STATO
di Gianfranco Poggi
La trattazione che segue presuppone una risposta che si presume corretta, ma non è incontrovertibile, alla domanda se considerare come equivalenti le espressioni 'Stato' e 'Stato moderno'. La risposta qui presupposta è positiva: quando si voglia attribuire al termine 'Stato' un significato per così dire denso, è preferibile servirsene solo entro l'ambito storico - peraltro assai vasto e diversificato - dell'era moderna. La formazione dello Stato e le sue vicende istituzionali costituiscono un aspetto altrettanto centrale di quell'era, nella sfera politica, quanto lo sono il capitalismo e l'industrialismo nella sfera economica.Una ragione tra le altre per trattare 'Stato' e 'Stato moderno' come sinonimi è che solo a partire dal XIV secolo il termine 'Stato' e quelli equivalenti in altre lingue europee vengono a designare qualcosa di riconoscibilmente simile a ciò che si intende attualmente con esso (v. Maravall, 1972). Solo molto più tardi si comincia a parlare di Stato per riferirsi a forme premoderne di dominio politico, come ad esempio lo 'Stato romano' o lo 'Stato feudale'. Valga, in materia, la critica di N. Matteucci (v., 1984, pp. 93-94): "Lo Stato si differenzia dalla Res publica romana, il cui governo era costituito da una molteplicità di magistrature collegiali con compiti specifici, limitate nel tempo, gratuite e responsabili, con garanzie per il cittadino offerte dalla provocatio ad populum. [...] Lo Stato moderno si differenzia pure dal sistema feudale [...] nel quale abbiamo, da un lato, un complicato intreccio dei diritti di sovranità dei diversi signori nei vari paesi, per cui manca l'unità territoriale dello Stato, e, dall'altro, un potere parcellizzato e diffuso nella società, o meglio, molti centri di potere ordinati gerarchicamente [...]; questi rapporti di potere erano personali e privati, basati su un rapporto sinallagmatico".L'estensione indebita del concetto di Stato a forme di ordinamento politico diversamente concepite e realizzate è un effetto paradossale proprio della singolarità storica dello Stato moderno: le sue strutture appaiono come paradigmatiche, nel senso che più esplicitamente ed efficacemente di tutte le altre rappresentano e realizzano l'esperienza politica organizzata.
Ad esempio Engels, nel titolo di un'opera famosa, fa dello Stato, come della proprietà e della famiglia, una componente istituzionale di ogni società storica (v. Engels, 1884).In ogni caso, nella trattazione che segue - e che si conforma all'opinione attualmente prevalente tra gli studiosi - l'orizzonte storico di riferimento è, ripetiamolo, l'era moderna. Questo riferimento tuttavia si può giustificare solo in vista del quadro concettuale entro il quale si colloca la trattazione, che si rifà precipuamente all'insegnamento di Max Weber (v., 1922). Questi, come peraltro altri studiosi, elabora un'intuizione semplicissima, che si può formulare come segue: lo Stato non è una cosa, per quanto complessa, un ente a sé stante, ma è una realtà istituzionale. Vale a dire: si dà Stato se e in quanto gli individui, nell'esercitare determinate attività - quelle di natura politica, che li coinvolgano come protagonisti o esecutori di certe decisioni ovvero come puri oggetti o vittime di esse -, si fanno effettivamente vincolare e orientare da certi principî, da certe aspettative. Per due ragioni, dunque, lo Stato (come ogni altra istituzione) è una realtà contingente: in primo luogo esso dipende dal fatto che in un determinato contesto il compito di orientare e controllare determinate pratiche sociali venga assegnato a certi principî e regole; in secondo luogo, dal fatto che a loro volta le pratiche, per così dire, si lascino effettivamente controllare dai principî e dalle regole in questione.Il presente articolo concerne prevalentemente il primo livello: ossia, presenta schematicamente alcuni sviluppi storici che nell'Occidente moderno hanno elaborato e imposto principî e regole relativi alla sfera sociale normalmente intesa come politica. Questi principî e regole verranno esposti in modo da metterne in risalto la peculiarità, lasciando in ombra le varianti in cui essi si manifestano da luogo a luogo - ad esempio la molteplicità dei regimi politici.
Come già accennato, lo Stato è una particolare forma di un fenomeno più vasto, il dominio politico. A sua volta, questo si dà quando un gruppo sociale, valendosi della propria superiore capacità di esercitare la violenza organizzata, esercita in maniera relativamente stabile un controllo potenzialmente coercitivo su altri gruppi, vietando e impedendo pratiche in contrasto coi propri interessi ed esigendo e dirigendone altre conformi a tali interessi.L'asimmetria tra chi esercita il dominio e chi è soggetto a esso ha il suo momento basilare, concettualmente costitutivo, nel rapporto comando/obbedienza. Quest'ultima può essere variamente motivata, ma il rapporto tende a farsi più stabile e riesce ad avviare e impostare attività più durevoli, impegnative e diverse, quando tra le motivazioni a obbedire venga a inserirsi anche un senso di obbligazione, di doverosità morale, il riconoscimento da parte di chi è soggetto al comando che esso non è arbitrario, la superiorità di chi lo esercita non è usurpata, gli interessi a cui il comando è orientato non sono esclusivamente quelli di chi comanda e in contrasto con quelli di coloro a cui viene chiesto di obbedire. Ma per significative che siano queste componenti motivazionali dell'obbedienza, resta costitutivo del comando il fatto che alla fin fine questo trovi la propria sanzione, la garanzia ultima della propria efficacia, nell'esercizio o nella minaccia della violenza.
Il nucleo formale del dominio, il rapporto comando/obbedienza, ha quindi, per così dire, una doppia anima. Da un lato si tratta di un fatto comunicativo, di un fenomeno squisitamente intersoggettivo, che presuppone e attiva, all'un estremo come all'altro, un'identica capacità di codificare e decodificare messaggi linguistici, per quanto rozzi e sommari, e si presta a complesse elaborazioni simboliche e discorsive che lo giustificano, lo qualificano, e in un certo senso lo limitano. Dall'altro, il rapporto comando/obbedienza trova una propria specificità nell'asimmetria che permette a una parte di costringere l'altra a piegarsi al proprio volere, in quanto è in grado di metterne a repentaglio l'incolumità e la sopravvivenza. Questo 'nocciolo duro' del dominio politico rimane un suo aspetto fondante anche quando esso subisce una elaborazione istituzionale prolungata e complessa come quella che, come vedremo, lo configura come 'Stato'.
La vulnerabilità all'altrui violenza è un attributo universale degli esseri umani in quanto esseri corporei e quindi senzienti e mortali, e l'emozione fondamentale che ne risulta - la paura - è altrettanto universale (v. Popitz, 1986). Per questo motivo, come si è detto, la sanzione può consistere non tanto nell'esercizio della violenza quanto nella minaccia di tale esercizio, o addirittura può consistere nella consapevolezza, da parte di chi potrebbe esserne vittima, della probabilità che la violenza sia esercitata, anche se non è espressamente minacciata. In ogni caso la minaccia o l'esercizio della violenza su altri è un modo universale di sanzionare il proprio volere e di imporlo o di farlo rispettare ad altri; la portata di questa forma di controllo sociale può essere accresciuta da tecniche materiali (armamenti, strumenti di coazione) e tecniche sociali della violenza (addestramento all'uso individuale o collettivo delle tecniche materiali) che possono essere acquisite e gestite da gruppi.
Non sempre e dappertutto questa possibilità ha prodotto, entro una compagine sociale, una stabile e consistente spaccatura tra coloro che se ne valgono e coloro che ne sono esclusi e subiscono l'altrui violenza o al più cercano di sottrarsi a essa. È possibile che la distribuzione delle risorse coercitive abbia, per così dire, un profilo piatto, cioè che le tecniche della violenza e le relative risorse siano relativamente poco sviluppate, e quindi si trovino a disposizione di molteplici gruppi, che le usano gli uni contro gli altri raramente o in maniera fortemente ritualizzata e limitata, e occasionalmente le mettono in comune e le gestiscono collettivamente in vista di scopi condivisi. Secondo un'opinione autorevole (v. Clastres, 1974), questo vale per numerose società cosiddette primitive, che di conseguenza non conoscerebbero il dominio politico (come non conoscerebbero la divisione di classe, che risulta invece dall'appropriazione di risorse produttive e dalla loro sottrazione all'accesso e all'uso da parte di certi gruppi). Peraltro, in altre situazioni - probabilmente tutte quelle a cui non si potrebbe applicare la qualifica di 'primitive' - le risorse coercitive tendono a essere relativamente assai sviluppate, e la loro distribuzione acquista un profilo netto, che distingue chiaramente coloro che le accumulano e gestiscono, direttamente o indirettamente, e attribuisce a essi una posizione di sicuro vantaggio, anche per quanto riguarda la distribuzione di altre risorse e dei relativi prodotti dell'attività sociale.
Non è detto però che la distribuzione delle risorse coercitive sia piramidale, nel senso di avere un solo vertice, che rappresenta il massimo della concentrazione delle risorse coercitive e/o nel senso che chiunque altro le possegga lo fa in nome e per conto di quel vertice invece che a proprio titolo. È pensabile che la distribuzione di quelle risorse abbia cessato di essere fortemente decentrata e sia diventata policentrica. Vale a dire: entro un determinato ambito societario vari centri - comunque più di uno - possono disporre autonomamente di cospicui accumuli di quelle risorse, e questi centri si fronteggiano e competono per accrescere la propria disponibilità di esse e per controllare ciascuno a proprio vantaggio le attività di chi invece ne manca. Una situazione come questa tende a un massimo di volatilità, di frequenza del ricorso alla minaccia o all'esercizio della violenza stessa, e quindi di insicurezza delle situazioni di fatto.
Questa immagine di una situazione dove il dominio esiste ma è policentrico raffigura - in maniera naturalmente sommaria e schematica - quella condizione storica di alcune parti dell'Europa tardomedievale che, malgrado le obiezioni di alcuni studiosi, è utile definire come feudale e considerare come una sorta di 'grado zero' dello Stato.La costruzione statale, in una situazione di questo tipo, si approssima a un modello molto diverso, in cui, entro l'intera compagine sociale, il dominio viene esercitato da un solo centro, che monopolizza le risorse materiali e istituzionali relative alla violenza organizzata, e vieta alle altre componenti sociali di servirsene per proprio conto e per propria iniziativa, pur mettendola a disposizione dei loro interessi, se e in quanto ritenuti meritevoli della propria tutela. Quali che siano le altre asimmetrie di risorse e di capacità d'azione che differenziano la società, in linea di principio la sola asimmetria espressamente politica, fondata sulla violenza organizzata e da essa garantita, è quella - potenzialmente enorme - che fa capo da un lato a un solo individuo o gruppo titolare del dominio e dall'altro al resto della società. Solo una variante del modello, e non il modello stesso, richiede che il 'resto della società' sia un pulviscolo di individui atomizzati, una superficie piatta su cui si svolgono solo giochi di scambio che non danno luogo a consistenti e persistenti ineguaglianze e alla formazione di raggruppamenti durevoli e significativi. Lo Stato storicamente dato, così come si forma nell'Europa occidentale, non si conforma a tale variante. Il monopolio della violenza legittima organizzata - per servirsi della famosa formulazione weberiana - è (secondo lo stesso Weber) un aspetto necessario ma non sufficiente della categoria concettuale 'Stato' o 'Stato moderno', che comprende anche altri aspetti. Per chiarire questa concezione è utile tentare, invece che un 'discorso sui modelli', una ricostruzione per quanto schematica dello sviluppo storico dello Stato nel contesto dell'Europa occidentale. In questa vicenda si possono distinguere tre grandi fasi, che si susseguono con tempi diversi in situazioni diverse e talora si accavallano. Ciascuna fase, inoltre, lascia il proprio legato istituzionale alla successiva.
In questa prima fase alcuni centri di potere politico ampliano progressivamente la portata geografica del loro effettivo controllo su un determinato territorio, affermando la propria superiorità su altri centri che inizialmente contestavano quel controllo, riducendo o eliminando la loro capacità di intraprendere iniziative politico-militari autonome, di garantire l'ordine e tutelare il diritto, di ricavare risorse economiche dalle popolazioni locali.
In questo processo la risorsa fondamentale messa in gioco da ciascuno dei centri di potere in conflitto è di carattere militare, e i momenti salienti del processo sono spesso rappresentati dall'esito dello scontro armato tra contendenti. In alcune parti del continente, e particolarmente in Francia, la riduzione delle fortificazioni erette dai signori locali, tramite assedio da parte dell'esercito regio, e la loro successiva distruzione segnalano drammaticamente da un anno all'altro (o con frequenze minori) l'avanzare di quel processo, e indicano fino a che punto esso dipenda, alla fin fine, dalla capacità di un centro di dominio di sopraffare gli altri. Insomma, come si è efficacemente detto, "gli Stati fanno la guerra - e viceversa" (v. Tilly, 1990).
Ma il processo in questione, accanto a questo aspetto puramente fattuale (che ha importanti addentellati economico/finanziari, poiché c'est l'argent qui fait la guerre), ha anche presupposti, componenti ed esiti di carattere invece culturale e istituzionale. Ad esempio, la memoria per quanto remota dell'esperienza imperiale romana ispira molti tentativi di costruire assetti politici più ampi e durevoli di quelli sopravvissuti alle grandi migrazioni, allo sfaldamento dell'Impero carolingio, alla fase acuta della cosiddetta 'anarchia feudale'. Il possesso del titolo di re è una risorsa di prim'ordine, ad esempio per le dinastie che successivamente controllano i territori dell'Ile-de-France e se ne servono come base logistica ed economica per allargare il proprio dominio politico. Per giustificare la loro pretesa di rafforzare le proprie capacità militari i signori territoriali si trovano spesso costretti a impegnarsi a istituire e mantenere 'paci' durevoli su territori relativamente vasti a vantaggio delle popolazioni che vi sono insediate, oltre che a tenere a bada la minaccia d'invasione da parte di popolazioni allogene. I signori territoriali spesso pattuiscono questi impegni con gruppi o corpi collettivi di cui fanno parte i meliores terrae, i quali talora si incaricano anche della tutela degli interessi dei gruppi subalterni, e gli impegni in questione ricevono forma solenne e talora sacrale. La "lotta intorno al diritto", per usare l'espressione di Jhering, costituisce una posta significativa, spesso espressamente tematizzata, dell'intero processo di consolidamento territoriale (v. Jhering, 1872).
Questa prima fase dello sviluppo dello Stato moderno è in buona misura un processo di accorpamento territoriale forzoso, manu militari, che salda insieme dal punto di vista politico certe porzioni dell'Europa ad altre contigue, ricomprendendole entro confini comuni. A questo processo se ne accompagna uno di elaborazione istituzionale: pratiche di governo inizialmente di portata assai ristretta vengono estese in maniera relativamente uniforme a regioni che, in precedenza, conoscevano una molteplicità di giurisdizioni, di assetti amministrativi a base strettamente locale. L'idea stessa di confine come demarcazione precisa, lineare, tra due spazi contigui ma fortemente differenziati, ciascuno sede di un ordinamento diverso, è un'idea moderna, che lentamente si afferma in contrapposizione con l'idea di frontiera o di marca - una zona vagamente delimitata in cui ha luogo una sorta di transizione da una giurisdizione all'altra - e presuppone saperi tecnici sofisticati relativi alla rilevazione, misurazione e rappresentazione del terreno. Anche se la guerra è il meccanismo principale del processo di consolidamento territoriale, un suo effetto a lungo termine è di ridurre l'incidenza del fenomeno più ampio e generico della violenza armata. In un territorio dove precedentemente diversi centri di potere 'si facevano la guerra', la vittoria di uno di quei centri ha posto fine a questa manifestazione della violenza. Poiché le parti sociali non possono più considerare il ricorso a vie di fatto come un modo legittimo di tutela dei propri interessi, il territorio viene pacificato. È difficile determinare se con ciò diminuisca il quantum di violenza organizzata a cui il corpo sociale rimane esposto, visto che nel corso dei secoli il progredire delle tecniche materiali e organizzative relative alla guerra tende ad accrescere il potenziale di violenza fatto proprio dal centro politico, che dà prova di sé in conflitti esterni assai distruttivi e mortiferi, nonché in operazioni di repressione interna molto sanguinose.
Rimane vero, con tutto ciò, che la costruzione degli Stati europei è accompagnata da un discorso multiforme, talora di notevole portata intellettuale, che ripropone assiduamente e urgentemente i temi dell'ordine, della sicurezza, della pace, della protezione dal rischio della violenza, e in cui la contemplazione di questi bona troppo spesso compromessi dall'esperienza comune ingenera un'aspirazione all'unità. Talora (come nella canzone All'Italia di Petrarca) quest'aspirazione diventa un appello ai potenti perché sospendano i loro contrasti e si accordino, ma altre volte se ne deduce la necessità di un Defensor pacis, di un centro di potere che, entro un ambito territoriale ampio, imponga a tutti l'obbedienza al proprio comando. Naturalmente, questa è una prerogativa attraente, il cui possesso diviene a sua volta oggetto di contesa, e una volta acquisito deve spesso essere difeso; essa si presta inoltre ad essere esercitata in maniera oppressiva e irresponsabile. In ciascuno di questi momenti dell'esperienza politica - l'acquisizione del potere, il suo mantenimento, il suo esercizio - il fenomeno della violenza organizzata tende a ripresentarsi, intensificando proprio quella paura e quella insicurezza a cui dovrebbe far fronte.
Il protagonista tipico della fase appena illustrata è il principe: il capo di una dinastia aristocratica, che si vale delle risorse fornitegli dai propri possedimenti fondiari per finanziare imprese militari intese non soltanto ad ampliare quei possedimenti, ma anche ad acquisire risorse e facoltà di natura pubblica, che lo diversificano da altri signori fondiari - rispetto ai quali si pone appunto come princeps - e gli attribuiscono poteri giurisdizionali e fiscali su territori più vasti. Ma nella condotta di quelle imprese e, se queste hanno successo, nella successiva gestione di quei territori, si alternano, si confondono, talora si contraddicono logiche diverse, relative rispettivamente agli interessi del casato aristocratico e a quelli del territorio. Naturalmente il principe non è solo nel progettare e condurre le sue imprese, ma vi partecipa a vario titolo personale di natura diversa. Entro questo personale l'elemento saliente è quello aristocratico: è, sostanzialmente, un 'sistema di potenti' che costruisce gli Stati. Tipicamente i personaggi che coadiuvano il principe lo fanno in base alla comune appartenenza di ceto; la loro collaborazione è in buona misura negoziata, e non si fonda su un rapporto di subordinazione e di servizio; le risorse militari e d'altro genere che i potenti impegnano nelle imprese del principe rimangono sotto il loro controllo, e la loro partecipazione a quelle imprese mira ad aggiungere facoltà e risorse di natura pubblica a quelle che appartengono loro a titolo privato. Il principe distribuisce a questi personaggi cariche e ricompense in base al loro lignaggio o a obbligazioni in cui è incorso nei loro confronti, non in base alla loro accertata competenza, e queste cariche e ricompense diventano talora parte del loro patrimonio ereditario. Col succedersi delle generazioni ciò rende sempre meno facile, per il principe e i suoi discendenti, controllare e dirigere l'esercizio di quelle cariche e commisurare le ricompense alle effettive prestazioni dei potenti. In sostanza, nella fase del loro consolidamento territoriale gli Stati sono tuttora insiemi di pratiche di governo relativamente poco standardizzate, discontinue, disarticolate, in cui logiche e risorse di carattere strettamente personale - che spesso si manifestano precipuamente nel contesto della guerra - svolgono tuttora un ruolo decisivo, come indica l'accento che Machiavelli pone sui talenti personali, l'energia, la volontà di affermazione del principe.
Questa fase pertiene non alla portata geografica del dominio, ma alla natura delle pratiche tramite le quali esso è esercitato e degli assetti che presiedono all'accumulazione e all'impiego del potere politico.
Generalmente si può parlare di 'razionalizzazione' di determinate attività sociali se e in quanto queste vengono condotte in maniera sempre più riflessa e consapevole attraverso comportamenti di scelta, cioè selezionando tra varie modalità alternative di condotta quella che ha più probabilità di conseguire il fine che ci si prefigge, col minor dispendio di risorse e per quanto possibile senza produrre effetti non desiderati. Per poterlo applicare al dominio statuale questo modo di intendere la razionalizzazione deve essere modificato, perché si addice specialmente a circostanze in cui soggetti individuali determinano la propria condotta nel breve termine, in vista di fini relativamente univoci, e con riferimento a mezzi di cui immediatamente dispongono. Nel caso dello Stato, la possibilità di concepirlo come un soggetto unitario dipende dal processo di razionalizzazione, e comunque esso opera concretamente tramite molteplici e mutevoli individui e gruppi, il cui agire rispecchia spesso concezioni diverse, o addirittura contrastanti, dei suoi fini e dei suoi mezzi. Inoltre - come risulta, secondo alcune interpretazioni, dall'etimo stesso del termine - lo 'Stato' tipicamente orienta le sue attività nel lungo periodo, si concepisce come un ente destinato a trascendere l'esistenza fisica di molte generazioni, per non dire di singoli individui ("le roi est mort, vive le roi"). Per queste e altre ragioni la razionalizzazione del dominio politico si configura in maniera peculiare rispetto al concetto generico di razionalizzazione. Tali peculiarità cominciano col modo di concepire il fine dell'agire statale, cioè una condizione futura da ottimizzare o massimizzare, il riferimento alla quale possa servire da criterio per scegliere tra linee alternative d'azione ovvero valutare retrospettivamente la validità di decisioni passate.
È possibile assegnare fini relativamente concreti a determinate parti componenti dello Stato, e orientare a questi fini scelte e valutazioni, ma lo Stato nel suo insieme non si lascia assegnare un concreto fine o insieme di fini. Tuttavia esso abbisogna di un criterio per quanto astratto di scelta e di valutazione, e abbastanza presto, nella storia dello Stato e della riflessione su di esso, questo criterio è stato caratterizzato con un'espressione famosa e controversa, in cui (si noti bene) è esplicito il riferimento alla razionalità, e quindi alla razionalizzazione - ratio Status, ragione di Stato (v. Meinecke, 1924).La ragion di Stato. - Le interpretazioni di questa espressione sono, come è noto, molteplici e contrastanti, ma è possibile caratterizzarne il significato in maniera formale. Innanzitutto lo Stato deve orientare le proprie attività a interessi di natura secolare; questi interessi sono, per così dire, interni allo Stato stesso, e hanno a che vedere, sostanzialmente, con il mantenimento della sua esistenza; tale compito, apparentemente orientato alla conservazione delle condizioni date, è in effetti di natura dinamica, in quanto per continuare a esistere lo Stato deve essere in grado di fare i conti con continue sfide, la cui portata e provenienza non sono prevedibili che nel breve termine; perciò è essenziale che lo Stato accumuli potenza, cioè si mantenga in condizione di minacciare, se necessario in uno scontro armato, l'esistenza di altri Stati.
La programmazione dei comportamenti di scelta. - Come si è già detto, la concezione generica, proposta sopra, di razionalità (e quindi, indirettamente, di razionalizzazione) dell'agire - la deliberata selezione, tra i mezzi disponibili all'attore, di quelli obiettivamente più appropriati al fine che egli persegue in determinate circostanze - deve essere re-interpretata per renderla applicabile all'esercizio del dominio politico. Qui, la razionalità/razionalizzazione deve per così dire spostarsi 'a monte' dei comportamenti di scelta dei singoli attori in circostanze determinate, e realizzarsi nella standardizzazione di quei comportamenti, nella messa a punto di modalità e criteri decisionali che valgano per una molteplicità di temi e di circostanze dell'agire, e per una molteplicità di attori. È razionale, in questo senso, che gli individui nel cui agire si concretizza l'azione politica siano scelti, preparati, motivati, controllati in un certo modo; che le risorse di cui si valgono siano accumulate e gestite in un certo modo; che valutino le circostanze alla stregua di certi criteri, comunichino gli uni con gli altri secondo certi codici simbolici. Se i modi giusti di fare tutte queste cose sono correttamente individuati e coerentemente realizzati, ci si può razionalmente attendere che 'a valle' i comportamenti concreti, l'elaborazione e l'esecuzione delle singole decisioni siano a loro volta razionali, anche se (anzi, proprio se) sono routinizzati al punto da richiedere un minimo di espressa deliberazione. In altre parole, la razionalizzazione del dominio politico si configura in buona parte attraverso la programmazione esplicita delle attività concrete dei singoli attori politici. Questo comporta la costruzione di strutture organizzative apposite entro le quali quegli attori si collocano, l'esplicita elaborazione di direttive di massima che essi devono apprendere e al cui contenuto devono conformare i loro comportamenti, l'apprestamento di risorse materiali e conoscitive alle quali possono rapidamente attingere. Queste operazioni, se debitamente condotte, permettono allo Stato di realizzare due esigenze non facilmente conciliabili: da una parte le condotte dei suoi agenti devono essere relativamente uniformi, standardizzate, prevedibili; dall'altra esse devono essere relativamente mutevoli e il loro contenuto concreto relativamente contingente e disponibile.
Le esigenze vengono conciliate tramite vari accorgimenti, tra cui la preferenza per direttive formulate in termini generali, e che quindi per definizione si prestano ad essere eseguite in maniera relativamente diversa e mutevole. Questo accorgimento è particolarmente significativo, perché si possono dare vari livelli di generalità, come suggeriscono da un lato l'immagine di una 'piramide' degli uffici, ciascuno dei quali dà particolare attuazione alle direttive dell'ufficio superiore, ma al contempo impone vincoli all'attività particolarizzante di uffici inferiori, dall'altro la nozione di una gerarchia delle fonti del diritto. Il reiterato ricorso a quell'accorgimento, dunque, permette di creare insiemi vasti e ramificati, ma nonostante questo relativamente unitari, coerentemente strutturati, di istanze, competenze e attività.
Un altro accorgimento, che talora coincide col precedente, è la preferenza per direttive di natura procedurale, che cioè standardizzano il modo in cui gli agenti dello Stato prendono (ed eseguono) delle decisioni piuttosto che il loro contenuto specifico. (Si noti di passaggio che le esigenze da conciliare attraverso questi e altri accorgimenti - l'agire dello Stato deve essere da un lato altamente prevedibile, dall'altro altamente contingente - corrispondono a caratteristiche e requisiti della società e della cultura moderne. Anche il denaro, nel sistema capitalistico, deve essere saldamente nelle mani dell'imprenditore, e conservare il proprio valore, per poter subire un continuo processo di valorizzazione tramite innumerevoli atti di scambio. Anche chi pratica le arti deve da un lato dimostrare di padroneggiare le tecniche e i principî di un determinato medium, dall'altro sfidarne i limiti tramite l'innovazione espressiva. Più in generale, è anche per far fronte ai nuovi bisogni e utilizzare le nuove risorse di una società sempre più complessa e mutevole, che lo Stato deve essere in grado da un lato di garantire la sicurezza degli individui, dall'altro di intervenire autorevolmente nella condotta degli affari sociali. Inoltre, come si è accennato, il suo modo di organizzarsi, tramite la sistematica specificazione di competenze, può esser visto come l'applicazione alla sfera politica della divisione del lavoro, che sta massicciamente affermandosi anche nella sfera della produzione e in quella della scienza).
Un altro modo di caratterizzare il processo di razionalizzazione che lo Stato territoriale intraprende nel corso della propria espansione o a coronamento di questa, mette in risalto il collegamento tra le sue attività (o comunque alcune di queste) e nuovi o meno nuovi saperi secolari. Il fenomeno più vistoso, e più esplicitamente teorizzato, è costituito dal rapporto che viene a stabilirsi tra Stato e sapere giuridico. Si è detto che, mentre sono universali due funzioni sociali del diritto - la distribuzione tra individui e tra gruppi del controllo proprietario sui beni materiali e la repressione dei comportamenti antisociali -, è esclusiva dell'Occidente una sua terza funzione, quella di istituire le istanze che possiedono il potere politico e hanno facoltà di orientarne la gestione (v. Tarello, 1988). Questa particolarità, già presente nella Grecia classica e in maniera maggiormente elaborata nella Roma repubblicana e imperiale, si afferma sempre più consapevolmente nelle repubbliche tardo-medievali e successivamente in alcuni Stati dell'Europa continentale. Abbiamo già suggerito che la 'lotta intorno al diritto' costituisce un significativo aspetto normativo della fase del consolidamento territoriale; in quella successiva il riferimento al diritto, la reinterpretazione di antichi istituti e principî giuridici e la messa a punto di nuovi, vengono a svolgere una funzione particolarmente importante nella pratica statale, sia nei suoi aspetti interni che per quanto concerne i rapporti tra gli Stati.
L'innovazione normativa (non sempre riconosciuta come tale) serve, in particolare, per organizzare gli insiemi di personale, di risorse materiali e di facoltà in cui viene articolandosi lo Stato; l'interpretazione delle norme si presenta come un modo fondamentale di orientarne e controllarne l'operazione; i rapporti tra lo Stato e gli individui (prima in quanto sudditi, poi in quanto cittadini) vengono concepiti come rapporti giuridici, come insiemi variamente configurati di aspettative reciproche coattivamente sanzionate. Talora il modello principale a cui si ispira la struttura degli organi statali, quali che ne siano le competenze, è costituito dal collegio giudicante; il rapporto tra legge e sentenza appare come l'esempio più cospicuo di quel rapporto tra direttiva generale e applicazione particolare che, come si è visto, serve a rendere l'azione statuale sia prevedibile che contingente. Nel Settecento una costituzione, cioè un documento giuridico, è considerato come lo strumento per eccellenza per istituire, organizzare, legittimare lo Stato stesso e per regolarne l'azione (v. Matteucci, 1976); ma già in precedenza s'era visto nel contratto - anch'esso un fenomeno giuridico - lo strumento chiave del passaggio degli esseri umani dallo stato di natura a quello civile e/o politico.
Tanta è la presa che il diritto - come modalità e criterio dell'interazione sociale, ma anche come forma di sapere e di discorso culto, intellettualmente avanzato e culturalmente prestigioso - ha esercitato sull'immaginazione sociale e politica dell'Occidente; e questo si manifesta anche nel ruolo che il diritto ha svolto come strumento della razionalizzazione dell'azione statuale, specialmente nei paesi latini (ma in Italia, Spagna, e Portogallo più che in Francia) e in quelli di lingua tedesca, dove tuttora le modalità di reclutamento e formazione del personale amministrativo e (in misura minore) della classe politica privilegiano il sapere giuridico. Specie nel Settecento e nell'Ottocento, il discorso sul diritto - e sui diritti - diventa una componente fondamentale del discorso sulla politica e sullo Stato; la teorizzazione di quest'ultimo, in particolare, coincide in buona parte con la formazione e lo sviluppo del diritto pubblico come disciplina giuridica autonoma, e in vari paesi la riflessione sociologica e la scienza politica tardano ad appropriarsene.
Oltre che valersi di un sapere secolare ma spiccatamente normativo come quello giuridico, lo Stato ha anche, per così dire, manifestato curiosità per molti aspetti del proprio territorio, della popolazione insediata su di esso, e delle relative attività produttive - una curiosità interessata, s'intende, visto che quegli aspetti incidono sulla capacità militare dello Stato stesso e sulle sue risorse fiscali.
Basti ricordare l'etimo della parola 'statistica', o la pratica dei censimenti, o le ricorrenti inchieste promosse dai governi su questo o quel fenomeno sociale, dall'alfabetizzazione al pauperismo. Il richiamo ai saperi secolari come elementi orientanti dell'azione statuale ha un importante addentellato. Se e in quanto si richiede che chi occupa posizioni politico-amministrative sia in possesso di un sapere accademico - non di carattere tradizionale e sapienziale, ma veicolato da un discorso intellettualmente rigoroso - che si presta a essere espressamente insegnato, appreso e fatto oggetto d'esami, viene meno la presunzione che il lignaggio, l'appartenenza a ceti dotati d'alto rango sociale, qualifichi automaticamente gli individui anche per quelle posizioni. Tali posizioni offrono invece agli appartenenti ai ceti medi occasioni di affermazione sociale - purché, s'intende, si muniscano di appropriati titoli di studio, superino esami, ecc. Anche per quanto riguarda le posizioni di élite propriamente politiche - i corpi legislativi, i consigli che direttamente assistono il sovrano, le cariche ministeriali - a lungo andare i meccanismi liberali e poi democratici della rappresentanza, e soprattutto la formazione dei partiti organizzati, hanno messo fuori gioco i discendenti delle antiche casate aristocratiche.
La razionalizzazione del dominio si effettua anche in un ulteriore modo, cioè concentrando nello Stato stesso e nelle sue varie articolazioni organizzative i poteri di disporre delle risorse materiali e istituzionali relative all'esercizio delle funzioni politiche e amministrative. Non è più né necessario né sufficiente che chi esercita tali funzioni sia in grado di provvedere 'del proprio' alle relative spese, valendosi del suo patrimonio, impegnando e talora rischiando le sue risorse, e quindi legittimamente cercando in primo luogo di custodirle e di accrescerle. È il sistema di uffici a cui quelle funzioni sono progressivamente demandate a possedere le relative risorse, non gli individui che di volta a volta occupano quegli uffici e che sono tenuti a un redde rationem periodico in merito alla gestione di quelle risorse.
Lo Stato fiscale. - L'acquisizione stessa delle risorse che lo Stato impegna nelle proprie operazioni si è svincolata progressivamente dal suo rapporto sia con il patrimonio dinastico del principe sia con l'ordinamento cetuale, ed è venuta a dipendere sempre meno da forme temporanee e relativamente casuali di approvvigionamento, come i proventi di avventure belliche, le corvées, o i prestiti ottenuti da banchieri e finanzieri. Dopo una fase intermedia, in cui svolgono un ruolo importante la vendita di cariche e l'appalto delle imposte da una parte, e dall'altra la gestione monopolistica da parte dello Stato di funzioni produttive e distributive particolarmente redditizie, il problema dell'approvvigionamento economico-finanziario dello Stato trova sempre più una soluzione 'estrattiva' nel senso stretto del termine: lo Stato, cioè, esegue prelievi monetari forzosi più o meno frequenti, più o meno pesanti, ma regolari e (relativamente) prevedibili sugli stocks di risorse in mano a soggetti privati o sui flussi di risorse cui danno luogo i loro traffici. Questa soluzione si impone per due principali ragioni. Innanzitutto altre fonti e modalità di finanziamento non bastano più a coprire durevolmente bisogni sempre crescenti: i costi militari si sono ingigantiti, lo Stato si sta impegnando in altre attività e, come si è visto, non può o non intende più affidarle ai ceti tradizionali, ma preferisce affidarle a individui qualificati precipuamente dal loro sapere, e il costo dei loro servizi dev'essere sostenuto da fondi pubblici. In secondo luogo, un approvvigionamento che si basa sempre più sui proventi monetari di imposte e tasse (occasionalmente complementati, in via provvisoria, dal ricorso al debito pubblico) è l'unico compatibile con le esigenze di calcolabilità delle risorse economiche private e di redditività del loro impiego rese necessarie dalla commercializzazione, e successivamente dall'industrializzazione, delle economie nazionali.
Questi e altri aspetti della razionalizzazione del dominio politico intrapresa (con tempi, modalità e successo diversi) dagli Stati europei, si assommano in un fondamentale mutamento, che può essere sintetizzato come segue: prima della razionalizzazione l'esecuzione concreta della maggior parte delle attività statali spettava a individui e a corpi che avevano diritto a svolgere quelle attività; con la razionalizzazione essa diventa responsabilità di individui e corpi che hanno il dovere di svolgerle. In altre parole, il meccanismo istituzionale per così dire molecolare dello Stato ha cessato di essere il privilegio ed è diventato l'ufficio. Come si è già detto, tipicamente chi occupa uffici non si appropria (più) le relative risorse e le facoltà per svolgere le attività assegnate all'ufficio medesimo, non si vale a titolo personale degli eventuali proventi di quelle attività; nel decidere se, quando e come svolgerle, non consulta i propri personali interessi, ma i saperi che ha acquisito, e in vista dei quali è stato investito dell'ufficio, nonché le istruzioni dei superiori e le informazioni disponibili sulle circostanze di fatto che è suo compito regolare, o sulle quali deve intervenire.Il comportamento dei funzionari. - Ci si può chiedere se in particolare questa pretesa - di filtrare le considerazioni che presiedono alla condotta dei funzionari, escludendo sistematicamente proprio quelle relative all'interesse personale - non sia piuttosto difficile da realizzare, e se (ammesso che si realizzi) non rischi di causare un deficit di motivazione nelle persone in questione, rendendo meno probabile che s'impegnino energicamente e assiduamente nell'esecuzione dei loro doveri. Una prima risposta è ovvia.
Anche se a lungo si è esitato a qualificare come contrattuale il rapporto tra lo Stato e il funzionario, il fatto che questi venga retribuito per le sue attività costituisce un legame sinallagmatico: il funzionario, in altre parole, lavora per lo stipendio o per mantenere 'il posto'. Rimane il problema di motivarlo a un livello di impegno superiore a quello così ottenibile. E qui la risposta è duplice. Da un lato, proprio chi occupa uffici statali non soltanto possiede e applica il sapere che i compiti dell'ufficio richiedono, ma è anche seriamente dedito all'interesse pubblico, si lascia guidare da 'scienza e coscienza', non soltanto dalla prima. Dall'altro lato, la struttura piramidale dei sistemi di uffici a cui dà luogo, come si è visto, la razionalizzazione del dominio, comporta non soltanto una divisione del lavoro e una gradazione di competenze e di responsabilità, ma anche - in corrispondenza con questa - una gerarchia di facoltà di comando e di controllo, di riconoscimento sociale, e infine di trattamento economico: in linea di principio il singolo titolare di un ufficio può aspirare a farsi strada entro questa struttura. In altre parole, un ben ordinato insieme di uffici configura anche un sistema di carriera - e proprio le sue aspirazioni di carriera dovrebbero motivare il funzionario, nell'espletare i suoi compiti di ufficio, a non perseguire il proprio immediato interesse personale.
Nel corso di un secolo e mezzo, in un processo che culmina nella Francia rivoluzionaria e napoleonica, e in seguito viene imposto o si afferma altrimenti in altri paesi europei, la razionalizzazione del dominio progetta lo Stato come un sistema espressamente ordinato di organi e di uffici, un insieme di ruoli la cui continuità istituzionale trascende gli individui che li occupano e la maniera inevitabilmente varia e discontinua in cui essi operano. Il sistema può investire compiti assai diversi e mutevoli, ma - all'interno di scelte politiche di massima che possono rifarsi a logiche diverse, prima di tutte quella di potenza - è sempre orientato e controllato dalla conoscenza delle direttive generali provenienti dall'alto del sistema e delle circostanze di fatto. La struttura del sistema è dettata da due principî: innanzitutto, essa rappresenta una divisione del lavoro, cioè le articolazioni organizzative rispondono al criterio di assegnare compiti diversi a chi ha acquisito e dimostrato competenze diverse. (Si noti che l'espressione 'competenza' designa sia un complesso di conoscenze e di capacità di merito acquisite da un individuo, sia un ambito di problemi e compiti di cui spetta a lui, o all'organo di cui fa parte, occuparsi). In secondo luogo, a questa strutturazione diciamo orizzontale del sistema si sovrappone una strutturazione verticale: organi, uffici, funzionari, si distinguono anche in base a chi comanda chi. Questo secondo principio rispecchia un'esigenza di coordinamento interna alla logica della divisione del lavoro, ma sostanzialmente si rifà alla vocazione autoritaria dello Stato nel suo insieme, come forma di dominio politico. Nel linguaggio un po' arcaico del diritto amministrativo, ci deve essere, alla fin fine, un 'signore del servizio', che istituisce il sistema e assegna a ciascuna parte di questo non soltanto dei compiti da svolgere, ma anche delle facoltà di comando, in definitiva garantite dalla coazione. Dopo tutto (o prima di tutto?) il sistema forzosamente estrae moltissime delle risorse che spende nel proprio funzionamento dagli stocks e dai flussi di risorse prodotte e scambiate da individui privati che, lasciati a se stessi, si guarderebbero bene dal destinare parte dei beni e delle energie posti sotto il loro controllo a fini diversi da quelli a loro propri.
Eppure la razionalizzazione del dominio ha anche, per così dire, effetti benigni per quanto riguarda il resto della società e gli stessi individui privati. Così come si è configurata storicamente, nell'Europa occidentale tra il Seicento e l'Ottocento, la razionalizzazione ha affermato la complementarità dello Stato alla società civile, intesa come l'ambito in cui gli individui (prima - si è detto - come sudditi, poi come cittadini) legittimamente perseguono i propri interessi e intessono rapporti che lo Stato garantisce giuridicamente ma di cui lascia loro l'iniziativa e il contenuto. È ben vero che lo Stato ha progressivamente riservato a se stesso la gestione di tutti gli affari politici, confiscando le capacità giurisdizionali, militari, fiscali, ecc. di individui e corpi privilegiati, e monopolizzando l'esercizio della violenza legittima. Ma si dovrebbe dire di tutti gli affari politici e soltanto di essi. Lo Stato cioè lascia alla società civile altri affari, compresi alcuni potenzialmente di grande rilevanza generale, che impegnano seriamente le energie e le cure degli individui, e li differenziano profondamente gli uni dagli altri. Due aspetti di questo processo sono di particolare importanza. Innanzitutto, attraverso una vicenda complessa e combattuta, lo Stato occidentale si spoglia progressivamente di attributi e competenze di carattere religioso - esce, si direbbe, dal business della salvezza delle anime - ma per lo più lo fa senza impedire o vietare agli individui di coltivare ed esprimere la propria religiosità, anche in forma collettiva e organizzata. In secondo luogo, per riprendere una formulazione della prima modernità, il sovrano riserva a sé l'imperium, ma lascia ai privati il dominium, cioè il diritto di proprietà. Inizialmente di questo ritrarsi del sovrano dall'ambito proprietario beneficiano precipuamente i signori terrieri, ma successivamente il dominium si diffonde e, in mano a soggetti molto più numerosi e diversamente orientati, si mette in moto: insieme col contratto, la proprietà privata diventa l'istituto fondamentale, la struttura portante del mercato, che a sua volta si configura come aspetto e momento centrale della società civile (Marx vede nell'economia politica borghese l'anatomia stessa della società civile).
Non è solo astenendosi dall'interferire nell'economia di mercato che lo Stato ne facilita e promuove lo sviluppo: la razionalizzazione del dominio crea un ambiente politico e amministrativo positivamente confacente a un'economia avviata alla modernizzazione, con le sue esigenze di sicurezza, di prevedibilità delle conseguenze delle scelte economiche, di mobilità dei fattori di produzione, di controllo e repressione delle forme antiche e nuove di disagio e di protesta sociali, occasionate dal cambiamento economico. La prevalenza stessa della tassazione come modo di approvvigionamento degli enti politici, come si è detto, si conforma a quelle esigenze. Molte delle attività intraprese dallo Stato, a cominciare da quelle relative agli armamenti e all'equipaggiamento di eserciti e flotte, o dall'appoggio decisivo che queste risorse militari forniscono alla colonizzazione di territori extraeuropei, danno un apporto essenziale a nuove forme di impresa e all'accumulazione del capitale privato.
In questo e in altri modi lo Stato non soltanto permette, ma contribuisce a promuovere un processo profondo e relativamente accelerato di ristratificazione sociale, che culmina, nella prima metà dell'Ottocento, nella formazione di una élite che detiene una nuova forma di potere sociale, il possesso di capitali. Si potrebbe dire che nel secolo precedente, lo Stato si era progressivamente aperto al 'Terzo stato', al punto di fare di questo, a lungo andare, non soltanto un beneficiario delle proprie attività, ma la base sociale della propria esistenza, e di conferirgli una soggettività politica nuova, attiva e costituente. (È emblematica da questo punto di vista la decisione del 17 giugno 1789: i rappresentanti del Terzo stato francese si dissociano dal contesto istituzionale degli Stati generali, e si proclamano Assemblea Nazionale). Nelle sue varie forme, l'avvento del liberalismo politico conferisce un nuovo e più importante significato, all'interno dello Stato, alle istituzioni rappresentative; ciò comporta, tra l'altro, che anche posizioni a cui spetta la formazione delle politiche, e quindi delle direttive esplicite dell'azione statale e non solo la loro esecuzione, vengono occupate da personale su cui queste responsabilità ricadono in base non a una spettanza di ceto o al favore del sovrano, ma a un'investitura esplicita, sempre temporanea (e quindi contingente), tramite l'elezione a un organo legislativo, o la fiducia che questo concede a un governo di nuova composizione. Al vertice di Stati non repubblicani la posizione stessa del monarca ereditario viene costituzionalizzata, cioè configurata sempre più come un ufficio, con compiti relativamente ristretti per quanto delicati ed elevati.
Può essere utile a questo punto presentare un quadro concettuale dello Stato così come si configurava nell'Europa occidentale prima della grande guerra. (Alcuni aspetti di quella configurazione, peraltro, erano presenti anche in altre parti d'Europa, nonché nel continente americano e in Giappone). Si tratta di un sistema di dominio politico che generalmente ha le seguenti caratteristiche, alcune delle quali risultano già dalla precedente trattazione.
Territorialità. - Il dominio è esercitato da ciascuno Stato con riferimento a una porzione precisamente delimitata del globo. Si noti però che la delimitazione stessa è talora oggetto di contesa tra Stati, e che per alcuni di questi si può distinguere il territorio immediato, metropolitano, dello Stato, da uno o più territori su cui il dominio è esercitato a titolo di possesso coloniale.
Unitarietà. - L'esercizio del dominio pertiene a un complesso di organi che si articola in molteplici uffici, ma la cui unitarietà si rivela, tra l'altro, nell'esistenza di un organo di vertice che, quali che ne siano le competenze, rappresenta lo Stato nel suo insieme. Al di sotto di questo, le varie funzioni di governo (nel senso lato, che comprende la legislazione e la giurisdizione) fanno capo a insiemi di organi che, per quanto complessi, a loro volta sono attivati e/o controllati da un singolo organo (ad esempio, nel caso della giurisdizione, da una corte d'ultima istanza). Questa unitarietà è compatibile con varie forme di autonomia locale e con la più avanzata articolazione organizzativa dei domini rappresentata dagli Stati federali.
Nazionalità. - La popolazione su cui si esercita il dominio è vista a sua volta come unitaria, in quanto pur nella sua diversità è attraversata da certe comunanze, variamente (e per lo più vagamente) definite: di lingua, di religione, di origine etnica, di cultura, di esperienza storica, di destino, di appartenenza al territorio, di fedeltà a una dinastia, di solidarietà. Importanti eccezioni sono rappresentate dalle popolazioni di Stati espressamente multinazionali, come l'Impero russo e quello austro-ungarico.
Legittimità democratica. - Il riferimento alla democrazia come principio fondante dell'esistenza stessa degli Stati è per lo più esplicito solo a partire dalla prima guerra mondiale, ma è implicito nell'idea stessa di nazionalità, quanto meno in quelle versioni che vedono nella nazione non solo l'oggetto del dominio politico, ma anche la base costituente di esso e la sede ultima della sovranità, e/o propongono l'interesse nazionale come obiettivo costante (anche se generico e remoto) dell'azione statale, e in particolare della politica estera. In ogni caso lo Stato si legittima, vale a dire giustifica la sua richiesta di obbedienza ai propri comandi, in base all'assunto che l'investitura di chi esercita il comando proviene, tramite complesse mediazioni istituzionali (e ideologiche), da coloro stessi a cui si chiede l'obbedienza.
Stato di diritto. - Il dominio si manifesta precipuamente attraverso la formazione, l'esecuzione e l'applicazione di leggi, intese come comandi generali e astratti. La validità di questi comandi si fonda sull'osservanza di procedure fissate da atti o consuetudini costituzionali e sul rispetto di alcuni principî sostanziali, che garantiscono certe aspettative degli individui anche nei confronti dell'azione statale o la impegnano a favorire determinati interessi individuali. Gli organi incaricati di svolgere le varie funzioni statali sono istituiti da leggi, che ne regolano le operazioni, facendone dipendere l'efficacia dall'osservanza di quelle regole. La corretta esecuzione delle leggi, quando incidano su legittimi interessi individuali, può essere verificata da organi giudiziari, siano questi ordinari o speciali. Leggi o consuetudini costituzionali talora individuano e circoscrivono una sfera di affari esplicitamente 'politici' - precipuamente la tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza dello Stato - nell'affrontare i quali determinati organi statali possono, in condizioni di emergenza e fino a quando l'emergenza continui, soprassedere a norme che generalmente ne limitano l'azione.
Società civile. - Lo Stato così costituito è complementare a un ambito sociale vasto e differenziato, in cui gli individui perseguono autonomamente interessi privati, precipuamente ma non esclusivamente di natura economica, impegnando risorse loro proprie e intrecciando gli uni con gli altri rapporti di natura contrattuale. Il diritto di proprietà e la disciplina legislativa del contratto sono gli strumenti essenziali tramite i quali lo Stato garantisce queste attività private, che avviano una forte dinamica sociale e normalmente danno adito a una divisione del lavoro entro la popolazione e alla formazione di imprese e di classi. Ma l'autonomia privata è anche lo strumento di altre attività individuali che lo Stato garantisce, ma in cui non si ingerisce direttamente, come quelle relative alla religione, alla cultura, alla beneficenza, alla cura dell'intimità familiare e dell'amicizia, al tempo libero. Le differenziazioni sociali a cui danno luogo le varie dinamiche della società civile, e i relativi conflitti, sono normalmente temperati non solo dalla comune soggezione degli individui al dominio politico esercitato dallo Stato, ma anche dalla loro appartenenza alla comunità politica della nazione. In altre parole, gli individui si configurano anche come cittadini.
Sfera pubblica. - I principî costituzionali liberaldemocratici permettono alla cittadinanza di esprimersi attivamente attraverso la pubblica discussione degli affari politici e della condotta degli organi statali, ma soprattutto attraverso la rappresentanza politica. La composizione degli organi legislativi (a cui spetta - in varia misura e attraverso meccanismi diversi - anche l'investitura del potere esecutivo e l'elaborazione di direttive politiche di massima) varia nel tempo, e dipende dal successo che incontrano di volta in volta, in occasione di consultazioni elettorali, gruppi dirigenti che competono gli uni con gli altri per il suffragio della cittadinanza. Il principio della legittimità democratica ha quindi una sua convalida periodica nel processo elettorale, che peraltro sistematicamente divide la cittadinanza, producendo entro l'elettorato 'allineamenti' contrastanti che si riflettono nella formazione di maggioranze e opposizioni all'interno degli organi rappresentativi. Soltanto la composizione dell'esecutivo non riflette la divisione di opinioni e preferenze politiche entro l'elettorato: l'esecutivo riceve il suo mandato dalla maggioranza, e la sua attività può essere discussa dall'opposizione. In ogni caso, la matrice delle politiche è la politica, intesa come confronto tra concezioni legittimamente contrastanti dell'interesse pubblico, che concorrono per assicurarsi il pubblico consenso. L'istituzionalizzazione di questa concorrenza rende la politica degli Stati assai dinamica.
Segregazione istituzionale della violenza organizzata. - Anche se la violenza organizzata rimane centrale nella versione statuale dell'esperienza politica, questa tende a renderla relativamente marginale e occasionale e a rappresentarne l'importanza soprattutto tramite operazioni simboliche. I ruoli che hanno espressamente a che vedere con la violenza vengono affidati a specialisti che normalmente li esercitano soltanto in base a decisioni prese dalle dirigenze politiche e (nel caso della polizia) giudiziarie.
Questo breve quadro concettuale considera lo Stato esclusivamente come un modo di ordinare e gestire i rapporti politici propri di una popolazione e interni a un territorio. Ma proprio questa delimitazione suggerisce implicitamente un'ulteriore caratteristica essenziale dell'universo politico moderno: esso è un sistema di Stati. Ciascuno Stato esiste, per così dire, in presenza di altri, che presuppone come uguali per natura a se stesso. È anche per questa ragione che sembra opportuno non definire l'Impero cinese, e altre grandi compagini imperiali premoderne, come 'Stati'. In linea di massima è connaturato all'idea stessa di 'impero' che ciascuno di questi si progetti e si proietti (in alcuni casi, malgrado la sua coesistenza di fatto con altri imperi) come il solo ordinamento politico legittimo e valido, in un determinato momento, per l'intera oikoumene, e che non riconosca altri ordinamenti a sé eguali e coordinati, ma al più ordinamenti di inferiore portata e natura, variamente subordinati.
Ma la presenza accanto a ciascuno Stato di altri, per quanto connaturata a esso in quanto Stato, costituisce anche una sfida e una minaccia potenziale, perché i rapporti reciproci tra gli Stati non si fondano sulla comune subordinazione al sistema. Questo non preesiste ai singoli Stati, non li istituisce, non ne regola e sanziona le attività, per così dire, dall'alto, in maniera comprensiva e imperiosa; presuppone invece la sovranità dei singoli Stati, cioè la loro capacità e disposizione a perseguire ciascuno i propri interessi autonomamente, in base alle proprie risorse, asserendoli se necessario, al confronto con l'altrui potenza, attraverso la superiorità fattuale della propria. Il diritto internazionale sostanzialmente rileva e afferma questa condizione - la cosiddetta 'anarchia internazionale' - e non si lascia intendere, a sua volta, come analogo al sistema giuridico proprio di ciascuno Stato, cioè come una serie di norme imposte e sanzionate da un'istanza superiore, che impedisce ai singoli di tutelare essi stessi i propri interessi con la propria forza. L'universo politico moderno, in quanto fondato sugli Stati, presenta quindi una fondamentale discontinuità tra i rapporti interni appunto agli Stati, e quelli che hanno luogo tra gli Stati stessi. I primi, come si è detto, mirano a un massimo di prevedibilità e sistematicità dell'azione pubblica, di rassicurazione dei privati costretti a rinunziare all'esercizio della violenza e compensati per questo tramite la pacificazione e l'ordine pubblico. I secondi comportano ampi margini di contingenza e imprevedibilità, e lasciano ai protagonisti il privilegio e la responsabilità di premunirsi ciascuno contro la prepotenza degli altri. Ma oltre che essere intrinsecamente diversi, questi due aspetti dell'universo politico moderno sono anche asimmetrici, perché il quantum di ordine caratteristico del primo può essere sempre sovvertito dall'irruzione del disordine tipico del secondo. In altre parole - a meno che si riesca a convertire la convivenza degli Stati in un metaordinamento di tipo esso stesso statale, o quanto meno in un sistema di sicurezza collettiva - la guerra è un rischio a cui sono esposti permanentemente gli Stati per quanto bene ordinati. A questa considerazione si ispirano correnti di pensiero politico che asseriscono il cosiddetto 'primato della politica estera' e l'insopprimibile centralità del fenomeno della guerra, e che talora ne deducono l'intrinseca fragilità di ordinamenti interni di carattere liberaldemocratico, che confondono la parte 'normale' dell'esperienza politica con la sua interezza, vedendo nella tutela e nello sviluppo del sistema economico e degli interessi privati il suo compito principale (v. Schmitt, 1932).
La terza fase nella vicenda dello Stato, che ha inizio nella seconda metà dell'Ottocento e dura per tutto il secolo successivo, è caratterizzata da una massiccia espansione e diversificazione dei suoi compiti che si manifesta anche in una imponente crescita, e crescente complessità, della sua organizzazione.
Da un punto di vista concettuale, l'espansione dello Stato presuppone che esso si sia consolidato dal punto di vista territoriale, e che per questo la sua attività politica possa rivolgersi, oltre che a interessi di potenza relativi alla salvaguardia di quel territorio (o all'acquisto di possessi coloniali) e all'elaborazione istituzionale caratterizzata qui sopra come razionalizzazione del dominio, all'individuazione di nuovi temi, di nuovi obiettivi dell'azione statale. Questo processo ha vari aspetti, che si possono sintetizzare come segue. Innanzitutto lo Stato si rapporta a molte attività sociali non più soltanto o prevalentemente disciplinandole istituzionalmente tramite la legislazione e la giurisdizione, o altrimenti affidandole a soggetti privati, individuali o collettivi, che le conducono autonomamente, interagendo gli uni con gli altri nella ricerca dei propri interessi. Sempre più, invece, lo Stato si riserva di intervenire su quei campi di attività, correggendo le direzioni in cui le indirizzano le interazioni tra soggetti privati, o addirittura si riserva di gestire a proprio titolo le attività in questione, affiancandosi ai soggetti privati, sostituendoli, o programmando, finanziando e variamente orientando le loro iniziative. Inoltre lo Stato si fa direttamente carico di nuove attività, ampliando drasticamente - a lungo andare - il novero di quelle di cui si era sempre investito come parte della propria esclusiva missione istituzionale.Queste tendenze producono una modificazione profonda e forse irreversibile (sia questo ragione di rammarico o di compiacimento) nei rapporti tra Stato e società così come essi si erano configurati nella fase precedente. Le manifestazioni più vistose sono il moltiplicarsi delle articolazioni organizzative dello Stato (comprese quelle a livello locale), la loro diversificazione, l'accrescimento nel numero dei dipendenti statali (o dipendenti pubblici d'altro genere), l'accresciuta incidenza della spesa pubblica e del prelievo fiscale.
Quale dinamica sospinge questo processo? Le risposte più significative si possono dividere in due grandi gruppi, a seconda che privilegino, per così dire, l'uno o l'altro versante del dualismo 'Stato'/'società'.
Sul versante Stato. - Entro il primo gruppo si possono ulteriormente distinguere due risposte. La prima mette in risalto il ruolo svolto non tanto dallo Stato in quanto tale, come complesso di istituzioni che accumulano e gestiscono il potere politico, quanto dalla politica. Come si è accennato sopra, a un certo punto lo Stato territorialmente consolidato e razionalizzato si è posto in un rapporto storicamente nuovo con la popolazione, rapporto che ne ha inizialmente coinvolto solo gli strati superiori, e specialmente i gruppi alfabetizzati, proprietari, inurbati. La popolazione ha cominciato a essere vista (dai ceti intellettuali, o da élites politiche alla ricerca di nuova legittimazione) come un soggetto unitario - concepito talora come popolo, talora come nazione - di cui lo Stato, anche quando ha un passato autoritario e dinastico, costituisce lo strumento politico, investito di una missione di potenza nei rapporti internazionali, ma anche della gestione dello sviluppo interno della società.
L'affermarsi di istituzioni statali liberali e poi democratiche ha conferito qualche credibilità a questa concezione, ma al contempo l'ha resa contestabile. L'istituzione della rappresentanza, in particolare, divide la parte della popolazione in possesso dell'elettorato attivo e passivo dal resto della popolazione: inoltre divide anche la prima parte in due tronconi contrapposti, una maggioranza e delle minoranze. Insomma, alla politica non si prende parte se non prendendo partito (anche se per parecchio tempo quest'ultima espressione non si riferisce al partito politico organizzato tipico dell'ultimo secolo). Assai presto, entro i regimi liberali, l'allargamento del suffragio diventa un tema ricorrente e centrale della politica interna, progressivamente democratizzando quei regimi. Secondo la tesi di T.H. Marshall, ciò a sua volta induce l'espansione secolare del contenuto della cittadinanza; i partiti che fanno propri gli interessi degli strati subalterni, per correggere gli svantaggi cui la loro condizione di classe li espone sul mercato, quando diventano maggioranza legittimano le pretese dei cittadini a bona sempre più numerosi e diversi che, attraverso vari meccanismi, lo Stato mette a loro disposizione (v. Marshall, 1963). È (anche) per affrontare questa missione egualizzante - che, a partire da un certo punto, diventa una dimensione significativa della 'costruzione della nazione' come base costituente dello Stato stesso e sede ultima della sovranità - che lo Stato, come si è visto, cresce e si differenzia dal punto di vista organizzativo, si impegna nella gestione di attività sociali sempre più disparate, 'estrae' dal sistema economico e gestisce secondo criteri politici una porzione crescente del prodotto nazionale, e così via. In altre parole, la democratizzazione del processo politico induce la formazione dello Stato assistenziale, che è a sua volta un aspetto centrale dell'espansione dello Stato.
Ma questa ha anche altre determinanti, e si manifesta, per quanto in misura relativamente ridotta rispetto alle forme che assume nel tardo Ottocento e nel Novecento, anche entro Stati dove la 'politica' intesa come confronto concorrenziale tra partiti e tra concezioni contrastanti dei compiti dello Stato non è (ancora) presente. Ad esempio, alcuni Stati germanici settecenteschi in cui non esisteva una sfera pubblica entro cui potessero confrontarsi partiti e concezioni, e dove la popolazione era composta essenzialmente da sudditi, avviarono, sussumendole sotto il concetto di Polizei, alcune forme avanzate di intervento nella vita sociale e di gestione degli affari economici. In ogni caso le manifestazioni più massicce di espansione dello Stato hanno avuto poco a che vedere con lo Stato assistenziale e la dinamica dei regimi liberaldemocratici. Un quantum di espansione così avanzato da far venire meno quasi del tutto la linea di demarcazione tra Stato e società (il che significa, dal punto di vista concettuale, il venir meno di entrambi) si registra, nel XX secolo, con i totalitarismi nazista e staliniano, che sopprimono la politica intesa come confronto pubblico, a esito contingente, tra dirigenze potenziali in competizione e tra modi diversi di impostare l'azione statale. In essi apparati amministrativi e giudiziari apparentemente simili a quelli degli Stati liberaldemocratici sono strettamente subordinati a una struttura di potere - il partito - che riserva a se stessa (ed entro se stessa a una dirigenza inamovibile, che si rinnova solo per cooptazione, e che culmina in un singolo capo onnipotente) ogni iniziativa politica, e la orienta secondo un progetto di natura metapolitica, sottratto a ogni critica e a ogni alternativa, che richiede più o meno espressamente la realizzazione, in capo a quella struttura, di una sorta di dominio universale. La ricerca di questo obiettivo comporta necessariamente un ricorso particolarmente frequente e brutale a mezzi coercitivi, sia nei rapporti interni a un determinato sistema totalitario che nei rapporti con altri sistemi.
La seconda risposta concorda con la prima nell'attribuire precipuamente allo Stato, invece che alla società, l'iniziativa della sua espansione, ma ne accentua determinanti diverse dal processo politico. In primo luogo la persistente tematica della guerra, che nel corso del Novecento ha più volte, ma soprattutto in occasione dei due conflitti mondiali, accelerato il processo di coinvolgimento dello Stato nella gestione degli affari sociali in generale, la crescita del prelievo fiscale, e così via. In seguito anche la 'guerra fredda' ha probabilmente favorito l'accentuato sviluppo dello Stato assistenziale, nonché forme di partnership tra governi e grandi forze produttive nella promozione dello sviluppo tecnologico/industriale (v. Maraffi, 1981). In secondo luogo, tutti i grandi assetti burocratici tendono a riprodurre se stessi, a differenziarsi internamente, ad ampliare i propri organici, ad assorbire risorse crescenti, ad accrescere i propri margini di discrezionalità. Questa tendenza è comune alle burocrazie private e a quelle pubbliche, ma in queste ultime si sottrae più facilmente (quanto meno a breve/medio termine) alla disciplina imposta dal mercato, alla considerazione di impieghi alternativi delle risorse, alla verifica dell'efficienza, al controllo esercitato da chi le istituisce, alla responsabilità di chi le gestisce. Inoltre, l'apparato amministrativo pubblico si è ampliato perché ha offerto delle 'nicchie' e delle posizioni di rendita a nuove professioni a cui il mercato nega ricompense e riconoscimenti pari a quelli che si attende chi le pratica. In ogni caso, mentre, come si è visto, secondo i principî liberaldemocratici la matrice delle politiche è la politica, intesa come confronto tra dirigenze e tra impostazioni dell'azione statale che concorrono per assicurarsi il pubblico consenso, in realtà le politiche sono in misura crescente il risultato di aggiustamenti tra gli interessi propri di enti amministrativi sempre più numerosi, massicci, e in buona parte autonomi rispetto alla stessa dirigenza politica.
Sul versante società. - Quanto alle interpretazioni dell'espansione dello Stato che danno risalto agli impulsi provenienti dalla società, se ne possono daccapo distinguere due, anche se forse la distinzione ha più a che vedere con diversi livelli di analisi che con processi causali effettivamente indipendenti. Secondo la prima interpretazione, l'espansione è essenzialmente una risposta strutturale al bisogno sempre più acuto di coordinamento, di gestione delle interdipendenze, di allestimento consapevole delle risorse, che è proprio di società sempre più complesse come quelle industriali e postindustriali. Le spese crescenti dello Stato nel settore dell'istruzione e della ricerca, ad esempio, si dovrebbero precipuamente al fatto che le economie avanzate hanno un crescente bisogno di conoscenze e di qualifiche professionali, ma per vari motivi i relativi investimenti non possono essere ragionevolmente affrontati dalle forze economiche private. La seconda interpretazione disaggrega questa presunta domanda di gestione pubblica degli affari societari, e considera l'espansione statale come una risposta alle richieste diverse e spesso contrastanti portate avanti, spesso attraverso forme subdole di pressione e d'influenza, da molteplici ed esigenti forze sociali, d'accordo solo nel cercare di accollare allo Stato l'apprestamento e la gestione delle risorse necessarie per far fronte a quelle esigenze. Proprio per via della molteplicità, urgenza, diversità e contraddittorietà di queste richieste, il loro soddisfacimento (per quanto parziale e temporaneo) non può non indurre l'espansione dello Stato.
Con le considerazioni appena svolte ci siamo affacciati sulla tematica, assai discussa verso la fine del Novecento, della 'crisi dello Stato'. In effetti essa accompagna, per così dire, l'intero secolo - uno scritto del costituzionalista S. Romano dedicato alla crisi dello Stato è precedente alla prima guerra mondiale (v. Romano, 1969). Decenni più tardi, la discussione - mai del tutto sopita, in Italia e altrove - è stata ravvivata dalla fine di un periodo abbastanza prolungato (i cosiddetti 'trent'anni gloriosi' successivi alla seconda guerra mondiale) in cui sembrava che un nuovo equilibrio si fosse stabilito, nei paesi occidentali, tra lo Stato come complesso di istituzioni investite del potere politico e le unità sociali (precipuamente le corporations industriali e altri tipi d'impresa, e - in misura assai minore - i sindacati) che esercitano il potere economico (v. Shonfield, 1965).Si noti che questo stesso periodo ha visto anche un apparente trionfo dello Stato; dopo la seconda guerra mondiale, in seguito alla decolonizzazione dell'Asia e dell'Africa, l'esercizio del dominio su praticamente tutte le zone abitabili del globo e sulle acque territoriali adiacenti è diventato compito di una pluralità di enti politici che si chiamano - in questa o quella lingua - 'Stati', possiedono o affermano di avere gli attributi formali di uno Stato, in quanto tali fanno parte o aspirano a far parte dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, e in linea di principio si rapportano gli uni agli altri secondo certe regole di condotta originariamente elaborate da e per gli Stati europei. Ma proprio questo apparente trionfo è considerato da alcuni come una ragione o un aspetto della crisi dello Stato in quanto modalità altamente istituzionalizzata della costituzione e gestione del dominio pubblico.
Per schematizzare la discussione, si possono ricondurre molte manifestazioni della crisi dello Stato a due 'sindromi' fondamentali e contrapposte: da una parte la carenza di Stato, dall'altra l'eccesso di Stato. Per comprendere la prima, basta ricordare che, come detto sopra, si dà Stato se e in quanto gli individui, nella sfera politica, si fanno effettivamente vincolare e orientare da certi principî, certe aspettative. Per cominciare a esistere, dunque, lo Stato deve sovrapporre i modi a sé propri di costituire, organizzare, esercitare il dominio politico, a modi diversi preesistenti; deve quindi superare l'inerzia di quei modi e soppiantare pratiche altrimenti vincolate e orientate. Inoltre, per continuare a esistere, deve superare una sorta di entropia che affligge tutti i complessi istituzionali, e imporre insistentemente le proprie regole nei confronti di altre che cercano di affermarsi o di riaffermarsi. Ciò non richiede che le regole statuali debbano valere sempre e dappertutto, ma richiede che normalmente la conformità con esse venga riconosciuta e ricompensata (o quanto meno non esponga a punizioni chi le segue), che pratiche non conformi vengano per lo più rilevate e sanzionate, che regole contrarie non si affermino pubblicamente, frequentemente e in ampia misura, come più valide ed efficaci. Ma soddisfare questo requisito non è semplice. In primo luogo, le pratiche politiche e amministrative specificamente statuali possono stentare a istituzionalizzarsi perché mancano di credibilità morale.
Ad esempio, il divieto ai funzionari di promuovere i propri interessi privati nei loro atti d'ufficio e di favorire cittadini a cui siano legati da appartenenze particolari può contraddire costumi fortemente radicati nella cultura locale, appartenenze e dipendenze strutturate da gerarchie sociali consolidate, o sentiti rapporti di reciprocità interindividuale. In secondo luogo, l'effettiva istituzionalizzazione di pratiche espressamente statuali può essere impedita non (più) dal peso residuale delle culture tradizionali, ma da certi aspetti della dinamica specifica delle società contemporanee - ad esempio, dall'accentuata anomia, da un indebolimento dell'appartenenza e del senso di obbligazione nella determinazione dell'identità individuale e delle strategie che l'affermano. Il neocomunitarismo, una corrente di pensiero sociale emersa negli Stati Uniti negli anni ottanta, ha messo particolarmente in risalto l'indebolimento delle strutture politiche risultante da questi fenomeni (v. Selznick, 1992). Inoltre, il ritmo col quale nelle società contemporanee aumenta la complessità e cambiano le tecniche materiali e organizzative, i bisogni, i contenuti culturali, è così accelerato da mettere continuamente in mora lo Stato, vanificando la sua pretesa di 'normare', coordinare, controllare tutto coi suoi specifici strumenti di sorveglianza e di intervento - e di fare ciò da un singolo centro, in maniera il più possibile uniforme e prevedibile.Alla fine del Novecento la 'carenza di Stato', cioè l'insufficiente statualizzazione del dominio politico, si rivela non soltanto in paesi in cui lo Stato è recente e 'importato' (v. Badie, 1992), ma anche in paesi europei e occidentali, dove sembrano compromessi alcuni dei successi che lo Stato aveva da lungo tempo registrato. Ad esempio, nei paesi dell'Europa orientale, gli eventi successivi al 1989 mettono in forse gli assetti territoriali prodotti dalla seconda guerra mondiale, mentre in altre parti del mondo i pluralismi etnici - paradossalmente, proprio nel tentativo di costruire Stati omogenei dal punto di vista etnico - producono una frammentazione territoriale accentuata, invertendo la tendenza alla diminuzione del numero delle unità politiche territoriali tramite l'accorpamento geografico.
Inoltre, gli Stati territoriali e nazionali si vedono sottrarre competenze e risorse sia da nuovi enti politici sovranazionali che da enti politico-amministrativi infranazionali. Anche in Stati territorialmente solidi il monopolio statale della violenza legittima organizzata perde di significato, laddove i governi e le 'forze dell'ordine' di fatto non riescono (o addirittura rinunziano, magari copertamente) a interdire a individui e gruppi privati il ricorso non saltuario ma organizzato alla violenza armata, a gestire e custodire l'ordine pubblico sul territorio, a garantire l'incolumità fisica dei cittadini. La lentezza con cui i sistemi giudiziari si pronunziano su controversie civili equivale spesso a un diniego di giustizia, e l'amministrazione della giustizia penale si fa sempre più caotica e arbitraria. I costosi e complessi apparati amministrativi pubblici si dimostrano incapaci di rilevare le mutevoli e diverse esigenze di molteplici gruppi sociali, di intervenire nel processo sociale in maniera illuminata ed efficace (v. Caplow, 1994).
Malgrado queste molteplici e vistose manifestazioni di una carenza di Stato, secondo altre critiche di Stato, per così dire, ce n'è troppo, ed esso è diventato eccessivamente mastodontico e invadente. Le due critiche, per quanto contrastanti, si compongono spesso nell'argomento che proprio l''eccesso di Stato' causa la sua carenza per quanto concerne i suoi compiti istituzionali primari, coinvolgendolo in compiti sempre nuovi e diversi, che sarebbe meglio lasciare al mercato o ad altri aspetti e momenti della società civile. In talune versioni - ad esempio quella fatta propria dalla cosiddetta Commissione Trilaterale negli anni settanta - questa critica si accompagna all'argomento secondo cui le sollecitazioni provenienti da una sfera della 'politica' affollata e tumultuosa fanno carico allo Stato del soddisfacimento di molteplici richieste, smodate e contraddittorie; in questo modo la richiesta di un ritorno dello Stato ai suoi compiti primari che lo sottragga al 'sovraccarico' (overload) si accompagna a una più sommessa, perché più controversa, critica all'eccessiva democratizzazione dei processi di formazione delle politiche pubbliche (v. Crozier, 1975). In tal modo la tesi della 'fine della politica' si aggiunge, verso la fine del secolo, a quella della 'crisi dello Stato'.
Eppure da alcuni decenni - quanto meno secondo altri critici (v. Habermas, 1973) - l'espansione dello Stato aveva luogo in un ambiente sociale sempre più depoliticizzato, in cui le richieste sociali più imperiose ed esigenti provenivano da interessi settoriali organizzati invece che dalla cittadinanza in quanto tale, e la loro conversione in decisioni aveva luogo prevalentemente fuori della sfera pubblica. Ciò si doveva, a sua volta, al divario sempre maggiore tra le poche ed esili strutture ufficiali di input a disposizione dei cittadini in quanto tali (il processo elettorale, la rappresentanza) e le strutture di output, moltiplicate e rafforzate da (e in vista de) l'espansione dello Stato. Questo divario porta all'intervento massiccio nel processo decisionale di organizzazioni che rappresentano interessi privati, e che si valgono del loro potere soprattutto economico per influenzare quel processo, gestito dagli enti amministrativi in maniera sempre più autonoma rispetto alla stessa rappresentanza politica e alla dirigenza governativa che l'esprime. In misura minore, quasi a correzione di tale intervento, quel divario occasionalmente induce imprenditori politici a formare movimenti sociali per lo più di breve durata e di portata minore, che si appellano direttamente a interessi vivamente sentiti da certi settori della cittadinanza ma trascurati dalle strutture decisionali ufficiali.
Altri aspetti della crisi dello Stato fanno pensare a una contraddizione tra alcuni legati istituzionali di quella che abbiamo chiamato la fase della razionalizzazione del dominio e la successiva tendenza all'espansione dello Stato. La razionalizzazione era tutta intesa a costruire e garantire l'unità dello Stato, strutturandolo (si è visto) come un insieme piramidale di organi e uffici, le cui attività (quanto meno nei paesi del continente europeo) dovevano ispirarsi principalmente al sapere giuridico, che a sua volta aveva come referente il diritto come sistema unitario. La moltiplicazione e specializzazione di organi e uffici che l'espansione dello Stato comporta (e che a sua volta induce quell'espansione) ne fa un insieme sempre più diversificato, disarticolato e frammentato, che gli organi politici non riescono a controllare in maniera uniforme e unitaria, e che a sua volta non può costituire per la società civile la fonte di un controllo sociale coerente e unitario, ma tende a isolarsi da essa, a ricevere molti dei suoi impulsi da interessi e da contrasti interni. L'ordinamento giuridico stesso rivela una tendenza alla proliferazione e alla frammentazione, dovute in molti casi a un eccesso di legislazione o comunque di produzione giuridica, spesso in risposta a esigenze contraddittorie e transeunti. Inoltre la logica che tradizionalmente presiedeva all'esecuzione amministrativa delle norme (non molto diversa, come si è accennato, da quella della loro applicazione giudiziaria) si rivela tanto più inadeguata quanto più si fanno contingenti e mutevoli le opportunità e le necessità dell'ambiente in cui si chiede alle unità amministrative di gestire complesse attività sociali, di generare risorse invece che 'estrarre' e amministrare quelle esistenti (v. Forsthoff, 1964).
La concezione del processo di formazione del bilancio statale fatta propria da molte costituzioni vigenti, ad esempio, è divenuta sempre meno compatibile con le esigenze dell'ambiente economico-finanziario in cui lo Stato opera, e le relative pratiche; secondo un autore francese, "questo scarto tra le regole sintattiche proprie della procedura legale e le regole sintattiche proprie della descrizione delle attività concrete ingenera quei 'vincoli contraddittori' di cui parlano volentieri gli stessi protagonisti di quella procedura". Ne risulta che si è costretti a scegliere "tra fare cose efficaci e non legali e fare cose legali e non efficaci" (v. Théret, 1995).In base a questa osservazione e altre simili, secondo alcuni autori la natura stessa del diritto come complesso di aspettative normative, le quali cioè in presenza di stati di fatto che le contraddicono non si modificano ma si riasseriscono tramite la sanzione - lex vetat fieri, sed si factum sit non rescindit, poenam infert ei qui fecit -, gli impedisce di svolgere nella società contemporanea una funzione centrale, che spetta invece a complessi di aspettative conoscitive e in particolare scientifiche. E in effetti le amministrazioni pubbliche ricorrono sempre più a saperi scientifici di carattere non giuridico: i saperi relativi all'economia e al management, all'accertamento e alla manipolazione dell'opinione pubblica, alla tutela dell'ambiente naturale, alla formazione delle politiche pubbliche, alla gestione delle risorse umane e così via.
Questo ricorso, dove ha avuto luogo seriamente, ha avuto importanti esiti positivi. Ma presenta anche aspetti problematici, per due ragioni. In primo luogo, lo statuto scientifico dei saperi in questione è talora alquanto dubbio: i loro principî metodologici e sostantivi sono oggetto di serie dispute, subiscono a volte inquietanti 'cambiamenti di moda', e sono talora fortemente sospetti di servire da copertura ideologica a interessi settoriali. In secondo luogo, anche a prescindere da questo, il rapporto tra i vari saperi importati nella sfera politico-amministrativa per affiancare o sostituire il sapere giuridico è controverso e instabile: i relativi linguaggi non sono traducibili l'uno nell'altro, le priorità che i vari saperi suggeriscono nella scelta tra strategie amministrative alternative sono spesso incompatibili, e non esiste un 'sapere sui saperi' che li componga in un sistema con lo stesso grado di unitarietà e di omogeneità che a suo tempo possedeva il sistema giuridico (v. Self, 1976). In sostanza, rimane inattendibile quel progetto tecnocratico che in varie forme, da circa due secoli (v. Schluchter, 1972), riserva agli 'esperti' la gestione della cosa pubblica, e affida a processi di natura propriamente politica, come la rappresentanza e il confronto d'opinione, il compito, al più, di legittimare decisioni altrimenti raggiunte. In certi casi proprio il richiamo all'autorità della scienza legittima scelte prodotte principalmente dai rapporti di potere tra interessi settoriali in contrasto, sia interni che esterni all'apparato statale.
Crisi della territorialità. - Come si è visto, lo Stato si è affermato storicamente tramite la costruzione di ambiti spaziali relativamente ampi, nettamente delimitati, esternamente difendibili, internamente pacificati e sottoposti a un'unica giurisdizione, amministrati in maniera più o meno uniforme; la sua identità iniziale è stata culturalmente definita con riferimento al territorio; anche quella successivamente fornita dal riferimento alla nazione (il monarca francese a un certo punto cessa di chiamarsi roi de France e si chiama roi des Français) generalmente ha mantenuto un forte rapporto col territorio. Questo rapporto viene problematizzato da alcuni fenomeni contemporanei, come la mobilità geografica delle popolazioni (improvvisamente acceleratasi negli ultimi decenni), l'accresciuta importanza di processi di comunicazione che superano i confini tra gli Stati e di insiemi di pratiche - come quelle relative al commercio e alla scienza - che hanno una vocazione cosmopolita, l'emergere delle tematiche ecologiche. Queste, in particolare, indicano che non è il territorio che, per così dire, conta meno - i problemi relativi all'esaurimento delle risorse naturali, all'inquinamento, o alla congestione urbana hanno un intrinseco riferimento territoriale - ma è in forse la commensurabilità tra il territorio statale e la correlativa pretesa di gestirlo in maniera unitaria da una parte, e dall'altra gli spazi in cui i fenomeni in questione si manifestano. Spesso, ad esempio, processi che si svolgono fuori del territorio di uno Stato determinano, entro quel territorio, l'inquinamento e il depauperamento delle sue risorse. Inoltre, gli sviluppi della tecnica militare, e specialmente l'avvento della guerra aerea (e più che mai dei missili intercontinentali dotati di testate termonucleari), hanno messo in forse il concetto stesso di territorio inteso come spazio difendibile. Un effetto simile si può forse rilevare nel terrorismo internazionale.Crisi della sovranità. - Un altro aspetto centrale della figura istituzionale dello Stato - la sua sovranità - è egualmente messo in forse da vari sviluppi contemporanei. Questa tematica ha due versanti: uno concerne il rapporto tra lo Stato e le forze sociali di vario genere che operano sul territorio, l'altro il rapporto tra Stati.
Per quanto concerne il primo versante, è assai controverso se lo Stato contemporaneo abbia mantenuto la sua capacità di porsi come unica sede istituzionale del dominio pubblico, che in quanto tale sovrasta e disciplina le parti sociali. Per quanto concerne il secondo, invece, non è controverso che alcuni Stati-nazione abbiano progressivamente rinunziato a certi aspetti della loro sovranità, demandandone l'esercizio a un nuovo ente politico non-statuale, a base non nazionale. Di conseguenza numerosi e importanti rapporti tra uno Stato e un altro sono gestiti da loro non più direttamente, faccia a faccia, ma mediante la comune appartenenza al nuovo ente politico e con la mediazione, e se necessario, la sanzione di esso.L'Unione Europea è l'esempio più cospicuo di questo fenomeno e di alcune contraddizioni che ne risultano. Formatasi in buona misura per sopperire alla incapacità delle strutture statali nazionali di allestire un ambiente giuridico-politico adatto allo sviluppo di un grande mercato, in seguito le ha inevitabilmente indebolite, negando agli Stati membri competenze sempre più ampie. Inoltre, le sedi decisionali dell'Unione sono diventate l'obiettivo di una intensa politica di pressione da parte di singole regioni e territori infrastatuali, che aggira ed esautora gli organi centrali degli Stati di cui fanno parte. La formazione dell'Unione Europea corrisponde anche a un'altra intenzione politica: la rinunzia alla guerra come strumento finale per la risoluzione di conflitti tra gli Stati membri. Questa rinunzia - in contrasto col principio di sovranità - non ha peraltro condotto alla formazione di una capacità militare e di una politica della sicurezza proprie dell'Unione in quanto tale, che anche per questa ragione non si configura come uno Stato, nemmeno federale.
La sfida della globalizzazione. - Le tematiche della crisi della territorialità e della crisi della sovranità dello Stato si fondono, infine, in una ulteriore sfida allo Stato contemporaneo, dovuta alla cosiddetta 'globalizzazione'. Come si è visto, da tempo molte politiche statali avevano cercato di compensare la posizione di svantaggio in cui il mercato poneva ampi strati della cittadinanza tramite l'estensione e l'intensificazione dei diritti socioeconomici di cittadinanza. Negli ultimi decenni del secolo si oppongono a questa tendenza, in maniera aperta ed efficace, imprese in possesso di capitali imponenti, e che controllano in ampia misura i processi principali di produzione industriale, di formazione e allocazione delle risorse finanziarie, di innovazione scientifico-tecnologica, e di creazione e diffusione delle informazioni e dei contenuti culturali, processi che si fanno sempre più mobili dal punto di vista geografico. Perfino la produzione industriale, che il cosiddetto modello fordista di organizzazione aziendale tendeva a radicare nel territorio - esponendo le aziende all'azione di vigilanza, di controllo e di prelievo fiscale dello Stato, nonché all'azione rivendicativa dei sindacati, che rappresentavano una manodopera incardinata nell'azienda in maniera relativamente stabile -, si fa sempre più mobile, e ciò avviene su una scala geografica che abbraccia potenzialmente non soltanto località diverse entro la stessa regione o nazione, ma varie nazioni o addirittura vari continenti.
Questo vale ancor più per altri processi economici - come quelli relativi alla formazione delle imprese, al finanziamento delle attività industriali, alle decisioni sugli investimenti - che costituiscono un aspetto sempre più importante del sistema economico nel suo insieme, e impiegano tecnologie sempre più avanzate di comunicazione, di creazione e di spostamento dei valori economici, che le grandi imprese gestiscono autonomamente. In tal modo esse possono operare su scala mondiale, in maniera sempre più rapida e mobile, e sottrarsi a forme politiche di verifica e di controllo. Molte grandi imprese impegnate in queste e altre attività economiche e finanziarie 'di punta' si sono rese sostanzialmente extraterritoriali; anche le controversie tra di esse vengono generalmente risolte da arbitrati di carattere formalmente privato, non disciplinati, nella forma e nella sostanza, dalla legislazione di alcuno Stato. Quindi nell'economia contemporanea grandi flussi di ricchezze si formano, si spostano e si dileguano entro spazi invero 'globali', con effetti rapidi e talora pesanti sui livelli d'occupazione dei vari Stati, sulle loro entrate fiscali, sulla loro capacità di programmare e gestire le proprie attività, di generare consenso politico (v. Galgano e altri, 1993). Questo permette alle grandi imprese internazionali di negoziare quegli effetti con gli Stati stessi da una posizione di vantaggio (direttamente o tramite grandi centri decisionali come le banche centrali o gli enti finanziari internazionali), chiedendo che le politiche di quegli Stati favoriscano le loro esigenze e rispettino le loro preferenze.
Naturalmente gli Stati non sono del tutto privi di risorse da investire in quelle negoziazioni; dopo tutto, le attività produttive continuano ad avere bisogno di una base territoriale, per quanto esigua e mobile, e dal punto di vista quantitativo predominano tuttora le attività condotte da unità economiche che operano entro questo o quel territorio nazionale. Inoltre, sotto vari rispetti i processi produttivi richiedono tuttora l'attivo supporto degli Stati, che possono in qualche misura condizionarlo al riconoscimento delle proprie esigenze; ciò vale soprattutto per paesi in via di forte sviluppo, come quelli asiatici, dove gli Stati continuano a svolgere un ruolo economico particolarmente attivo, e a orientarlo a obiettivi di carattere espressamente politico. Nel complesso però c'è un serio sfasamento tra gli spazi operativi degli Stati, tuttora delimitati dai rispettivi territori, e quelli in cui si svolgono, come si è detto, processi economici fondamentali, i cui protagonisti sono imprese interessate a diminuire l'incidenza delle attività statali sulle proprie, o a indirizzarle al perseguimento dei propri interessi. È vero che gli Stati possono costituire enti politici che operano su spazi più vasti, come l'Unione Europea. Ma le iniziative di quest'ultima rivelano l'influenza di dottrine che considerano futili o dannosi i tentativi di gestire e regolare politicamente i processi economici, e di circostanze che accentuano la minaccia concorrenziale, vera o presunta, rappresentata da economie più dinamiche in altre parti del mondo.Alla fine del XX secolo lo Stato si trova dunque esposto a numerosi fenomeni che minacciano di esautorarlo, disarticolarlo, privarlo di risorse, e gli impongono di invertire o quanto meno arrestare la tendenza secolare alla crescita organizzativa e all'ampliamento dei suoi compiti.
Come si è più volte accennato, questa tendenza si doveva in parte al fatto che in linea di principio, quanto meno nello Stato liberaldemocratico, la matrice delle politiche è la politica, intesa come pubblico confronto di opinioni entro la cittadinanza. Ma quel principio aveva da tempo perso credibilità, e questo contribuiva a rendere lo Stato sempre più controverso, ad appannare la sua 'immagine'. Ciò significa che lo Stato contemporaneo è costretto a fare i conti coi suoi detrattori senza potersi plausibilmente appellare alla politica come attività pubblica, critica, consapevole dei cittadini, che troppo a lungo lo Stato stesso ha considerato precipuamente come contribuenti e/o come beneficiari, a titolo privato, delle proprie attività. La persistente anche se velata disattivazione politica della cittadinanza - ad opera a dire il vero non soltanto dello Stato, ma anche dei media e dei partiti politici - si ritorce contro lo Stato stesso. Il potere economico, avendo denunciato l'accordo che aveva pattuito col potere politico in Occidente nei quattro decenni successivi alla seconda guerra mondiale, è più che mai intenzionato a perseguire la sua vocazione cosmopolita e a cercare di imporre su scala mondiale la propria superiorità sul potere politico.
(V. anche Amministrazione pubblica; Autorità; Burocrazia; Costituzionalismo; Costituzioni; Governo, forme di; Maggioranza, principio di; Nazione; Partiti politici e sistemi di partito; Plebiscitarismo; Potere; Sistema politico; Sistemi politici comparati).
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di Lucio Levi
1. Federazione e confederazione. Le forme del processo federativo
In passato, e in un passato remoto che risale all'antichità, le città-Stato del Medio Oriente e della Grecia, successivamente nel Medioevo i principati del Sacro Romano Impero, i cantoni della Svizzera e i Comuni italiani, infine nell'età moderna la Repubblica del Regno di Polonia e le Province Unite dei Paesi Bassi avevano formato unioni politiche o leghe, alle quali spesso era stato dato il nome di federazioni o di confederazioni. I due termini erano considerati equivalenti. Hanno cominciato a distinguersi a seguito della formazione degli Stati Uniti d'America, che diede vita a un governo indipendente al di sopra degli Stati, e questo ha assunto il nome di governo federale, mentre le leghe di Stati (nelle quali il governo dell'Unione era subordinato agli Stati) hanno assunto il nome di confederazioni.
Tuttavia, quando nel 1787 fu approvata la Costituzione degli Stati Uniti, e successivamente nel dibattito per la sua ratifica, la nuova forma di Stato non era ancora designata con una parola specifica. Nella Costituzione è definita con una formula vaga: "più perfetta Unione". Anche il Federalist, il libro che raccoglie gli articoli, pubblicati da Hamilton, Jay e Madison sui giornali di New York per sostenere la ratifica della Costituzione degli Stati Uniti, e che contiene un'analisi delle organizzazioni internazionali fondata sulla distinzione tra federazione e confederazione (v. Federalismo), non è esente da confusione e da ambiguità terminologica. Anzi, le parole federazione e confederazione sono usate in modo promiscuo.Non furono quindi i padri fondatori a coniare il termine che definiva la nuova forma di Stato. Essa non fu il risultato di un piano preordinato, ma del compromesso tra gruppi politici che volevano qualcosa di diverso dalla federazione.
Di conseguenza, dopo che la Costituzione era entrata in vigore, l'esigenza di un uso univoco del linguaggio impose la consuetudine di designare con la parola federazione il nuovo Stato. Da allora in poi divenne possibile riconoscere che la Costituzione aveva dato origine a uno Stato, la cui novità consisteva nel fatto che non eliminava l'indipendenza degli Stati membri. La federazione è infatti, secondo la definizione che ne dà Hamilton, "un'associazione di due o più Stati in un unico Stato" (v. Hamilton e altri, 1787-1788; tr. it., p. 188). Questa forma di Stato assunse il nome di federazione anche per l'influenza esercitata dal Federalist, che costituiva il primo commento della Costituzione, mentre si consolidò l'uso di designare con il nome di Confederazione la vecchia forma di organizzazione, la lega permanente tra gli Stati.D'altra parte, è da ricordare che l'indipendenza non fu proclamata separatamente dalle tredici colonie, ma dalla loro associazione, il Congresso continentale, a nome degli Stati Uniti d'America. Il Congresso fu poi istituzionalizzato dagli Articles of Confederation, che regolavano l'organizzazione dei tredici Stati indipendenti, i quali continuavano a chiamarsi Stati Uniti d'America. Lo stesso nome fu mantenuto dalla Costituzione approvata a Filadelfia nel 1787. Analogamente l'organizzazione dei cantoni svizzeri, denominata 'Confederazione', mantenne lo stesso nome anche dopo l'adozione della Costituzione federale nel 1848.
Ciò mostra come le nuove istituzioni abbiano continuato a essere chiamate con il nome delle vecchie. In altri termini, i nomi Stati Uniti d'America e Confederazione elvetica sono stati utilizzati per designare due diverse forme di organizzazione politica, che si sono succedute nel corso del tempo sullo stesso territorio. La propensione a usare vecchie parole e vecchi schemi concettuali per designare nuovi fenomeni è la prova della difficoltà che incontra la mente umana nel percepire il nuovo al suo primo apparire nella storia.Talvolta a questa tendenza naturale, che è espressione del lento procedere della conoscenza, si associa un calcolo politico di carattere conservatore, che tende a occultare, attraverso la manipolazione del linguaggio, i cambiamenti avvenuti nelle forme di organizzazione politica, allo scopo di renderli più accettabili.I processi federativi, cioè i processi che portano alla costituzione di Stati federali, possono assumere tre diverse forme.
La prima è l'unificazione federale di un insieme di Stati indipendenti. I primi Stati federali della storia, gli Stati Uniti d'America e la Confederazione elvetica, si sono formati in questo modo, cioè attraverso la trasformazione di un'unione confederale di Stati sovrani in Stato federale.In secondo luogo, uno Stato federale può costituirsi attraverso la ridistribuzione del potere e la formazione di comunità autonome nell'ambito di uno Stato unitario. La Costituzione belga del 1994 ha questo carattere.
Esiste una terza forma del processo federativo: l'acquisizione della forma federale nel momento della costituzione dello Stato. Così sono nate le istituzioni federali in Canada, in Australia e in India. Si tratta, com'è noto, di Stati che si sono costituiti nel corso di un processo di liberazione dal dominio coloniale britannico - un processo incruento, a differenza di quello che portò all'indipendenza degli Stati Uniti. Va sottolineato il carattere singolare dell'evoluzione istituzionale di questi Stati. Le Costituzioni del Canada e dell'Australia sono infatti incorporate in leggi del Parlamento di Westminster, il che ha consentito di perpetuare vincoli istituzionali con il Regno Unito, fino al momento in cui queste Costituzioni sono state 'rimpatriate' (quella canadese nel 1982 e quella australiana nel 1986). Il che significa che il riordino delle due Costituzioni ha fatto cadere la maggior parte dei limiti ancora esistenti al pieno esercizio della sovranità di questi paesi. Nel caso dell'India, invece, il Parlamento britannico, trasferendo nel 1947 i poteri della Corona e del Parlamento britannici all'assemblea costituente, mise termine, con un netto atto di rottura, al proprio predominio.
2. Definizione di Stato federale
Possiamo ora definire il carattere essenziale delle istituzioni federali. Quando Hamilton affrontò il problema, ne sottolineò due aspetti. In primo luogo, come abbiamo visto sopra, definì lo Stato federale come "un'associazione di due o più Stati in un unico Stato". In questo modo, egli identificò la novità delle istituzioni federali nel carattere statuale sia dell'Unione sia dei suoi membri. I due ordini di poteri dovevano essere quindi considerati uguali e indipendenti ciascuno nella propria sfera.In secondo luogo, Hamilton sottolineò il fatto che, con la Costituzione, il governo dell'Unione aveva acquisito un potere diretto sui cittadini. Mentre nella confederazione "la legislazione era diretta agli Stati o ai Governi", lo Stato federale consentiva di "estendere l'autorità dell'Unione ai singoli cittadini" (v. Hamilton e altri, 1787-1788; tr. it., pp. 224-225). E questo era un potere che lo Stato federale condivideva con gli Stati, perché anche questi ultimi continuavano a esercitare il loro potere direttamente nei confronti degli individui. Il carattere complesso dello Stato federale consiste quindi nel fatto che esso è una comunità politica composta nello stesso tempo da Stati e da individui.
Certo, l'acquisizione da parte del governo federale di un potere diretto sui cittadini e, viceversa, la partecipazione diretta dei cittadini all'elezione delle autorità federali erano stati i cambiamenti più importanti che avevano segnato la formazione della federazione. Tuttavia, questo requisito delle istituzioni federali non permette di distinguere una federazione da uno Stato unitario con autonomie regionali, in quanto anche le regioni di uno Stato unitario decentrato hanno un potere diretto sugli individui. Però le regioni di uno Stato unitario hanno un'autorità delegata, e di conseguenza il governo centrale può accrescere, ma anche diminuire e persino abolire i poteri delle regioni.
In realtà, la relazione che in uno Stato federale si instaura tra governo federale e Stati federati non ha carattere gerarchico, ma è una divisione di poteri "tra autorità coordinate e indipendenti", come ha sottolineato Albert Dicey (v., 1915⁸, p. 151). In accordo con questa concezione delle istituzioni federali, Kenneth Wheare (v., 1946; tr. it., p. 50) ha definito il principio federale come "quel sistema di divisione dei poteri che permette al governo centrale e a quelli regionali di essere, ciascuno in una data sfera, coordinati e indipendenti". In altri termini, in uno Stato federale ogni governo è indipendente; nessun governo concentra tutti i poteri nelle sue mani. Sia il governo federale sia i governi regionali hanno poteri limitati, e ciascun governo è coordinato con gli altri. Lo schema di distribuzione del potere nello Stato federale ha dunque un duplice scopo: mantenere stabilmente l'unione tra gli Stati e assicurare a ciascuno Stato la propria indipendenza.
In uno Stato unitario invece le regioni sono subordinate al governo centrale e in una confederazione l'organizzazione comune è subordinata agli Stati membri.Il limite della definizione di Wheare consiste nel fatto che non dice nulla circa la natura del regime politico dello Stato federale e degli Stati federati. Anche in un impero si può formare un equilibrio di potere basato sull'indipendenza sia del governo centrale sia delle entità territoriali minori, ma si tratta pur sempre di una situazione di fatto, non garantita né da limiti costituzionali né dalla rappresentanza popolare. In realtà, non è pensabile che il delicato equilibrio tra unione e indipendenza di un insieme di governi possa funzionare e durare nel tempo senza procedure costituzionali di formazione degli organi dell'unione e delle decisioni politiche e senza partecipazione e controllo popolare. Ne consegue che sia gli organi del governo federale sia quelli degli Stati si devono formare secondo procedure democratiche e devono avere, ciascuno nella propria sfera, un potere diretto sugli individui.
Se si considera questo ulteriore requisito, la definizione di Wheare può essere riformulata nel modo seguente: il principio federale è quel sistema di divisione del potere tra un insieme di governi democratici che permette al governo centrale e a quelli regionali di essere, ciascuno in una data sfera, coordinati e indipendenti.Questa definizione dello Stato federale ha conseguenze rilevanti per quanto riguarda la periodizzazione del federalismo. In particolare, essa permette di considerare gli Stati Uniti d'America come l'archetipo della forma federale e di escludere da questa categoria qualsiasi altra precedente forma di organizzazione politica internazionale, imperiale o di altra natura, come per esempio le leghe tra le tribù di Israele all'epoca dei giudici o le leghe tra le città-Stato della Grecia antica e tra i Comuni dell'Italia medievale. In questi casi e in tutti gli altri analoghi che sono stati ipotizzati non è quindi corretto l'uso della qualifica federale, perché le istituzioni non hanno una struttura democratica.Naturalmente, questa definizione delinea un modello, e i modelli si discostano sempre dalla realtà. Di conseguenza, come suggerisce Wheare, una determinata formazione politica concreta potrà definirsi Stato federale quando il principio federale vi sarà applicato in misura prevalente. Quando ciò non avviene, perché il principio federale, pur dando un'impronta all'organizzazione complessiva delle istituzioni, subisce eccezioni rilevanti, sarà appropriato parlare di governo e di costituzione quasi-federale. È questo il caso dell'India, dove il Parlamento federale ha il potere di ammettere o costituire nuovi Stati, cambiare i confini e il nome degli Stati membri con legge ordinaria e anche senza il consenso degli Stati federati.
3. Caratteristiche istituzionali dello Stato federale
Una delle questioni più controverse connesse con la natura dell'innovazione istituzionale che distingue le costituzioni federali riguarda la sede della sovranità, e in particolare il problema relativo alla divisibilità o meno della sovranità.Per esempio, nel Federalist si sostiene la tesi che la sovranità sia divisibile e che la costituzione federale degli Stati Uniti abbia effettivamente realizzato la divisione della sovranità tra governo federale e Stati membri. Altri autori, in conformità con il concetto secondo cui il potere supremo dello Stato non deve avere rivali entro la sua sfera di azione, affermano che la sovranità è indivisibile o, in altri termini, che non possono coesistere più poteri sovrani nell'ambito dello stesso Stato. Tuttavia, sulla base del postulato, largamente condiviso, della indivisibilità della sovranità, gli studiosi sono giunti a conclusioni opposte. Secondo alcuni autori, per esempio Calhoun, la sovranità appartiene agli Stati. Infatti, secondo questo autore, lo Stato federale è una creazione degli Stati membri, i quali non rinunciano perciò alla sovranità. Secondo altri autori, come Lucatello, la sovranità appartiene invece al potere centrale, che la concentra nelle proprie mani, sottraendola agli Stati membri.
Questa così profonda diversità di opinioni dipende dal fatto che, nell'analisi delle istituzioni federali, di solito si distinguono due soli elementi: il governo federale e i governi statali. In realtà, come suggerisce Hans Kelsen, lo Stato federale è composto da tre elementi: il governo federale, i governi statali e il loro insieme, vale a dire lo Stato federale. Allora risulta chiaro che il requisito della sovranità deve essere attribuito allo Stato federale.Si giunge alla stessa conclusione partendo dal postulato dell'unità e dell'indivisibilità della sovranità popolare e considerando che in uno Stato federale il popolo ha un carattere pluralistico, che si esprime in una duplice cittadinanza, quella statale e quella federale. Dunque, in uno Stato federale, l'unità della sovranità del popolo non viene meno. Essa si esprime attraverso due centri di potere: i governi statali e il governo federale.Come aveva affermato James Wilson nel corso della Convenzione che si era riunita nello Stato della Pennsylvania per ratificare la Costituzione degli Stati Uniti, "il supremo potere" risiede "nel popolo come fonte del governo [...]. Esso può distribuirne una parte [...] ai governi degli Stati" e "un'altra al governo degli Stati Uniti" (J.B. McMaster e F. Stone, Pennsylvania and the Federal Constitution. 1787-1788, 1888, pp. 316 e 302).
Questa conclusione relativa alla titolarità della sovranità è confermata dall'esame della procedura di emendamento della costituzione. Infatti il potere di revisione costituzionale non è attribuito a uno specifico organo costituzionale. Se fosse stata adottata questa soluzione, l'equilibrio federale sarebbe stato esposto al pericolo di rottura a vantaggio di uno dei due livelli di governo che costituiscono lo Stato federale.L'equilibrio costituzionale di uno Stato federale richiede che il potere di emendamento non dipenda da un'iniziativa unilaterale né del governo federale né dei governi degli Stati, ma sia esercitato in cooperazione dalle due autorità e la decisione sia eventualmente confermata dal popolo tramite referendum, come avviene in Svizzera e in Australia. Ciò significa che il potere costituente in uno Stato federale appartiene nella sua indivisibile unità al popolo, il quale lo esercita attraverso una decisione alla quale partecipano i poteri legislativi federale e statali e talvolta direttamente attraverso referendum. La procedura di emendamento prevista dalla Costituzione tedesca è più semplice: essa richiede che si formi una maggioranza dei due terzi dei membri dei due rami del Parlamento. Il popolo federale vi partecipa attraverso il Bundestag, mentre i Länder vi partecipano attraverso il Bundesrat.
È da segnalare che la procedura di revisione costituzionale in uno Stato federale differisce da quella dello Stato unitario, nel quale il potere di cambiare la costituzione appartiene alle autorità del governo centrale, e da quella della confederazione, dove invece il patto confederale può essere mutato solo con un accordo unanime degli Stati membri.
L'indipendenza politica dei due livelli di governo di uno Stato federale si fonda sull'attribuzione a ciascuno dell'autonomia impositiva. Hamilton, a questo proposito, definisce un principio generale: "Il denaro è considerato, ed a ragione, il principio vitale di ogni corpo politico, quello che ne sostiene la vita e i movimenti e che gli consente di adempiere alle proprie più essenziali funzioni". Pertanto il potere sufficiente ad assicurarsene "una quantità regolare e adeguata, per quanto lo permettano le risorse del paese, deve essere ritenuto elemento indispensabile di ogni costituzione". In altri termini, l'indipendenza politica di ogni centro di potere presuppone l'indipendenza finanziaria. Di conseguenza, un sistema federale non può funzionare senza che si doti ogni centro di potere delle risorse finanziarie necessarie a perseguire i propri obiettivi politici. Le imposte e quindi le entrate "sono altrettanto indispensabili ai fini delle amministrazioni locali quanto lo sono nei riguardi dell'Unione" (v. Hamilton e altri, 1787-1788; tr. it., pp. 314 e 322).
Il federalismo fiscale presuppone che ogni livello di governo provveda con proprie entrate a coprire le spese derivanti dall'adempimento delle proprie funzioni. Il principio secondo cui la spesa di ogni ente pubblico deve essere finanziata da risorse proprie rappresenta un incentivo a una condotta responsabile nell'uso del denaro pubblico e a un impiego più efficiente delle risorse e costituisce, in definitiva, lo stimolo più efficace a contenere la spesa pubblica.
Una delle conseguenze più negative del centralismo è la mancanza di responsabilità degli enti territoriali minori nella gestione della spesa pubblica. La scarsità di risorse proprie degli enti locali ha finito con il consolidare il principio distorto secondo cui competerebbe al governo centrale coprire il disavanzo dei bilanci dei livelli di governo periferici.Tuttavia, la ripartizione delle entrate tributarie basata sulla distribuzione del gettito delle imposte tra i due livelli di governo dello Stato federale comporta notevoli disparità derivanti dalla diversa capacità fiscale delle regioni. Per assicurare l'uniformità delle condizioni di vita, negli Stati federali contemporanei, e segnatamente nella Repubblica Federale di Germania, sono stati istituiti meccanismi perequativi tendenti a determinare trasferimenti di risorse dalle regioni forti a quelle deboli.
Le prime forme di Stato federale sono state pensate sulla base del modello dello Stato minimo, uno Stato nel quale i pubblici poteri intervenivano il meno possibile nei processi economico-sociali e scarse erano le relazioni tra gli Stati e tra questi ultimi e il governo federale. La divisione delle competenze era organizzata in modo da assegnare al governo federale la responsabilità delle relazioni internazionali e del mantenimento dell'unità del mercato e agli Stati federati le competenze residue, mentre le competenze concorrenti (che il governo federale condivide con i governi degli Stati) erano sostanzialmente limitate all'ordine pubblico e al fisco. Tutto ciò non corrisponde più al funzionamento degli Stati federali contemporanei.
L'affermazione del modo di produzione industriale si è tradotta in un crescente intervento dello Stato nei processi economico-sociali. Tuttavia l'estensione delle competenze dello Stato non si risolve necessariamente in un incremento delle sole competenze del governo centrale. Negli Stati federali questo processo interessa anche i governi degli Stati. Per evitare che queste accresciute capacità di intervento dei pubblici poteri generassero conflitti, che avrebbero potuto essere distruttivi per i delicati equilibri costituzionali degli Stati federali, si è imposta dovunque una crescente cooperazione tra governo federale e governi statali.
In sostanza, un numero crescente di obiettivi politici richiede un intervento coordinato dei due livelli di governo e un impegno comune nella loro realizzazione. Proprio nei settori nei quali si è sviluppato di più l'intervento pubblico, come la politica economica e sociale, gli Stati membri hanno conservato una relativa autonomia, partecipando alla realizzazione di programmi comuni con il governo federale. Questa evoluzione politica e istituzionale ha segnato il passaggio da un modello di federalismo duale a un modello di federalismo cooperativo. Questa concezione implica che mentre originariamente la distribuzione delle competenze tra Stati e governo federale era organizzata secondo il criterio prevalente delle competenze esclusive, con il federalismo cooperativo avviene il tendenziale superamento delle competenze esclusive e tutte le competenze tendono a diventare concorrenti, anche la politica estera. Per esempio le Costituzioni svizzera, tedesca e belga prevedono che, nelle materie di loro competenza, le comunità federate possano stipulare accordi internazionali.
La natura della federazione, in quanto formazione politica che organizza un insieme di Stati sotto un governo comune, esige che l'accordo che definisce la distribuzione del potere tra governo centrale e governi regionali abbia un'autorità assoluta. Si deve cioè applicare il principio della supremazia della costituzione. Per raggiungere questo obiettivo la costituzione deve essere scritta, in modo da evitare il più possibile il rischio di equivoci circa la sua interpretazione. Inoltre deve essere rigida, deve avere cioè un'autorità superiore a quella delle leggi ordinarie. Il principio della supremazia della costituzione presuppone infatti l'esistenza di una gerarchia di norme, cioè la superiorità della norma costituzionale su quella ordinaria, e una procedura speciale per emendare la costituzione, basata su maggioranze qualificate. Di conseguenza, le assemblee legislative sono subordinate alla costituzione.
Con l'invenzione delle istituzioni federali lo Stato cambia natura. Queste istituzioni consentono infatti di superare la forma tradizionale dello Stato, quella unitaria, che unifica tutti i poteri in un solo centro. Le innovazioni più significative riguardano la divisione dei poteri tra governo federale e Stati federati e l'organizzazione della democrazia su due livelli di governo.In primo luogo ciò che distingue lo Stato federale da quello unitario è la doppia divisione del potere tra governi degli Stati e governo federale, ciascuno dei quali a sua volta è diviso in diversi rami: legislativo, esecutivo e giudiziario. Essa assicura, secondo Madison, una "doppia garanzia di libertà per il popolo. I vari governi, infatti, si controlleranno l'un l'altro e al medesimo tempo si autocontrolleranno" (v. Hamilton e altri, 1787-1788; tr. it., pp. 459-460). La famosa massima di Lord Acton, secondo cui "il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente", mette in luce il pericolo della degenerazione in dispotismo da cui nessun potere è immune, indipendentemente dall'ideologia o dalle buone intenzioni che lo ispirano. Nemmeno una federazione (né tantomeno la Federazione mondiale) può dirsi quindi esente dal rischio di abusi e di arbitri. L'unica garanzia efficace è rappresentata dalla divisione del potere, che permette di correggere la tendenza naturale alla concentrazione del potere, contrapponendo al potere un potere equivalente che lo limiti e lo controbilanci. In questo modo, "il potere ferma il potere", come aveva scritto con una felice formulazione Montesquieu.Ora, la doppia divisione del potere che caratterizza lo Stato federale costituisce la più forte limitazione del governo che sia stata sperimentata nella storia delle istituzioni politiche, il più solido baluardo che sia stato elevato contro gli abusi e gli arbitri del potere, la garanzia più efficace che sia stata ideata per proteggere la libertà politica.
In secondo luogo, lo Stato federale costituisce un'innovazione nella rappresentanza democratica, che si esprime sia a livello statale, sia a livello federale. Il Federalist contiene una tipologia che considera lo Stato federale come la terza tappa dell'evoluzione delle forme di governo democratico, la prima essendo la democrazia assembleare delle città-Stato e la seconda la democrazia rappresentativa degli Stati nazionali. Scrive Madison in proposito che "il confine naturale" della prima forma di democrazia "è dato da una distanza dal punto centrale, che possa permettere anche ai cittadini che risiedono più lontano di riunirsi tante volte, quante ne sono necessarie per lo svolgimento delle loro funzioni pubbliche, ed essa potrà comprendere solo il numero di cittadini che possono materialmente riunirsi per tali funzioni; così il limite naturale" della seconda forma di democrazia "sarà dato da quella distanza dal centro che consenta ai rappresentanti di riunirsi, ogniqualvolta ciò sia necessario per l'amministrazione della cosa pubblica" (v. Hamilton e altri, 1787-1788; tr. it., p. 216).
Le istituzioni federali consentono alla democrazia rappresentativa di esprimersi su due livelli (ma potenzialmente su più livelli) di governo. In sostanza, il sistema federale contiene la formula per applicare il principio dell'autogoverno a una pluralità di governi che coesistono all'interno di una cornice costituzionale democratica che li comprende tutti. Questa tipologia delle forme di governo democratico (assembleare, rappresentativa e federale) è elaborata sulla base della relazione esistente tra queste tre innovazioni istituzionali e la dimensione dello Stato democratico.Con la democrazia assembleare la dimensione dello Stato democratico non poteva essere più ampia di una città, cioè del numero di persone che potevano riunirsi in una piazza. La democrazia rappresentativa ha consentito di estendere il governo democratico su scala nazionale. La democrazia federale, che ha consentito di unificare territori grandi come intere regioni del mondo (Stati Uniti, India, Russia), può estendersi ancora fino a comprendere tutto il mondo, realizzando così il sogno kantiano della pace perpetua. Sarà sufficiente aggiungere a quello regionale un nuovo livello di governo: quello mondiale, già prefigurato dall'ONU.
Lo Stato federale non è soltanto una nuova forma di Stato; è anche una nuova forma di organizzazione internazionale. Esso segna l'inizio dell'era democratica nella storia delle organizzazioni internazionali. Con l'invenzione delle istituzioni federali cominciano a formarsi unioni di Stati i cui organi costituzionali hanno natura democratica, non diplomatica. Le relazioni tra gli Stati cessano di essere dominate dalla violenza e assumono carattere costituzionale. I conflitti tra gli Stati trovano una composizione pacifica sulla base di una legge e di fronte a un tribunale.Mentre gli organi di governo delle organizzazioni internazionali e anche delle unioni di Stati sono formati dai rappresentanti dei governi e le loro decisioni si applicano solo ai governi, con le istituzioni federali essi sono eletti direttamente dal popolo e le decisioni dell'unione si applicano direttamente ai cittadini. Ciò significa che le istituzioni federali consentono di sottoporre le relazioni internazionali, che sono il terreno dello scontro diplomatico e militare tra gli Stati, a un governo democratico sovranazionale. Le istituzioni federali sono dunque il veicolo della democrazia internazionale, cioè dell'estensione della democrazia al di là dei confini tra gli Stati, dove la guerra è ancora il mezzo cui, in ultima istanza, gli Stati ricorrono per risolvere i loro conflitti.
La più grave difficoltà pratica nel costituire un sistema legislativo bicamerale in una società democratica (nella quale è necessario scartare la soluzione tradizionale di un senato di estrazione aristocratica) consiste nell'identificare il criterio in base al quale determinare la composizione della camera alta, che condivide il potere legislativo con l'assemblea fondata sulla rappresentanza diretta del popolo. La soluzione adottata negli Stati Uniti fu quella di attribuire al Senato la funzione di rappresentare in modo paritetico gli Stati (due senatori per Stato). La stessa soluzione è stata adottata in Svizzera, in Australia e in Russia, mentre Canada, Germania, India e Belgio hanno scelto il principio della rappresentanza ponderata.Si tratta di un'innovazione istituzionale di grande rilievo. Grazie ad essa si giunse a considerare gli Stati membri come espressione di "interessi costituiti", che pretendevano di essere difesi attraverso la rappresentanza negli organi centrali dello Stato e la partecipazione al processo di formazione della legislazione federale.
Il principio della rappresentanza degli Stati nel senato è espressione dell'idea che la semplice rappresentanza proporzionale del popolo nel parlamento non è sufficiente a conferire legittimità alle leggi; che, di conseguenza, questa forma di rappresentanza deve essere combinata con quella degli Stati, in modo che le parti meno densamente popolate e meno sviluppate della federazione abbiano una rappresentanza superiore a quella proporzionale. Il fatto che le leggi debbano ottenere non solo il consenso della maggioranza dei rappresentanti del popolo della federazione, ma anche quello della maggioranza degli Stati federati, conferisce al processo legislativo quel carattere di equilibrio e di ponderazione necessario a temperare le emozioni temporanee che spesso influenzano le decisioni della camera eletta a suffragio universale. Ma, a differenza delle camere alte di estrazione aristocratica, i membri del senato federale non sono selezionati nell'ambito di una classe, ma degli Stati, cioè di istituzioni democratiche.
Nella maggior parte degli Stati federali, con l'eccezione della Germania, le due camere hanno poteri tendenzialmente paritari nel campo legislativo. Però il controllo sull'esecutivo, cioè il potere di dare e di togliere la fiducia al governo, spetta solo alla camera bassa. Gli Stati Uniti e la Russia rappresentano i soli esempi in cui la camera alta ha più poteri della camera bassa. Infatti i trattati internazionali e la nomina dei più alti funzionari dell'amministrazione federale diventano esecutivi solo se approvati dal Senato degli Stati Uniti. Il Consiglio della Federazione russa ha poteri analoghi, che si estendono anche a materie che comprendono la modifica dei confini interni, la dichiarazione di guerra e dello stato di emergenza e l'impiego delle forze armate fuori dai confini della Russia. Tuttavia esso ha poteri più deboli della Duma (la Camera dei deputati) nel processo legislativo, avendo quest'ultima il potere di respingere emendamenti proposti dal Consiglio con una maggioranza di due terzi.
L'emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che decise nel 1913 l'elezione diretta del Senato, trasformò quest'ultimo in un'espressione della volontà del popolo dell'intera federazione, cioè in un organo che rappresentava interessi unitari e, in definitiva, in un'inutile duplicazione della Camera dei rappresentanti. Questo emendamento non è che un aspetto del progressivo accentramento del potere che ha interessato tutti gli organi costituzionali. Rimase aperto però il problema di trovare una formula che consentisse di fondare il Senato su un tipo di rappresentanza diversa da quella diretta del popolo.Ci sono sempre state camere alte composte da membri non eletti direttamente dal popolo e ne esistono ancora oggi, dalla Camera dei lord britannica, al Senato francese a quello canadese, che è formato da membri nominati a vita dal capo dello Stato, il governatore generale. Ma la Germania è il solo regime democratico che abbia un senato - il Bundesrat - composto dai rappresentanti dei governi dei Länder.
È questo il modo più efficace di combinare nel potere legislativo la rappresentanza diretta con quella indiretta e di far partecipare i governi degli Stati membri alla definizione degli orientamenti politici della federazione. La rappresentanza dei governi piuttosto che degli individui è così inconsueta che è considerata incompatibile con la nozione convenzionale di democrazia quale si è cristallizzata nelle istituzioni dello Stato unitario. Abitualmente essa è respinta in nome del principio della rappresentanza diretta dei cittadini nelle assemblee legislative. Persino uno studioso delle istituzioni federali autorevole come Wheare (v., 1946; tr. it., p. 59) considera il fatto che il Senato degli Stati Uniti, nella sua forma originaria, fosse composto da rappresentanti scelti dalle assemblee legislative degli Stati "un'eccezione al principio federale", perché in questo modo "una parte del governo centrale degli Stati Uniti veniva a dipendere, in una certa qual misura, da una parte dei governi regionali".
In realtà, l'innovazione rappresentata dalla democrazia federale consiste nell'aver introdotto nella vita politica una nuova dimensione della democrazia: quella internazionale. Essa consente di realizzare il controllo popolare della politica internazionale, ma sulla base di nuove istituzioni secondo cui le decisioni democratiche devono ricevere, come abbiamo visto, il consenso sia della maggioranza del popolo (camera dei popoli) sia degli Stati (camera degli Stati). La rappresentanza uguale (o ponderata) degli Stati è un vestigio del fatto che, originariamente, essi erano enti sovrani, e riproduce in seno alle istituzioni federali il principio dell'uguaglianza degli Stati che vige nel diritto internazionale.In definitiva, l'indipendenza degli Stati in seno alle istituzioni federali si esprime in modo più incisivo attraverso i governi che non tramite senatori eletti direttamente dal popolo. Inoltre, la presenza dei governi degli Stati nelle istituzioni federali rappresenta una solida garanzia contro la tendenza all'accentramento, che costituisce uno degli aspetti più caratteristici dell'involuzione delle federazioni contemporanee.
È da sottolineare, tuttavia, che se la camera degli Stati fosse composta da membri degli organi legislativi degli Stati, come era previsto dalla Costituzione degli Stati Uniti prima del 1913, vi sarebbero rappresentate anche le forze dell'opposizione e non solo quelle di governo.Quanto alla struttura del governo, la formula presidenziale degli Stati Uniti, adottata nel 1993 anche in Russia, costituisce più un'eccezione che la regola. La maggior parte degli Stati federali (Canada, Australia, India, Germania e Belgio) ha infatti un regime di tipo parlamentare con un governo responsabile nei confronti di un solo ramo del parlamento, la camera bassa, che è eletta direttamente dal popolo, secondo il modello del sistema di gabinetto britannico, e un capo dello Stato con il compito di colmare i vuoti di potere che si creano in caso di crisi di governo e di elezioni.
Un caso a parte è rappresentato dalla Svizzera, la cui Costituzione, analogamente a quella degli Stati Uniti, contiene la scelta di un governo indipendente dal parlamento, con la conseguenza che il parlamento non può determinare le dimissioni del governo e quest'ultimo non può sciogliere il primo. Tuttavia il regime consiliare svizzero si distingue per il fatto che le due camere eleggono in seduta comune l'esecutivo, ma questo rimane in carica per l'intera legislatura senza che possa ricevere la sfiducia dal parlamento. È una scelta istituzionale che attribuisce al parlamento un ruolo politico marginale, perché gli impedisce di esercitare un'influenza sull'azione del governo. D'altra parte un governo che non è espressione diretta del voto del popolo (come invece avviene nel regime presidenziale) e che non è costretto a confrontarsi continuamente con gli orientamenti politici del parlamento (come invece avviene nel regime parlamentare), tende ad assumere un ruolo amministrativo piuttosto che politico. Si tratta in definitiva di una scelta adatta a un piccolo Stato come la Svizzera, ma non a una grande federazione, come sarebbe per esempio quella europea, destinata a essere investita di grandi responsabilità politiche interne e internazionali.
È da ricordare che negli Stati federali sono stati sperimentati due diversi sistemi amministrativi. Quello adottato dagli Stati Uniti consiste nel riconoscere autonomia amministrativa a ogni livello di governo; come il governo federale nomina propri funzionari negli Stati per dare esecuzione alle leggi federali, così i governi regionali hanno alle loro dipendenze un proprio apparato amministrativo.Invece nel sistema adottato in Germania l'applicazione di gran parte della legislazione federale è delegata alle amministrazioni regionali, mentre le autorità federali solo in casi eccezionali, come nell'amministrazione finanziaria, hanno un potere di supervisione circa la conformità dei provvedimenti di applicazione alla legislazione federale. Solo in settori limitati (per esempio, servizi esteri, esercito, polizia di frontiera, traffico aereo e ferroviario, telecomunicazioni) il governo federale dispone di una propria amministrazione.
Questo sistema offre il vantaggio di utilizzare perlopiù un solo apparato amministrativo - quello regionale - anche da parte delle autorità federali, il che consente di evitare costose duplicazioni. Tuttavia, poiché i governi regionali svolgono di fatto la funzione di agenti del governo federale, bisogna evitare due rischi opposti: che le amministrazioni regionali intralcino l'applicazione delle decisioni federali e che la supervisione federale si trasformi in una limitazione dell'autonomia degli Stati federati. I meccanismi del federalismo cooperativo consentono di risolvere eventuali conflitti tra i due livelli di governo.
Infine, mentre la storia degli Stati Uniti è stata caratterizzata da una crescente concentrazione di poteri e di risorse nelle mani del governo federale e di funzioni nella capitale, in Germania si è sperimentato con successo un principio opposto: quello della capitale reticolare.Due dati sono sufficienti a percepire le dimensioni del processo di accentramento del potere a Washington. Nel 1790 il governo federale era costituito da tre soli dipartimenti (esteri, difesa e tesoro) e aveva alle sue dipendenze 350 impiegati. Oggi i dipartimenti sono 14 e gli impiegati sono circa tre milioni. La capitale reticolare consente invece di ridistribuire le funzioni del governo federale tra città diverse dalla capitale e di contrastare e di correggere la tendenza a esaltare il ruolo del governo nazionale attraverso la concentrazione di una grande quantità di risorse e di funzioni nella capitale. In Germania, la Corte costituzionale ha sede a Karlsruhe e la Banca centrale a Francoforte. Inoltre il trasferimento della capitale a Berlino non comporterà lo spostamento di tutti i ministeri. Alcuni rimarranno a Bonn.
Mentre a partire dalle rivoluzioni inglesi del Seicento in Europa si è affermata una concezione della democrazia basata sul principio della supremazia del parlamento, compendiata dalla famosa massima di De Lolme: "Il Parlamento può fare tutto eccetto che mutare un uomo in donna e una donna in uomo", il costituzionalismo americano rimane fedele all'antico principio secondo cui ogni autorità deve essere limitata. Però lo attua con una nuova istituzione: il potere di revisione costituzionale delle leggi, attribuito alla magistratura, che consente di far valere il principio della supremazia della costituzione.
Questo potere non può essere definito antidemocratico, e neppure sono fondate le preoccupazioni di una prevalenza del giudiziario nel sistema politico federale. Hamilton afferma che i tribunali furono designati per "essere un organo intermedio tra il popolo e il corpo legislativo, al fine, tra l'altro, di mantenere quest'ultimo nei limiti imposti al suo potere. L'interpretazione delle leggi è compito preciso e specifico delle Corti [...] Qualora dovesse verificarsi discordanza insanabile tra la legge costituzionale e quella ordinaria, si dovrà, naturalmente, dar preferenza a quella verso cui siamo legati da obblighi maggiori; in altre parole, alla legge ordinaria si dovrà preferire la costituzione, ai voleri dei delegati del popolo quelli del popolo stesso. Né, d'altronde, una conclusione siffatta implica comunque una superiorità del potere giudiziario rispetto a quello legislativo.
Essa presuppone soltanto che i poteri del popolo siano superiori ad ambedue; e che laddove la volontà del legislativo, manifestatasi nelle leggi, dovesse contrastare con quella del popolo, espressa nella costituzione, i giudici dovranno essere ossequienti a quest'ultima piuttosto che alla prima. Essi dovranno basare le proprie decisioni sulle leggi fondamentali e non su quelle che non sono fondamentali" (v. Hamilton e altri, 1787-1788; tr. it., p. 625).
È noto che la Costituzione non disponeva nulla in modo esplicito circa il potere dei tribunali di annullare le leggi incostituzionali. Tuttavia questo potere era implicito nel carattere rigido della Costituzione, la quale stabiliva una gerarchia di norme e prescriveva che le leggi ordinarie dovessero essere conformi a quelle costituzionali. Nel 1803 la sentenza Marbury vs. Madison della Corte suprema confermerà questa interpretazione della Costituzione. Ciò significa che la magistratura ha la "competenza delle competenze", ha cioè il potere di definire, in caso di conflitto, il confine tra i due ordini di poteri indipendenti che coesistono in uno Stato federale.
I tribunali degli altri Stati federali si discostano dal modello degli Stati Uniti, ma le costituzioni federali dei paesi anglosassoni si avvicinano di più a quel modello. Nella tradizione di questi paesi i tribunali hanno un ruolo molto più rilevante nell'evoluzione del diritto di quanto non avvenga nel continente europeo. Il diritto prodotto dalle assemblee legislative si affianca a quello dichiarato dai tribunali, la common law, che si impone sulla base dell'autorità del 'precedente'. Invece negli Stati federali costituitisi in Europa (Svizzera, Germania e Belgio), dove prevale il diritto elaborato dalle assemblee legislative ed esiste una vasta sfera di competenze concorrenti, le autorità federali e quelle regionali preferiscono aprire un negoziato per giungere a una soluzione preventiva delle controversie, utilizzando i meccanismi del federalismo cooperativo. Di conseguenza, i tribunali costituzionali non hanno sviluppato quel rilevante ruolo politico che distingue la Corte suprema, l'organo di vertice del sistema giudiziario degli Stati Uniti.
Nella maggior parte degli Stati federali l'organizzazione della banca centrale non si distingue da quella degli Stati unitari. Fanno eccezione gli Stati Uniti e la Germania.Le banche centrali, create per consolidare la sovranità interna dello Stato, rappresentarono uno strumento dei governi per alimentare la capacità di spesa di questi ultimi e per controbilanciare il potere delle banche private. L'esperienza negativa dell'inflazione ha promosso l'affermazione del principio dell'autonomia della banca centrale, la quale ha assunto il compito istituzionale di salvaguardare il valore della moneta contro le tentazioni dei governi di finanziare la spesa pubblica con l'emissione di moneta. La stabilità monetaria (e quindi la lotta all'inflazione, intesa come l'imposta più iniqua) si è affermato dunque come un obiettivo prioritario nell'azione delle banche centrali.
Il significato dell'autonomia istituzionale della banca centrale è quello di porre degli argini alla assoluta discrezionalità dei governi nelle decisioni di politica monetaria. Il compito istituzionale della banca centrale si basa sull'osservanza di parametri oggettivi, e quindi si traduce nell'esigenza di affidare a un organo neutrale la funzione di difendere nel corso del tempo il valore della moneta. Questa funzione dell'istituto di emissione deve dunque essere separata da quella di indirizzo economico spettante al governo e al parlamento, in modo che il funzionamento del mercato non sia alterato da modifiche nel valore di acquisto della moneta.Questo meccanismo è analogo a quello che attribuisce alle corti costituzionali il potere di annullare le leggi e gli atti amministrativi non conformi alla costituzione. Esso pone un limite alla assoluta discrezionalità nelle decisioni delle assemblee legislative e degli organi esecutivi. Come la corte costituzionale svolge una funzione di garanzia del cittadino, elevando un argine alla discrezionalità degli organi dello Stato che hanno il compito di prendere decisioni politiche e amministrative, così la banca centrale svolge un analogo ruolo rispetto alle alterazioni al funzionamento del mercato derivanti dalle modifiche del valore della moneta.
Non è un caso che i paesi che hanno meglio salvaguardato l'autonomia delle banche centrali siano quelli con una struttura costituzionale di tipo federale, perché caratterizzata dall'interazione di una pluralità di poteri "indipendenti e coordinati". Infatti negli Stati Uniti e in Germania la composizione del Consiglio della banca centrale è caratterizzata da una forte presenza dei rappresentanti delle banche regionali. Inoltre i membri del Consiglio sono nominati dal presidente della federazione per un lungo periodo di tempo (14 anni negli Stati Uniti, 8 anni in Germania), il che ne assicura l'indipendenza di giudizio. Infine la banca è indipendente dal governo e in Germania anche dal parlamento.
Dal momento che il potere non è riunito in un solo centro, nello Stato federale esistono le condizioni più favorevoli per l'autogoverno locale. È da rilevare però che tutte le costituzioni federali definiscono solo due livelli di governo indipendenti: quello federale e quello regionale. Il sistema delle autonomie delle comunità territoriali più piccole è quindi materia affidata alla competenza degli Stati membri. In altri termini, i comuni e gli altri enti territoriali minori sono considerati come parti integranti degli Stati federati. Il governo locale ha quindi un'autonomia delegata e poteri subordinati rispetto agli Stati federati. Si può quindi affermare che la distribuzione del potere su due soli livelli di governo, se argina il fenomeno del centralismo sul piano della federazione, non lo elimina, ma lo sposta sul piano regionale. Tuttavia, mentre negli Stati unitari il funzionamento del governo locale è disciplinato da un'unica legislazione e secondo un modello uniforme, negli Stati federali esso dipende dalla legislazione dei vari Stati e quindi si differenzia sul territorio, adattandosi alle esigenze locali.
L'autogoverno locale costituisce nello stesso tempo una condizione essenziale della libertà e della democrazia. Innanzi tutto esso implica che si affidi ai poteri locali la gestione degli affari che riguardano più da vicino la vita ordinaria del cittadino. Esso rappresenta l'antidoto più efficace nei confronti dell'accentramento del potere nelle mani del governo centrale. È, secondo Tocqueville, "la scuola della libertà". "Nel comune risiede la forza dei popoli liberi", egli scrisse. "Le istituzioni comunali sono per la libertà quello che le scuole elementari sono per la scienza; esse la mettono alla portata del popolo, gliene fanno gustare l'uso pacifico e l'abituano a servirsene. Senza istituzioni comunali, una nazione può darsi un governo libero, ma non possiede lo spirito della libertà". D'altra parte, il principio della sovranità popolare ha la sua prima ed essenziale espressione nella partecipazione del popolo al controllo del governo locale: "Eliminate la forza e l'indipendenza del comune, non vi troverete che amministrati e non dei cittadini" (v. Tocqueville, 1835-1840, ed. 1961, vol. I, pp. 59 e 66).
4. La novità della federazione europea: un patto federale tra Stati nazionali
L'Unione europea non è ancora uno Stato: è una costruzione incompiuta. Considerata staticamente, è un'unione di Stati nella quale prevale ancora il principio confederale. In altri termini, i governi nazionali conservano ancora un ruolo dominante. Se la si considera invece nella sua dinamica evolutiva, essa si presenta come un laboratorio nel quale stanno emergendo, attraverso un processo di approssimazioni successive, i lineamenti di una forma statuale di tipo nuovo, di cui gli Stati federali esistenti costituiscono solo un vago antecedente. La novità dell'esperimento federativo europeo consiste nella ricerca di una risposta istituzionale alla crisi dello Stato sovrano, che dipende dal fatto che l'internazionalizzazione del processo produttivo ha fatto perdere agli Stati le leve del controllo dell'economia, della sicurezza e di un numero crescente di problemi che hanno assunto dimensioni internazionali. Invece tutte le unioni federali precedenti avevano l'obiettivo di creare un nuovo Stato sovrano di grandi dimensioni e/o di carattere multinazionale (Stati Uniti, Svizzera, ecc.) oppure di ridistribuire il potere all'interno di uno Stato sovrano preesistente (Germania, Belgio, ecc.).
La trasformazione della Svizzera da Confederazione in Stato federale (1848) fu un processo di unificazione politica che ha una forte analogia con le unificazioni italiana e tedesca e motivazioni simili: adeguare la dimensione dello Stato a quella del mercato e alle condizioni dell'indipendenza politica in un'Europa che si stava organizzando in Stati nazionali. Analogamente la formazione del primo Stato federale (gli Stati Uniti) può essere considerata, come ha suggerito il politologo americano Martin S. Lipset, il primo episodio del movimento di liberazione nazionale dei popoli assoggettati alla dominazione coloniale. Lo stesso carattere hanno gli altri Stati federali, formatisi a seguito della separazione dall'Impero britannico (Canada, Australia e India).
Nemmeno la riorganizzazione in senso federale di Stati unitari, come è avvenuto nel 1994 in Belgio, ha rappresentato una risposta alla crisi dello Stato sovrano, derivante dalla contraddizione tra le sue limitate dimensioni e l'internazionalizzazione del processo produttivo. Tale riorganizzazione ha avuto semplicemente il carattere di una redistribuzione di poteri nell'ambito di uno Stato privo di una reale autonomia internazionale.In sostanza, tutti questi processi federativi si sono svolti nell'orizzonte della stessa epoca storica: quella nella quale lo Stato nazionale era la forma di organizzazione politica dominante e non esistevano alternative all'organizzazione del mondo in Stati sovrani indipendenti.
Le prime forme di governo federativo appartengono dunque alla stessa fase della storia nella quale si sono formati gli Stati nazionali.
In definitiva, tutti gli Stati federali finora esistiti non hanno messo in discussione il principio della divisione del mondo in Stati sovrani, ma l'hanno accettata come un fatto ineluttabile; la forma di unità politica che essi hanno garantito non si differenzia sostanzialmente da quella degli Stati unitari decentrati. Il fatto è che nelle federazioni finora esistite le comunità federate non hanno avuto la natura di Stati. Infatti hanno il nome di cantoni, province, regioni o paesi e anche nei casi in cui sono chiamate Stati (Stati Uniti, Australia e India) si tratta di una finzione cui non corrisponde la sostanza di comunità sovrane che abbiano avuto in precedenza un ruolo realmente indipendente nel sistema degli Stati.
I problemi teorici e pratici che si sono dovuti affrontare nel corso del processo di unificazione europea hanno fatto emergere l'esigenza di progettare nuove formule istituzionali adeguate al compito senza precedenti di unificare Stati nazionali consolidati. Mentre la struttura delle prime forme di organizzazione federativa si avvicina a quella di Stati unitari decentrati, la novità del federalismo europeo sta nel fatto che si tratta di federare Stati nazionali, l'espressione più compiuta dell'idea stessa di Stato sovrano. L'organizzazione prima dell'Europa, poi del mondo in Stati sovrani non solo ha dato vita alla più forte concentrazione del potere, ma ha anche determinato la più profonda divisione tra gruppi umani che la storia dell'umanità abbia conosciuto.In considerazione di queste notevoli differenze tra vecchie e nuove forme di organizzazione federale, appare legittimo designarle con nomi differenti. Alle comunità federali del passato si adatta la definizione di Stati federali, espressione che sottolinea l'affinità esistente tra queste formazioni politiche e quella predominante dello Stato sovrano. Invece alle istituzioni che rappresenteranno lo sbocco del processo federativo dell'Europa si adatta maggiormente la definizione di federazione di Stati, la quale sottolinea la nuova forma di statualità che si instaurerà con la Federazione europea, un'unione di Stati dotata di un potere proprio, nella quale le comunità federate sono Stati nazionali.
La formula "federazione di Stati nazionali", usata da Jacques Delors, ne identifica efficacemente la novità. Essa consente di collocare questa innovazione nella storia dell'evoluzione delle forme di Stato: dopo la città-Stato, intesa come l'istituzione che ha permesso di pacificare le tribù, e lo Stato nazione, che ha garantito la pace tra le città, la federazione costituisce la forma di organizzazione politica che consente di pacificare le nazioni e di unificare intere regioni del mondo e in prospettiva tutto il pianeta.Il conflitto tra istanze nazionali e istanze europee che si incarnano rispettivamente nel Consiglio e nel Parlamento europeo può raggiungere un punto di equilibrio nel compromesso federale. Ma ancora una volta è da sottolineare che il patto federale che si delinea tra gli Stati membri dell'Unione Europea non ha precedenti nella storia proprio perché i contraenti del patto sono nazioni storicamente consolidate che pretendono di mantenere una forte autonomia in seno alle istituzioni federali. Ed è prevedibile che questa tendenza sarà rafforzata da un altro fattore. Mentre le federazioni del passato hanno subito un processo di centralizzazione, dovuto alla forte pressione politico-militare che subivano ai loro confini, la Federazione europea nascerà in un mondo nel quale l'interdipendenza globale e il declino della politica di potenza hanno sviluppato poderose tendenze alla cooperazione e alla organizzazione internazionale, che essa stessa contribuirà a consolidare.
La Federazione europea, in quanto negazione dello Stato sovrano, tenderà a rimanere una formazione aperta e incompiuta. Essa sarà lacerata da due spinte contraddittorie. Da una parte, svilupperà la tendenza a definirsi in senso puramente negativo, come superamento dello Stato nazionale e quindi a rimanere un'organizzazione politica aperta, senza confini definiti e capace di promuovere l'unificazione di altre regioni del mondo (riforma dell'ONU) e incompiuta, sprovvista cioè di tutti i caratteri istituzionali degli Stati sovrani finora esistiti. D'altra parte, sarà attiva la tendenza opposta, quella alla chiusura, cioè alla formazione di un'identità collettiva analoga a quella nazionale, ma che avrà comunque un carattere precario, considerata la difficoltà di far radicare un'identità nazionale in una società multinazionale e in un'epoca post-nazionale.Il Parlamento europeo, in quanto espressione e agente del processo di trasformazione democratica dell'Unione Europea, tende ad affermare un principio di legittimità che non ha precedenti nella storia: la democrazia internazionale. Si tratta di un esperimento che, pur avvenendo in Europa, non si può considerare concluso quando si sarà realizzato in questo continente. Esso interessa tutto il mondo e si compirà solo a livello mondiale con la riforma democratica dell'ONU.
D'altra parte, gli Stati rappresentano la vecchia legittimità nazionale che non può e non deve essere soppressa, perché essi costituiscono uno dei livelli di governo democratico che deve essere mantenuto con una propria autonomia in seno alle istituzioni federali.In modo più netto che nei casi precedenti, nella federazione europea coesisteranno dunque due principî di legittimità: quello nazionale e quello sovranazionale. In altri termini, la legittimità delle istituzioni federali avrà un duplice fondamento: nazionale e sovranazionale. La sovranità popolare, esprimendosi attraverso i due rami del potere legislativo, la Camera degli Stati (il Consiglio dei ministri) e la Camera dei popoli (il Parlamento europeo), conferirà legittimità a entrambi i livelli di governo e le leggi dovranno essere approvate da una doppia maggioranza, sia quella degli Stati sia quella della popolazione.
(V. anche Costituzioni; Federalismo).
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