Abstract
Si analizza il significato dell’espressione clausole contrattuali, che richiama una pluralità di significati, nell’alternativa fondamentale tra le proposizioni in cui si articola l’accordo ed i precetti che si ricavano, in una varietà connessa, da un lato, al principio dell’autonomia contrattuale e, dall’altro, alla pluralità di fonti che compongono il regolamento contrattuale. L’indagine costituisce un punto di osservazione dell’intera materia contrattuale.
La parola clausola ha una pluralità di significati, riferibili ai diversi contesti in cui viene utilizzata ed assume una diversa rilevanza a seconda dell’aggettivo che ad essa viene riferito. Così, in ambito giuridico, si parla di clausola generale, per indicare una particolare modalità di formulazione della norma giuridica (si pensi all’art. 2043 c.c.) o di clausola di esecuzione provvisoria, con riguardo ad un provvedimento del giudice civile (v. all’art. 642 c.p.c. in tema di decreto ingiuntivo). Per quel che qui interessa, l’aggettivo “contrattuale” serve a precisare che l’ambito rispetto al quale occorre considerare la clausola è quello delle pattuizioni tra privati e di fatto il tema delle clausole contrattuali rappresenta una possibile prospettiva di indagine dell’intera materia contrattuale nelle sue diverse articolazioni.
Premesso che il significato di clausola che qui interessa è da riferire al contratto, la nozione che se ne può trarre dipende dalla stessa definizione di contratto, termine con valenza anfibologica essendo utilizzato per indicare, nei suoi profili essenziali, l’accordo concluso tra le parti (v. art. 1321 c.c.) e quindi il testo contrattuale (raramente consistente soltanto nel documento formale che lo racchiude), nonché gli effetti che ne derivano e quindi il complessivo regolamento contrattuale.
Così, la definizione di clausola contrattuale in termini di proposizione prende in considerazione il contratto come testo e cioè come manifestazione esteriore dell’accordo (Capobianco, E., La determinazione del regolamento, in Tratt. Roppo, II, Regolamento, a cura di G. Vettori, Milano, 2006, 214).
A questa prospettiva se ne aggiunge un’altra secondo la quale le clausole contrattuali sono le parti in cui si articola il contratto, nel senso però che si tratta di disposizioni e non di semplici proposizioni, che servono a comporre non il testo ma il regolamento contrattuale (Roppo, V., Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2001, 458 efficacemente afferma che «la clausola non è una proposizione, ma una disposizione: non ha valore linguistico, ma precettivo; è parte non del testo contrattuale, ma del regolamento contrattuale»).
La pluralità di significati che assume la parola contratto si riflette quindi nella pluralità di significati in cui può essere assunta l’espressione clausola contrattuale, ponendo, a seconda dei contesti di riferimento, problemi diversi. Non pare quindi possibile limitarne il significato, ma occorre invece aprirsi alla possibile varietà di prospettive (Grassetti, C., Clausola del negozio, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 184 ss.).
La clausola, indagata come proposizione del testo contrattuale, pone problemi che riguardano senz’altro il contratto sotto il profilo dell’accordo e quindi i diversi aspetti legati alle modalità con cui può essere raggiunto l’accordo nonché le norme dirette all’interpretazione del contratto (Capobianco, E., La determinazione del regolamento, cit., 251 ove tratta delle tecniche di redazione e di “preparazione” del testo, affrontando l’elaborazione comune e la predisposizione unilaterale). Per intenderci, le condizioni generali di contratto o anche i moduli o formulari contrattuali, che individuano particolari tipologie di clausole contrattuali, trovano la loro disciplina nell’ambito dell’accordo contrattuale, poiché rileva il profilo della loro predisposizione unilaterale ovvero dell’assenza di negoziazione e determinano una particolare modalità di formulazione delle clausole.
Tuttavia, nell’ambito dei contratti tra professionista e consumatore, la clausola vessatoria non pone solo un problema di assenza di trattativa e di predisposizione unilaterale del testo contrattuale, ma anche di nullità della clausola e di eventuale ricomposizione del regolamento contrattuale (v. C. giust., 21.1.2015, C-482, 484,485,487/13, Unicaja Banco c. Rueda, Rueda Ledesma).
Allo stesso modo, considerando la clausola come disposizione precettiva, il problema principale è quello di individuare gli effetti che derivano dall’accordo racchiuso nel testo contrattuale. È chiaro il legame strettissimo tra interpretazione del contratto e sua integrazione, posto che l’interpretazione non tende semplicemente alla ricostruzione delle proposizioni in cui si articola l’accordo, ma alla ricostruzione del regolamento contrattuale (v. Capobianco, E., La determinazione del regolamento, cit., 302 ss.). Analogamente, la stessa ricostruzione del regolamento contrattuale, con eventuali successive operazioni di integrazione legale, presuppone la ricostruzione della volontà delle parti, che assume un ruolo centrale anche nella valutazione della nullità parziale e dell’eventuale sostituzione di diritto, specie se non espressamente prevista dal legislatore.
Non è quindi possibile scindere in maniera netta i diversi significati del termine contratto, così come di clausola contrattuale.
Non vi è dubbio dunque che la clausola contrattuale rappresenta una parte del testo contrattuale, laddove questo, in assenza di specifiche prescrizioni di forma, può consistere in un documento scritto, in dichiarazioni rese oralmente, in comportamenti delle parti, come si desume dagli artt. 1362 e 1363 c.c., che attribuiscono rilievo, la prima (in particolare, il co. 2), al comportamento complessivo delle parti, al di là del significato letterale delle parole (scritte o formulate oralmente) e, la seconda, al principio dell’interpretazione complessiva delle clausole per cui queste si interpretano «le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto».
Dunque, l’accordo contrattuale si compone di più previsioni il cui significato non può che desumersi da una valutazione congiunta che tenga conto di tutte le clausole che compongono l’accordo, scritte, formulate oralmente o desumibili dal comportamento complessivo delle parti, nonché ricostruibili attraverso i criteri indicati dal legislatore (artt. 1362 ss. c.c.), fermo restando che le clausole sono contrattuali in quanto esprimono la concorde volontà delle parti, racchiudono cioè la disciplina del loro rapporto sulla quale vi è stata la convergenza della loro volontà.
Come detto, le clausole contrattuali possono anche consistere in un accordo orale, come si evince dagli artt. 2721 ss. c.c. ove si parla espressamente di patti nel significato di clausole. In tale ambito si disciplinano i limiti di prova di un contratto, anche non soggetto a forma scritta né ad substantiam né ad probationem, ove le parti abbiano formulato per iscritto il loro accordo, ma vi siano eventuali patti aggiuntivi al documento, anteriori, contemporanei o posteriori alla formazione dello stesso.
Inoltre, nel caso il contratto debba rivestire la forma scritta ad substantiam, si è posto il problema se tutte le clausole del contratto debbano rivestire la forma prescritta o se invece soltanto quelle concernenti il contenuto essenziale.
Diverso ma affine è se, in quanto parte della manifestazione di volontà contrattuale, la clausola contrattuale possa anche essere implicita, che richiama il tema della rilevanza della presupposizione, ricostruita talvolta come condizione implicita, altre come clausola legale rebus sic stantibus, altre ancora come tematica collegata all’interpretazione o ancora all’integrazione del contratto (da ultimo: Cass., 23.10.2014, n. 22580 per la quale l’esistenza nel contratto di una clausola di tacita presupposizione dipende dalla ricostruzione della comune intenzione delle parti, sulla base delle allegazioni fatte dalle stesse).
La disciplina sull’interpretazione del contratto prende altresì in considerazione le clausole contrattuali sul piano della loro formulazione, stabilendo che le clausole, se ambigue od oscure, saranno sottoposte agli artt. 1368 e 1371 c.c.
L’art. 1370 c.c., invece, prevede l’ipotesi che le clausole da interpretare siano inserite in condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti, fissando la regola secondo cui queste si interpretano, in caso di dubbio, a favore dell’aderente.
Il fenomeno delle condizioni generali di contratto o dei moduli e formulari predisposti da un contraente corrisponde all’odierna contrattazione di massa in cui l’accordo non è più frutto della negoziazione tra le parti bensì dell’adesione di una parte (che vuole acquistare beni o servizi forniti) al testo contrattuale predisposto unilateralmente dall’altra, con l’obiettivo di velocizzare e uniformare gli scambi. Questi sono, quindi, contratti che la parte conclude con un gran numero di persone nel settore nel quale svolge la sua attività e che presentano un contenuto standardizzato, con applicazione degli artt. 1341 e 1342 c.c. (cfr. Di Marzio, F., Le clausole ricorrenti in generale, in I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, XXIV, Clausole ricorrenti. Accordi e discipline, Torino, 2004, 5 il quale osserva che l’estensione planetaria delle relazioni economiche determina un’intensa circolazione di modelli ma soprattutto di clausole contrattuali). Per la prima ipotesi, l’art. 1341, co. 1, c.c. prevede che l’efficacia delle condizioni generali di contratto sia subordinata alla loro conoscenza o conoscibilità (con l’uso dell’ordinaria diligenza) al momento della conclusione, da parte dell’aderente. Per la seconda, l’art. 1342, co. 1, c.c. stabilisce che le clausole aggiunte prevalgono su quelle del modulo con cui siano incompatibili, anche quando queste ultime non siano state cancellate. Per entrambi i casi, la legge indica una serie di clausole standard che non hanno effetto se non specificamente approvate per iscritto (v. art. 1341, co. 1, richiamato dall’art. 1342, co. 2, c.c.). In questi casi l’attenzione del legislatore per le clausole contrattuali si appunta sulla loro modalità di formulazione, ma anche sulla loro tipologia, limitandosi tuttavia ad una tutela formale del contraente aderente.
Nel caso di contratti stipulati tra professionista e consumatore, gli artt. 33 ss. c. cons. (che contengono attualmente la disciplina introdotta in attuazione della direttiva 93/13/CEE del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, modificata dalla direttiva 2011/83/UE) stabiliscono la nullità delle clausole vessatorie che non siano frutto di trattativa, comportino uno squilibrio dei diritti e doveri delle parti e risultino contrarie a buona fede. La nullità delle clausole abusive dipende dal ricorrere degli elementi sopra indicati, a meno che si tratti di pattuizioni riconducibili all’elenco di cui all’art. 36, co. 2, c. cons. (cd. black list), nei confronti delle quali opera con presunzione assoluta una valutazione negativa che ne comporta la loro nullità. Trattasi di una nullità di protezione, come indicato nella rubrica della norma menzionata, in base alla quale «Le clausole considerate vessatorie ai sensi degli artt. 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto».
In tale ambito, l’art. 35 c. cons. precisa altresì che «nel caso di contratti di cui tutte le clausole o talune clausole siano proposte al consumatore per iscritto, tali clausole devono essere redatte in modo chiaro e comprensibile» (co. 1); inoltre «in caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore» (co. 2). L’obbligo imposto al professionista di chiarezza e comprensibilità ha una sua valenza anche ai fini del giudizio di vessatorietà, come si evince dagli artt. 33, co. 2, lett. c), e 36, co. 2, lett. c) c. cons. che però riguardano la fase precedente la conclusione del contratto (prevedendo che sono nulle quelle clausole contrattuali, che il consumatore non ha avuto la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto) e come si desume dall’art. 34, co. 2, c. cons. per il quale, se l’oggetto ed il corrispettivo non sono individuati in modo chiaro e comprensibile, le relative clausole si prestano ad una valutazione di abusività. In tale contesto emerge altra distinzione tra clausole normative e clausole economiche. L’art. 34, co. 2, c. cons. stabilisce infatti che «La valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile». Da ciò si trae che il legislatore lascia in generale all’autonomia delle parti la fissazione dell’equilibrio dello scambio, salvo ipotesi eccezionali (ad es., legge equo canone; fissazione legale del tasso di interessi) (Di Marzio, F., Le clausole ricorrenti in generale, cit., 6).
Ad un’esigenza di trasparenza e di informazione della parte debole del contratto sono dirette talune prescrizioni, di recente introduzione, che impongono la forma scritta per una serie di clausole, che individuano un contenuto minimo essenziale del contratto (da non confondere con il contenuto che individua il tipo contrattuale), da redigere per iscritto e consegnare alla parte debole del contratto. Non sempre la violazione di tali prescrizioni è espressamente sanzionata dal legislatore ed anche quando è precisata quasi mai comporta la nullità del contratto, ma piuttosto l’applicazione di una particolare disciplina normativa.
Per quanto riguarda il testo contrattuale contenuto in un documento scritto, normalmente questo prevede delle premesse (cui segue la disciplina dell’accordo), che costituiscono anch’esse parte del testo contrattuale, al di là del fatto che spesso le parti gli attribuiscono espressamente tale valore, ferma restando la necessità di valutarne caso per caso la rilevanza attraverso le norme sull’interpretazione del contratto (App. Venezia, 3.4.2014, in Foro it., 2014, I, 1933 ove si discute se le premesse abbiano portata precettiva). Le premesse, infatti, nel consentire di ricostruire la comune intenzione delle parti, talvolta rivelano il presupposto su cui è basato l’accordo, individuandone la funzione concreta e consentendo la ricostruzione di clausole implicite di risoluzione o l’applicazione della disciplina dell’errore quale vizio della volontà (si ricordi in proposito il tema della rilevanza della presupposizione, ricostruita talvolta come ipotesi di errore, altre di condizione implicita, altre volte come clausola legale rebus sic stantibus, altre ancora come tematica collegata all’interpretazione o ancora all’integrazione del contratto). Talora contengono proprio delle clausole-precetto; in ogni caso consentono di ricostruire il precetto in combinazione con altre disposizioni del testo contrattuale.
Anche gli allegati, pur se non sempre formulati in termini linguistici, fanno parte del testo contrattuale e compongono l’accordo sotto il suo profilo prescrittivo.
Ogni articolo-clausola del testo contrattuale può contenere, a seconda dei casi: i) un’unica clausola-precetto; ii) una parte di una clausola-precetto, frutto della combinazione di più clausole-articoli; iii) più clausole-precetto. Ciò che rileva è l’unicità del precetto. La clausola-precetto si sostanzia in un unico comando, produttivo di un unico effetto (Di Marzio, F., Le clausole ricorrenti in generale, cit., 6). Si parla allora di clausola semplice quando la clausola proposizione coincide con la clausola-precetto; di clausola composta, quando la clausola-precetto risulta dall’unione di più clausole proposizione; di clausola complessa, quando più clausole proposizione si compenetrano, rilevando la distinzione per l’applicazione della nullità parziale. Non pare, invece, condivisibile l’opinione che, a fronte di clausole-precetto esistano clausole di contenuto meramente enunciativo, dato che anche tali proposizioni assumeranno valore ai fini della ricostruzione della concorde volontà delle parti, componendo di conseguenza una clausola-precetto.
L’accezione di clausola precetto rileva nella disciplina della nullità del contratto. L’art. 1419 c.c. stabilisce, infatti, che la nullità di singole clausole non dà luogo alla nullità del contratto se i contraenti lo avrebbero concluso senza «quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità» (co. 1). La disciplina in questione induce quindi a distinguere tra clausole la cui validità è essenziale al mantenimento dell’accordo e clausole la cui caducazione non comporta il venir meno dell’intero accordo. Dunque, quando una clausola è essenziale, nel senso che le parti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità, il contratto è nullo, a meno che non operi il meccanismo della sostituzione di diritto con norme imperative. Viceversa, se la clausola non è essenziale, la nullità comporta semplicemente l’eliminazione della clausola invalida. E’ evidente però che la distinzione in questione non è sempre semplice, né scontata, visto che una volta inserita nel contratto dalle parti una certa disciplina, questa corrisponde ai loro interessi. Naturalmente per giudicare della loro nullità e per stabilire la loro rilevanza rispetto all’accordo, il significato delle clausole deve essere indagato nel complesso della volontà manifestata dalle parti, in base alla disciplina sull’interpretazione del contratto.
Il co. 2 dell’art. 1419 c.c. precisa che la nullità è parziale anche quando le clausole nulle «sono sostituite di diritto da norme imperative». Il fenomeno della sostituzione di diritto rimanda alla disciplina contenuta nell’art. 1339 c.c., norma la cui rubrica è intitolata Inserzione automatica di clausole, quasi a significare che le clausole pattizie sono sostituite da una disciplina imposta dalla legge che assume anch’essa il valore di clausola. Le clausole inserite attraverso tale meccanismo sono tutte le fonti normative e quindi le norme di legge, ma anche quelle regolamentari (regolamenti governativi ma anche delle autorità indipendenti). Inoltre, non sempre il meccanismo della sostituzione di diritto è esplicitato dal legislatore dovendo ricavarsi da una valutazione della funzione che la nullità persegue in rapporto al complessivo assetto di interessi divisato dalle parti.
A questo profilo si ricollega l’art. 1374 c.c. che pone sul piano degli effetti le conseguenze che il contratto produce, che possono dipendere dalla volontà delle parti, contenuta nelle clausole contrattuali, ma anche dalle altre fonti di integrazione ivi menzionate non collegate alla manifestazione di volontà delle parti. È per questo che si parla di regolamento contrattuale distinguendolo dal contenuto del contratto. L’impostazione rivela l’aspirazione del nostro legislatore a conservare un ruolo di primo piano all’autonomia contrattuale sulla quale l’ordinamento giuridico può incidere senza però intaccarla, mantenendosi su di un piano differente, quello degli effetti. Gli sviluppi normativi e le riflessioni della dottrina hanno però sotto più profili messo in discussione l’impostazione indicata. Da un lato, l’autonomia contrattuale rivela sempre più la sua difficoltà di estrinsecazione: i contratti sono sempre meno frutto di un accordo tra le parti. Dall’altro, ma collegato a tale aspetto, è sempre più pressante l’esigenza di un intervento riequilibratore e regolatore del legislatore per fronteggiare la crisi del contratto. Da qui il chiaro processo di osmosi nella regolamentazione contrattuale tra volontà delle parti e norma giuridica e l’interrogativo se la regolamentazione introdotta nel contratto da norme di legge imperative possa qualificarsi come clausola contrattuale.
Si sottraggono invece alla disciplina dell’art. 1419 c.c. le clausole cd. autosufficienti dette anche clausole contratto, in quanto sopravvivono al contratto, eventualmente nullo, dovendo altresì soddisfare loro requisiti specifici di validità e di efficacia. Si pensi in particolare alla clausola compromissoria (la cui autonomia è ora suggellata dall’art. 808, co. 3, c.p.c.).
L’accezione delle clausole contrattuali nei termini di clausole-precetto rimanda altresì alla disciplina della clausola risolutiva espressa, nonché a quella sulla condizione contrattuale. In questi due casi, le parti manifestano espressamente la rilevanza di certe pattuizioni rispetto all’intero accordo, facendone dipendere l’efficacia o la risoluzione per inadempimento. In particolare, riguardo alla condizione contrattuale, come noto, le parti possono dare rilievo a particolari motivi che le spingono ad accordarsi inserendo nel contratto una clausola condizionale, che ne subordina o ne fa venir meno l’efficacia al verificarsi di un evento futuro ed incerto. La clausola in questione assume un ruolo di primo piano nella pattuizione privata incidendo sull’efficacia dell’accordo o determinandone il venir meno (a seconda che si tratti di condizione sospensiva o di condizione risolutiva).
Il legislatore prevede espressamente l’ipotesi che le parti inseriscano nel contratto una clausola risolutiva espressa (v. art. 1456 c.c.) ed essa, nei suoi termini generali, rappresenta una valutazione delle parti in merito alla rilevanza delle loro obbligazioni reciproche. Si tratta cioè di una previsione contrattuale con la quale le parti attribuiscono anticipatamente rilievo a singole pattuizioni, contenute nell’accordo, facendo dipendere dalla violazione delle obbligazioni in esse previste la risoluzione per inadempimento del contratto. La clausola risolutiva espressa è, quindi, una clausola che rinvia ad altre clausole contrattuali, fornendo una valutazione preventiva in merito all’importanza delle obbligazioni contrattuali disciplinate nelle clausole e, quindi, della violazione delle stesse, con esclusione dell’applicazione dell’art. 1455 c.c. (Importanza dell’inadempimento), norma che attribuisce al giudice il compito di valutare l’importanza dell’inadempimento, al fine della richiesta di risoluzione del contratto.
Come detto, il contratto può comporsi di clausole che non risultano essenziali. Il discorso è evidente nel caso della nullità, che appunto può essere parziale; lo è meno nel caso dell’annullabilità per errore, legata all’essenzialità e riconoscibilità dello stesso.
Il contratto si compone anche delle clausole d’uso, consistenti per taluno negli usi negoziali formatisi tra due contraenti (Del Prato, E., Le basi del diritto civile, Torino, 2014, 113) e per altri in un dato settore economico (Roppo, E., Il contratto, cit., 490; Di Marzio, F., Le clausole ricorrenti in generale, cit., 4) che, ai sensi dell’art. 1340 c.c., s’intendono inseriti nel contratto, se non risulta che non sono stati voluti dalle parti (operano quindi un’integrazione del contratto sul piano dell’autodisciplina privata, a differenza degli usi normativi che sono fonti del diritto e degli usi interpretativi, diretti ad operare sul piano interpretativo). Le clausole d’uso compongono l’accordo, entrano a far parte del regolamento contrattuale e, quindi, soggiacciono al regime delle clausole contrattuali e non a quello delle norme giuridiche. Pertanto, le parti devono invocarle e provarne l’esistenza, prevalgono sulle norme di legge e la loro violazione non è censurabile in cassazione per vizio di legittimità.
Collegata alla rilevanza prescrittiva delle singole clausole nel regolamento contrattuale è la questione delle cd. clausole di stile, ritenute spesso prive di un reale contenuto precettivo, riferibile alla volontà delle parti (Cass., 29.9.2011, n. 19876; Cass., 2.9.2009, n. 19104; Cass., 1.12.2000, n. 15380, in Contr., 2001, 543, queste ultime due, tuttavia, fanno salvo il principio di conservazione del contratto). I casi ai quali allude tale espressione sono in realtà diversi. Se ne parla infatti rispetto a clausole riproduttive di norme di legge o di rinvio a norme di legge, che possono però avere il significato di escludere espressamente un’eventuale deroga della disciplina legale o comunque trascendere il limite del dato legale recepito (Cass., 4.2.1988, n. 1082, ove si ribadisce l’importanza dell’interpretazione del contratto). E ciò può assumere rilievo altresì in rapporto alla disciplina dell’errore, per cui non pare che possano essere ritenute irrilevanti (per la loro rilevanza arg. ex art. 34, co. 3, c. cons.). Se ne discute anche a proposito di clausole normalmente ripetute in determinate tipologie di atti, la cui redazione è spesso, ma non sempre (es. privati che ricorrono a contratti di locazione, tratti dalla rete o acquisiti altrimenti ma predisposti in maniera standardizzata), affidata a professionisti chiamati a curare gli interessi delle parti (es. contratti di compravendita predisposti dal notaio, v. Cass. n. 19104/2009, cit.). Ipotesi questa che però non esclude necessariamente la sussistenza di una volontà delle parti contraenti, specie nel caso di atti notarili che rivestono la forma dell’atto pubblico, data la funzione di accertamento del notaio rogante rispetto alla volontà negoziale delle parti (App. Roma, 3.2.2000, in Vita not., 2000, 770; v. però Cass., 5.6.1984, n. 3398 dalla cui massima non si evince tuttavia la forma della compravendita, se scrittura privata autenticata o atto pubblico). L’accertamento della loro effettiva natura dipenderà anche in questi casi dall’interpretazione del contratto. Il discorso coinvolge anche l’ipotesi di clausole che presentano una formulazione assai ampia e generica incapace di tradursi in un precetto negoziale (es. clausola risolutiva espressa generica priva dei requisiti prescritti dall’art. 1456, co. 1, c.c., da ritenersi inderogabili; v però Cass., 12.2.1982, n. 851 che subordina la qualifica in termini di clausola di stile all’accertamento compiuto dal giudice, in base ai canoni legali di interpretazione del contratto; o nel caso di clausole che dovrebbero assolvere ad obblighi informativi imposti a tutela della parte debole, quando la loro genericità non assolve all’obiettivo avuto di mira dal legislatore, come nel caso di moduli precompilati nei quali l’investitore in strumenti finanziari si dichiara operatore qualificato, eludendosi nella sostanza la finalità di informativa, v. Trib. Alba, 22.3.2011).
Nei paragrafi che precedono si sono menzionate alcune ipotesi di clausole per così dire tipiche, e cioè espressamente previste dal legislatore, principalmente contenute nel titolo II del libro IV del codice civile, dedicato ai contratti in generale (v. anche le clausole di cui agli artt. 1229, 1382, 1462 c.c. che però danno spazio a particolari interessi delle parti, non rilevando ai fini di una definizione di clausole contrattuali). D’altra parte, a fronte di queste clausole tipiche, inserite nel titolo sul contratto in generale, la regolamentazione dei tipi contrattuali richiama, nella sua disciplina norme cogenti ma anche dispositive, che individuano possibili proposizioni e precetti contrattuali (Grassetti, C., Clausola del negozio, cit., 186) che tuttavia sarebbe del tutto ultroneo approfondire, come sarebbe del tutto ultroneo approfondire i nuovi schemi contrattuali, frutto dei nuovi interessi.
Merita invece segnalare che il processo di globalizzazione ha portato ad una profonda trasformazione delle modalità della contrattazione, specie nel caso di contratti del commercio internazionale, che si presenta sempre più dettagliata e uniforme nella formulazione e nei contenuti. Le clausole contrattuali appaiono sempre più standardizzate e tendenti a regolamentare in maniera minuziosa ogni aspetto del rapporto contrattuale; i contratti assomigliano a testi normativi (in particolare a quelli di derivazione comunitaria; la disciplina contrattuale tende ad essere autoreferenziale). Con un’espressione molto incisiva si parla di contratti ‘alieni’ (De Nova, G., Il contratto. Dal contratto atipico al contratto alieno, Padova, 2011, 2). Rispetto ad essi la tematica delle clausole contrattuali impone nuove riflessioni sulle caratteristiche che assume l’autonomia contrattuale e sui suoi limiti (Confortini, M., Clausole sulla decisione, in Le clausole dei contratti del commercio internazionale, a cura di G., Alpa, Milano, 2016, 19 ss.).
Artt. 1229; 1339; 1340; 1353 ss.; 1363 ss.; 1374; 1382; 1385; 1386; 1419; 1455; 1456; 1462 c.c.; art. 33 ss. c. cons. (d.lgs. 6.9.2005, n. 206).
Capobianco, E., La determinazione del regolamento, in Tratt. Roppo, II, Regolamento, a cura di G. Vettori, Milano, 2006, 213 ss.; Di Marzio, F., Le clausole ricorrenti in generale, in I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, XXIV, Clausole ricorrenti. Accordi e discipline, Torino, 2004; Grassetti, F., Clausola del negozio, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 184 ss.; Irti, N., Sintassi delle clausole (nota intorno all’articolo 1363 c.c.), in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, 421; Roppo, E., Il contratto, in Trattato Iudica-Zatti, Milano, 2001, 332; Sicchiero, G., La clausola contrattuale, Padova, 2003; Sicchiero, G., Clausola contrattuale, in Dig. civ., Aggiornamento, II, Torino, 2003, 221.