Plebiscitarismo
di Gianfranco Pasquino
Per pervenire a una definizione adeguata, precisa e, nei limiti del possibile, univoca di 'plebiscitarismo', è utile distinguere il plebiscitarismo dal cesarismo, dal bonapartismo e dalla dittatura. Tenendo ben fermo che cesarismo, bonapartismo, dittatura e plebiscitarismo attengono alle procedure di selezione dei capi politici, è tuttavia possibile rilevare che tali procedure, tranne che nel caso della dittatura, implicano in qualche modo il ricorso a modalità elettorali. Come osserva Weber, "il capo può arrivare in alto seguendo la via militaristica, di dittatore militare - come Napoleone I - facendo sanzionare la sua posizione per mezzo di un plebiscito; oppure per via civile, attraverso una sanzione plebiscitaria di un politico non militare - come Napoleone III - alla quale si sottomette l'esercito" (v. Weber, 1918, tr. it., p. 166; v. Tuccari, 1993, p. 170). Weber ricorre a due fondamentali esempi storici, nei quali gli elettori furono chiamati a sanzionare la conquista del potere politico con l'espressione di un voto di approvazione a una persona. Di qui, quella che costituisce, probabilmente, la caratteristica fondamentale del plebiscitarismo: elezioni totalmente personalizzate.
Il 'sì' oppure, in casi ben più rari, ma non impossibili, il 'no', ovvero la ripulsa, sono indirizzati direttamente a una persona, al leader che si è sottoposto, per l'appunto, al plebiscito. Al proposito, sarà utile in linea generale sottolineare che questa modalità di plebiscitarismo si produce prevalentemente dopo la conquista del potere, quando il leader mira a rafforzare - con l'esibizione dell'entità del consenso - il suo ruolo, a potenziare la sua autorità, a legittimare il suo dominio. Le sorprese elettorali sono alquanto rare poiché, ovviamente, il leader utilizzerà gli ingenti mezzi a sua disposizione per ottenere l'espressione positiva della fiducia popolare. Ciononostante, in almeno un caso recente di enorme rilievo, il plebiscito a favore di un leader non ha funzionato secondo le aspettative. Nell'ottobre 1988, il generale Augusto Pinochet Ugarte - al vertice dello Stato cileno quale presidente della Repubblica dal 1973, anno in cui rovesciò con la forza delle armi il legittimo governo di Unidad Popular - si sottopose con eccessiva fiducia a un plebiscito. Il quesito riguardava il rinnovo del mandato presidenziale al candidato unico: è questa, infatti, la caratteristica fondamentale di un'elezione plebiscitaria, nella quale un solo nome compare sulla scheda. La maggioranza degli elettori cileni rifiutò questo rinnovo, aprendo in tal modo la strada a nuove elezioni presidenziali, che si tennero l'anno seguente e nelle quali il candidato unitario dell'opposizione al regime militare, il democristiano Patricio Aylwin, ottenne la maggioranza assoluta dei voti popolari.
Quanto alla dittatura, tecnicamente essa è un caso di potere personale eccezionale che non nasce da legittimazione elettorale, non ne ha nessuna e non la ricerca. Impropriamente, ma per comprensibile estensione del termine, si parla di dittatura militare, forse per sottolineare il carattere provvisorio di governi di questo tipo. Invece, sia il cesarismo che il bonapartismo, spesso considerati sinonimi, differiscono dal plebiscitarismo, e ancor più dalla democrazia plebiscitaria, per le modalità di conquista e di esercizio del potere. Cesarismo e bonapartismo - e a questo proposito ci si riferisce naturalmente allo studio classico di Karl Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte (1852) - nascono in fasi di transizione politica. Le propaggini di un'esperienza rivoluzionaria conclusa sfociarono nel cesarismo di Napoleone Bonaparte; analogamente, lo sfinimento della Monarchia di luglio e l'inconsistenza della Repubblica francese nata dal 1848 culminarono in un equilibrio fra le classi sociali che consentì a Luigi Bonaparte di diventare imperatore collocandosi per plebiscito al di sopra di esse. In entrambi i casi, i sistemi politici non erano consolidati e la struttura di classe manifestava una considerevole fluidità; in particolar modo, essa non si era ancora trasferita né assestata nei partiti. In questi casi, il plebiscitarismo risultò, dunque, soprattutto una tecnica politico-elettorale utilizzata per la conferma popolare di un potere acquisito con altri mezzi.
Se si esula dal problema dell'insediamento, della conferma ovvero del rafforzamento della leadership politica personale, il plebiscitarismo come tecnica elettorale, che sarebbe comunque meglio analizzare sotto forma di referendum popolare, viene abitualmente utilizzato in tre casi. Il primo tipo è la scelta della forma di Stato: ad esempio, il plebiscito del 2 giugno 1946 in Italia e la consultazione popolare del dicembre 1974 in Grecia ebbero per oggetto la scelta tra monarchia e repubblica, che si risolse in entrambi i casi a favore della seconda. Il secondo è la scelta tra l'approvazione oppure il rigetto delle carte costituzionali: si pensi, ad esempio, ai referendum costituzionali francesi, con i quali nel maggio 1946 fu bocciata la prima Costituzione della Quarta Repubblica (seguita nell'ottobre da una seconda proposta, debolmente approvata dall'elettorato) e nel settembre 1958 fu approvata la Costituzione della Quinta Repubblica. Il terzo è la scelta tra l'adesione a unità politiche statali e/o federali, oppure la secessione da esse: ad esempio il referendum sulla permanenza o meno del Québec nella federazione canadese, del 31 ottobre 1995. In tutti questi casi, il termine plebiscito è usato in maniera intercambiabile con quello di referendum. Ciò rilevato, è evidente che ben maggiore importanza ha il discorso sul plebiscitarismo nella versione della democrazia plebiscitaria. Prima di analizzare tale argomento, sarà opportuno sottolineare che cesarismo, bonapartismo e dittatura appartengono al genere dei regimi autoritari, mentre la democrazia plebiscitaria appartiene al genere delle democrazie. Trattandosi tuttavia di una specie particolare di democrazia, essa richiede un'analisi particolareggiata che ne illustri adeguatamente le modalità di instaurazione e di funzionamento, nonché le conseguenze operative e politiche.
Dobbiamo essenzialmente a Max Weber i concetti fondamentali dell'analisi della democrazia plebiscitaria. Ma gli scritti weberiani in materia sono stati variamente interpretati e, a ogni buon conto, necessitano di essere aggiornati alla luce dei recenti sviluppi delle democrazie contemporanee. Infatti, in questo come in altri importanti casi, Weber scrive sia in riferimento agli avvenimenti storici della Germania - anche al fine di influenzarli - sia in sede di elaborazione della sua teoria sociologica complessiva. Per quel che riguarda la teoria, Weber è in special modo interessato alle modalità di creazione della leadership nelle fasi di trasformazione delle condizioni sociali e politiche. Proprio per questo duplice interesse - teorico e pratico a un tempo - gli scritti di Weber si prestano a interpretazioni diverse e, talvolta, addirittura contrastanti.Dal punto di vista programmatico, la democrazia plebiscitaria, caratterizzata dall'elezione popolare diretta del Reichspräsident, dovrebbe rappresentare la risposta politica alla grave crisi della Germania, dopo la sconfitta subita nella prima guerra mondiale. Secondo Weber, soltanto un leader che abbia ottenuto un ampio consenso popolare sarebbe in grado di tenere insieme il paese e, al tempo stesso, di introdurre le riforme necessarie al nuovo ruolo che attende lo Stato tedesco: la Germania deve infatti prendere consapevolezza di non possedere più le risorse necessarie per condurre la politica di una grande potenza. Per il bene della Germania, il leader plebiscitario deve poter governare, finché è in carica, senza essere intralciato, salvo sottoporsi, a fine mandato, a nuove elezioni, attraverso le quali il suo operato possa venire sottoposto al controllo popolare. Il leader potrebbe essere revocato, purché lo richieda almeno il 10 per cento del corpo elettorale.
Dal punto di vista teorico, l'elezione popolare diretta del presidente si inserisce nella riflessione weberiana che mira a collocare la politica in posizione di supremazia.Weber è preoccupato sia dall'incapacità delle forze economiche (imprenditori e industriali) di trascendere i loro interessi particolaristici, sia dalla settorialità degli interessi corporativi rappresentati nei parlamenti. È altresì preoccupato dal più generale processo di burocratizzazione che sta stringendo i sistemi sociali in una gabbia d'acciaio, mentre i partiti stessi assumono sempre più le sembianze di apparati di funzionari, tanto più necessari quanto meno capaci di produrre leadership. Per evitare che tutto il sistema si burocratizzi e si corporativizzi, è assolutamente indispensabile, secondo Weber, procedere all'elezione popolare diretta del presidente. Le figure carismatiche che emergono nella storia, tuttavia, sono rare; esse, inoltre, agiscono per un breve periodo di tempo e, in genere, non riescono a istituzionalizzare il loro carisma (v. Cavalli, 1995). L'elezione diretta del presidente può non produrre carisma e non accompagnarvisi, ma determina pur sempre una situazione nella quale emerge "il dittatore del campo di battaglia elettorale". Essa, inoltre, può produrre intensi rapporti emotivi, creando legami di fiducia tra gli elettori e l'eletto e offrendo a quest'ultimo opportunità di guida tali da non poter essere ingabbiate né dalla burocrazia o dal sistema economico, né dai partiti o dai gruppi di interesse, né dallo stesso parlamento.
Le controversie sul significato della democrazia plebiscitaria in Weber - e sulla collocazione di tale concetto all'interno del suo pensiero - attengono fondamentalmente a due punti. Il primo concerne l'interrogativo se la teorizzazione della democrazia plebiscitaria significhi una svolta nel pensiero politico weberiano oppure ne costituisca soltanto un logico approfondimento. Secondo David Beetham (v., 1985), si tratterebbe di una svolta teorico-politica, ovviamente segnata dai tragici sviluppi della storia della Germania. In sintesi, Beetham sostiene che "dopo aver cominciato da marxista, Weber chiuse la sua carriera da nietzschiano" (ibid.; tr. it., pp. 294-295). Vale a dire che, partendo dall'importanza delle classi sociali, anche nel fornire un fondamento ai partiti politici, egli giunse a una posizione nettamente diversa, imperniata sull'esaltazione dell'individuo. La leadership politica non poteva più essere affidata a una classe, ad esempio la borghesia. "Negli ultimi scritti di Weber, la leadership politica è presentata come un fatto individuale, che si svolge entro un contesto di istituzioni politiche, sulla base di una relazione politica con un elettorato di massa" (p. 295). Inoltre, Weber abbandona l'opinione secondo la quale la leadership politica può nascere nei partiti e nel parlamento in favore di proposte costituzionali, "nelle quali egli separa il leader politico dall'insieme del parlamento, e gli conferisce una base di potere autonomo nell'elettorato di massa" (p. 297). Secondo Beetham, "queste proposte segnavano un deciso mutamento nelle opinioni di Weber" (p. 321), tanto che "la figura del leader trovava legittimazione in una concezione della democrazia tutt'altro che democratica" (p. 329).
Secondo Wolfgang Mommsen, al contrario, non si tratta di una svolta bensì della logica prosecuzione del discorso weberiano sul carisma, sul potere, sulla leadership, sulla stessa democrazia. "L'appassionata idea weberiana della potenza nazionale contribuì in modo notevole a privare il concetto di democrazia dei suoi valori contenutistici e a preparare la strada a una concezione puramente formalistica della democrazia" (v. Mommsen, 1974; tr. it., p. 583). Se la democrazia è soltanto un insieme di tecniche per dare efficienza a un sistema, allora bisogna saper scegliere, modificare e aggiornare queste tecniche a seconda dei compiti da affrontare e dei problemi da risolvere. Poiché "senso e compito della democrazia parlamentare si riducevano, nella concezione di Weber, sostanzialmente a due funzioni: la selezione di personalità di capi politici e il controllo della burocrazia amministrativa" (ibid., p. 583), se questo tipo di democrazia non riusciva più a svolgere tali compiti, allora diventava indispensabile cambiarla, anche drasticamente; "con piena consapevolezza - conclude Mommsen - Weber auspicò quindi la democrazia plebiscitaria del capo" (p. 587).
A sua volta, Francesco Tuccari (v., 1993, p. 286) oppone a Beetham che "il progetto del Reichspräsident non implica affatto una frattura teorica forte [...], ma presuppone più semplicemente un riassestamento programmatico che, indotto dalle mutate condizioni politiche e istituzionali della 'nuova Germania', rimane per il resto legato a una nozione della democrazia esattamente identica a quella formulata in Parlament und Regierung". Tuccari osserva inoltre che i rischi di una torsione autoritaria ravvisati da Mommsen "sia nella debole idea del governo parlamentare sia nell'ipotesi di un presidente eletto direttamente dal popolo sono in realtà assolutamente distanti non soltanto dal progetto weberiano ma anche, e soprattutto, dalla teoria che di quel progetto costituisce la sostanza". Tuttavia, l'argomentazione di Tuccari non sembra provare in modo convincente la sua tesi, secondo la quale la formulazione weberiana della democrazia plebiscitaria non è "una svolta contro il parlamentarismo in astratto, ma contro il parlamento e i partiti della Germania post bellica", ragion per cui si tratta "non di svolta teorica ma, al contrario, di una svolta programmatica che si compie, oltre che in relazione a una contingenza politica nuova, proprio sul fondamento di una sostanziale continuità di teoria" (ibid., p. 297). A mio parere, invece, tale svolta programmatica - che è reale e riconosciuta da tutti gli autori summenzionati - retroagisce sulla teoria di Weber.Il punto è talmente macroscopico che viene riconosciuto anche da Tuccari: "la stessa democrazia plebiscitaria non è una ricetta politica desiderabile, invocata per sciogliere le contraddizioni della 'democrazia acefala', ma è al contrario, e prima di tutto, il destino ineluttabile della democrazia in uno Stato di massa, l'unica configurazione possibile della democrazia moderna, della 'democrazia come professione"' (p. 305).
La svolta teorica di Weber sta, in effetti, tutta qui: nel passaggio da una concezione che collocava la creazione di leaderships democratiche e autorevoli nel parlamento e nei partiti a una concezione che non solo si rassegna a un ineluttabile destino di creazione della leadership attraverso meccanismi plebiscitari, ma che elabora tale prospettiva con il vigore, la passione e l'enorme immaginazione teorica di cui Weber era capace.
Nella concezione weberiana, la democrazia plebiscitaria, ovvero la democrazia con un capo (Führerdemokratie), è chiaramente contrapposta alla democrazia senza capo, acefala. Quanto alle sue origini, la democrazia plebiscitaria è resa non soltanto possibile, ma addirittura necessaria dalla democratizzazione. Di contro, la parlamentarizzazione incide negativamente sia sulla democratizzazione, poiché il potere rimane nelle mani di alcuni capi politici oligarchici, sia sulla produzione di leadership politica. La democrazia plebiscitaria si contrappone nettamente al potere dei partiti e al potere delle corporazioni. Entrambi sono rappresentati in parlamento da funzionari "meschini e mediocri" che perseguono i propri interessi personali o quelli delle loro organizzazioni e che non sono "personalità selezionate nel corso della lotta politica" (v. Weber, 1918; tr. it., p. 164), ma uomini premiati per la loro subordinazione alle rispettive organizzazioni. Capita qualche volta, ma raramente, che il politico giunto al vertice del potere sia il prodotto di una lotta politica, ma la parlamentarizzazione del sistema politico-costituzionale rende questo esito alquanto improbabile."L'importanza della attiva democratizzazione di massa consiste nel fatto che il capo politico non viene più proclamato candidato sulla base del riconoscimento della affidabilità nell'ambito di un gruppo di notabili, per poi diventare capo in forza del suo emergere in parlamento; al contrario egli si guadagna la fiducia e la fede delle masse e conquista il suo potere con mezzi demagogici di massa.
Secondo l'essenza della cosa questo significa che la selezione dei capi assume una piega cesaristica. E di fatto ogni democrazia tende a ciò. Il mezzo specificamente cesaristico è proprio il plebiscito"(ibid., p. 166). In questo brano sono chiaramente individuate le caratteristiche fondamentali della democrazia plebiscitaria. La precondizione è una attiva democratizzazione di massa. Le due condizioni di base sono che né i partiti né il parlamento risultano più in grado di produrre leadership. Il meccanismo centrale della produzione di leadership è costituito dall'elezione popolare diretta del leader. Per vincere, infine, il leader deve dimostrare di possedere qualità demagogiche, nel senso letterale del termine, ovverosia deve avere la capacità di guidare il popolo anche attraverso l'appello alle emozioni.
Si delineano qui con chiarezza alcune caratteristiche di fondo della riflessione weberiana sulla politica: la sua concezione puramente tecnica delle forme di Stato e di governo, la sua ricerca ossessiva, quasi disperata, di meccanismi per la produzione della leadership politica, prima nei partiti, poi nel parlamento, infine - cambiate alcune condizioni sociali e istituzionali di fondo - nel popolo. Come ha notato Mommsen (v., 1974; tr. it., p. 582), "lo Stato costituzionale democratico diventava così sostanzialmente una organizzazione tecnica per addestrare capi politici e per mettere a loro disposizione canali di ascesa al potere". A questo punto, individuati i canali di ascesa al potere nei meccanismi elettorali plebiscitari, il problema per Weber - e per i sostenitori contemporanei della democrazia plebiscitaria (v. Cavalli, 1992) - cambia profondamente. Una volta eletto 'plebiscitariamente', il capo deve sicuramente governare. Ma quali controlli possono e debbono essere previsti ed esercitati nei confronti dei suoi comportamenti, del suo potere, delle sue decisioni?
Assumendo l'ottica della svolta programmatico-teorica che Weber compie nella sua formulazione della democrazia plebiscitaria, è importante sottolineare con Mommsen (v., 1974; tr. it., p. 589) che "Weber, anziché ascrivere la 'democrazia plebiscitaria del capo' al tipo di legittimità del 'potere legale', la considerò come una variante antiautoritaria del 'potere carismatico"'. Ciò che rendeva questa variante specificamente antiautoritaria era, secondo Weber, la possibilità periodica di rimozione elettorale del leader, in special modo se e quando non aveva successo. Questa possibilità di rimozione elettorale è, ovviamente, molto importante, ma rimane largamente insufficiente quale forma di controllo dei comportamenti, del potere, delle decisioni del leader. Peraltro, Weber è convinto a tal punto della necessità di conferire potere al leader da affermare che la guida del partito da parte di capi eletti plebiscitariamente impone la "disanimazione" dei seguaci. Quanto al problema dei controlli, la sua preoccupazione centrale riguarda le modalità di controllo del capo politico sulla burocrazia e non quelle del parlamento sul leader.
Preso atto del drastico contrasto tra selezione plebiscitaria e selezione parlamentare dei capi, Weber sostiene che "l'esistenza del parlamento non è perciò priva di valore. Infatti, di fronte al fiduciario delle masse (oggettivamente) cesaristico, l'esistenza del parlamento garantisce in Inghilterra: 1) la stabilità e 2) la controllabilità della sua posizione di potenza; 3) la conservazione delle garanzie giuridiche civili contro di lui; 4) una forma ordinata di sperimentazione politica, all'interno dell'attività parlamentare, degli uomini politici che cercano di ottenere la fiducia delle masse e 5) una forma pacifica di rimozione del dittatore cesaristico, quando egli abbia perduto la fiducia delle masse" (v. Weber, 1918; tr. it., pp. 166-167). Tuttavia, queste parole scritte nel 1916-1917 vengono messe in secondo piano appena un anno dopo, quando - con riferimento alla Germania e alla sua debole tradizione parlamentare - Weber decide di accentuare il ruolo del leader eletto direttamente dal popolo e di attenuare i vincoli costituzionali al suo comportamento. "Rifiutando la democrazia parlamentare a causa della sua debolezza - la sua subordinazione alle cricche e agli interessi particolari - e ponendo l'alternativa per il sistema politico tedesco tra 'democrazia autoritaria' e 'il dominio dei professionisti della politica senza vocazione', Weber abbandonava nello stesso tempo quelle forme di controllo sul leader cesarista che egli aveva in passato considerato un tratto essenziale di un sistema parlamentare liberale" (v. Beetham, 1985; tr. it., p. 330).
Le condizioni storico-politiche di fondo rispetto alle quali era maturata la concezione weberiana della leadership erano profondamente mutate. Con esse mutò anche il pensiero weberiano, nel quale si produsse quindi una effettiva svolta programmatico-teorica. Questo, peraltro, non significa affatto che Weber debba essere considerato un precursore del nazismo e che la democrazia plebiscitaria possa costituire l'anticipazione ovvero il fondamento teorico del Terzo Reich. Non si può, tuttavia, negare che il ribaltamento autoritario, come ha scritto Mommsen, di una democrazia plebiscitaria basata su un mandato popolare conquistato anche attraverso l'appello alle emozioni e senza controlli adeguati, trovi germi fecondi nella concezione weberiana. Weber crede, con Schumpeter, che la democrazia sia la forma migliore di selezione della leadership ad opera delle masse fra squadre in competizione per conquistare il potere di governo. Ma è fermamente convinto che il leader della squadra vincente debba disporre di un mandato plebiscitario a governare. Incidentalmente, Weber non è affatto un precursore di Carl Schmitt. Né il decisore di Schmitt, che assume tutto il potere nello stato di eccezione, né il suo custode della costituzione (v. Bendersky, 1983; v. Schwab, 1970), ugualmente onnipotente e destinato a uno slittamento autoritario, possono essere assimilati al leader, pur sempre democratico, della weberiana democrazia plebiscitaria. Fra una democrazia - quella weberiana - innervata dalla leadership ma non insensibile ai controlli e un regime autoritario del capo - quello schmittiano - che assume su di sé tutto il potere, la distinzione è netta. Piuttosto che collocare Weber fra i teorici dell'autoritarismo personalistico, è possibile sostenere che la sua possente teorizzazione abbia anticipato molti dei problemi politici e suggerito alcune delle soluzioni istituzionali sperimentate dai sistemi politici contemporanei.
Non fu certo la teorizzazione weberiana della democrazia plebiscitaria ad aprire la strada ai regimi fascisti e al nazismo. Anzi, paradossalmente, se si esclude il crollo della Repubblica di Weimar (che non fu affatto un caso di democrazia plebiscitaria, nonostante l'elezione popolare diretta del presidente della Repubblica) , i regimi fascisti nacquero sulle ceneri di democrazie parlamentari e proporzionali deboli, sostanzialmente impotenti, in parte preda delle burocrazie civili e militari. È persino possibile ipotizzare, contro l'opinione di Mommsen, che il ribaltamento autoritario si produsse in sistemi politici nei quali il parlamento sembrava forte e i partiti soffocavano la leadership piuttosto che in paesi, come la Gran Bretagna, dove il parlamento era (e rimane) relativamente debole mentre la competizione fra partiti produceva (e produce) leaderships in grado di acquisire almeno alcune caratteristiche plebiscitarie. In Italia, in Portogallo, in Spagna e nella totalità dell'Europa orientale, le embrionali esperienze di democrazie parlamentari acefale crollarono in sequenza dopo la prima guerra mondiale, dando vita non a democrazie plebiscitarie, ma a esperimenti autoritari di maggiore o minore durata a seconda della collocazione internazionale dei rispettivi paesi.
Nel secondo dopoguerra, la Francia della Quarta Repubblica continuò a percorrere la strada delle democrazie parlamentarizzate, proporzionali e acefale fino al suo crollo subitaneo di fronte al problema dell'indipendenza dell'Algeria, al putsch dei colonnelli e al salvataggio, altrettanto subitaneo, della sua democrazia grazie all'instaurazione di un originale regime politico, la Quinta Repubblica, che è quanto di più simile ovvero di più conforme ai canoni di una democrazia plebiscitaria. Ricondotti i partiti alle loro funzioni essenziali di partecipazione alla competizione elettorale e di sostegno di una maggioranza parlamentare, ridimensionato e contenuto il ruolo del Parlamento con la conseguente emarginazione dei gruppi di interesse, valorizzata l'elezione popolare diretta del presidente della Repubblica, la Quinta Repubblica francese non sarebbe dispiaciuta a Weber se non per un aspetto, che tuttavia è alquanto importante. Ci riferiamo all'eccessivo potere politico della burocrazia francese o, meglio, dei burocrati francesi, accomodatisi sia nei banchi del Parlamento che nelle file del governo fino a giungere ai vertici della Repubblica, in parte con Georges Pompidou e ancor più con Valéry Giscard d'Estaing. Indubbiamente, però, la Francia della Quinta Repubblica ha prodotto una leadership politica autorevole e una democrazia plebiscitaria funzionante con de Gaulle e con Mitterrand.
Nel secondo dopoguerra, parecchi sistemi politici democratici hanno cercato di individuare forme di personalizzazione e di stabilizzazione politica della leadership. Per ragioni collegate alla inimitabile struttura bipartitica del suo sistema politico, il governo del primo ministro inglese contiene elementi di democrazia plebiscitaria. In maniera più indiretta, la forma di governo tedesco, con l'elezione del cancelliere ad opera del Bundestag, mira a conferire potere politico al "dittatore del campo di battaglia elettorale". E certo la Germania non è stata priva di leaders autorevoli quali Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl, ma non può in alcun modo essere considerata un esempio di democrazia plebiscitaria. La stabilizzazione politica e il consolidamento democratico nelle nuove democrazie dell'Europa meridionale (Grecia, Portogallo, Spagna) sono avvenuti anche grazie alla comparsa di leaderships politiche carismatico-plebiscitarie e di meccanismi, come il sistema semipresidenziale portoghese, tali da agevolarne l'ascesa. In altri paesi - come in Italia e, pur trattandosi di casi molto diversi, nelle transizioni dell'Europa centro-orientale - dove questi meccanismi non esistono, oppure sono poco incisivi, il regime mantiene le sue caratteristiche democratiche, ma funziona a bassi livelli di rendimento ed è esposto sia alle influenze dei gruppi di interesse che alle degenerazioni dei partiti in parlamenti frammentati, senza acquisire mai abbastanza potere per controllare la burocrazia.
Alla fine del XX secolo le democrazie acefale continuano a essere tanto deboli quanto Weber aveva previsto e temuto. In presenza di gravi crisi internazionali o sociali, tale debolezza può aprire la strada al loro crollo. Al contempo, però, sembrano emergere le condizioni socioculturali e politiche di fondo per l'affermarsi di democrazie plebiscitarie. Le classi sociali hanno raggiunto un grado di indifferenziazione che non ha riscontro nel passato. I partiti politici non sono più strutture per la produzione di leadership, ma, nel migliore dei casi, macchine per la raccolta dei voti. I parlamenti sono divenuti arene di compromessi sociali ed economici, non luoghi per il tirocinio di leaders politici, con la sola eccezione del Senato degli Stati Uniti d'America, i cui componenti sono tutti eletti direttamente dagli elettori di ciascuno Stato e sono pertanto selezionati da una competizione con caratteristiche plebiscitarie. Per di più, l'affermarsi e il diffondersi della televisione hanno creato enormi opportunità per leaderships non politiche, non filtrate dai partiti, non previamente sperimentate in attività parlamentari e governative.
Dove le organizzazioni intermedie sono poche, lontane dalla politica e interessate al perseguimento esclusivo dei loro obiettivi sociali, mentre l'opinione pubblica, largamente atomizzata, è esposta all'influenza dei media televisivi (come può essere il caso di non poche società di massa), lì si aprono grandi spazi per una leadership creata attraverso meccanismi plebiscitari. La videopolitica favorisce l'emergere di outsiders che catturano le emozioni forse passeggere dell'opinione pubblica e le traducono in un consenso elettorale decisivo per vincere la carica più ambita: l''effimero' diviene il canale per giungere a governare. Se, però, i controlli sulla leadership sono scarsi e deboli e l'esercizio del suo potere sostanzialmente illimitato - fatta salva la possibilità di sbalzare il detentore dalla sua carica in occasione di nuove elezioni - allora i rischi, presenti e futuri, della democrazia plebiscitaria appaiono rilevanti. Ciononostante, si tratta pur sempre di 'rischi'. Per un verso, quindi, è giusto preoccuparsene: per dirla ancora con Mommsen (v., 1974; tr. it., p. 590) "il pericolo di un ribaltamento carismatico-autoritario del potere plebiscitario-democratico" è costantemente in agguato nelle democrazie costruite secondo criteri plebiscitari. Per altro verso, tuttavia, occorre riconoscere che tale rischio non sembra essersi materializzato nei cinquant'anni seguiti alla seconda guerra mondiale. Anzi, più frequentemente, è accaduto che gli elementi plebiscitari abbiano consentito di sventare pericoli autoritari e persino di instaurare esperimenti democratici. Tutto questo non significa che, come sicuramente avrebbe pensato Weber, una democrazia plebiscitaria non continui ad avere bisogno di qualche contrappeso in più, che non sia semplicemente il ricorso periodico a elezioni non per conferire un mandato imperativo a funzionari che pensano di agire "in accordo con la volontà espressa o supposta dell'elettorato", ma per consentire al leader di agire "soltanto secondo le proprie convinzioni" (v. Beetham, 1985; tr. it., p. 317).
La democrazia plebiscitaria costituisce un'opzione sempre presente, spesso praticabile, ricca di opportunità indissolubilmente collegate con pericoli. Saranno le donne e gli uomini, con la loro partecipazione alla politica o con la loro astensione dalla politica, a decidere quanto la democrazia plebiscitaria sarà democrazia e quanto sarà plebiscitaria.
(V. anche Autoritarismo; Cesarismo; Democrazia; Dittatura; Società di massa).
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