Sovranità
Tra i caratteri che contrassegnano gli ultimi quattro secoli, quelli che comunemente, anche se sempre più problematicamente, sono indicati come età dello 'Stato moderno', vi è certamente il bisogno, forte e intenso, di ricorrere al termine-concetto di 'sovranità' al fine di giustificare il rapporto di obbligazione politica, l'esercizio dei poteri d'imperium e di coazione, e i corrispondenti doveri di obbedienza.
Nel corso dei secoli precedenti, e in particolare nel corso della lunga età medievale, non vi era stato infatti bisogno di alcuna 'sovranità', di alcuna costruzione giuridica, o filosofico-politica, in una parola di alcuna astrazione, per giustificare i poteri d'imperium di quella straordinaria quantità di soggetti che in ambiti territoriali più o meno ampi esercitavano il potere di dire la giustizia, o di esigere le imposte, o di chiamare alle armi. Quei soggetti non erano infatti legittimati dal fatto di essere titolari della 'sovranità', cosa che a loro stessi sarebbe apparsa del tutto astratta e incomprensibile, ma dalla posizione, ben più concreta, che occupavano all'interno di un ordine storicamente dato, che era insieme politico e sociale, e che attribuiva loro poteri e doveri mediante la forza prescrittiva, da nessuno dominabile, del tempo e della consuetudine.
Dal punto di vista dei destinatari, di coloro che erano sottoposti all'esercizio di quei poteri, il primo fondamento dei doveri di obbedienza stava nella loro comune appartenenza allo stesso ordine cui anche il soggetto dominante apparteneva: obbedire a lui significava prima di tutto confermare e conservare quell'ordine entro cui tutti erano concretamente inseriti, che lo stesso soggetto dominante aveva il dovere di conservare e perfezionare, e che finiva fatalmente per porre limiti all'esercizio degli stessi poteri d'imperium.
La problematica moderna della sovranità, di cui qui ci occupiamo, nasce appunto dalla dissoluzione di questo modello medievale dell'obbligazione politica. Nasce nel momento in cui entra in crisi la connessione organica, tipicamente medievale, tra 'politico' e 'sociale', e i poteri d'imperium minacciano di essere secca espressione di un 'politico' che non è più intrinsecamente limitato, e nello stesso tempo legittimato, dalla sua necessaria appartenenza al 'sociale'. La problematica moderna dell'obbligazione politica ha dunque alla sua base questo processo storico, in sé oscillante e tormentato, di differenziazione tra 'politico' e 'sociale', di emersione del primo dal secondo, di scoperta, certo all'inizio sgradevole e preoccupante, di una ragione politica che pretendeva di possedere caratteri propri, distinti da quelli intrinsecamente e storicamente presenti nella realtà cetuale e corporativa dell'Europa di antico regime.
Non è ora possibile seguire in dettaglio i movimenti interni a questo processo storico, che ha probabilmente la sua prima fase in una vastissima letteratura giuridica e politica collocata sul confine tra Medioevo ed età moderna, e tale anzi in molti casi da rendere incerta l'individuazione di un vero e proprio discrimine. È questa la fase in cui si assiste al succedersi di teorizzazioni, ancora pienamente medievali, della ratio publicae utilitatis e di trattazioni della ragion di Stato, che per altro soprattutto a partire dalla fine del Cinquecento assumono caratteri e contorni decisamente nuovi.
Se proprio dovessimo indicare a questo proposito una linea evolutiva, si dovrebbe dire che essa consiste, in questa medesima fase, nel passaggio dalla politica come arte, come pratica di governo ispirata da ragione e da giustizia e affidata al reggitore delle cose comuni, animato dalle virtù della prudenza e della temperanza, alla politica come calcolo razionale, a fini di governo, dei bisogni e degli interessi, ispirato dalla necessità di conservare e sviluppare il potere garantendo adeguate condizioni di sicurezza.
L'emergere del valore della 'sicurezza' è indice della ormai attuale dissoluzione di quel modello medievale dell'obbligazione politica da cui siamo partiti, e rinvia parallelamente al processo di differenziazione tra 'politico' e 'sociale' cui pure sopra si accennava: il 'politico' inizia ad avere valore in sé, per la sua autonoma capacità di garantire quelle condizioni di sicurezza che i tradizionali rapporti di cui era intessuto il mondo medievale evidentemente non riuscivano più a riprodurre dal loro interno.
Accanto al tema della 'sicurezza' si pone poi quello del 'calcolo', della ricerca razionale dell'utilità collettiva, che fatalmente contribuisce a corrodere la centralità tradizionale delle 'virtù' del principe, operanti sul piano istituzionale ma saldamente radicate nella sua persona fisica. Da quest'ultima si distacca sempre più la persona moralis, che è immaginata appunto, in quanto espressione dell'istituzionalizzazione e della continuità di esistenza del 'politico', come il soggetto che calcola, che prevede, che organizza: che governa, in una parola, con significati e modalità che già si avvicinano a quelli moderni. La tendenza a costruire l'obbligazione politica, i poteri d'imperium e i doveri di obbedienza, in senso impersonale e formalizzato, che sembra corrispondere a una vera e propria costante aspirazione della storia politica e costituzionale europea, trova insomma, soprattutto a partire dal XVI secolo, importanti momenti di verifica, di conferma, e di deciso sviluppo.
Tutti questi aspetti si collegano poi all'interno del nostro processo di differenziazione tra 'politico' e 'sociale'. L'emersione del primo dal secondo appare infatti ora non più solo nel suo lato minaccioso come emancipazione dalle regole date, ma anche in funzione di un progetto di carattere costruttivo che rende progressivamente le azioni e le norme dei soggetti dominanti sempre più efficaci nel garantire la sicurezza di tutti, sempre più calcolate e calcolabili perché frutto di logiche in misura crescente continue e istituzionali.Il lato costruttivo e positivo dell'emersione del 'politico' dal 'sociale' rimane tuttavia ben lontano dall'essere dominante, e per lungo tempo ancora saranno prevalenti le preoccupazioni nei confronti degli esiti di questo processo. Lo dimostra il fatto che anche in autori come Jean Bodin - che pure per molti versi sono collocabili all'inizio della vicenda della sovranità in senso moderno, definita ormai chiaramente come potere di fare la legge, e anche di derogare da essa - rimane ben forte la presenza di tutta una serie di limiti all'esercizio dei poteri sovrani che non sono spiegabili positivisticamente, ma rinviano piuttosto al fatto che la République è ancora intesa come un complesso di corpi e di famiglie che il sovrano stesso deve presupporre, che costituiscono in ultima analisi il fondamento medesimo del suo potere.
Accade insomma, in trattazioni come quella di Bodin, che i poteri di sovranità, per quanto espressi in modo moderno attraverso il potere di fare la legge, siano di fatto funzionalizzati a compiti di ordine nei confronti di un 'sociale' che ha ancora come suo carattere essenziale quello di essere composto da una molteplicità di ordini e stati, comunità e corporazioni, province e paesi. In questo senso, lo 'Stato moderno' di Bodin rimane ancora per molti versi dentro l'orbita politica medievale, e lo stesso potere assoluto di fare la legge è accettabile in quanto serve sostanzialmente a mantenere l'organizzazione degli uomini e delle cose all'interno di un ordine costituito.
Sono sulla stessa linea anche altre trattazioni, come quella di Johannes Althusius, che in modo ben più esplicito, criticando lo stesso Bodin, pongono alla base dei poteri di sovranità del Magistratus un vero e proprio patto con il 'popolo', cioè con i corpi e con i ceti, le parti distinte di cui il regno si compone. Con il risultato che gli stessi poteri di sovranità trovano la ragione della loro esistenza, e la misura del loro operare, all'interno di quel 'popolo' che non si esaurisce dunque nell'istituzione del sovrano, ma rimane vivo accanto a esso, e può anche giudicarlo tiranno quando veda minacciate le proprie sfere di diritto dalla sua autorità ed esercitare contro di lui il diritto di resistenza.
La verità è che i complicati processi di transizione dall'età medievale a quella moderna trovano proprio in questo 'popolo', in questa realtà costituita che è insieme sociale e politica, l'ostacolo più rilevante e impegnativo. Si vuol dire che il processo che conduce alle soluzioni moderne rimane incerto e monco fin quando riguarda solo la figura del principe, l'elencazione dei suoi poteri, il grado d'istituzionalizzazione della sua presenza politica. Fin quando si rimane in questo ambito, lasciando impregiudicata la configurazione medievale del 'popolo' e con essa l'idea stessa del naturale strutturarsi del 'sociale' in corpi e ceti, quest'ultimo tende fatalmente a prendersi le proprie rivincite, a richiamare a sé il processo di emersione del 'politico'.In altre parole, per completare il processo storico di costruzione del moderno era necessario agire direttamente anche sul polo del 'sociale': era necessario immaginare quest'ultimo in un modo del tutto diverso da quello della tradizione medievale. Si doveva sostituire a un 'popolo' pluralisticamente articolato in corpi e ceti, in realtà date, un 'popolo' di soli individui, infinitamente più astratto di quello precedente, e proprio per questo ben più disponibile a istituire un 'politico' che non fosse più necessariamente solo il garante, e il depositario, dell'equilibrio dato. Solo da questo punto in poi inizia la vera e propria vicenda moderna della sovranità.
La nostra progressiva approssimazione al concetto moderno di sovranità incontra ora, all'incirca verso la metà del XVII secolo, un momento di assoluta rilevanza che può essere emblematicamente riassunto nell'opera di Thomas Hobbes. Si ha qui molto di più di una particolare sottolineatura di quei processi di istituzionalizzazione e di concentrazione del potere che già da tempo erano in atto e che abbiamo sommariamente ricordato. La novità sta nel fatto che i poteri d'imperium, come il potere di fare la legge, che così tanta centralità avevano acquisito in autori come Bodin, vengono osservati non più solo dal punto di vista della titolarità e dei modi di esercizio, ma anche, e soprattutto, dal decisivo punto di vista della legittimazione. Ci si colloca cioè ben al di là del consueto piano del 'governo', dell'insieme dei poteri e delle rispettive titolarità e competenze, e si pone decisamente il problema del potere al singolare, se si vuole dello 'Stato', della persona moralis in un determinato modo istituita e in un certo senso rappresentativa del corpo sociale.
La grande differenza tra Bodin e Hobbes sta appunto in questo: il secondo, a differenza del primo, non discute solo di 'governo', di singoli poteri e prerogative, ma anche di 'Stato', e anzi prima di tutto di 'Stato', ovvero delle condizioni stesse di esistenza dell'obbligazione politica che evidentemente non possono più essere date per scontate, non sono più da rinviare alla tradizionale immagine del naturale strutturarsi del corpo sociale e politico in cerchie e ordini sui quali fondare i poteri stessi del sovrano.
È questo il significato più profondo dell'introduzione, con Hobbes, del paradigma giusnaturalistico moderno di stampo individualistico. Il grande messaggio che si vuole lanciare è che nessuna soluzione appagante è più possibile se non si riparte da capo, dai fondamenti stessi dell'obbligazione politica. Al posto della tradizionale immagine medievale del 'popolo' come realtà storico-naturale, in sé in definitiva rassicurante soprattutto perché fatalmente produttiva di un 'politico' intrinsecamente limitato, Hobbes pone l'immagine ben più inquietante di uno stato di natura desolatamente vuoto di relazioni ordinanti perché popolato di soli individui, a ogni istante pronti a distruggersi reciprocamente.
Da questa situazione, in sé insopportabile, si esce con lo strumento del contratto sociale, con l'istituzione del sovrano. Ma proprio il punto di partenza di Hobbes, saldamente collocato nella radicale presa d'atto del crollo di ogni solidarietà di tipo storico-naturale, fa sì che questo contratto non sia pensato come un movimento ordinante di tipo orizzontale, che si svolge tra gli individui. Esso è piuttosto da intendere come un complesso, un insieme di atti di riconoscimento e di autorizzazione del sovrano che sono posti in essere da parte di ciascun individuo singolarmente preso, nella speranza di ricavare in questo modo lo spazio necessario alla propria vita e alla costruzione dei propri diritti. Ciò che è comune tra gli individui è solo il riconoscimento del sovrano, e dunque solo grazie alla sua istituzione essi divengono 'popolo', o anche 'società civile'.Tutto ciò attribuisce al sovrano una qualità che nessun soggetto dominante aveva mai posseduto nel corso dell'età medievale. Essa consiste nel fatto che il sovrano rappresenta ora l'unità politica, in modo che questa senza di lui non è più visibile, non ha più alcuna autonoma consistenza effettiva. Questo quid pluris rispetto alla tradizione medievale è appunto la sovranità in senso moderno: essa è la qualità del soggetto sovrano, ovvero della persona che rappresenta e fa esistere l'ordine politico di cui gli stessi individui hanno bisogno, entro cui trovano forma e consistenza i loro diritti che nello stato di natura non erano possibili.
La costruzione di Hobbes è inquietante non solo nei presupposti, ma anche negli esiti. In primo luogo perché portava finalmente a compimento quella emancipazione del 'politico' dal 'sociale' che già ci è nota. Il sovrano di Hobbes non deve infatti più tener conto di alcun corpo sociale o politico a lui preesistente, non ha più alcun limite esterno alla sua azione. Il 'politico' di Hobbes è dunque infinitamente più libero e assoluto di quello di Bodin e della stessa tradizione medievale: contro di esso non è più possibile esercitare alcun diritto di resistenza.
Ma c'è anche da tener conto dell'altro lato della dottrina hobbesiana. Il 'vuoto' che il sovrano trova al dispiegarsi della sua azione è anche alla base della sua legittimazione, che è ormai del tutto volontaria e artificiale. Da questo secondo punto di vista è ben possibile affermare che il sovrano di Hobbes risulta essere alla fine più fragile di quello medievale. Esso ha perduto infatti del tutto la sua qualità di supremo reggitore delle sorti di una comunità storicamente data. Alla base del suo potere non vi sono più strutturate e affidabili solidarietà di ceto e di luogo, ma solo degli individui che lo hanno riconosciuto necessario al fine d'istituire l'ordine politico di cui avevano bisogno.È possibile allora prevedere un momento in cui il sovrano non si riveli più adatto allo scopo, non sia più capace di rappresentare e far esistere l'ordine politico. E quel momento sarà comunque ineluttabilmente drammatico perché gli individui, privati dalla ricostruzione di Hobbes di ogni solidarietà diversa da quella che scaturisce dal comune riconoscimento del sovrano, rimarranno privi di ogni progetto comune, e saranno dunque costretti a vivere di nuovo la terribile esperienza dello stato di natura, della guerra civile. Quanto più il 'politico' tende a emanciparsi dagli antichi condizionamenti, tanto più esso rischia di esporsi, di divenire fragile e problematico: alla mancanza di limiti rischia di corrispondere la mancanza di fondamento.
Era necessario dunque, nella vicenda del moderno concetto di sovranità, procedere oltre Hobbes. Pur mantenendo fermo il paradigma individualistico, e il carattere artificiale dell'ordine politico, era necessario mostrare un volto diverso della sovranità e del sovrano, che in qualche modo servisse a recuperare un qualche elemento di solidarietà tra gli individui.
L'esigenza di questo recupero matura lentamente all'interno delle filosofie giusnaturalistiche e trova poi una sistemazione efficace nell'opera di Jean-Jacques Rousseau. Per Rousseau la sovranità coincide con la volontà generale che è la volontà del popolo sovrano, dell'insieme dei cittadini considerati come un ente collettivo, come una persona morale. Questa persona esprime con la sua stessa esistenza una condizione di civiltà e di acquisito progresso rispetto allo stato di natura, poiché possiede in sé una razionalità di tipo generale e astratto, che mette fine a ogni dominazione di carattere personale e particolare inaugurando il regno della legge e dei diritti individuali.
Tale fondamentale punto di arrivo corre un solo rischio: quello dell'alienazione della sovranità, vista da Rousseau come un processo di carattere degenerativo e disgregante che conduce fatalmente alla riemersione di volontà particolari, al dominio naturale, e in sé ingiusto, dell'uomo sull'uomo, del più forte sul più debole. Proprio per questo motivo Rousseau sottolinea più volte che il popolo può solo delegare l'esercizio di alcuni poteri, sotto precise condizioni, a determinati mandatari, ma mai farsi rappresentare: dove inizia la rappresentanza finisce la libertà, e l'esistenza stessa, del popolo.
I punti di contatto tra la costruzione di Hobbes e quella di Rousseau sono molteplici. Il primo e il più rilevante è dato dall'assenza, in entrambi gli autori, di ogni dualismo, di ogni contratto tra popolo e sovrano. La persona morale di Rousseau è in questo senso altrettanto sovrana di quella di Hobbes. All'esterno di quella persona non c'è infatti più alcun 'popolo' nei confronti del quale ritenersi legati da un rapporto di tipo contrattuale, per un motivo molto semplice: perché il 'popolo' esiste ora solo attraverso la persona medesima, e solo in essa diviene sovrano, esprime la volontà generale.
Tuttavia, come sopra si diceva, Rousseau, pur rimanendo dentro il quadro concettuale inaugurato da Hobbes, riesce a eliminare alcuni aspetti della costruzione del filosofo inglese che di fatto rendevano inutilizzabile la sua concezione della sovranità. Prima di tutto, Rousseau riesce a far rivivere dentro la concezione moderna della sovranità quella essenziale componente di carattere solidaristico che era del tutto assente nella fredda e rigorosa visione di Hobbes. L'istituzione del sovrano non ha più solo significati di carattere utilitaristico, e viene ora vista anche in funzione di un progetto di carattere collettivo, che consiste, alle soglie della Rivoluzione, nella edificazione di una società di liberi e uguali. Per questo stesso motivo il sovrano di Rousseau, ben più di quello di Hobbes, non può agire altro che con la legge, perché altrimenti creerebbe privilegi e tradirebbe la sua missione, che è quella di generare uguaglianza e di distruggere il male maggiore, ovvero la dominazione di carattere personale del più forte sul più debole. Come ben si vede, il concetto moderno di sovranità viene da Rousseau sostanzialmente affinato e rinsaldato. Rispetto a Hobbes risulta essere più forte il legame tra gli individui, e tra questi e il sovrano, e d'altra parte risulta essere più saldo e definito il dominio della legge e della volontà generale.
C'è tuttavia un punto che rimane ancora irrisolto e problematico. Anche in Rousseau, come in Hobbes, vi è il rifiuto di una qualsiasi 'legge fondamentale' capace di vincolare il sovrano. La sovranità in senso moderno tende in questa ottica a ridurre la costituzione a mero atto di volontà del sovrano, da questi sempre liberamente modificabile. Lo stesso Rousseau affermò più volte, del resto, che il popolo sovrano poteva tutto meno una cosa: vincolare sé medesimo per il futuro mediante una 'legge fondamentale' capace d'imporsi sulla sua propria volontà, sul suo potere di definizione della volontà generale, da esercitarsi secondo le esigenze che lo stesso sovrano di volta in volta giudicava primarie.
Non poteva essere altrimenti, del resto, all'interno di un modello sorto sulle ceneri dell'obbligazione politica medievale, e che da questo punto di vista non poteva non scorgere nella 'legge fondamentale' la rinascita degli antichi patti tra principe e ceti, tra popolo e sovrano, e dunque del particolarismo medievale.
In ultima analisi il concetto moderno di sovranità ben si associava, fin dal tempo di Hobbes, con quello dei moderni diritti individuali, e ben si traduceva nella grande immagine della volontà generale, in quel progetto di dominio della legge che alla vigilia della Rivoluzione predicava la distruzione dei privilegi di ceto. Quel concetto sembrava però anche contenere un aspetto permanentemente sgradevole: quello del rifiuto della organizzazione dei poteri a disciplinarsi in forme costituzionali, a darsi stabilità e continuità sul piano istituzionale. Di questo dobbiamo ora occuparci: del travagliato e complesso rapporto tra sovranità e costituzione in età moderna.
Con quale tipo di costituzione è compatibile il moderno concetto di sovranità? Rispondiamo con una formulazione di carattere sintetico. Quel concetto di sovranità produce in linea generale costituzioni di tipo monistico, ovvero costituzioni che individuano un potere per eccellenza, ben più rilevante di ogni altro potere costituito perché rappresenta il sovrano, è l'espressione della sovranità medesima.
Questo potere è in genere il potere legislativo. L'atto che questo potere produce, ovvero la legge, è molto di più di una semplice fonte di diritto. Dirà l'art. 6 della Dichiarazione dei diritti del 1789: "La legge è l'espressione della volontà generale". Ciò che equivale a dire: se la legge esiste è perché su quel determinato oggetto su cui essa dispone si è formata la volontà generale, e dunque si deve sempre muovere dalla presunzione, praticamente non confutabile, che la legge, per il fatto stesso di esistere, contenga la volontà generale, che è poi a un tempo segno e conseguenza dell'esistenza del sovrano.
Il legislatore è dunque molto di più del soggetto costituzionalmente definito cui è affidato il potere di fare la legge. Esso è il 'luogo' in cui il sovrano concretamente esiste e diviene visibile. Nel corso della Rivoluzione francese, che adottò largamente questo modello, si produssero per lo più costituzioni di questo tipo che non a caso posero problemi di difficilissima soluzione nella costruzione di rapporti costituzionalmente disciplinati tra il legislatore e i giudici, l'amministrazione, lo stesso potere esecutivo.
Le costituzioni compatibili con il moderno concetto di sovranità sono inoltre in linea generale costituzioni di tipo radicale, ovvero costituzioni che esistono perché sono state volute dal potere costituente del popolo sovrano, inteso come un potere inesauribile che non si estingue affatto nel momento in cui produce una determinata costituzione. Questo potere costituente sopravvive dentro la costituzione autorappresentandosi in un potere determinato che è in genere, come abbiamo visto, il potere legislativo; ma nelle fasi di crisi, o di più intensa trasformazione, può anche riemergere e riproporsi in modo diretto e immediato, perché portatore, in quanto sovrano, di una sorta di 'superlegalità' costituzionale, da intendersi come costante criterio di valutazione della legalità formale contenuta nella costituzione positivamente vigente. Dirà in modo esemplare l'art. 28 della Costituzione del 1793: "Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare, cambiare la propria costituzione".
A ben guardare, questa difficoltà a costituzionalizzare il sovrano deriva da una circostanza molto semplice: dal fatto che la costituzione che vorrebbe disciplinare il sovrano è essa medesima espressione della sua volontà. Ne consegue che per reperire uno strumentario concettuale utile allo scopo della costituzionalizzazione del sovrano è necessario dirigersi verso un'altra tradizione di pensiero, caratterizzata dalla sua capacità di tematizzare l'origine della costituzione in modo autonomo e indipendente dalla sovranità in senso moderno di Hobbes e di Rousseau.
Questa tradizione è certamente quella britannica formatasi a partire all'incirca dal XIII secolo. In questa epoca si assiste in Inghilterra a una trasformazione dell'eredità medievale del patto tra re e popolo, tra re e corpo politico, che viene superata, ma senza accedere per questo alla concezione continentale della sovranità politica che già conosciamo.
Il punto di approdo di questa trasformazione è nella nota formula secondo cui sovereignty resides in the king in his parliament. Secondo una nota dichiarazione dei lords e dei commons del 27 maggio 1642, l'attribuzione della sovranità al re è legata appunto al fatto che egli la esercita all'interno del parlamento, rappresentando insieme ai lords e ai commons il Commonwealth, il corpo politico del regno. E ciò è a sua volta possibile perché il re entra in parlamento non come persona fisico-naturale, ma come corporation, come corona, come istituzione fondamentale del regno, secondo quella dottrina dei 'due corpi' del re che proprio in Inghilterra ebbe la sua più compiuta applicazione sul piano costituzionale.
Ora, questa soluzione inglese del problema della sovranità ha il pregio di complicare non poco il quadro di riferimento che già conosciamo. Essa infatti, alla luce del concetto moderno di sovranità di Hobbes e di Rousseau, non è né 'medievale', né 'moderna'. Non è più medievale perché conosce ormai un soggetto istituzionale definito e centrale, il Parlamento d'Inghilterra, cui è attribuita la sovranità, e che molto più avanti finirà addirittura per proclamare quella sua 'onnipotenza' che susciterà, com'è noto, la reazione dei coloni americani. Non è nello stesso tempo moderna nel senso dell'assolutismo politico continentale, perché quel Parlamento ben difficilmente diverrà sovrano nel senso della 'persona morale' di Hobbes e di Rousseau. Quell'astrazione razionalista era impedita dal fatto che in Inghilterra il Parlamento era concretamente composto da 'tre rami' - king, lords e commons - che rappresentavano altrettante definite componenti del Commonwealth, del corpo politico del regno. Quest'ultimo non si eclissava nella persona morale del sovrano, ma al contrario viveva attraverso la sua rappresentazione in Parlamento, che era sovrano proprio perché rappresentava l'istituzione monarchica e accanto a questa i luoghi, gli ordini, gli interessi che concretamente esistevano nel corpo politico del regno, di cui si componeva il Commonwealth.Siamo così a un passo dalla soluzione che ricercavamo. Siamo cioè alle radici di un modello che non pone la sovranità alle origini della costituzione; al contrario, qui la sovranità è ammissibile, ed è attribuita al parlamento, a condizione che esso rappresenti la costituzione medesima, che nella tradizione inglese nient'altro è che quel complesso di principî e di regole, per lo più non scritte, che tengono unito il Commonwealth, che legittimano e disciplinano l'istituzione monarchica e le rappresentanze parlamentari.
L'ulteriore decisivo passo nell'elaborazione di questo modello è compiuto da John Locke, che inserisce all'interno della tradizione costituzionale inglese gli elementi nuovi dei diritti naturali individuali e del contratto sociale. La raffigurazione dello stato di natura in Locke è troppo nota per dover essere descritta. In sintesi, la differenza più evidente con Hobbes consiste nel fatto che Locke ritiene gli individui già nello stato di natura capaci di riconoscersi reciprocamente life, liberty e property, di creare una civil society, cosicché l'istituzione del sovrano assume il significato del perfezionamento, in termini di maggiori garanzie, dei diritti già esistenti.
Di tutta questa costruzione acquista qui particolare rilievo il fatto che in questo modo Locke contraddice implicitamente il concetto moderno di sovranità da cui siamo partiti, e finisce quindi per fornire una diversa versione della modernità politica e costituzionale. È una modernità meno radicale di quella di Hobbes e di Rousseau, che muove dall'interno della tradizione inglese del corpo politico del regno e della sovranità del parlamento. E infatti invano cercheremmo nelle pagine di Locke la 'sovranità' e il 'sovrano'. Vi troviamo piuttosto la qualificazione del parlamento, ancora concretamente ordinato secondo il tradizionale principio del king in parliament, come 'potere supremo'. Ma quel parlamento è 'supremo' solo nel senso che è rappresentativo della civil society che lo precede, l'ha istituito e gli ha fiduciariamente affidato la tutela dei propri diritti.
Locke beneficia qui della ininterrotta tradizione inglese del corpo politico del regno e coraggiosamente la modernizza, inserendo al posto di quel corpo la società civile dei diritti naturali individuali. Certo, c'è la novità di non poco conto consistente nel fatto che ora il sovrano è volontariamente e contrattualisticamente creato dagli individui, non risulta più dalla semplice ricomposizione in parlamento della realtà storico-naturale del Commonwealth. Ma rimane il fatto che per Locke c'è una 'costituzione' che precede l'istituzione del sovrano, che dunque non può strutturalmente dirsi un suo mero atto di volontà.
Non è un caso che in Locke permanga la problematica medievale del diritto di resistenza, ovvero la possibilità di opporre la costituzione al sovrano che l'ha tradita. Una problematica che era evidentemente addirittura impensabile in Hobbes per la mancanza stessa del soggetto che potesse esercitare il diritto di resistenza, di quel 'popolo' che nella sua concezione, come sappiamo, nasceva solo con l'istituzione del sovrano. In Hobbes si poteva solo razionalmente accertare la dissoluzione dell'obbligazione politica e tornare allo stato di natura, ma resistere contro il sovrano costituito era puro atto di sedizione, di opposizione di presunte volontà 'particolari' alla 'persona morale' rappresentante il bene supremo dell'unità politica.
La rilevanza dell'opera di Locke è quindi del tutto evidente. Essa consiste nell'aver tentato la costruzione del 'progetto moderno', imperniato sui diritti naturali individuali e sul carattere artificiale dell'obbligazione politica, prescindendo da quel concetto, a sua volta sicuramente moderno, di sovranità che conduceva, come abbiamo visto, alla riduzione della costituzione a mero atto di volontà del sovrano. La soluzione di Locke ci consente quindi di porci pienamente nella dimensione del moderno senza per questo rinunciare alla possibilità di opporre la costituzione al sovrano, di resistere contro il sovrano.
Non è ora il caso di discutere sulle applicazioni della dottrina di Locke. Certo, la Costituzione federale americana è un ottimo esempio di costituzione fondata sulla sovranità del popolo, ma al suo interno nessun potere può dirsi il potere per eccellenza, rappresentante e impersonante il sovrano. È una costituzione bilanciata, che si oppone logicamente e storicamente alle costituzioni monistiche della Rivoluzione francese, che si sviluppa processualmente attraverso un sistema di pesi e di contrappesi, che considera tutti i poteri come integralmente costituiti, e dunque in sé intrinsecamente limitati.
Tutto ciò vale inevitabilmente anche in rapporto al potere costituente, sul versante che sopra abbiamo definito 'radicale' con riferimento alle costituzioni della Rivoluzione francese. I costituenti americani conobbero ovviamente la dimensione del potere costituente, che servì loro a proclamare l'indipendenza e a fondare una repubblica, una forma politica autenticamente nuova. Ma una volta compiuta l'opera, prevalse nettamente in loro l'esigenza di stabilizzare la costituzione ammettendo la sua più ampia riforma, attraverso la tecnica dell'emendamento, mantenendo però sempre fermo il confine tra riforma e incessante riproposizione del sovrano potere costituente.
Alla fine, nel modello inaugurato da Locke e proseguito nell'esperienza costituzionale americana, la sovranità finisce per perdere quasi del tutto quei connotati di tipo soggettivo e potestativo che aveva nella dottrina della persona morale di Hobbes e di Rousseau. La sovranità non è più riferita a un soggetto, al popolo sovrano con il suo potere costituente o a un potere costituito che la rappresenta, ma a un sistema di poteri tenuti in equilibrio dalla costituzione. La sovranità non è pensabile senza questa costituzione, che è ora una sua condizione di esistenza e non più semplice disciplina del suo esercizio. La sovranità non è più il punto assoluto d'inizio della costituzione, ma il risultato dell'esistenza di una costituzione positiva e della sua comune e corrente applicazione.
A rigore, si potrebbe dire che non c'è più 'sovranità', ma solo esercizio di poteri sovrani che sono tali in quanto autorizzati dalla costituzione. Più prudentemente si potrebbe anche dire che il modello ora esaminato ci mostra il rovescio della nostra medaglia: non più la costituzione come prodotto di un atto sovrano, ma anche l'opposto, la sovranità come prodotto e risultato dell'operare concreto della norma costituzionale.Come ben si vede, il rapporto tra sovranità e costituzione in età moderna è certamente complesso e problematico. A una concezione che non ritiene neppure pensabile la costituzione senza un originario e assoluto atto di sovranità se ne affianca un'altra che, all'opposto, ritiene pensabile la sovranità solo sulla base di una costituzione data, capace in senso positivo di disciplinare i poteri. Da una parte, la costituzione ha bisogno della sovranità per prodursi, dall'altra la sovranità ha bisogno della costituzione per realizzarsi. Lungo questa linea si svilupperà l'esperienza costituzionale degli ultimi due secoli.
Non è certo possibile in questa sede esaminare in dettaglio come si è andata evolvendo la problematica della sovranità nel corso degli ultimi due secoli, nel tempo storico delle costituzioni liberali e democratiche. Si può solo dire che nel corso di questi due secoli al tentativo, per altro continuamente ricorrente, di riproporre la tradizione moderna sembra opporsi una tendenza di fondo che quella tradizione ineluttabilmente corrode, tende a dissolvere.
Il primo aspetto a cadere è certamente quello radicale, affermatosi con la Rivoluzione, della inesauribilità del potere costituente. Con la sola eccezione di Carl Schmitt, nessuno riproporrà più quella dottrina alla base delle costituzioni di volta in volta vigenti. La cultura politica del XIX secolo rifiuta decisamente quell'immagine così aggressiva della sovranità, del resto incompatibile con le soluzioni costituzionali del tempo, che volutamente lasciavano impregiudicata la questione della sovranità e ricercavano piuttosto ragionevoli e prudenti punti di equilibrio tra monarca e rappresentanze parlamentari. Ma anche le costituzioni democratiche dell'ultimo dopoguerra, per quanto esplicitamente fondate sulla sovranità del popolo, sono ben attente, come meglio si vedrà più avanti, a evitare la soluzione radicale della sovranità del popolo sulla costituzione.
Più complesso è il rapporto con la tradizione sul versante della personificazione della sovranità attraverso il potere legislativo, il sovrano potere di fare la legge. Qui il legame con la tradizione rimane indubbiamente forte, anche se l'atto legislativo viene nel corso del XIX secolo largamente depoliticizzato, liberato dall'immagine rivoluzionaria dell'atto abrogativo di privilegi, costitutivo di quella società di liberi e uguali che la Rivoluzione aveva promesso. Per quanto ridotto ora a organo dello Stato, il legislatore conserva però in sé il carattere originario della sovranità, e il diritto da lui posto in essere, la legge, ora conserva, nella sua qualità di diritto positivo statale, una forza particolare cui ben difficilmente può essere opposta una qualche forma di resistenza. Per questo motivo, nel corso dell'intera età liberale non sarà pensabile alcun giudizio sulle leggi, alcun sindacato di costituzionalità. E anche le costituzioni democratiche dell'ultimo dopoguerra certamente presuppongono questo medesimo Stato legislativo, lo Stato-persona con i suoi organi e il suo diritto positivo, anche se introducono elementi del tutto nuovi, come le norme di principio in materia di diritti fondamentali, che uniti alla più recente espansione del sindacato di costituzionalità finiranno, come vedremo tra poco, per risultare decisivi nel processo di corrosione e di superamento del tradizionale concetto moderno di sovranità.
D'altra parte, quel modello angloamericano di cui già abbiamo trattato non riuscirà mai compiutamente a mettere radici nell'Europa continentale. La stessa dinamica tra re e rappresentanze parlamentari nelle costituzioni liberali del XIX secolo manterrà tutto sommato il carattere di competizione, per quanto sospesa e parzialmente pacificata, per la sovranità, e stenterà assai a comporsi in modo stabile secondo il principio britannico del king in parliament. Più in generale stenterà a farsi largo la concezione, inaugurata da Locke, della costituzione come contratto, stipulato tra gli individui e tra gli interessi di cui concretamente la società si compone.
Contro questa concezione rimarrà fermo il dato che forse più in profondità caratterizza la cultura costituzionale europeo-continentale da Hobbes in poi: quello della diffidenza verso gli 'interessi particolari', che in questa concezione acquisiscono unità e forma politica solo negandosi, e non certo mediandosi in senso orizzontale, compositivo. Anche nella dottrina europeo-continentale dello Stato di diritto la sovranità della nazione è in realtà la sovranità di un soggetto assunto come pacificato e omogeneo, privo di particolarità disgreganti e della dimensione stessa del conflitto, e per ciò stesso pronto a riconoscersi nello Stato sovrano, nel diritto positivo dello Stato-persona. Anche nel positivismo giuridico del XIX secolo, come già in Hobbes, gli stessi diritti individuali, garantiti per legge, sono ciò che il sovrano, ora identificato nello Stato di diritto, restituisce agli individui dopo che di questi è stato negato il lato più 'particolare', più irriducibile all'intero, alla logica della nazione sovrana. Le costituzioni democratiche dell'ultimo dopoguerra assumono di fronte a tutto questo un atteggiamento ambivalente. Da una parte esse si propongono come espressione di un vero e proprio patto sociale, sancito soprattutto da alcune grandi norme di principio in materia di diritti fondamentali, ma dall'altra furono intese dai loro autori ancora largamente come norme di organizzazione dello Stato-persona, che presupponevano quindi, in linea con la tradizione, la personificazione della sovranità, e con essa un'unità data, che non era affatto quella risultante dal patto sociale, per sua natura prescrittivamente proiettata nel futuro. E infatti quasi nulla fu l'influenza su quelle costituzioni della dottrina di Hans Kelsen - che di quella personificazione era stato il più deciso avversario - e in genere di quel modo di concepire la costituzione che in essa vedeva semplicemente l'atto fondamentale regolativo di una serie di funzioni e di poteri costituiti, sovrani solo nei limiti dell'autorizzazione costituzionale, dell'attribuzione primaria di competenza. Oggi le cose sembrano essere ancora mutate. Da una parte è cresciuto a dismisura il lato pattizio-pluralistico della costituzione, concepita sempre meno come sistema univoco di valori da realizzare e sempre più come insieme di principî da tenere in equilibrio essenzialmente attraverso l'opera della giurisprudenza. E d'altra parte, lungo una linea parallela, è andato continuamente decrescendo il valore costituzionale dello Stato-persona, per il concorrere di molteplici fattori: la crisi notissima e ormai del tutto evidente degli Stati nazionali; la tendenza sempre più marcata verso un policentrismo articolato in modo tale da rifiutare, per sua natura, forme forti, e personificate, di espressione e rappresentazione dell'unità politica; e non da ultimo un deciso e macroscopico accentuarsi della crisi della legge, in cui sembra non essere più contenuta alcuna deliberazione sovrana, e che quindi potrebbe essere ora intesa semplicemente come una forma specifica di mediazione tra gli interessi sociali e politici.
Può darsi allora che si sia davvero giunti all'ultima stazione, al termine di un'esperienza costituzionale che in varie forme e modi ha comunque dovuto tener conto del concetto moderno di sovranità. Quella sovranità è stata infatti forte ed efficace fin quando ha trovato il modo di personificarsi: nel sovrano di Hobbes, nella volontà generale di Rousseau, del popolo o del legislatore, nello Stato-persona degli ultimi due secoli. Ma cosa dire di un regime costituzionale che non avverte più questa esigenza? Che sembra affidarsi quasi per intero alla dimensione processuale, per sua natura non personificata, dell'equilibrio da conseguire di volta in volta, per opera della giurisprudenza, tra una pluralità di principî e di valori?
Credo che a queste domande si debbano dare risposte prudenti e articolate. Prima di liquidare per intero il concetto stesso di sovranità bisogna per lo meno ricordare come tra i diritti fondamentali garantiti dalle nostre costituzioni vi siano anche quelli politici, connessi al principio di sovranità popolare. Quelle costituzioni non hanno infatti in nessun modo voluto giuridificare l'intera dinamica pubblica, e hanno anzi mantenuto in essa uno spazio rilevante e vitale per la politica, a favore della libera determinazione dell'indirizzo politico.
Come dimostrano anche le più recenti vicende delle democrazie contemporanee, senza questo spazio, e dunque senza un ruolo forte e autonomo del legislatore, della funzione di governo, degli istituti della democrazia politica, le costituzioni tendono a deperire. Entro questo spazio non coperto e trascurato da una costituzione che tende a esaurirsi nella funzione di garanzia, che si affida quasi per intero per la definizione dei diritti alla funzione giurisdizionale, è contenuto il residuo, ancora vitale ed essenziale, della nostra vicenda della sovranità.
Certo, le grandi personificazioni del passato sono alle nostre spalle: il sovrano, il popolo, il legislatore, lo Stato come persona. Ma la dissoluzione di queste potenti e fin qui decisive forme consegna alle democrazie di oggi due problematiche da riscrivere, e non una sola: non solo la garanzia dei diritti attraverso la costituzione e la funzione giurisdizionale, ma anche la ricostruzione della sfera della politica, dell'attività che conduce alla libera decisione dei cittadini sull'indirizzo politico, secondo le regole della costituzione.
Questa decisione non assumerà più i caratteri della tradizione moderna perché non sarà più riferibile ad alcuna persona sovrana, né ad alcun potere sovrano, come tale capace di riassumere in sé l'intera collettività. Ma nella forma diversa dell'espressione dei principî costituzionali che regolano la democrazia politica, quella decisione non sarà eludibile. In questo senso specifico, storicamente adeguato al nostro tempo, è possibile affermare che la costituzione ha ancora bisogno del popolo sovrano. (V. anche Costituzionalismo; Costituzioni; Governo; Governo, forme di; Potere; Sistema politico; Sistemi politici comparati; Stato).
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