Costituzioni
Storia costituzionale e problemi del costituzionalismo.Nella definizione del termine-concetto di 'costituzione' si combattono da sempre due distinte opinioni (v. Sartori, 1962): da una parte si sostiene che la costituzione è la norma fondamentale voluta dalla collettività sovrana - popolo o nazione che dir si voglia -, alla quale è affidato il compito di limitare l'esercizio dei poteri pubblici e nello stesso tempo d'indirizzarli, in modo tale da garantire il primato delle leggi sulle volontà concrete dei detentori di quei poteri, e con ciò anche i diritti e le libertà fondamentali; dall'altra che essa costituzione non è altro che l'ordinamento di base e più essenziale che ogni collettività politica necessariamente possiede, in senso naturale e necessario.
L'origine della prima nozione è del tutto evidente, ed è da localizzare nelle Rivoluzioni di fine Settecento, americana e francese, alle quali dedicheremo particolare attenzione nella seconda parte di questo articolo. Più problematico è il secondo significato di costituzione, che per comodità e brevità potremmo definire ordinamentale. Esso si ritrova nella dottrina costituzionale anteriore e posteriore alle Rivoluzioni cui sopra accennavamo, tanto che ancora oggi è piuttosto forte per alcuni la tendenza a mettere quasi tra parentesi il droit politique di stampo illuministico, contrattualistico e individualistico, facendolo precedere e seguire da una scienza della costituzione che negli antichi come nei contemporanei dell'ultimo secolo e mezzo sarebbe sostanzialmente capace di prescindere da ogni opzione ideologica, o anche semplicemente di valore, per ritrovare nella 'costituzione' nient'altro che il punto materiale in cui le forze che si agitano in una certa società trovano il loro 'naturale' equilibrio.
È evidente che in questo modo si mette in discussione, in modo certamente troppo radicale, il valore storico della cesura posta in essere proprio alla fine del Settecento, e soprattutto la capacità di questa di suggerire ancora oggi l'orizzonte prescrittivo delle costituzioni moderne, che secondo una recente tipizzazione (v. Grimm, 1987) si distinguono comunque da quelle antiche perlomeno per due motivi: in primo luogo in quanto norme complessivamente fondanti un potere pubblico, così da dettare in modo vincolante i criteri di legittimazione e di legittimità del suo esercizio, e non più, appunto, come meri atti di regolazione-composizione di forze politicamente e socialmente già operanti; in secondo luogo in quanto norme che pretendono di valere, come dover essere, per una generalità indistinta, e non già per concreti e determinati contraenti, presupponendosi in tal senso il superamento storico della società di antico regime, e dunque la riferibilità delle disposizioni contenute nella stessa costituzione, e non solo in essa, a un soggetto universale, generale e astratto, non più cetualmente definito, come l'uomo, il cittadino o la persona.
Ora, a noi pare che debba essere giudicato assai discutibile il tentativo di mettere tra parentesi - come sopra dicevamo - tutto questo, considerando ormai quasi fallito il progetto contenuto nelle costituzioni moderne, e riproponendo quindi, al posto della loro vocazione prescrittiva, e insieme di garanzia delle libertà fondamentali, un rigido continuismo tra 'antico' e 'moderno', tra dottrine della costituzione dell'antichità e della contemporaneità postrivoluzionaria, in nome di una 'costituzione' che sia esclusivamente intesa come analitica e 'realistica' riproduzione dei rapporti di potere esistenti all'interno di una società data.
Tuttavia, una volta ribadita la permanente attualità del progetto politico-costituzionale che si volle inaugurare alla fine del Settecento, e dunque il permanente significato prescrittivo per l'intera collettività delle stesse costituzioni, si deve osservare che indubbiamente il costituzionalista non può anche oggi senza danno trascurare il contributo che alle sue riflessioni può derivare dallo studio della storia costituzionale delle età precedenti le rivoluzioni della fine del XVIII secolo.
A noi sembra infatti che perlomeno su tre delicatissimi problemi il costituzionalismo moderno possa giovarsi di un utile confronto con la storia costituzionale dell'età antica e medievale, e che anzi esso sia destinato a una sorta di 'corto circuito' interno una volta che abbia deciso programmaticamente di sottrarsi a quel confronto. Enunciamo ora queste tre problematiche, per poi brevemente analizzarle. Si tratta rispettivamente della grande idea-forza di 'repubblica', della questione centrale del governo limitato in funzione di garanzia delle libertà fondamentali, e infine del sempre risorgente problema dell'articolazione territoriale del potere pubblico.
Per quanto riguarda la prima di queste problematiche, si deve tener conto del lungo disfavore di cui ha sofferto - ad esempio in Italia e in Germania, nel corso di tutto l'Ottocento - l'ideale stesso di repubblica, in quanto culturalmente collegato a una sorta di simple democracy, in sostanza destinata, sotto la pressione continua del riferimento alla democrazia diretta degli antichi, a indebolire, a colpi di maggioranza, il valore della legalità, se non proprio a sfociare in prassi di governo totalitarie, di stampo giacobino (v. Talmon, 1952).
Accade ora però che recenti ricerche di storia del diritto pubblico romano (v. Tondo, 1988) stiano complicando non poco questo quadro concettuale, mettendo in discussione proprio questa rigida connessione tra repubblica, cosiddetta libertà degli antichi, e totalitarismo politico. Esse stanno infatti mostrando come nella concreta strutturazione istituzionale della repubblica romana il primato del populus, e la sua partecipazione diretta alla formazione delle magistrature e delle stesse leges, non escludesse affatto, ma anzi provocasse più o meno direttamente un tipo di responsabilità per l'azione governativa che andava a incardinarsi nel suo complesso nel Senato, ovvero in una vera e propria aristocrazia politica dirigente, la nobilitas, che a sua volta era costruita al proprio interno, tra le varie gentes, in modo tale da impedire l'emergere di un imperium singulare istituzionalizzato. Dunque, in una situazione del genere, l'esercizio della democrazia diretta, la cosiddetta libertà degli antichi, non si pone affatto contro ogni principio di legalità, ma è anzi fondamento del primato della lex, conciliandosi ampiamente a tal fine con il decisivo ruolo antidispotico dell'aristocrazia senatoriale.
Sulla scorta di simili esempi storici, riprende quota la suggestione di una storia di lungo periodo, tra 'antico' e 'moderno', dell'idea-forza di repubblica, che sembra contenere in sé non solo il necessario richiamo alla virtù dei cittadini e alla loro partecipazione, ma anche la capacità di conciliare questo elemento con il ruolo dirigente di un'aristocrazia anch'essa agente in funzione antidispotica. Una prospettiva del genere richiama anche - come meglio vedremo nella seconda parte di questo articolo - la necessità di un più intenso confronto dei modelli costituzionali europeo-continentali con i contenuti politici e istituzionali della Rivoluzione americana, pienamente moderni per quanto riguarda l'affermazione di un potere costituente sovraordinato e la stessa funzione di garanzia delle libertà fondamentali offerta dalla costituzione, ma nondimeno connessi a doppio filo con un'idea 'antica' di repubblica e di primato delle leggi, di costituzione intesa come punto di equilibrio tra populus e nobilitas, tra democrazia e aristocrazia, in funzione del mantenimento del primato delle leggi contro ogni tentazione di tipo dispotico.
Accanto a questa prima suggestione si pone poi, seguendo l'ordine delle questioni che abbiamo indicato, la problematica del governo limitato in funzione di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali. Nessun dubbio ovviamente sul fatto che questa è una delle principali esigenze contenute nelle costituzioni e nelle dichiarazioni dei diritti delle Rivoluzioni di fine Settecento. Tuttavia, si andrebbe oltre se si volesse artificiosamente racchiudere il problema del governo limitato esclusivamente nei confini storici del diritto costituzionale moderno postrivoluzionario. Se ciò per un certo tempo è avvenuto, è perché si è arbitrariamente identificato il governo limitato in funzione di garanzia con la separazione dei poteri, concludendo quindi inevitabilmente per la radicale mancanza del primo in una società come quella di antico regime, che ovviamente non conosceva la seconda.
In realtà, così non è stato. Infatti, ricerche autorevoli e consolidate ci hanno da tempo insegnato che nel passato medievale era ben viva, al di là della moderna separazione dei poteri, la realtà e la pratica del governo limitato, e dunque la protezione degli jura e delle libertates, ovviamente da intendersi come autonome sfere di diritto, e non certo nel senso moderno delle libertà fondamentali codificate in senso individualistico. Rimane dunque la cesura tra le prime e le seconde, ma nello stesso tempo non può essere sottovalutato il fatto che la storia del governo limitato è indubbiamente più lunga e profonda della storia della separazione dei poteri. È questa la tesi che notoriamente sorregge una certa tradizionale interpretazione della storia della Costituzione inglese (v. McIlwain, 1940), ma che oggi si ripropone al livello più ampio della storia costituzionale europea. Questa può infatti essere riletta in chiave di continua e ricorrente ricerca di equilibrio tra gubernaculum e jurisdictio, ovvero rispettivamente tra sfera insindacabile di dominio politico - in origine il potere delle armi - e sfera riservata e protetta di esercizio dei diritti e delle libertà (v. Matteucci, 1976). In questa linea, ciò che importa non è tanto la divisione dei poteri all'interno del gubernaculum, quanto il fatto che sia viva e operante una costituzione che sancisce i confini oltre i quali diviene arbitraria e tirannica l'azione dei detentori del potere, perché direttamente operante, al di fuori dei casi e delle modalità previste, in materia di jurisdictio. A ben guardare, se oggi da parte di molti si parla di un 'costituzionalismo debole', è proprio perché sarebbe ben difficile nel nostro presente individuare con nettezza i confini della stessa jurisdictio, ovvero di tutto ciò che comunque deve essere sottratto alla capacità di attrazione esercitata dall'indirizzo politico dominante. Con ciò non si vuol dire affatto che la moderna conquista della costituzione scritta e rigida non sia affatto tale. Si vuol solo far rilevare che ogni rigidità formalmente statuita, e formalmente posta a presidio delle libertà fondamentali, non può non essere 'supportata', se vuol essere efficace, da una cultura delle libertà e delle sfere riservate, che nel nostro caso affonda le sue radici nella storia di lungo periodo del principio del governo limitato. Dimenticare questo significa quindi indebolire la stessa rigidità della costituzione scritta modernamente intesa.
Lo stesso deve dirsi per un aspetto più specifico di questa vicenda, concernente il ruolo dei giudici, che nell'Europa continentale si è spesso ridotto dopo la Rivoluzione (v. Troper, 1980) alla mera applicazione della legge, massima espressione di autorità dello Stato-persona, fino ai tempi più recenti, che spesso vedono gli stessi giudici largamente coinvolti in attività di carattere amministrativo, ovvero nella distribuzione di determinate utilità e risorse (v. Rebuffa, 1986). Anche per questo aspetto può essere utile il confronto con una tradizione storica 'antica', che muove dalla common law e individua nel giudice qualcosa di ben diverso dal mero applicatore della norma al caso concreto, sempre esposto a essere chiamato a un'intima solidarietà con l'indirizzo politico dominante; e vede in lui piuttosto il custode primo della stessa costituzione - magari con il suo potere di disapplicazione delle norme ritenute incostituzionali (v. Corwin, 1928-1929) - e con essa dei diritti e delle libertà fondamentali.
Infine, c'è un terzo problema del costituzionalismo moderno che implica, a nostro avviso, la necessità di un confronto con la storia costituzionale delle epoche più lontane. Si tratta del problema dell'articolazione territoriale del potere pubblico, sul quale potremo spendere qui poche parole. In breve, sembra che la recente ricerca sulla società e sulle istituzioni di antico regime (v. Oestreich e Auerbach, 1976) tenda a emanciparsi dallo schema oppositivo centro-periferia, a sua volta determinato dalla lunga dominazione ideologica ottocentesca dell'altro schema oppositivo Stato-società. Sembra cioè che la sempre crescente distinguibilità di pubblico e statale, fuori dal vecchio quadro concettuale di riferimento dato dalla 'autonomia' - della periferia dal centro, della società dallo Stato, o viceversa -, sia profondamente radicata in una storia di lungo periodo della distribuzione territoriale del potere pubblico refrattaria alle moderne concettualizzazioni di 'Stato' e di 'società', di 'centro' e di 'periferia'.Insomma, per concludere, si ritiene che dal legittimo e anzi necessario rifiuto di una troppo frettolosa liquidazione del costituzionalismo moderno fondato dalle rivoluzioni non si possa far discendere in modo più o meno meccanico un disinteresse totale per la storia costituzionale dell'Europa dei secoli che precedono le rivoluzioni medesime. Come abbiamo visto, troppi sono i problemi del costituzionalismo moderno che hanno le loro radici in una storia di più lungo periodo delle istituzioni pubbliche europee.
Nella prima parte di questo articolo abbiamo più volte fatto riferimento alle costituzioni moderne in genere, localizzando le loro origini storiche nelle Rivoluzioni della fine del Settecento. Opere di sintesi più o meno recenti hanno già cercato di analizzare la fase storica che a noi ora interessa (v. Palmer, 1959-1964; v. Venturi, 1984), tentando d'inserire in vario modo la Rivoluzione più conosciuta, quella francese, entro un quadro più ampio dedicato al definitivo declino e alla caduta dell'antico regime. Prescindendo in questa sede dalle grandi realizzazioni istituzionali del riformismo proprio dello Stato assoluto illuminato, e dalla globalità del movimento codificatorio moderno, che investe tutti i settori dell'ordinamento giuridico (v. Tarello, 1976), crediamo che ai nostri fini si debba più che altro porre l'accento sulle realizzazioni costituzionali delle due grandi Rivoluzioni, francese e americana. Comparare le due Rivoluzioni significa per noi chiarire ulteriormente le caratteristiche generali e il contenuto tipico delle costituzioni moderne.
Si deve subito osservare che un tale lavoro di comparazione ebbe inizio praticamente all'indomani delle nostre due Rivoluzioni, fissando a questo proposito convinzioni e immagini che - come subito vedremo - rimarranno a lungo dominanti. Di assoluta rilevanza sono sotto questo profilo i testi di Thomas Paine, con i suoi Rights of man (1791-1792), e di Edmund Burke, con le sue note Reflections on the Revolution in France (1790). Se il primo tentava di assimilare le due Rivoluzioni, in nome della comune presenza di un constituting power, e di costituzioni scritte poste a presidio dei diritti e delle libertà fondamentali, il secondo creava invece quello schema rigidamente oppositivo che, prendendo a modello la glorious revolution del 1688, contrapponeva l'intera tradizione costituzionale britannica alla Rivoluzione francese. Si tratta di uno schema fin troppo noto, e che tanta fortuna ha avuto in seguito, per doverne parlare in dettaglio. In breve, sulla scia di Burke si è cercato di sostenere che la Rivoluzione francese, al di là della sua celebre Dichiarazione dei diritti, non ha fondato alcuna sicura prospettiva costituzionale, affidandosi per intero a una 'artificiosa' e instabile volontà politica, quasi quotidianamente protesa a mutare la costituzione dello Stato: "tanto spesso e tanto a fondo quanto piaccia alla nazione" (v. Griewank, 1969). Per converso, la Rivoluzione americana può essere intesa pienamente come 'rivoluzione costituzionale' (v. McIlwain, 1923; v. Matteucci, 1987), di essa cogliendosi nella linea inaugurata da Burke soprattutto il lato oppositivo nei confronti dell'onnipotenza parlamentare inglese, in qualche modo in nome della common law e dei suoi principî, o comunque di una legalità sovraordinata rispetto a quella ordinaria parlamentare, e da questa infranta. Insomma, seguendo questo filone interpretativo, si ritiene che certo non per caso la Rivoluzione francese abbia a lungo, e anche violentemente, oscillato tra diverse soluzioni costituzionali, mentre negli Stati Uniti si fu quasi subito capaci di convogliare il movimento rivoluzionario in una soluzione stabile come quella federale del 1787. È quindi nella Rivoluzione americana, e non in quella francese, che si debbono ricercare le radici del costituzionalismo, ovvero del tentativo di vincolare con la costituzione, e in modo non episodico, le espressioni di autorità, anche legislative, del potere politico.
Dicevamo della straordinaria fortuna dello schema oppositivo inaugurato da Burke. Lo ritroviamo, ad esempio, nelle pagine di uno dei più autorevoli studiosi contemporanei di scienze politiche e sociali (v. Habermas, 1971), con la particolarità che esso è ora utilizzato in direzione inversa, al fine cioè di esaltare la Rivoluzione francese quale luogo privilegiato di nascita della 'modernità' politico-costituzionale. Infatti, se i coloni americani ragionarono in termini di legalità infranta, è perché essi si muovevano ancora nei confini 'antichi' del diritto naturale classico, e quindi entro il quadro generale di riferimento, storicamente consolidatosi nel Medioevo, della resistenza contro il legislatore divenuto tiranno. È vero che anche nella Rivoluzione americana troviamo motivi propri del giusnaturalismo moderno - tipici ad esempio di un Locke, che potrebbe essere inteso anche come teorico dell'individualismo possessivo (v. Macpherson, 1962) -, ma tutto ciò si somma, e non si oppone polemicamente, al diritto storico - nel caso statunitense alla common law -, come invece accade nella Rivoluzione francese. Infatti, mentre in quest'ultima il cittadino-individuo proprietario e produttore afferma i suoi diritti in polemica con la precedente società di antico regime, e quindi inevitabilmente mediante una rigida contrapposizione del diritto naturale razionale al diritto storicamente tramandato, nel caso degli Stati Uniti la stessa società civile degli individui proprietari è assunta come dato 'naturale' già presente (v. Grimm, 1970), che non ha bisogno per affermarsi di alcun manifesto di carattere ideologico, di alcuno scontro frontale con la tradizione, ma solo e unicamente, ancora una volta, di espungere da sé l'influenza potenzialmente nefasta di un legislatore che minaccia di divenire tiranno: a questo fine, la tradizione civilistica e costituzionalistica della common law e il diritto naturale di Locke possono tranquillamente collaborare.
Se tutto ciò è probabilmente vero, meno attendibili sono le conclusioni che si traggono seguendo fino in fondo questa linea interpretativa. Ricorderemo come Burke unilateralmente escludesse dall'orizzonte del costituzionalismo tutta la Rivoluzione francese, riconducendola per intero al peccato originale della dichiarazione razionalistica dei diritti; ebbene, anche queste più moderne interpretazioni, seppure in direzione inversa, sembrano segnalarsi per un non minor grado di unilateralità, finendo per escludere del tutto dal medesimo orizzonte la Rivoluzione americana, nella quale, non essendovi stato un vero e proprio scontro con un precedente modello di società, non sarebbe presente in modo chiaro e tipico alcun carattere fondamentale del 'moderno', neppure in ambito politico-costituzionale.
È inutile ora sottolineare quanto simili atteggiamenti culturali - la Rivoluzione americana come unica vera rivoluzione 'costituzionale', la Rivoluzione francese come unica vera rivoluzione borghese 'moderna' - siano ancora ben presenti sulle due sponde dell'Atlantico. Si può solo brevemente osservare che lo schema oppositivo da noi esaminato sembra essere sempre meno presente nella ricerca specialistica. Infatti, da una parte si sottolinea come i coloni americani non fossero affatto animati semplicemente dall'aspirazione a 'restaurare' una legalità infranta, e quindi un tradizionale mixed government all'inglese, ma si impegnassero invece, con il loro ideale di 'repubblica' (v. Bailyn, 1967; v. Wood, 1969) e di governo rappresentativo fondato sulla sovranità popolare, nella delineazione di soluzioni costituzionali inedite, destinate certamente come tali a far parte del patrimonio complessivo futuro del costituzionalismo moderno; e dall'altra, si assiste proprio ora, per quanto riguarda la Francia, a un tentativo di rilettura della tradizione legicentrica ereditata dallo Stato assoluto e delle stesse dichiarazioni dei diritti (v. Rials, 1988; v. Gauchet, 1989; v. Morange, 1988; v. Jaume, 1989), alla luce di un parametro generale di stampo costituzionalistico, che implica certamente un rinnovato confronto con le soluzioni adottate negli Stati Uniti.
Tutto ciò risulta di grande interesse soprattutto al fine di ripristinare una comune nozione generale di 'costituzione moderna', della quale probabilmente fino a ora non si è avuto consapevolezza proprio a causa della perdurante presenza dello schema oppositivo che già conosciamo. In questa sede non si può far altro che segnalare questa esigenza, e aggiungere che tutto ciò non implica affatto che non rimangano fermi alcuni caratteri differenziali, relativi al diverso modo di affermazione del costituzionalismo moderno sulle due sponde dell'Atlantico. È anzi opportuno concludere questa parte del nostro articolo enunciando tali caratteri, anche se in modo necessariamente sommario.
1. La Francia ebbe bisogno di porre al centro dell'esperienza rivoluzionaria la figura del legislatore incarnante la 'sacra' volontà generale. Ciò impedì l'immediato affermarsi di due elementi di notevole rilevanza del costituzionalismo moderno: da una parte, una chiara e netta distinzione tra legalità ordinaria e legalità costituzionale, e, dall'altra, ma in rapporto di stretta consequenzialità, un meccanismo istituzionalizzato di controllo di costituzionalità, proprio nei confronti degli atti del legislatore. Diverso il caso americano, per il quale proprio le ricerche che abbiamo già ricordato dimostrano come l'idea di una legalità costituzionale sovraordinata e di un controllo di costituzionalità si affermi già nel corso della Rivoluzione, in una situazione in cui l'assenza della tradizione centralistica europea dello Stato assoluto si somma a influssi di carattere radicale, e alla stessa tradizione di common law, nel determinare una sostanziale diffidenza nei confronti del legislatore, e quindi un ben radicato timore dei suoi possibili arbitrî. Inutile aggiungere che tutto ciò presuppone anche e soprattutto, come si è già accennato, un diverso ruolo dei giudici, più tutori della costituzione che funzionari dello Stato.
2. La Costituzione del 1791 promise ai Francesi un codice civile. La promessa fu poi mantenuta nel 1804, con il Codice Napoleone. Ciò significa che l'esperienza francese è attraversata da una duplice parallela codificazione, costituzionalistica e civilistica. Non è esagerato affermare che in certe fasi della sua storia la Francia - e non solo essa, in Europa - abbia avuto la sua 'vera costituzione' più nel codice civile, inteso come statuto fondamentale dei privati e della loro autonomia, che non nelle costituzioni di volta in volta formalmente vigenti. Diversamente stanno le cose nell'esperienza americana, in cui il controllo di costituzionalità affidato ai giudici fa sì che la Costituzione sia, per così dire, più compromessa nel quotidiano prodursi dei rapporti giuridici, ma anche che lo stesso diritto civile, per gli stessi motivi, sia più vicino alla Costituzione medesima.
3. La Rivoluzione francese non distrusse gli apparati amministrativi dello Stato assoluto, e anzi li perfezionò, soprattutto nel corso dell'età napoleonica. È in questa amministrazione, in vario modo legata al ruolo centrale della legge e della volontà generale, che i giuristi europei dell'Ottocento vedranno il nucleo forte dello Stato-persona titolare dei poteri di sovranità. Ancora oggi, la maggiore differenza che separa i due termini della nostra comparazione è data proprio da questo riferimento europeo, per lo più incomprensibile per gli americani, allo Stato-persona e alla sua sovranità. È superfluo aggiungere che la questione dello Stato federale si inserisce in pieno in questo quadro concettuale generale.
Come vediamo, si tratta di differenze di non poco conto. Comparare significa appunto analizzare le differenze, senza però sovradeterminarle sul piano ideologico, e rinunciando quindi al vecchio schema oppositivo a noi già noto, e alle ormai sterili dispute tra storicisti e razionalisti, tra apologeti delle virtù della costituzione britannica e apologeti delle virtù dello Stato di diritto europeo-continentale scaturito dalla Rivoluzione francese. L'una e l'altro sono ormai da tempo in crisi, ed è quindi bene prendere atto dell'originaria complessità del costituzionalismo moderno, e delle sue perduranti contraddizioni interne.
Rimangono ora da analizzare le grandi scelte che furono compiute in Europa in materia costituzionalistica dopo le Rivoluzioni, nell'epoca comunemente definita liberale. Più precisamente, possiamo chiederci quali siano state le linee di sviluppo della dottrina della costituzione dalle Rivoluzioni in poi. Una di queste linee è forse la più nota. Essa muove dai primi articoli della Dichiarazione dei diritti dell' '89, assunti come massime generali del liberalismo politico ed economico, e mette in rilievo essenzialmente la presenza nel XIX secolo di una società civile che con le costituzioni chiede in tutta Europa eguaglianza formale, riconoscimento delle libertà fondamentali, rappresentanza politica. È evidente che in questo caso la concezione base della 'costituzione moderna' è di tipo garantistico, in chiave di grande norma di limitazione.
Se però noi torniamo per altro verso alla Rivoluzione francese, ci accorgiamo che di essa è possibile mettere in rilievo anche un secondo aspetto che per semplicità possiamo definire statualistico. Non importa qui richiamare il noto atteggiamento ambivalente dei rivoluzionari di fronte allo Stato assoluto, da una parte massima istituzione politica di antico regime, come tale da distruggere, ma dall'altra saldo progenitore in senso centralistico della 'volontà generale' degli stessi rivoluzionari. Ciò che piuttosto preme mettere in rilievo è questa seconda lettura della Rivoluzione da parte del liberalismo ottocentesco, che sopra abbiamo definito di tipo statualistico. Essa utilizza tra l'altro una certa immagine del modello costituzionale giacobino del 1793 come una sorta di terribile alternativa destabilizzante ogni potere costituito, che come tale il liberalismo aveva il compito storico di sconfiggere. E in effetti, la Costituzione del 1793 veicolava l'immagine di una costituzione ridotta a essere mera forma di espressione della sovrana volontà popolare e delle virtù politiche dei cittadini di volta in volta concretamente attive; che non a caso costruiva il procedimento di legislazione ordinaria e di revisione costituzionale in modo tale da rimettere ogni decisione ultima alla mutevole espressione di volontà delle assemblee primarie di base.
Insomma, per tornare alla nostra argomentazione principale, il liberalismo ottocentesco poteva e doveva leggere la Rivoluzione come un momento di grande travaglio dal quale era uscita fuori sconfitta proprio la soluzione giacobina; e che quindi, in questo senso, poneva i presupposti per una dottrina della costituzione che al primo posto collocasse il valore costituzionale della stabilità dei poteri costituiti, contro il perverso legame diretto tra sovranità popolare e costituzione stessa determinatosi proprio nella fase giacobina della Rivoluzione.
Ma come garantire più precisamente tale stabilità? In realtà, il peccato massimo della Rivoluzione nella sua fase più distruttiva - ovviamente, di nuovo quella giacobina - è visto nel cosiddetto 'atomismo', ovvero nella tendenza a concepire il corpo politico sovrano come una universalità di cittadini politicamente attivi, ciascuno idealmente e praticamente possessore di una sorta di quota della sovranità politica (v. Carré de Malberg, 1922); di contro, il liberalismo ottocentesco propone l'adozione di schemi di tipo organicistico (v. Costa, 1986; v. Zagrebelsky, 1988), che attribuiscono nuovo e diverso significato prescrittivo a parole-chiave come 'popolo' e 'nazione', in opposizione proprio al presunto 'atomismo' rivoluzionario. Con ciò, giungiamo forse al punto decisivo. La stabilità dei poteri costituiti, cui abbiamo già accennato, si riassume ora in quel valore politico primo che è lo 'Stato' , inteso come interprete organico del 'popolo' o della 'nazione', e per ciò stesso finalmente sottratto a ogni dipendenza contrattualistica dalle volontà degli individui. La polemica contro il contrattualismo rivoluzionario, e anche contro la cosiddetta 'astratta dogmatica' razionalistica dei diritti individuali, non era certo nuova, come in gran parte già sappiamo con riferimento a Burke. Ora però, in piena età liberale, tale polemica non è più sorretta da una generica apologia delle istituzioni storicamente fondate, e si traduce piuttosto in un preciso piano operativo di ricostruzione di uno Stato di diritto liberale che non coincide più affatto con il nostro Stato 'minimo', politicamente valido solo in quanto buon arbitro nella competizione tra privati.
Questo altro Stato di diritto è essenzialmente quello dei giuristi, e si afferma largamente in Europa a partire dalle elaborazioni teoriche della giuspubblicistica tedesca (v. Fioravanti, 1979), spesso prese a modello in molti altri paesi europei, ivi compresa l'Italia. Si tratta di una presenza culturale che non può affatto essere sottovalutata nel panorama complessivo delle dottrine politiche del liberalismo ottocentesco; e che anzi spinge a parlare di una vera e propria svolta, di cui furono appunto protagonisti i nostri giuristi, intervenuta verso la metà del secolo scorso. In sintesi, si tratta di una svolta che conduce a ridurre lo spazio occupato dalla 'costituzione', intesa come norma fondamentale di limitazione posta a garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali; e a estendere corrispondentemente lo spazio occupato dallo 'Stato', ora decisamente inteso come 'persona' titolare della sovranità politica, nella quale si riassume l'intera dinamica pubblicistica.
C'è quindi un'intera fase della storia politica e costituzionale europea nella quale tutta la dottrina della costituzione tende a divenire dottrina dello Stato-persona, delle sue competenze e delle sue funzioni. Non è possibile ora mostrare in dettaglio quali concreti effetti si produssero, in questa situazione, sulla materia propriamente costituzionalistica delle libertà. Queste escono ora comunque fuori dal rapporto costituzione-Stato per risolversi per intero all'interno del secondo termine del rapporto, nel senso che in sostanza si riducono a un unico diritto veramente fondamentale, quello di essere trattati in modo conforme al diritto positivo statale vigente. In particolare, nella figura del 'rapporto giuridico' tra Stato e individuo, regolato appunto in modo esclusivo dalla legge dello Stato, si esprime in pieno l'ambivalenza di un pensiero liberale che da una parte riconosce in tal modo all'individuo una sfera propria giuridicamente protetta - non vi può essere infatti alcun 'rapporto giuridico' se non tra due soggetti di diritto -, ma dall'altra sa bene che tale protezione proviene esclusivamente dal primo termine del rapporto stesso, ovvero dallo Stato sovrano, creandosi così le condizioni per una relazione di potere che strutturalmente si pone tra diseguali. Ciò che manca anche in questo caso è la 'costituzione' come necessario prius della considerazione giuspubblicistica, fondante per proprio conto quelle libertà fondamentali, che vengono ora invece affidate per intero al diritto proveniente dalla autorità dello Stato-persona.
Tale scomparsa della 'costituzione' produce effetti non minori, e non dissimili, anche in materia di libertà politiche, e in particolare di diritto di voto, ora del tutto svincolato dalla dimensione del diritto naturale individuale, e avvicinato a quella dell'esercizio di funzioni pubbliche regolate dalla legge dello Stato. Tutto ciò determina non solo, com'è facile intuire, il rifiuto del suffragio universale, in modo del resto funzionale a un liberalismo di stampo tutto sommato oligarchico; ma anche una concezione della rappresentanza politica che si svincola completamente dallo schema della trasmissione di potere dagli elettori sovrani agli eletti, per vedere in questi ultimi esclusivamente i più 'capaci' di governare, individuati come tali mediante una procedura di carattere elettorale, ma non da questa legittimati, e come tali idonei a divenire, come i giudici e gli amministratori, funzionari dello Stato, suoi organi, più che organi o rappresentanti del popolo sovrano.
Dicevamo sopra che questa dottrina dello Stato-persona domina una fase della riflessione costituzionalistica postrivoluzionaria. Si tratta di una fase assai rilevante, ma pur sempre destinata a concludersi. Infatti, a ben guardare, la dottrina ottocentesca dello Stato-persona corrisponde a una situazione storica anch'essa destinata a mutare. In sintesi, quella dottrina era stata costruita in un periodo in cui il liberalismo politico si reggeva come governo su un suffragio limitato e in sostanza ristretto a una sola classe, e anche su comunità nazionali che ancora potevano essere concepite come un tutt'uno organico, cementato dalla storia, e non attraversato da conflitti sociali e politici, tra partiti e classi. Non è certo un caso che nelle nostre trattazioni dello Stato-persona sia spesso reperibile una nozione della costituzione che vuole che essa sia una sorta di ordinamento di fondo, di struttura basilare della collettività storica denominata 'popolo' o 'nazione'; e che corrispondentemente sia accuratamente evitato nelle stesse trattazioni l'approdo a una costituzione scritta rigida, sentita come norma pericolosamente protesa, sulla base di una decisione fondamentale sulla sovranità, a determinare prescrittivamente, secondo un indirizzo vincente, i contenuti della legislazione statale.
Il superamento di questa fase avviene a partire dai primi decenni del nostro secolo, quando si ripropongono dopo la lunga eclissi ottocentesca l'attualità e la necessità di una dottrina della costituzione. Accade cioè che si torni a cercare nella 'costituzione' quella razionalità di base, e quelle condizioni di unità del processo politico, che non possono essere date più per scontate mediante la figurazione dello Stato-persona, dal momento che ora lo stesso Stato è sempre più campo di conquista e di competizione tra diverse versioni dell'interesse generale, ed è anzi esso stesso costretto, a causa del suo crescente intervento nella società e nel processo economico, a scegliere un certo indirizzo. Si apre così una nuova fase della riflessione giuspubblicistica, che tutto sommato caratterizza ancora il nostro presente. Al suo interno è possibile distinguere diverse versioni del comune tentativo di emancipare la costituzione dalla presenza dominante dello Stato-persona. Esse possono essere qui solo brevemente riassunte.
Al primo posto deve essere sicuramente collocata la corrosiva critica kelseniana alla stessa concettualizzazione dello Stato-persona (v. Kelsen, 1911, 1923²), appunto tutta funzionale a ricavare le condizioni generali per un rilancio del primato della costituzione come norma fondamentale. Non è certo un caso che in questa linea si riproponga la questione del controllo di costituzionalità delle leggi, fino a ora considerato mera espressione specifica delle particolarità dell'ordinamento statunitense. Tuttavia, come è largamente noto, per Kelsen il primato della costituzione deve rimanere nei confini formali della organizzazione delle fonti di diritto, dell'attribuzione di competenze e di poteri. Oltre non si può andare, e la costituzione non può dunque essere il grande progetto di carattere sostanziale, la grande norma di solidarietà. Infatti Kelsen travolge, nella sua lucida critica, non solo lo Stato-persona, ma anche ogni 'comunità' ottocentesca, come il 'popolo', o la 'nazione', in nome di una società industriale dei conflitti e delle mediazioni, che nella costituzione vede la garanzia stabilizzata delle regole del gioco, ma non l'espressione massima di una comunanza sostanziale di valori.
Per altro verso, la grande discussione sulla Costituzione di Weimar dette luogo (v. Schmitt, 1928) a una rivalutazione della 'costituzione assoluta' come necessaria condizione di unità storica e politica del popolo contrapposta alla costituzione formale e 'relativa' dello 'Stato dei partiti', che forse soddisfaceva l'esigenza di pervenire a una qualche comunanza di valori politici al di là delle evidenti crisi dello Stato-persona, ma nello stesso tempo quasi inesorabilmente sacrificava il dato obiettivo della pluralità, unilateralmente qualificato come prima fase di dissoluzione di ogni tipo di unità politica. L'opposizione tra queste due linee - tra Kelsen e Schmitt, per semplificare - fu superata poi nel corso degli anni trenta e quaranta con le dottrine dell'indirizzo politico, del partito politico, e della costituzione in senso materiale (v. Mortati, 1931 e 1940), che sono poi quelle che più hanno influito sulle costituzioni europee dell'ultimo dopoguerra, e sulla loro successiva interpretazione. In particolare, con la dottrina della costituzione in senso materiale si riuscì a rivalutare il ruolo prescrittivo e contenutistico della costituzione come norma fondamentale capace di individuare i principî di fondo della convivenza collettiva chiamati a indirizzare in modo vincolante l'esercizio di tutti i poteri, pubblici e privati, senza per questo sacrificare necessariamente il dato della pluralità. Ciò avvenne grazie alla nuova tematizzazione all'interno del diritto costituzionale - appunto con lo strumento della costituzione in senso materiale - del partito politico, da una parte inteso come meccanismo di differenziazione della collettività, e quindi proprio come fattore di pluralità, ma dall'altra concepito anche inscindibilmente come realtà per sua natura vocata alla costruzione e all'attuazione solidaristica dei valori costituzionali, e quindi come fattore di unità. Che poi tutto ciò risulti ben poco corrispondente alla realtà odierna delle democrazie contemporanee, e in particolare al ruolo che in esse svolgono le costituzioni e gli stessi partiti politici, è altro discorso, che serve solo a concludere questa parte del nostro articolo accennando alla crisi attuale di una così impegnativa concezione della costituzione come norma fondamentale, e in particolare della capacità di quest'ultima di prescrivere e ordinare nei confronti di una società politica ed economica ormai popolata da una straordinaria quantità di soggetti pubblici e privati, alle prese con un'incessante negoziazione difficilmente riconducibile all'ideale dimensione prescrittiva dell'attuazione costituzionale. D'altra parte, la prospettiva ancora incerta di una nuova concezione generale della costituzione, da elaborare con il contributo decisivo delle scienze politiche e sociali (v. Luhmann, 1973), sembra ancora oggi troppo spesso subire il fascino di una sorta di ritorno alla versione 'antica' della costituzione - problematica questa già sommariamente tratteggiata sopra -, pur sempre intesa come mera riproduzione dei rapporti di potere esistenti nella società storicamente data.
Occorrerà, a questo punto, sviluppare l'accenno fatto poco sopra alla costituzione in senso materiale per inoltrarsi nella trattazione del difficile problema della 'giuridicità' delle norme contenute nelle costituzioni. Sarà questo l'approccio al tema finale: quello, di diritto positivo comparato, della tipologia delle costituzioni contemporanee. Giuridicità significa efficacia piena, vincolante, della norma, nascente dalla convinzione collettiva della necessità del suo rispetto. Il problema si pone in relazione a tutte le norme giuridiche: ma la sua incidenza è massima - paradossalmente - proprio in apicibus, laddove le disposizioni spesso mancano di sanzione e ancor più di coazione, la loro osservanza restando affidata in tal modo quasi esclusivamente alla spontaneità dei soggetti. Nell'età moderna si tenta di raggiungere un risultato soddisfacente in primo luogo mediante la posizione di norme scritte, che sostituiscono, con indubbia utilità anzitutto sotto il profilo della chiarezza, le più antiche norme consuetudinarie. Anzi, le costituzioni scritte attuali si caratterizzano per la loro lunghezza e per la loro specificità, nell'ambito di una sistematica che tende a instaurare equilibri accurati e garanzie di armonico funzionamento nei rapporti giuridici fra Stato e privati, nonché nei rapporti fra gli organi pubblici di massimo rilievo (i checks and balances della Costituzione degli Stati Uniti). Dalle Costituzioni di Weimar e d'Austria a quelle del secondo dopoguerra e a quelle di recentissima formazione, lo sforzo dei moderni costituenti è sempre stato quello di scrivere costituzioni ampiamente articolate, ricche di dettagli, basate su strutture sempre più razionali. Si afferma una "concezione garantista delle costituzioni formalizzata in un solenne documento scritto", dove il garantismo da un lato intende assicurare il rispetto dei diritti di libertà, e dall'altro investe la stessa organizzazione del potere, che viene a essere "ripartita secondo un modulo che assicuri le libertà fondamentali (cosiddetta separazione dei poteri)" (v. De Vergottini, 1987²); infatti, ricorda questo autore, nell'art. 16 della Dichiarazione francese dei diritti del 1789 si leggeva che "ogni società nella quale non sia assicurata la garanzia dei diritti né determinata la separazione dei poteri non ha costituzione". E il potere costituente, in queste costituzioni, viene già distinto dai poteri costituiti: questo prima ancora che si affermi la 'rigidità' della costituzione in tutti i suoi aspetti, come fra poco vedremo.
Ma ben presto ci si accorse che il tentativo di assicurare l'effetto vincolante delle norme costituzionali mediante l'uso della forma scritta e la razionalizzazione della distribuzione dei poteri e dei diritti di libertà si rivelava del tutto insufficiente, quando la costituzione, quantomeno nel suo nocciolo fondamentale, non vedesse garantita la sua osservanza dal nucleo di forze politiche che l'avevano posta e che continuavano, sorreggendola nella sua applicazione, a darle valore e certezza. Veniva così alla luce l'importanza decisiva del patto sociale sottostante, di quello che poi, in tutto o in parte, si identificherà nella cosiddetta costituzione 'materiale'.
La definizione risale, in Italia, a Costantino Mortati, illustre giurista, che fu poi deputato di parte cattolica all'Assemblea Costituente. Questo autore, anche sulla scorta di dottrine germaniche dell'epoca, premesso che occorre ricercare nelle costituzioni il "criterio supremo" che permette di determinare "la rilevanza per lo Stato dei rapporti sociali", individuò nella forza politica dominante nella comunità organizzata il fattore di legittimazione della sua costituzione. Il "fine politico" di cui quella forza politica è portatrice appresta il contenuto di una "norma di scopo" che a sua volta determina la validità degli atti compiuti dagli organi statali (v. Mortati, 1940). La costituzione materiale si differenzia così da quella formale in quanto è in perpetuo divenire, legata com'è alla volontà politica che, nel corso del tempo, manterrà in tutto o in parte l'appoggio alle norme costituzionali. Secondo una più recente formulazione (v. Barile, 1951), una definizione di costituzione che tenga conto del legame fra norme e corpo sociale, e che quindi possa dirsi 'materiale' o 'sostanziale', potrebbe essere quella che comprende un complesso di istituti giuridici che realizzano un fine politico che è la risultante dei fini perseguiti dalle forze politiche nella loro permanente dialettica, in un dato momento storico. La 'dinamicità' nascerebbe dall'atteggiamento delle forze politiche nel tempo successivo a quello costituente, atteggiamento che può portare alla conservazione della struttura costituzionale affermatasi, o invece alla sua parziale o totale trasformazione. Corollario di tale definizione (secondo la quale, in definitiva, la costituzione materiale è fonte di quella formale, ponendosi come condizione di validità, o di efficacia, o di 'positivizzazione', della seconda) è che la costituzione è in continua evoluzione. La 'norma di scopo' muta incessantemente, e la validità-positività delle norme costituzionali talora si appanna, talaltra si rafforza, soprattutto nell'ambito delle norme 'compromissorie', che compaiono assai di frequente nelle costituzioni. Secondo una dottrina più recente, il concetto di costituzione ha un carattere plurivalente, ricomprendendo sia il dato originario istituzionale (potere costituente, la costituzione come norma fondamentale), sia l'organizzazione della comunità (la costituzione come forma di governo), sia infine il condizionamento delle scelte normative (la costituzione come principio della normazione).
Nella sua più recente e completa formulazione, Mortati conclude nel senso che "per quanto la cosa appaia paradossale è da rilevare che la costituzione formale è destinata ad acquistare il massimo grado di vincolo quanto più il suo contenuto corrisponde alla realtà sociale e quanto più quest'ultima si presenta stabilizzata in un sistema armonico di rapporti sociali, cioè proprio nei casi in cui l'importanza pratica che le si può riconoscere viene ad attenuarsi, essendo il limite posto dalla medesima all'esercizio del potere radicato nella stessa configurazione della società. Invece in situazioni diverse, caratterizzate dall'eterogeneità degli interessi, resa palese dal prorompere di nuove forze che si oppongono a quelle prima detentrici esclusive del potere senza tuttavia riuscire a superarle, si affida alla costituzione scritta una funzione di garanzia delle posizioni di compromesso raggiunte (nelle varie forme che questo può assumere)" (v. Mortati, 1962). Si parla perciò, nello stesso ambito di idee, di "forza normativa della volontà politica" (v. De Vergottini, 1987²). E si aggiunge che, fra le norme costituzionali, quelle maggiormente 'esposte' alla dinamica politica sono quelle che contengono principî e programmi, perché, se le norme organizzative devono essere 'attuate', quelle di principio devono essere 'concretizzate' e quelle programmatiche devono essere 'perseguite' (v. Zagrebelsky, 1984). La costituzione materiale in questo campo ha infatti una funzione non descrittiva, ma prescrittiva: e in ciò queste norme costituzionali si differenziano dalle altre, attinenti alle strutture e alle libertà 'negative'. La definizione di costituzione 'vivente', perciò, non coincide con quella di costituzione materiale, in quanto la prima è una nozione puramente descrittiva di una struttura, di un bill of rights e dell'attuazione concreta di quelle norme prescrittive (cioè dei valori sociali) che sono dotate di effettività, perché sorrette dalle forze politiche dominanti, che operano tramite gli organi costituzionali (fra i quali occorre sottolineare l'attività essenziale delle corti costituzionali, in particolare di quelle italiana, austriaca, e tedesca). Le norme costituzionali inattuate, di qualunque tipo, sono suscettibili di perdere la loro effettività a causa di un'autentica caduta in desuetudine anche se a questo istituto si può ricorrere solo con estrema cautela, perché l'inattuazione di norme costituzionali strutturali o prescrittive può protrarsi per anni e per decenni, senza che esse perdano la loro potenzialità attuativa, che infatti può venire alla luce (sempre per effetto delle dinamiche politiche) anche con grande ritardo (in Italia, l'esempio classico è quello dell'attuazione dell'ordinamento regionale che, entrata in vigore la Costituzione il 1° gennaio 1948, ebbe luogo solo nel 1970).
Sembra opportuno premettere qui un cenno a una ormai classica distinzione fra forma di Stato e forma di governo, che peraltro, come subito vedremo, non sarà determinante per la definizione dei modelli di costituzioni oggi vigenti (ma potrà essere un utile approccio ai problemi). Gli Stati sogliono essere distinti, secondo la struttura, in unitari, federali, regionali; in relazione al rapporto governanti-governati, in democratici e autoritari. Distinzioni più antiche sono quelle tra Stati 'patrimoniali', Stati 'di polizia' e Stati 'di diritto' (quest'ultima definizione in verità è tuttora corrente, nella più moderna accezione dello 'Stato sociale di diritto', che vuol caratterizzare da un lato l'imperio della norma, dall'altro la presenza delle norme prescrittive). Infine, gli Stati moderni si sogliono anche distinguere in Stati liberali, Stati 'del benessere', Stati socialisti. Per forma di governo si intende invece la ripartizione del potere politico tra i supremi organi dello Stato: dalla distinzione tradizionale tra monarchie e repubbliche si passa a quella tra governo assoluto e governo costituzionale (il primo accentra nelle mani del capo dello Stato tutto il potere politico, il secondo lo ripartisce fra tutti gli organi dotati di sovranità). A sua volta, il governo costituzionale si distingue in 'puro' e 'parlamentare' (il primo ripartisce il potere solo fra monarca e ministri, il secondo ne fa partecipe, in modo determinante, il parlamento, mediante l'istituto della fiducia al governo, nominato dal re, temperato dal potere regio di scioglimento anticipato della Camera elettiva). Nelle repubbliche democratiche si distinguono le parlamentari (che sono quelle provviste del governo parlamentare ora descritto) dalle presidenziali (che invece accentrano il potere esecutivo nelle mani del presidente eletto dal corpo elettorale e dei suoi ministri, irresponsabili davanti al parlamento) e dalle direttoriali (in cui l'esecutivo è eletto dal parlamento per un tempo determinato, ed è quindi sottratto alle crisi parlamentari).
In verità, ormai l'osmosi fra i concetti di forma di Stato e forma di governo è massima, e si sottolinea giustamente "l'importanza che ha la forma di governo per qualificare la forma di Stato realmente operante in un ordinamento" (v. De Vergottini, 1987²). Inoltre viene dato sempre maggior rilievo alla presenza e al numero dei partiti politici, in relazione soprattutto alle coalizioni governative che spesso sono immutabili per effetto del pluripartitismo, che d'altronde è una delle caratteristiche fondamentali che distinguono le democrazie dalle dittature. Ora, tenendo presenti le ultime notazioni, può formularsi un ventaglio delle costituzioni contemporanee così articolato: a) costituzioni della liberaldemocrazia classica: parlamentari, presidenziali, direttoriali; b) costituzioni degli Stati socialisti; c) costituzioni dei paesi in via di sviluppo, o di recente indipendenza; d) costituzioni degli Stati autoritari-dittatoriali. Brevemente e per sommi capi, può dirsi che le costituzioni sub a) hanno le caratteristiche già poco sopra ricordate; che quelle sub b) erano caratterizzate nella loro tradizionale configurazione, ormai superata, in primo luogo dalla presenza di un unico partito politico col divieto, sanzionato penalmente, di costituzione di altri partiti; in secondo luogo da un accentramento del potere politico ed economico nelle mani dell'(unico) partito comunista sia pure nell'ambito di uno Stato federale (ma nella stretta del 'centralismo democratico'); in terzo luogo dalla 'relatività' dei diritti fondamentali spettanti ai privati e ai gruppi, principio che ne assicurava la tutela soltanto "in conformità con gli interessi del popolo e allo scopo di consolidare e sviluppare il regime socialista" (art. 50 Cost. URSS). Gli altri Stati socialisti dell'Europa orientale hanno avuto costituzioni modellate su quella dell'Unione Sovietica. La Iugoslavia, invece, si è differenziata dagli altri Stati socialisti soprattutto nel campo dell'economia, imperniata sui principî dell''autogestione' e della 'proprietà sociale'. La Repubblica Popolare Cinese - e, con essa, le repubbliche della Corea, della Mongolia e del Vietnam, senza contare quelle in via di formazione poggianti sulla medesima base ideologica - hanno adottato un modello di tipo sovietico. La Repubblica di Cuba si è ispirata anch'essa al modello sovietico.
Le costituzioni dei paesi di recente indipendenza presentano, secondo alcuni (v. De Vergottini, 1987²), una natura "tendenzialmente non democratica", soprattutto con riferimento alla pluralità dei partiti politici, che spesso manca, e alla tutela dei diritti umani, che quasi sempre è allo stato embrionale. Ma piuttosto che di rifiuto della democrazia sembra che si debba parlare di una incompiutezza di ascesa verso la democrazia: paesi alla loro prima esperienza storica di autogoverno difficilmente infatti possono darsi sistemi pluripartitici e altrettanto difficilmente possono impostare, nell'ambito della loro tradizionale giustizia, i nostri raffinati meccanismi giuridici di tutela dei diritti fondamentali mediante l'affermarsi della separazione dei poteri e della tutela giurisdizionale a livello anche costituzionale.
È stato sottolineato (v. De Vergottini, 1987²) come si possano distinguere tre 'cicli costituzionali' in questa materia: il primo, che comporta l'adozione di testi costituzionali aventi per modello quelli delle potenze coloniali (soprattutto modelli inglesi e francesi); il secondo, che presenta alterazioni più o meno incisive dei testi originari, per effetto di esigenze locali, che quasi sempre portano alla concentrazione del potere con un indirizzo fortemente autoritario; il terzo, che porta all'adozione del modello socialista, pure caratterizzato da indirizzi autoritari.Infine, le costituzioni degli Stati autoritari (del secondo dopoguerra, s'intende) che tuttora reggono nazioni il cui sviluppo viene fortemente ostacolato, appunto, dal regime vigente, si caratterizzano, in quanto 'Stati di polizia', per l'accentramento totale, nelle mani dell'unico partito, di tutte le decisioni politiche di qualsiasi livello. Superate le forme 'classiche' del fascismo e del nazismo, caduti dopo la guerra - da cui non erano stati toccati - il franchismo e il salazarismo, le attuali autocrazie generalmente sono costituite da dittature militari, che comprimono in primo luogo le libertà dei cittadini e il diritto di associazione, particolarmente nelle formazioni politiche, e che si reggono grazie a feroci strumenti polizieschi, preventivi e repressivi, sulla base della negazione dei principî di legalità (dubbia è una distinzione che si vorrebbe da taluni introdurre fra Stato autoritario e Stato totalitario).
Nell'ambito dei modelli costituzionali liberaldemocratici è possibile rinvenire alcune caratteristiche strutturali comuni, che qui di seguito richiameremo, non senza avvertire il lettore che ogni tentativo di tipizzazione, in questo campo, corre il rischio di apparire un'inutile esercitazione accademica, data la diversità di fondo dei modelli e, soprattutto, delle costituzioni materiali dei vari paesi. In linea di massima, sembra si possa dire che le costituzioni così impostate sono generalmente non flessibili ma parzialmente rigide, nel senso che non possono essere modificate, né espressamente, né tacitamente, da leggi ordinarie (o da normative inferiori nella scala gerarchica), ma solo mediante ricorso al potere di revisione costituzionale (che generalmente non richiede l'elezione di un'assemblea costituente, ma solo un procedimento legislativo 'aggravato': tuttavia, alcune norme costituzionali sono da ritenere non soggette a revisione). Correlativamente, la rigidità viene assicurata da organi di garanzia, che possono essere identificati nel potere giudiziario, come avviene negli Stati Uniti (controllo di costituzionalità 'diffuso', che si esercita attraverso sentenze con effetti limitati alle parti in giudizio ma anche con effetti di 'stare decisis', cioè di precedenti vincolanti i giudizi successivi, se pronunciati dalla Corte Suprema federale), o in un organo giudiziario ad hoc (un 'tribunale costituzionale') o di vertice della struttura giudiziaria (controllo accentrato, con effetti di annullamento della norma incostituzionale, che viene cancellata dall'ordinamento). In taluni paesi è ammesso poi anche il ricorso diretto del privato - che assume violato un suo diritto fondamentale da parte di uno dei poteri dello Stato - al tribunale costituzionale (amparo, Verfassungsbeschwerde). Infine, spesso è menzionato il 'diritto di resistenza' che, comunque, anche nel silenzio della costituzione, è da ritenere garanzia implicita e sottintesa in tutte le costituzioni 'materialmente' vigenti. I procedimenti di formazione delle costituzioni scritte possono essere 'esterni' oppure 'interni', a seconda che le costituzioni vengano imposte da altri Stati (e successivamente recepite nella nascente sovranità dello Stato-oggetto) oppure siano il frutto di scelte costituenti svoltesi nell'ambito della sovranità popolare, secondo canoni democratici o autoritari (assemblee costituenti, plebisciti o referendum, 'adozione unilaterale' da parte di un organo interno).I contenuti delle costituzioni non comprendono materie tipiche: si ritiene che ogni costituzione sia composta almeno da due parti: l'una di struttura, disciplinante gli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, l'altra attinente ai rapporti fra lo Stato (apparato e comunità) e i cittadini.
Ci si può domandare, da ultimo, se siano configurabili oggi costituzioni che travalichino la sfera della sovranità nazionale, che cioè, al di là delle frontiere (e a prescindere, ovviamente, dalle federazioni e confederazioni di Stati, fenomeno ormai antico e assestato), creino nuovi soggetti internazionali composti di più unità nazionali. Iniziamo dalla comunità internazionale, che ricomprende per definizione tutti gli Stati. Si suol dire che essa costituisce una società 'naturale' o 'necessaria': gli Stati entrano in tale comunità all'atto in cui si afferma la loro effettività, ne escono quando definitivamente viene meno tale posizione. La comunità internazionale come tale non esige legami istituzionali fra gli Stati membri: legami che peraltro sono nel tempo emersi sia tramite patti bilaterali e multilaterali, sia per effetto della spontanea nascita (per convinzione collettiva) del 'diritto internazionale generale' e delle organizzazioni internazionali. Il primo raccoglie le consuetudini consolidate in tema di rapporti fra gli Stati (ad esempio le regole pacta sunt servanda e rebus sic stantibus) ed è stato poi codificato in una Convenzione sul diritto dei trattati (Vienna, 22 maggio 1969). Le seconde fiorirono dapprima come unioni amministrative (seconda metà del XIX secolo), poi nella Società delle Nazioni del primo dopoguerra, e infine nell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) nata nel 1945 e tuttora operante, che raccoglie ormai quasi duecento Stati. Tutti conoscono gli scopi e la storia di mezzo secolo dell'ONU: non sembra che possa dirsi che questo organismo abbia assunto un carattere tale da configurare quell'unità che è il paradigma di una costituzione. Un'illustre dottrina in verità ebbe a sostenere l'esistenza di principî 'costituzionali' connaturati con la comunità internazionale (v. Quadri, 1966); ma la tesi è rimasta isolata. Va affermandosi, invece, una tesi che sostiene la presenza di uno ius cogens che comprenderebbe un gruppo di norme di diritto internazionale generale non derogabili (l'art. 53 della Convenzione sul diritto dei trattati lo prevede espressamente).
L'assenza di organi centralizzati forniti di poteri generali, e le conseguenti necessità per l'ordinamento internazionale di far ricorso ai sistemi giuridici interni per la sua attuazione concreta (v. Cassese, 1984), palesano chiaramente l'impossibilità di far ricorso a una "costituzione della comunità internazionale". I principî fondamentali che a essa presiedono godono di una (relativa) effettività, ma non assurgono a una sorta di bill of rights della comunità (i principî che si enucleano sono, in sintesi, l'eguaglianza sovrana degli Stati, l'autodeterminazione dei popoli, il divieto della minaccia e dell'uso della forza, la soluzione pacifica delle controversie, la non ingerenza negli affari interni, il rispetto dei diritti dell'uomo, la cooperazione internazionale, il principio di buona fede) (v. Cassese, 1984).A conclusioni un poco differenti si può forse giungere a proposito di talune organizzazioni 'regionali': non alludiamo al Consiglio d'Europa, alla NATO e alla SEATO, bensì alle Comunità Europee (MEC, CECA ed EURATOM), che hanno assunto un carattere decisamente - anche se settorialmente - sovranazionale, hanno cioè ridotto consensualmente il grado della sovranità di ciascuno dei paesi partecipanti. Qui sono previsti organi direttivi comuni, come il Consiglio dei ministri, il Consiglio europeo, il Parlamento europeo, la Corte di giustizia delle Comunità Europee (ma la loro derivazione dai governi, da un lato, e le ridotte competenze del Parlamento eletto dai popoli, dall'altro, sottolineano il modestissimo tasso di democraticità delle Comunità Europee). La novità di tali istituzioni sta nel fatto che una parte della normazione comunitaria 'entra' direttamente negli ordinamenti degli Stati membri, e che la parte residua, che necessita di recepimento, diventa sempre più cogente, e l'assoggettamento degli Stati più puntuale e - relativamente - rapido. L'Atto unico europeo (17 febbraio 1986) sta portando avanti l'unificazione economica dell'Europa, mediante procedure di 'cooperazione politica', l'instaurazione di un 'mercato interno' entro il 1992, l'armonizzazione delle legislazioni statali, e in genere lo sviluppo di un'azione unitaria nei campi più svariati e numerosi. Può parlarsi già da ora di una costituzione dei dodici paesi europei riuniti nelle Comunità? Forse no; ma siamo peraltro di sicuro in presenza di un embrione, che tende a regolare non solo gli organi comuni, ma anche i rapporti fra Comunità e cittadini dei singoli paesi.
Infine, costituzioni internazionali 'parziali', limitate al rispetto di taluni diritti umani (ancora, una sorta di bill of rights), potrebbero rinvenirsi in una serie di vincoli internazionali che molti paesi hanno assunto: a) nel Consiglio d'Europa, sottoscrivendo la Convenzione europea dei diritti umani del 1950, che prevede una Commissione e una Corte dei diritti umani; b) nella Convenzione americana sui diritti umani, che prevede organi analoghi; c) nel Comitato per i diritti dell'uomo, nel quadro dell'ONU. Ma, anche in queste formazioni, l'effettività è ancora a un livello elementare, e quindi sarebbe prematuro vederle anche solo come embrioni di costituzioni, sia pure limitate al catalogo e alla tutela dei diritti umani. (V. anche Costituzionalismo; Costituzionalità delle leggi, controllo di; Liberalismo).
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