati a questa conclusione presenta quindi una certa simmetria. Essa parte dall'idea che la giustizia limita l'etica, e che se qualcuno conduce una vita meno buona ciò è dovuto al fatto che le sue risorse sono ingiustamente scarse. Ora abbiamo rovesciato il problema mostrando come l'etica limiti la giustizia: una concezione della giustizia deve essere adeguata alla nostra percezione del carattere e della profondità del compito etico, e ciò induce a considerare l'eguaglianza come la migliore teoria della giustizia. Arrivati a questo punto, l'argomento vale in entrambe le direzioni, perché il fatto che l'eguaglianza sia una teoria naturale della giustizia a sua volta fa da sostegno all'idea dalla quale siamo partiti, ossia che la giustizia sia un aspetto dell'etica. Un sistema politico ed economico fondato sull'ineguaglianza offende tutti gli individui, anche coloro che traggono vantaggio dall'ingiustizia in termini di risorse, perché una struttura comunitaria che assegna un valore ipotetico e superficiale al compito etico rappresentato dal vivere nega l'autodefinizione personale che è parte integrante della dignità umana. L'interesse dell'individuo e l'eguaglianza politica sono alleati. Hegel sosteneva che schiavi e padroni sono entrambi prigionieri: l'eguaglianza apre le porte della prigione a entrambi. (V. anche Costituzionalità delle leggi, controllo di; Costituzioni; Giustizia).
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di Alessandro Pizzorusso
1. L'eguaglianza come regola giuridica e come principio costituzionale
L'esigenza di rispettare l'eguaglianza fra gli uomini, che indubbiamente corrisponde a un elementare bisogno di giustizia, ha costituito in ogni tempo un argomento classico del ragionamento giuridico, spesso utilizzato sul piano dell'applicazione del diritto anche indipendentemente da qualunque richiamo a esplicite proclamazioni costituzionali o legislative di una corrispondente regola. Ma non sono rari neppure i casi nei quali, pur in difetto di un'enunciazione del principio in termini generali, statuizioni siffatte risultano inglobate nelle norme positive attraverso l'impiego di aggettivi come 'pari', 'eguale' e simili, oppure indicando il titolare del diritto in questione mediante espressioni come 'tutti', 'ciascuno', 'nessuno', ecc.Ciò nondimeno, è nell'ambito del moderno costituzionalismo che la regola dell'eguaglianza è stata più esplicitamente recepita nel campo del diritto, attraverso l'enunciazione di un principio dotato di portata generale e spesso rivestito della particolare forza normativa propria degli enunciati costituzionali. Prima del movimento di pensiero sfociato nelle Rivoluzioni francese e americana, infatti, pur se l'esigenza di rispettare l'eguaglianza era spesso avvertita con riferimento ad ambiti specifici, la sua teorizzazione a livello generale risultava incompatibile con la struttura della società di quel tempo, la quale presupponeva l'esistenza di una pluralità di ceti e di corporazioni, e risultava quindi fondamentalmente organizzata come una società di non eguali. In tale situazione, pertanto, era possibile che fosse riconosciuta come regola almeno normalmente operativa quella che, ad esempio, prescriveva la par condicio creditorum (o di altri soggetti che si trovassero in eguale posizione rispetto a un determinato rapporto giuridico), ma non era possibile invece costruire la regola dell'eguaglianza come un principio generale potenzialmente valido per qualunque tipo di rapporto.
Questa evoluzione fa comprendere perché la regola dell'eguaglianza non abbia ricevuto un'elaborazione particolarmente attenta nell'ambito della tradizione privatistica fino a quando il problema dell'applicabilità del corrispondente principio ai rapporti privati non si è imposto come un possibile effetto derivato del suo riconoscimento a livello costituzionale (v. Rescigno, 1960; v. Pasetti, 1970; v. Cerri, 1987). E in realtà, fino a pochi anni fa, negli indici analitici dei manuali di diritto privato il termine 'eguaglianza' non compariva neppure ed è solo recentemente che ha cominciato a penetrarvi, non tanto come autonomo sviluppo dell'attività interpretativa dei privatisti, quanto come riflesso del riconoscimento di effetti giuridici diretti e immediati alle norme costituzionali regolatrici dei diritti fondamentali.
Bisogna tuttavia distinguere il modo in cui questo sviluppo si è realizzato negli Stati Uniti da quello che invece si è avuto nei paesi europei. In America la possibilità di considerare i principî costituzionali come norme giuridiche non è mai apparsa in dubbio, sulla base della concezione della costituzione come higher law, direttamente utilizzabile dal giudice come parametro della costituzionalità, e quindi dell'applicabilità, delle leggi ordinarie, nonché come criterio d'interpretazione di esse e, se del caso, come fonte di norme direttamente applicabili; il principio di eguaglianza si impose quindi come "the last resort of constitutional arguments" (secondo la formula usata dal giudice Holmes). Nel continente europeo ha invece prevalso per lungo tempo l'opinione secondo la quale la costituzione doveva essere considerata come un documento essenzialmente politico e le sue norme risultavano quindi non 'giustiziabili'. È stato soltanto in epoca relativamente recente, sotto l'impulso della Scuola viennese, che si diffuse anche qui, seppur su basi teoriche molto diverse, una nozione della costituzione come norma giuridica (v. Garcia de Enterría, 1981).
In Italia il dibattito sull'efficacia giuridica delle disposizioni di principio contenute nella Costituzione si sviluppò soprattutto a partire dal 1947, quando si cominciò a discutere della natura 'programmatica' o 'precettiva' delle norme costituzionali contenenti tali disposizioni. All'opinione, sostenuta per un certo tempo dalla Corte di cassazione e da una parte della dottrina, secondo la quale le garanzie costituzionali della libertà e dell'eguaglianza si rivolgerebbero soltanto al legislatore e non potrebbero quindi essere in alcun modo applicate dai giudici, si contrappose l'altra, patrocinata da alcuni studiosi (v. soprattutto Crisafulli, 1952; v. Pierandrei, 1952; v. Natoli, 1955) e più tardi accolta dalla Corte costituzionale (a partire dalla sentenza 14 giugno 1956, n. 1, in "Foro italiano", 1956, n. 1, p. 833), in base alla quale anche le norme qualificabili come soltanto programmatiche possono avere, quanto meno, l'effetto di determinare l'incostituzionalità delle regole con esse contrastanti che siano ricavabili da leggi ordinarie o da altre fonti subordinate, oltre che di influenzare l'interpretazione di queste nel senso di far preferire le interpretazioni costituzionalmente conformi a quelle di segno opposto.Il risultato di questo dibattito fu che, almeno con riferimento ai principî generali espressi da disposizioni contenute nella Costituzione, la tesi secondo cui si tratta di norme caratterizzate bensì da un'accentuata astrattezza e generalità, ma comunque applicabili con le stesse tecniche con cui si applicano tutte le altre norme, è ormai largamente accettata e può dirsi assolutamente prevalente, sia nella dottrina che nella giurisprudenza italiana. Analogo indirizzo si è affermato senza eccessive difficoltà nell'area influenzata dalla dottrina giuridica tedesca e si è imposto più recentemente in Spagna, in Portogallo, in Belgio e in Francia, mentre a esso guardano con attenzione i paesi dell'Europa orientale, recentemente sottrattisi al dominio dell'ideologia comunista, che escludeva ogni forma di controllo giurisdizionale della costituzionalità delle leggi.
L'applicazione del principio costituzionale di eguaglianza dette tuttavia luogo a problemi diversi da quelli sorti con riferimento alle norme costituzionali istitutive di diritti di libertà: mentre infatti queste determinano l'attribuzione di situazioni giuridiche soggettive tecnicamente simili a quelle derivanti dalle norme legislative ordinarie, gli effetti giuridici dell'affermazione dell'eguaglianza non possono essere costruiti con questa tecnica, ma si risolvono invece in una modifica delle disposizioni attributive di diritti o di doveri e risultano pertanto in certa misura autonomi rispetto alle singole configurazioni di situazioni giuridiche soggettive nell'ambito delle quali trovano applicazione. Conseguentemente, i giuristi si sono impegnati nella specificazione dei contenuti propri del principio costituzionale in esame e varie vie sono state percorse a questo scopo.
2. L'eguaglianza come modo di strutturazione delle norme giuridiche
Nell'ambito di questa evoluzione, al fine di inserire il principio di eguaglianza nel sistema di concetti che i giuristi erano venuti via via costruendo, vennero proposte interpretazioni assai diverse.La più radicale di esse fu quella secondo la quale "la disposizione che i cittadini sono eguali davanti alla legge, secondo interpretazione letterale e sistematica, non può significare che in genere il contenuto delle leggi debba essere identico oppure conforme a giustizia per tutti i cittadini, ma può significare solo che la potestà della legge è eguale, identica per tutti, sicché non vi è più [...] principe o suddito sciolto dalle leggi, e non vi sono più sottoposti a potestà legislativa diversa da quella degli altri cittadini, e non vi è più personalità della legge, né pluralità di ordinamenti in corrispondenza alle varie categorie di soggetti. Ne segue che la disposizione sull'eguaglianza, in principio, non disciplina il contenuto delle leggi, ma sibbene ne definisce in modo incontrovertibile la forza e l'efficacia" (v. Esposito, 1954, pp. 30-31), per cui la portata del principio si risolverebbe in una norma sulla produzione giuridica in virtù della quale le disposizioni contenute nelle leggi e negli altri atti normativi debbono sempre essere caratterizzate dall'astrattezza e dalla generalità e sarebbero incostituzionali per violazione del principio di eguaglianza soltanto le leggi 'personali' o quelle che determinano disparità di trattamento vietate dalle esplicite enunciazioni che spesso troviamo nelle costituzioni (come, ad esempio, nell'art. 3, comma 1, della Costituzione italiana, il quale vieta le "distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali").
Questa impostazione risultò tuttavia inadeguata a fornire soluzioni appropriate per tutta una serie di casi pratici, e sul piano teorico fu messa in discussione soprattutto da quegli studiosi i quali dimostrarono come il ricorso a leggi personali non potesse aprioristicamente escludersi in quei casi in cui situazioni individuali presentassero particolarità tali da distinguerle nettamente dai casi (per così dire) ordinari (v. soprattutto Mortati, 1968).
In effetti, il rapporto di regola ed eccezione può atteggiarsi in modi così vari da indurre a escludere che una regola possa essere considerata incompatibile con il principio di eguaglianza solo perché derogatoria nei confronti di un'altra, astrattamente qualificabile come generale. Generalità e specialità dei precetti sono infatti qualche cosa di eminentemente relativo e le ragioni che possono portare a censurare una regola derogatoria di un'altra per il carattere di 'privilegio' che essa eventualmente assuma sono sempre e soltanto ragioni inerenti al loro contenuto, e il giudizio di conformità al principio di eguaglianza, ove consentito, presuppone necessariamente un apprezzamento del carattere 'giustificato' o 'ingiustificato' della deroga o della discriminazione.A questa conclusione condusse anche il dibattito intorno al carattere tassativo o non tassativo degli elenchi di discriminazioni vietate: è infatti ovvio che anche una discriminazione normalmente vietata può risultare invece compatibile con il principio di eguaglianza ove ricorrano presupposti di fatto i quali differenzino il caso in esame da quelli cui si è avuto riguardo nello stabilire la regola più generale e sembra difficile ammettere che non possano aversi altre discriminazioni le quali diano luogo a inconvenienti simili a quelli che si determinano nelle ipotesi esplicitamente previste (ancorché le previsioni costituzionali includano talora formule vaghe, cui possano essere ricondotte anche ipotesi probabilmente non presenti alla mente dei loro redattori). E infatti è difficile negare, come da tempo è stato chiarito, che regolare paritariamente situazioni diverse è altrettanto lesivo dell'eguaglianza quanto regolare in modo differenziato situazioni simili (o viceversa).
Donde, anche sotto questo profilo, la necessità di integrare la portata del principio di eguaglianza con la previsione di un apprezzamento del carattere giustificato o ingiustificato della discriminazione, il quale peraltro rischia di svuotare la portata precettiva del principio stesso e di risolverne gli effetti nell'attribuzione della più ampia discrezionalità a chi risulterà competente a controllarne il rispetto, cioè, nei sistemi europei, alle corti costituzionali e, nel sistema americano, alla Corte Suprema (v. cap. 5).
Una difficoltà particolare è quella che emerge ove si cerchi di applicare il principio di eguaglianza inteso in questo modo ai problemi dell'efficacia delle norme giuridiche nel tempo. E infatti, ove si prescindesse da qualunque apprezzamento circa la giustificatezza o meno delle disparità di trattamento, come si potrebbe ritenere compatibile con il principio di eguaglianza che due fatti identici abbiano effetti giuridici diversi solo perché verificatisi uno prima e l'altro dopo il momento di entrata in vigore di una nuova legge che ne modifichi il regime giuridico? E come potrebbe ritenersi ammissibile che proprio il legislatore che impone il nuovo regime (e che quindi si può supporre abbia le sue buone ragioni per farlo) sottragga tuttavia a esso, mediante norme 'transitorie', una certa categoria di fatti per assoggettarli invece al vecchio regime, oppure a un regime variamente intermedio fra il vecchio e il nuovo? Se il nuovo regime è il più conforme al diritto e alla giustizia (e quindi anche al principio di eguaglianza), perché non dovrebbe essere applicato anche ai fatti anteriori tuttora suscettibili di riesame o non dovrebbe addirittura essere applicato retroattivamente in tutti i casi in cui ciò sia praticamente possibile?
È ovvio che queste sono domande retoriche, poiché non è difficile individuare esigenze di certezza dei rapporti giuridici (non meno valide di quelle che stanno alla base dell'esigenza di rispettare il principio di eguaglianza) le quali si oppongono alla modificazione dell'assetto dei rapporti giuridici che appaiono ormai stabilizzati, e perché non è difficile dimostrare l'opportunità di un'applicazione graduale delle nuove regole, come quella che è agevolata dalle norme transitorie. Anche questa ipotesi dimostra quindi l'impossibilità di prescindere dal contenuto delle disposizioni delle quali si voglia accertare la conformità con il principio di eguaglianza.
3. L'eguaglianza come misura della capacità giuridica
Ad analoghe difficoltà dà luogo la diversa impostazione secondo la quale la portata del principio di eguaglianza dovrebbe concretizzarsi essenzialmente nell'eliminazione di ogni limitazione di capacità. Nei suoi termini generali questa conclusione si risolve in una svalutazione del principio, poiché nessuno dubita che la 'capacità giuridica generale' (v. Falzea, 1960) debba essere riconosciuta a qualunque persona fisica, essendo state universalmente abolite - almeno ufficialmente - le distinzioni in base alle quali in passato talune categorie di soggetti (gli schiavi, le donne, i figli minori, gli appartenenti a taluni gruppi etnici, ecc.) erano considerate legalmente incapaci, in tutto o in parte. D'altronde, nessuno pensa che tutte le persone fisiche possano essere dotate di situazioni giuridiche soggettive sotto ogni aspetto identiche in ordine a qualsiasi tipo di rapporto giuridico, essendo evidente che la diversità delle situazioni di fatto non può non comportare diversità di effetti giuridici e quindi anche di diritti e di doveri. Così, ad esempio, è ovunque pacifico che la capacità di compiere tutta una serie di atti giuridici (la così detta 'capacità di agire') si acquista con la maggiore età, nonostante che anche chi non disponga di tale status possa essere titolare di situazioni giuridiche soggettive attive e passive; così è pacifico che la capacità elettorale possa essere in qualche misura limitata, anche se il corpo elettorale tende sempre più ad avvicinarsi all'intera popolazione, poiché ne rimangono generalmente esclusi gli stranieri, i minori e altre categorie di persone variamente delimitate; così è regola universale che per compiere validamente atti giuridici, e anche atti costitutivi di responsabilità per chi li compie (non esclusi i reati), occorre essere compos sui, cioè essere quanto meno capace d'intendere e di volere, e così via dicendo.
Conseguentemente, anche la nozione di 'capacità giuridica speciale', che in passato trovava un suo preciso riscontro nella condizione di talune categorie di persone fisiche, ha perduto gran parte della sua utilità. A seguito della sempre più diffusa applicazione del principio di eguaglianza, infatti, la maggior parte delle discriminazioni sulle quali essa si fondava sono state rimosse o grandemente ridimensionate (come, ad esempio, quelle relative alle donne, quelle relative ai non abbienti, e altre simili), per cui la loro portata non è ormai distinguibile da quella di molti altri tipi di differenziazioni di fatto le quali comportano disparità di trattamento giuridico ritenute giustificate e pertanto compatibili con il principio stesso di eguaglianza. In conseguenza di ciò, una rassegna delle ipotesi di capacità giuridica speciale finisce per risolversi in una rassegna di tali disparità di trattamento, il cui elenco potrebbe essere pressoché illimitato e non potrebbe assumere conseguentemente altro carattere che quello di una pura descrizione della normativa vigente.
È però da notare come questa conclusione risulterebbe del tutto esatta soltanto se l'ordinamento giuridico cui si fa riferimento potesse essere considerato come una realtà chiusa, perfettamente separabile dagli ordinamenti giuridici degli altri Stati e da quelli delle società non statali che in vario modo si intrecciano con essi. Lo studio della pluralità degli ordinamenti giuridici (v. soprattutto il classico lavoro di S. Romano, 1946², pp. 106 ss.) ha tuttavia dimostrato che così non è e che anche il diritto proprio di una determinata realtà statale non può non tener conto dei collegamenti che il relativo ordinamento giuridico presenta con gli ordinamenti delle altre società, che esso in parte recepisce (trasformando con varie tecniche le relative norme in norme sue proprie) e in parte riconosce (consentendo così alle norme dell'ordinamento giuridico alieno di operare nel suo ambito senza tuttavia trasformarle in norme proprie).
Considerato dal punto di vista del soggetto di diritto, il fenomeno della pluralità degli ordinamenti giuridici comporta che si abbiano ordinamenti equiordinati - fra i quali i possibili soggetti di diritto si distribuiscono in modo tale che ciascuno di essi venga a essere collegato, almeno di regola, con uno soltanto di essi (o quanto meno con uno per volta di essi) stabilendo con gli altri solamente rapporti di tipo eventuale e occasionale - e ordinamenti sovra- o sottordinati, ai quali gli stessi soggetti di diritto possono contemporaneamente essere collegati, almeno sotto profili particolari. Il riconoscimento della soggettività alle comunità cui i diversi ordinamenti giuridici corrispondono introduce poi un ulteriore fattore di collegamento fra gli ordinamenti giuridici, che ne accresce e ne complica le interconnessioni.
Rispetto all'ordinamento statale di riferimento, ciò comporta che si abbiano soggetti i quali, oltre a essere incardinati in ordinamenti equiordinati, hanno con esso un rapporto soltanto eventuale e occasionale e comporta altresì che si abbiano soggetti i quali, oltre a essere incardinati nell'ordinamento statale di riferimento, sono anche in vario modo in grado di operare nell'ambito di ordinamenti sovra- o sottordinati a esso e pertanto hanno, da questo punto di vista, una soggettività doppia o plurima; comporta infine, almeno in linea di massima, che gli enti esponenziali dei vari ordinamenti che si riconoscono reciprocamente operino come soggetti nell'ordinamento di ciascuno di essi.Il primo ordine di problemi è quello che comporta la distinzione fra cittadini e stranieri (e la corrispondente distinzione fra le persone giuridiche), che è l'unica con riferimento alla quale si possa configurare, nell'epoca moderna, una vera e propria limitazione di capacità, identificabile in quella applicabile agli stranieri (ma non si sa quanto adeguata alle esigenze dei traffici quali si sono venute delineando nell'epoca contemporanea). A differenza delle limitazioni di capacità realizzate in altre epoche storiche, tuttavia, questa rappresenta una conseguenza tecnica dell'esistenza di una pluralità di ordinamenti giuridici statali e potrà essere attenuata o eliminata soltanto attraverso il ridimensionamento del ruolo che nell'attuale fase storica è riconosciuto agli Stati (cui si potrà probabilmente pervenire attraverso una valorizzazione del ruolo delle organizzazioni internazionali molto più accentuata di quella realizzata fino a questo momento).Il secondo ordine di problemi è quello che deriva dal ruolo che soggetti legati allo Stato dal rapporto di cittadinanza esercitano nell'ambito di ordinamenti diversi da quello dello Stato, ma con esso in vario modo coordinati o da esso quanto meno riconosciuti. È questo il tema del pluralismo istituzionale, il cui studio comporta l'analisi delle 'formazioni sociali' (su questa nozione v. Rossi, 1989), che in vario modo operano nell'ambito dell'ordinamento giuridico dello Stato o in collegamento con esso. Nonostante che l'ostracismo votato alle comunità intermedie all'epoca della Rivoluzione francese trovi tuttora qualche eco nelle costituzioni moderne e nella letteratura costituzionalistica contemporanea, sembra innegabile il forte recupero di esse, che caratterizza - in alcuni paesi più marcatamente, in altri meno - le moderne società statali e che trova il suo momento più rilevante nello straordinario sviluppo assunto dal ruolo dei partiti politici, dei sindacati, degli enti locali e di altre organizzazioni variamente intrecciate con questi o con quelli. Donde una sorta di frammentazione della capacità giuridica delle persone fisiche, la quale risulta in parte dai loro rapporti con l'ordinamento giuridico dello Stato di riferimento e in parte dai rapporti con gli ordinamenti giuridici delle formazioni sociali che in vario modo operano nell'ambito dello Stato stesso.
Infine, il riconoscimento della soggettività giuridica delle persone giuridiche (inclusi gli Stati stranieri e, per lo più, gli enti esponenziali delle formazioni sociali in qualche modo riconosciute dallo Stato di riferimento) implica ulteriori problemi di capacità e anche di applicazione del principio di eguaglianza (v. Pierandrei, 1966).Queste considerazioni sembrano dimostrare la scarsa utilità di un'interpretazione del principio di eguaglianza la quale cerchi di ridurlo a un criterio di misurazione della capacità, poiché per un verso, nell'ambito dei rapporti controllati dal diritto, generalmente le differenziazioni di capacità sono ormai ammesse soltanto in quanto appaiano compatibili con il rispetto dell'eguaglianza, mentre, per altro verso, esse dipendono da un assetto della società (derivante dalla sua ripartizione in una pluralità di società statali e di altre società variamente collegate con esse) che non è riconducibile al principio di eguaglianza, bensì a vicende storiche che - almeno allo stato attuale delle cose - appaiono controllate solo in minor misura dal diritto.
4. Tutela negativa e tutela positiva dell'eguaglianza: eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale
A fronte delle difficoltà derivanti dalla configurazione dell'eguaglianza come 'eguaglianza dinanzi alla legge', più proficui sviluppi sono derivati dalla distinzione fra 'tutela negativa' contro le discriminazioni odiose e 'tutela positiva' tendente al superamento delle disparità derivanti da fattori naturali o da passate oppressioni, ovvero - secondo la terminologia più diffusa in Italia, la quale si rifà all'interpretazione dell'art. 3 della Costituzione del 1947, i cui due commi sembrano appunto ispirati a questa distinzione - fra l''eguaglianza formale', mediante la quale si assicura la 'parità dei punti di partenza' e l''eguaglianza sostanziale', tendente a riequilibrare le differenze di fatto.
Questa distinzione muove dall'osservazione che il riconoscimento di eguali diritti è spesso insufficiente a realizzare un'effettiva parità, giacché chi è sfavorito per motivi naturali o a causa delle discriminazioni subite in passato può non essere nemmeno in grado di avvalersi dei diritti dei quali gli sia riconosciuta la titolarità, o quanto meno di farlo nello stesso modo e nella stessa misura di chi parte invece avvantaggiato per nascita o per privilegi anteriormente acquisiti.È da notare, in proposito, che un'impostazione la quale facesse derivare da questa constatazione le sue conseguenze più rigorose - una generale redistribuzione dei beni attraverso una nuova ripartizione dei diritti, conferiti non già in parti eguali bensì in modo tale da riequilibrare gli svantaggi di partenza - è stata propugnata, nel corso della storia, quasi soltanto da movimenti qualificabili come utopisti: la stessa dottrina marxista, che pur fa proprio il nucleo essenziale di questa impostazione, si limita a progettare l'avocazione allo Stato dei mezzi di produzione, onde consentirgli di sviluppare la sua opera di assistenza e previdenza sociale, ma non esclude che le maggiori capacità e la superiore laboriosità possano essere adeguatamente premiate o compensate.
L'ideologia dello 'Stato sociale', che è quella prevalentemente accolta nell'epoca contemporanea, ritiene invece incompatibili con il principio di eguaglianza soltanto i privilegi che non trovano riscontro nel lavoro umano - inteso in senso assai lato - e pertanto non considera come un fatto negativo la circostanza che l'iniziativa economica privata possa trovare un adeguato compenso dell'impegno e delle capacità che essa impiega, e tende semmai a limitare l'accumulazione della ricchezza derivante esclusivamente dalla rendita del capitale, ostacolandola tuttavia soltanto mediante l'impiego dello strumento fiscale o di altri mezzi di governo dell'economia.
È in questo quadro che va collocata la tutela positiva dell'eguaglianza - o tutela dell'eguaglianza sostanziale - la quale si distingue dalla tutela negativa - o dell'eguaglianza formale - per il fatto di non comportare soltanto l'eliminazione delle discriminazioni ingiustificate, ma di implicare altresì l'adozione di misure tendenti a riequilibrare per quanto è possibile talune più vistose diseguaglianze di fatto, derivanti da cause naturali (come, ad esempio, nel caso degli handicappati) o conseguenti a vicende del passato (come, ad esempio, nel caso dei gruppi sociali che sono stati oggetto in passato di discriminazioni o di sfruttamento).Un'ampia gamma di misure di questo genere sono state adottate dalla giurisprudenza americana - soprattutto negli anni in cui la Corte Suprema fu presieduta da Earl Warren - per eliminare le conseguenze delle discriminazioni di cui era stata vittima la popolazione di colore, anche dopo l'abolizione della schiavitù, e per riequilibrare i rapporti fra i sessi e quelli fra i gruppi sociali che per varie ragioni avevano dato luogo ad analoghe disparità di condizione sociale e umana (v. Nowak e altri, 1983²; v. Mishkin, 1983; v. Tribe, 1988²; v. Baker, 1983; v. Rutherglen e Ortiz, 1988; v. Ortiz, 1988).
Sviluppi meno clamorosi, ma fondati su analoghi presupposti teorici, si sono avuti anche nella giurisprudenza delle corti costituzionali europee, dove però si è per lo più preferito ricondurre le questioni di questo tipo allo schema del controllo della 'ragionevolezza' delle discriminazioni (analogo al rational basis test dei giudici americani), positive o negative che fossero. In Italia questa linea interpretativa ha trovato appoggio nella disposizione contenuta nel 2° comma dell'art. 3 della Costituzione, per il quale "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (v. Romagnoli, 1975; v. Volpe, 1977; v. Caravita, 1984), e che è stato visto come la 'supernorma' dell'intero testo costituzionale (v. Predieri, 1963, p. 38; alla sua posizione aderisce Mortati, v., 1976⁹, pp. 1023-1024), ovvero come "una polemica contro il presente" (v. Calamandrei, 1969, p. 120), tale da comportare un indirizzo di massima per tutta quanta l'attività dei pubblici poteri.In tal modo il principio di eguaglianza sostanziale giustifica le deroghe, in realtà meramente apparenti (v. Cerri, 1976, p. 37), che al principio di eguaglianza formale devono essere arrecate per eliminare o attenuare gli effetti delle discriminazioni passate e delle disparità 'di fatto' aventi origine nell'ingiustizia della natura.Il principio di eguaglianza sostanziale stabilito dall'art. 3, comma 2, della Costituzione italiana trova del resto specificazione in altre disposizioni contenute nel medesimo testo, fra le quali sembrano da segnalare l'art. 4, comma 1, nella parte in cui prevede misure destinate a "rendere effettivo" il diritto al lavoro; l'art. 6, sulla tutela delle minoranze linguistiche; l'art. 24, comma 3, che promette l'assistenza giudiziaria ai non abbienti; gli artt. 31 e 37, sulla protezione delle famiglie numerose, della maternità, dell'infanzia, della gioventù, ecc.; l'art. 32, comma 1, che garantisce cure gratuite agli indigenti; l'art. 34, commi 3 e 4, sul diritto allo studio; l'art. 36, comma 1, seconda parte, sul "salario familiare"; l'art. 38, sull'assistenza e la previdenza sociale; gli artt. 39 e 40, sull'autotutela sindacale dei lavoratori; gli artt. 41, 43, 44, 45, 46 e 47, che prevedono programmi, controlli e interventi pubblici diretti a indirizzare e coordinare l'attività economica pubblica e privata a fini sociali; l'art. 42, commi 2 e 3, che vincola il riconoscimento della proprietà alla sua funzione sociale e ne consente l'espropriazione per motivi d'interesse generale; l'art. 42, comma 4, che prevede limiti alle successioni legittime e testamentarie; l'art. 53, comma 2, per il quale il sistema tributario è informato a criteri di progressività.
Sembrano invece costituire specificazioni del principio di eguaglianza formale di cui al comma 1 dell'art. 3, oltre al principio di pari dignità sociale espresso dalla stessa disposizione, il richiamo all'eguale libertà delle confessioni religiose (art. 8, comma 1); il principio della "parità delle armi" nel processo, che dottrina e giurisprudenza hanno dedotto dall'art. 24, comma 2; l'"eguaglianza morale e giuridica dei coniugi" (art. 29, comma 2); l'eguaglianza del voto (art. 48, comma 2); l'eguaglianza nell'accesso agli uffici pubblici (art. 51, comma 1); il richiamo alla "capacità contributiva" contenuto nell'art. 53, comma 1; l'eguaglianza dei magistrati (art. 107, comma 3), ecc. Un'affermazione del principio di eguaglianza formale è inoltre normalmente ravvisabile nelle disposizioni che garantiscono a 'tutti' singoli diritti di libertà o per effetto delle quali 'nessuno' può subire limitazioni non consentite.
Come si è detto, tuttavia, la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana ha finito quasi sempre per ricondurre a una stessa tecnica argomentativa, fondata sul controllo della ragionevolezza delle discriminazioni, tanto le questioni del primo tipo, quanto quelle del secondo (v. Caravita, 1984).
5. Il sindacato di costituzionalità delle leggi rispetto al principio di eguaglianza come sindacato della ragionevolezza delle discriminazioni
Quale che sia il grado di penetrazione che s'intende di volta in volta consentire alle operazioni interpretative fondate sull'applicazione del principio di eguaglianza, un ostacolo difficilmente evitabile deriva dal fatto che normalmente si tratta di applicazioni realizzate da organi giurisdizionali, sfruttando i poteri interpretativi che di essi sono propri, ma che trovano rigorosi limiti nel tipo di funzione che a tali organi è assegnata, la quale comporta soltanto l'applicazione e non anche l'innovazione del diritto vigente (v. Cappelletti, 1989, pp. 3 ss.).
Questo limite è stato spesso messo a repentaglio dalle operazioni interpretative fondate sul principio di eguaglianza, le quali hanno non di rado portato i giudici americani (a cominciare dalla Corte Suprema) e le corti costituzionali europee (talora seguite dai giudici comuni) a ricavare - in via di interpretazione delle disposizioni costituzionali o legislative - norme non scritte nei testi, ma ritenute necessarie (a seguito di un balancing test o di altri analoghi ragionamenti) per riequilibrare le norme da essi desumibili e così metterle in armonia con il principio di eguaglianza.Così, ad esempio, attraverso questa tecnica la Corte Suprema degli Stati Uniti è pervenuta, a partire dalla celeberrima pronuncia Brown vs. Board of Education, 347 U.S. 483 (1954), a disporre la redistribuzione degli alunni appartenenti ai diversi gruppi etnici fra le varie istituzioni scolastiche onde evitare la segregazione razziale e superare il criterio separate but equal, che dava un'applicazione ipocrita all'eguaglianza formale; oppure, secondo la giurisprudenza adottata con Baker vs. Carr, 369 U.S. 186 (1962), a prescrivere il riordino delle circoscrizioni elettorali onde eliminare le ipotesi di malapportionment e ripristinare il principio one man, one vote; o ancora, secondo le linee impostate da Reed vs. Reed, 404 U.S. 71 (1971), a ristabilire l'eguaglianza dei sessi nell'accesso agli impieghi e alle professioni.
Analogamente, la Corte costituzionale italiana è venuta sviluppando il controllo della 'ragionevolezza' come una tecnica del sindacato di costituzionalità delle leggi in qualche misura ricalcata sul controllo dell'eccesso di potere esercitato dai giudici amministrativi in sede di sindacato di legittimità degli atti della pubblica amministrazione (v. Agrò, 1967), fino a pronunciare sentenze 'additive' o 'sostitutive' del testo legislativo impugnato (v. Pizzorusso, 1981), le quali dichiarano l'incostituzionalità della disposizione o norma vigente nella parte in cui non prevede un'ulteriore precetto capace di riequilibrarla (che viene conseguentemente creato dalla sentenza costituzionale, cui l'art. 136 della Costituzione riconosce effetti erga omnes tecnicamente qualificabili come normativi).
Questi orientamenti giurisprudenziali hanno dato luogo a dibattiti, nell'ambito dei quali è stato talora affermato che operazioni interpretative di questo genere eccedono i poteri del giudice, e si è richiamata la necessità di circoscrivere questi poteri nell'ambito dei principî del governo democratico (v., per tutti, Ely, 1980), ovvero di ricondurre le corti costituzionali al rispetto della discrezionalità del legislatore (v. Zagrebelsky, 1988).Un importante tentativo volto a perfezionare la tecnica di applicazione del principio di eguaglianza è stato compiuto mediante la distinzione dei casi in cui il controllo della ragionevolezza delle disposizioni o delle norme legislative si sviluppa partendo dal testo legislativo controllato - ma fondando il ragionamento su fattori estranei a esso -, da quelli invece in cui il controllo si risolve nel raffronto fra la disposizione controllata e un'altra disposizione o norma legislativa vigente, che viene assunta a tertium comparationis ai fini del controllo dell'osservanza del principio di eguaglianza. Con riferimento a tale distinzione si è affermato che solo quest'ultimo tipo di controllo è consentito alla Corte (v. Paladin, 1985) e questa impostazione sembra in effetti capace di circoscrivere gli interventi del giudice costituzionale entro un'area ben delimitata, all'interno della quale esso può svilupparsi senza determinare alcuna invasione della competenza del legislatore, dato che non tende alla creazione di norme nuove, ma soltanto all'assestamento di quelle esistenti, onde assicurare la loro compatibilità col principio costituzionale di eguaglianza.
Altro spunto di grande rilievo è quello che è stato messo in luce da una importante dottrina e secondo il quale la rielaborazione delle disposizioni legislative ad opera del giudice costituzionale può avvenire soltanto nella misura in cui essa sia strettamente necessaria per ripristinare le prescrizioni costituzionali violate, cosicché la disciplina derivante dalle sentenze della Corte che modificano la legge o colmano un'omissione del legislatore sarebbe comunque una legislazione 'a rime obbligate' (v. Crisafulli, 1978, p. 84; v. Pizzorusso, Il controllo..., 1988).
Attraverso queste limitazioni, sembra in effetti che le principali obiezioni sollevate contro le applicazioni giurisprudenziali del principio di eguaglianza che sono apparse più ardite, possano venir superate e che queste giurisprudenze, così ricondotte nell'ambito degli schemi consueti, possano esercitare una funzione assai utile, in vista dell'attuazione dei principî costituzionali e di un migliore assestamento del diritto prodotto dal legislatore. (V. anche Costituzionalità delle leggi, controllo di; Costituzioni; Giustizia).
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