Clemente IV
Guy Foucois (Fulcodii, Fulcadi, Fulcaudi, Folcadio, Foulques, Foulquoys, Foulquet, Fulcoy, Fulchox, Fouquet, Folqueys, Folquet, Faucault; il soprannome Grossus, Le Gros, è stato attribuito a C. erroneamente nella bibliografia da Panvinio e Ciacconio in poi fino al Gregorovius) nacque, probabilmente poco prima del 1200, a Saint-Gilles nella Francia meridionale, da Pierre e da Germaine.
Il padre, titolare di un modesto patrimonio, era un giudice al servizio del conte Raimondo V di Tolosa; tra il 1185 e il 1196 fu cancelliere del conte a Saint-Gilles e in seguito esercitò di nuovo l'ufficio di giudice, ufficio nel quale è testimoniato ancora nel 1206. Dopo la morte della moglie, Pierre Foucois si fece monaco e si ritirò nella Grande Chartreuse, dove morì e fu sepolto dopo il 1210. Guy Foucois fu destinato a seguire le orme del padre e venne inviato a Parigi per studiare diritto. Anche se le testimonianze sono scarse, sembra che egli avesse ben presto raggiunto fama di valente giurista nella sua regione d'origine e non già, come è stato supposto in passato, nell'ambiente della corte reale di Francia. La prima testimonianza della sua carriera è costituita da un arbitrato, da lui pronunciato insieme con il priore di Montaren, in merito ai doveri feudali del signore di Uzès nei confronti del vescovo locale. La decisione fu pubblicata alla presenza di un ufficiale della Corona francese, il siniscalco di Beaucaire, il 29 ottobre 1234. L'anno successivo il Foucois fu chiamato come giurisperito a Viviers con l'incarico di esaminare le rivendicazioni del re di Francia su quel vescovato. I privilegi ecclesiastici presentati al Foucois lo convinsero che Viviers dipendeva dall'Impero e lo indussero così a respingere le rivendicazioni presentate dal siniscalco di Beaucaire.
Anche se incarichi di questo genere rispecchiano già la notevole fama di cui il Foucois godeva nella Francia meridionale, egli entrò tuttavia relativamente tardi in rapporti più stretti con una signoria feudale. La sua presenza alla corte del conte di Tolosa Raimondo VII è attestata, infatti, per la prima volta soltanto nel 1241. Nell'aprile di quell'anno, a Lunel, il Foucois fu tra i testimoni del giuramento feudale prestato dal conte al vescovo di Albi per il castello di Bonafous. Nello stesso periodo Raimondo VII concluse anche un accordo politico importante con re Giacomo I d'Aragona ed è probabile che il Foucois fosse già allora uno dei consiglieri politici del conte. Il Foucois risulta, poi, presente alla cerimonia nella quale, nel giugno dello stesso anno, Ruggero IV di Foix prestò omaggio al conte di Tolosa. Non si hanno tuttavia altre notizie di questa incipiente collaborazione politica con Raimondo VII, il quale morì nel 1249.
In quel periodo il Foucois abitava a Saint-Gilles, dove si era unito in matrimonio con una donna di cui si ignora il nome, che gli dette due figlie. Nel 1247 accompagnò la sorella Marie da Saint-Gilles a Montpellier dove si celebrava il Capitolo generale dei Domenicani: più tardi avrebbe raccontato in una lettera indirizzata al convento domenicano di quella città di un miracolo occorso alla sorella proprio durante quel viaggio.
Soltanto a partire dal 1249 l'attività pubblica del Foucois assume contorni più precisi. Una lite tra il siniscalco di Carcassonne e il vescovo di Béziers per la custodia delle porte della città vescovile di Béziers fu all'origine di una vasta inchiesta svolta dal Foucois nel maggio e nel giugno del 1249, insieme con gli arbitri nominati dalle rispettive parti in causa. Nel 1249, dopo la morte di Raimondo VII, la Contea di Tolosa passò al fratello del re di Francia, Alfonso di Poitiers, che in quel momento si trovava come crociato in Terrasanta. Per lui assunse il possesso della Contea la madre, Bianca di Castiglia, reggente del Regno di Francia. Anche il Foucois fu presente quando, il 1° dicembre 1249, nobili e consoli della Contea prestarono il giuramento di fedeltà al nuovo signore e ai suoi rappresentanti nominati dalla regina. La regina Bianca si avvide molto presto della preparazione e della capacità del Foucois: lo propose, infatti, come secondo arbitro alle parti in causa nella vertenza, da tempo insorta e che ora si era riaperta con rinnovata veemenza, tra l'arcivescovo di Narbona e il visconte di Narbona dopo che era fallita la mediazione portata avanti dal vescovo di Béziers e il visconte stesso era stato scomunicato per aver violato la giurisdizione ecclesiastica. Il nuovo arbitrato fu pubblicato nel luglio del 1251 a Narbona: il Foucois riuscì a risolvere la questione attraverso una più precisa definizione delle due giurisdizioni a Narbona. Ma fu una soluzione di breve durata: già due mesi più tardi si rese necessario un nuovo intervento dei due arbitri per la soluzione di alcuni problemi rimasti ancora pendenti. Quando nell'aprile e nel maggio del 1251 Carlo d'Angiò e Alfonso di Poitiers, con trattative e pressioni politiche, rifondarono il loro dominio ad Arles e ad Avignone mediante accordi con i rispettivi Comuni, il Foucois si era già schierato dalla parte dei nuovi signori. Fu allora che egli incontrò, probabilmente per la prima volta, il conte Carlo di Provenza. Nelle settimane successive accompagnò Alfonso nella sua visita della Contea e il 28 maggio fece parte della grande commissione di giuristi che a Tolosa esaminarono la validità giuridica del testamento del defunto conte Raimondo VII per concludere che molte clausole erano invalide, permettendo così ad Alfonso di Poitiers di sbarazzarsi degli obblighi più gravosi impostigli dal testamento.
Alfonso di Poitiers trovò nel Foucois un consigliere giuridico e politico efficiente il quale, proprio perché radicato personalmente nella società meridionale, poté aiutarlo a portare avanti con successo gli obiettivi della monarchia francese che mirava a rafforzare il suo potere nel Sud della Francia. Quando si trattò di elaborare un nuovo regolamento per i siniscalchi, baili e giudici della Contea - regolamento che nelle intenzioni di Alfonso doveva porre freno agli abusi dei funzionari e facilitare così l'assuefazione dei nuovi sudditi alle nuove forme di governo -, il Foucois fu naturalmente tra coloro che si adoperarono per la diffusione della nuova normativa. I compiti che il Foucois andava assumendo lo portarono sempre più frequentemente a Parigi, preparando così il terreno per quel suo legame con la corte francese che i contemporanei hanno sempre messo in rilievo.
Nel 1252 Alfonso di Poitiers nominò una commissione di cinque riformatori nella quale il Foucois, accanto a due minoriti, un cavaliere e un cittadino, era l'unico giurista. Questa commissione visitò tutta la Contea preparando, attraverso inchieste dettagliate in tutte le località - ad Agen, Montauban e Tolosa -, i progetti di riforma che poi si concretizzarono negli statuti relativi ai diritti comunali, alla posizione degli inquisitori, alla distribuzione degli oneri in caso di costruzione di fortificazioni e agli ebrei, nonché nel recupero di beni alienati. Benché laico, il Foucois si occupò già allora, insieme con Filippo, tesoriere di St-Hilaire a Poitiers, dell'Inquisizione che tanta parte aveva nella vita spirituale della Francia meridionale, dove le ripercussioni del grande movimento ereticale, ormai da tempo sconfitto, non erano ancora del tutto spente. Per incarico dei vescovi scelse nel 1252 tra i Domenicani i nuovi inquisitori della Contea. Dopo l'ottobre 1253 fornì il suo consiglio ad una commissione comitale che aveva l'incarico di definire certi diritti nel Contado Venassino. Anche in seguito il Foucois ricevette numerosi incarichi dal nuovo signore, tanto da poter essere considerato uno dei consiglieri stabili del conte Alfonso. Verso la fine del 1255, quando Alfonso fece redigere le sue rimostranze nei confronti dei consoli di Tolosa orgogliosi della loro autonomia, il conte si servì ancora del Foucois che pronunciò l'arbitrato sulla vertenza. Anche Luigi IX ricorse al Foucois quando, al ritorno dalla crociata, volle scegliere un consigliere capace di realizzare i suoi obiettivi politici nella Francia meridionale, visto che egli aveva già dato prova della propria capacità al servizio del fratello. Nel 1254 Luigi IX nominò, come il fratello, una commissione di quattro riformatori ed inquisitori che inviò nei distretti amministrativi dei siniscalchi di Carcassonne e di Beaucaire con l'incarico di recuperare alla Corona beni in precedenza alienati e di raccogliere le numerose lamentele contro gli ufficiali regi per porvi rimedio. Di questa commissione, rimasta in carica fino al 1257, fece parte anche il Foucois, insieme con l'arcivescovo Filippo di Aix e due frati mendicanti. Nel maggio del 1255 il Foucois pubblicò, in occasione di un concilio a Béziers, i nuovi statuti regi, emanati nel dicembre precedente, per i due distretti e quelli relativi alla provincia di Narbona. Il Comune di Nîmes ottenne nuovamente il diritto di eleggere i consoli; molti cittadini ricevettero risarcimenti finanziari per i danni e le perdite subiti ad opera dei funzionari regi impegnati nella organizzazione amministrativa, fiscale e militare della Francia meridionale per conto della Corona francese. Varie volte il Foucois ricevette, a nome del re, il giuramento di fedeltà da vassalli ecclesiastici e laici.
Già allora il Foucois si dedicava con particolare zelo ai problemi connessi con l'Inquisizione. Con gli inquisitori intratteneva una vivace corrispondenza e questi, dal canto loro, si rivolgevano spesso a lui per avere consigli giuridici. Il Foucois raccolse in seguito le risposte date agli inquisitori in un volume dal titolo Quaestiones quindecim ad inquisitores, ristampato ancora nel sec. XVII, nel quale trattò con ammirevole coerenza e chiarezza giuridica una serie di problemi emersi durante il lavoro quotidiano dell'Inquisizione, nonché questioni generali prospettatesi nel corso dei numerosi procedimenti intentati dagli inquisitori.
Mentre era al servizio del conte di Tolosa e del re di Francia, il Foucois rimase vedovo. Decise allora di abbracciare lo stato ecclesiastico; diversamente dal padre scelse la condizione secolare. Non è possibile stabilire con esattezza il momento di questa svolta radicale nella sua vita. In documenti del febbraio e dell'aprile 1255 e dell'agosto del 1257 il Foucois viene definito chierico, o più precisamente chierico della corte reale, in contrasto con altre testimonianze di quegli stessi anni in cui manca tale qualifica. È tuttavia probabile che il Foucois abbia abbracciato lo stato ecclesiastico non molto tempo prima del febbraio 1255, ottenendo contemporaneamente un posto nella cappella di corte del re di Francia. La tappa successiva nella sua carriera ecclesiastica fu un canonicato nella cattedrale di Le Puy, dove - secondo una tradizione, peraltro poco sicura - avrebbe svolto le funzioni di arcidiacono. Già l'11 giugno 1257, quattro settimane dopo la morte del vescovo Armando, il Capitolo di Le Puy elesse il Foucois suo successore in questa diocesi della Francia meridionale che dipendeva direttamente dalla Sede apostolica. La conferma pontificia si fece, però, attendere fino all'ottobre del 1257, perché il papa Alessandro IV propendeva inizialmente - non è noto per quali motivi - a respingere l'elezione del Foucois. Con il consenso del re, quest'ultimo assunse nel novembre del 1257 l'amministrazione temporale della diocesi; la consacrazione vescovile fu invece celebrata solo dopo il gennaio 1258.
Il primo compito che si poneva al Foucois nella sua nuova veste di vescovo era quello di respingere le eccessive rivendicazioni della Corona sulle regalie, dopo che i tentativi intrapresi in questo senso dai suoi predecessori negli ultimi quattro anni erano falliti. Dopo il Parlamento del 1258, Luigi IX nel luglio del 1259 era disposto a scendere a patti, escludendo dalle sue pretese il palazzo e i castelli vescovili e rinunciando nei confronti del Capitolo al diritto d'esser informato della sede vacante e a quello di concedere il permesso per l'elezione. Questo accordo vantaggioso procurò al Foucois probabilmente l'appoggio necessario del clero della diocesi che gli permetteva di continuare a servire il re anche da vescovo e di assumere il controllo supremo sulle inchieste reali nella zona di Carcassona e di Beaucaire. Verso la fine del 1258 mediò un accordo tra il re Giacomo I d'Aragona e i cittadini di Montpellier; l'anno seguente il suo intervento, disposto questa volta da Alessandro IV, portò ad un'intesa tra Luigi IX e l'arcivescovo di Arles nel conflitto per la città di Beaucaire e i feudi arcivescovili ad occidente del Rodano. È quasi naturale che il Foucois, data la posizione che si era conquistato nel Consiglio del re, partecipasse regolarmente ai Parlamenti di Parigi.
Il 10 ottobre 1259, cioè cinque giorni dopo la morte dell'arcivescovo Iacopo, il Capitolo di Narbona elesse il Foucois suo successore su quella cattedra metropolitana. Anche questa volta l'approvazione papale richiese molto tempo, cosicché il Foucois continuò a svolgere le funzioni di vescovo a Le Puy, qualificandosi nello stesso tempo nei suoi documenti come arcivescovo eletto di Narbona. L'intronizzazione a Narbona, la quale sola gli poteva conferire i pieni diritti arcivescovili, ebbe luogo non prima dell'inizio del 1261. Nell'aprile di quest'anno il Foucois prestò al re, a corte, il giuramento di fedeltà e l'omaggio; in questa occasione il sovrano confermò alla Chiesa di Narbona una rendita annua quale risarcimento per i beni ecclesiastici tenuti da eretici e successivamente confiscati dalla Corona.
Il nuovo ufficio ecclesiastico non limitò l'attività del Foucois al servizio del re di Francia. L'arcivescovo consigliò il re in varie questioni riguardanti la politica meridionale, dall'acquisto di castelli fino alla conciliazione con i discendenti degli eretici. Il conflitto tra i due signori della città di Montpellier, re Giacomo I d'Aragona e il vescovo Guglielmo di Maguelonne, richiese nuovamente l'intervento del Foucois, già esperto nelle questioni giuridiche di questo singolare dominio. Egli, peraltro, si interessò anche di altre controversie, come quella apertasi tra il vescovo e i cittadini di Lodève. Come principe della Chiesa il Foucois si distinse per una concezione rigorosa del suo ufficio. Promulgò nuovi statuti per la diocesi ed inaugurò una politica severa nei confronti degli ebrei, politica che, pur confermando loro la protezione dell'arcivescovo, facilitava le conversioni e accentuava la divisione tra ebrei e cristiani rendendo più difficile la posizione dei primi nella diocesi.
Quando Urbano IV, dopo la sua elezione, procedette nel dicembre del 1261 alla nomina di alcuni nuovi cardinali per riportare il Collegio alla sua precedente consistenza cercando di assicurare nello stesso tempo, con queste nuove nomine, l'appoggio della Francia alla sua linea politica, il Foucois fu tra gli ecclesiastici del Consiglio del re cui il nuovo pontefice offrì la dignità cardinalizia, nominandolo vescovo di Sabina. Il Foucois esitò a lungo se accettare la nuova dignità perché pensava di non aver ancora pienamente assolto ai suoi compiti nell'arcidiocesi di Narbona. Anche Luigi IX era contrario perché riteneva il Foucois, distintosi tante volte in passato come abile mediatore, un indispensabile negoziatore nel conflitto familiare insorto tra sua moglie Margherita e Carlo d'Angiò, conflitto tanto dannoso per la politica francese. Ma Urbano IV non accettò questi argomenti, cosicché il Foucois nel tardo autunno del 1262 abbandonò Narbona per recarsi in Curia. Nel maggio precedente aveva assistito, nella sua qualità di arcivescovo, alle nozze celebrate a Clermont-en-Auvergne tra il figlio del re, Filippo, e Isabella d'Aragona, e due mesi più tardi aveva partecipato anche alle trattative con Giacomo I d'Aragona, che dovevano assicurare la neutralità del re d'Aragona nel conflitto tra Manfredi di Svevia e la Chiesa romana, dopo che anche tra l'Aragona e la Sicilia era stato concluso un accordo matrimoniale.
Il Foucois giunse alla Curia pontificia ad Orvieto nel novembre del 1262, ma inizialmente rimase più in ombra di quanto ci si sarebbe potuto aspettare date le sue attività precedenti e i motivi che avevano spinto Urbano IV a promuoverlo alla nuova dignità. A differenza della maggior parte dei cardinali svolse solo raramente le funzioni di auditore nei processi curiali, mentre, per quanto concerneva la materia dei benefici e la questione delle riforme monastiche, limitò il proprio interessamento alla sua terra natale, la Francia meridionale. Nel corso del 1263 Urbano lo nominò, comunque, penitenziere pontificio come successore del cardinale domenicano Ugo di Saint-Cher. Il primo incarico politico fu assunto dal Foucois solo nel novembre 1263, quando il papa lo nominò legato per l'Inghilterra, l'Irlanda e il Galles con l'incarico di pacificare queste terre dilaniate dal conflitto tra il re e i baroni.
Tuttavia, poco dopo la nomina del Foucois, i baroni inglesi e i partigiani del re si accordarono, dichiarandosi pronti a sottomettersi all'arbitrato del re di Francia; per questo motivo il cardinale rinviò per più di metà anno la sua partenza. Lasciò Orvieto soltanto nell'aprile del 1264, quando risultò evidente che l'arbitrato di Luigi IX a favore dei diritti del re inglese aveva avuto l'effetto di acuire il conflitto. Si diresse prima in Provenza, dove sistemò alcune questioni ecclesiastiche, per cercare poi, insieme con il legato pontificio in Francia, Simon de Brie, di dissipare le riserve della famiglia reale circa l'offerta del Regno di Sicilia a Carlo d'Angiò. A Parigi, dove a Pentecoste partecipò al Parlamento, il Foucois cercò di ottenere un salvacondotto per l'Inghilterra, ma non vi riuscì. Così nel luglio e nell'agosto egli si fermò a Boulogne, sulla costa della Manica. Ma i suoi tentativi di influenzare di lì gli avvenimenti inglesi, inviando messi e minacce e lanciando infine anche scomuniche e interdetti, erano destinati al fallimento, cosicché alla fine di agosto il cardinale decise di interrompere la sua legazione e di tornare in Italia.
Nel frattempo Urbano IV era morto il 2 ottobre 1264. Il Collegio cardinalizio era diviso in fazioni e per poter raggiungere un compromesso aveva affidato l'elezione ad un rappresentante di ciascuno dei singoli partiti opposti. Questi "compromissari" si accordarono sul nome del Foucois, in quel momento ancora in viaggio verso l'Italia. Fu eletto papa il 5 febbraio 1265. Dopo il suo arrivo a Perugia assunse il nome di Clemente IV e fu incoronato il 22 dello stesso mese.
C. risiedette inizialmente a Perugia e, dal maggio del 1266 fino al termine del pontificato, a Viterbo. Egli si espresse con grande franchezza sui suoi rapporti con i cardinali: chiedeva volentieri il loro consiglio e con quelli assenti intratteneva una vivace corrispondenza su tutte le questioni che gli stavano molto a cuore. Pur ammettendo di essersi piegato al voto della maggioranza cardinalizia più spesso di quanto non fossero venuti a sapere gli estranei, insistette tuttavia con grande coerenza sui principi delle proprie concezioni politiche e poté, perciò, raccogliere i frutti dell'azione di Urbano IV senza mettere in pericolo il complesso equilibrio delle fazioni in Curia e senza provocare cardinali troppo potenti ed autonomi come Simone Paltanieri, Riccardo Annibaldi e Giangaetano Orsini. C. non creò nuovi cardinali: e ciò è altamente significativo per comprendere la sua politica che era tutta tesa ad evitare qualsiasi modifica degli equilibri curiali. Al pari di molti dei suoi predecessori, C. affidò i più importanti uffici curiali a chierici suoi conterranei. Alla sua morte i due uffici più importanti per la continuità degli affari curiali durante la sede vacante, cioè quello del camerlengo e quello del rettore del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, erano tenuti da due francesi originari della Francia meridionale, Pierre de Montbrun e Alfantus de Sancto Amantio di Marsiglia. Si deve, però, dire a suo onore che egli disdegnò ogni forma di nepotismo e tenne a freno la corsa ai benefici. Nel breve periodo del suo pontificato non introdusse, comunque, modifiche sostanziali nell'amministrazione curiale, e rinunciò anche, di fronte alle continue minacce esterne, ad imporre nelle terre della Chiesa nuove forme amministrative.
La soluzione della questione siciliana, avviata già da Urbano IV mediante il suo accordo con il conte di Provenza Carlo d'Angiò, richiese da C. un'azione immediata. I progressi di Manfredi di Sicilia nelle Marche e i suoi fruttuosi legami con i ghibellini toscani e lombardi sin dal 1260 costituivano una grave minaccia per lo Stato della Chiesa e la Curia; ma anche l'elezione di Carlo a senatore di Roma nel 1263 aveva creato uno stato di disagio, tanto che dissensi erano sorti in merito alla scelta operata da Urbano IV, dissensi che occorreva placare con nuove garanzie. Già nel gennaio 1265, durante il viaggio verso Perugia, dove Urbano IV si era rifugiato durante le ultime settimane di vita per sottrarsi al crescente pericolo di un accerchiamento ghibellino, C. si era rivolto al conte di Provenza per sollecitarlo a rafforzare la sua posizione a Roma, ma anche per invitarlo a non commettere imprudenze che avrebbero potuto mettere in pericolo la sua alleanza con la Santa Sede. Pochi giorni dopo l'incoronazione, poi, C. stabilì le nuove condizioni per il conferimento a Carlo d'Angiò del Regno di Sicilia, limitando il periodo della sua senatoria romana a tre anni e proibendo il congiungimento del Regno con altri territori italiani. Queste condizioni, accettate due mesi dopo dall'Angiò, crearono finalmente le basi per rompere definitivamente, con l'aiuto della Francia e dei guelfi italiani, ma anche grazie al deciso appoggio del Collegio cardinalizio, l'accerchiamento siculo-ghibellino. Poco tempo dopo l'arrivo a Roma di Carlo d'Angiò, approdato il 21 maggio in modo del tutto inatteso a Ostia, C. ordinò di infeudare il conte di Provenza del Regno di Sicilia: la cerimonia si svolse il 28 giugno 1265 a Roma, per mano di quattro cardinali. Anche se conosceva bene l'Angiò come un signore geloso del proprio potere e con pochi scrupoli nella scelta dei mezzi politici e anche se non esitò mai ad esprimere critiche nei confronti di questo, C. si adoperò tuttavia in tutti i modi per assicurare il successo della sua campagna siciliana.
Al pari di quanto già aveva fatto Urbano IV, anche C. mise l'indulgenza per la crociata al servizio del reclutamento antisvevo in Francia e nell'Italia settentrionale, e dispose che le tasse raccolte in Francia e in Provenza per finanziare la crociata servissero per la spedizione di Carlo d'Angiò contro Manfredi. Non riuscì, però, a indurre Luigi IX ad uscire dal suo riserbo e a prefinanziare la decima o per lo meno a farsene garante nei confronti dei mercanti italiani. In questo modo si produsse un netto squilibrio tra il successo del reclutamento e il ricavo finanziario della riscossione. Poche settimane dopo l'arrivo del conte a Roma, C. non poté più nascondersi che, nonostante qualche successo iniziale, senza un sostanzioso aiuto finanziario Carlo non avrebbe potuto ottenere la vittoria finale. Dall'estate del 1265 C. cercò quindi di procurargli i necessari mezzi finanziari mediante crediti contratti dalla Chiesa. Senza lasciarsi influenzare dall'opposizione dei cardinali, accettò tutte le condizioni poste da banchieri romani per la concessione del prestito necessario per la campagna militare: ad essi impegnò non solo le entrate della decima per la crociata, ma anche altri introiti della Camera apostolica e infine anche il tesoro della Chiesa e i beni di numerose chiese romane. Per quanto discutibili, queste transazioni finanziarie raggiunsero tuttavia, almeno in parte, il loro obiettivo, visto che Carlo d'Angiò già a novembre poteva disporre di una grande parte della somma necessaria che inizialmente era stata calcolata in 100.000 libbre. In questo modo C. convinse alla fine anche i mercanti toscani che finora si erano tenuti in disparte, e poté ottenere da loro ulteriori finanziamenti per la campagna. Con l'appoggio politico dei legati inviati dal papa, negli ultimi mesi del 1265 Carlo poté condurre a Roma, attraverso l'Italia settentrionale, l'esercito dei cavalieri francesi. Sullo sfondo di questo successo, C. offrì a Carlo d'Angiò un'ultima garanzia: lo fece incoronare a Roma re di Sicilia da quattro cardinali il 6 gennaio 1266.
Dopo la vittoria su Manfredi a Benevento, che già nel febbraio 1266 rese Carlo padrone del Regno, C. indusse l'Angiò a rinunciare alla senatoria di Roma per rendere meno conflittuale il problema romano. Ma la gioia per la vittoria riportata venne turbata ben presto da gravi dubbi sulla scelta dell'Angiò di fronte alle violazioni dei diritti pontifici da questo operate a Benevento ed al fatto che lo stesso dimostrava verso le tradizioni amministrative siciliane un'apertura maggiore di quanto non si addicesse ad un sovrano scelto dalla Chiesa. C. si vide quindi costretto a criticare, ancora più spesso che in passato, il comportamento e l'operato del nuovo re di Sicilia. Inviando nel Regno come legato il cardinale vescovo di Albano, Raoul Grosparmy, C. volle dimostrare la sua volontà di intervenire direttamente nella politica ecclesiastica siciliana, al fine di liberarla dalla tutela statale che egli considerava ormai non più accettabile. Allontanò dalle loro sedi tutta una serie di vescovi e abati siciliani filosvevi ed insediò in più di un terzo dei vescovati del Regno uomini di sua scelta. Ma l'obiettivo principale di tutta la sua politica nei confronti del Regno era quello di rendervi stabile il nuovo governo: per questo fine si muoveva su quelle terre con clemenza e moderazione e cercava di convincere anche Carlo a seguire lo stesso indirizzo e lo criticava quando questi si lasciava influenzare da consiglieri che al suo seguito erano rientrati nel Regno dall'esilio e chiedevano ora vendetta.
Nello stesso tempo si pose a C. il compito urgente di rivolgere la sua attenzione anche alle vicende della Toscana, dove la vittoria di Benevento aveva fatto vacillare la supremazia ghibellina degli ultimi anni e si prospettavano, quindi, soluzioni politiche favorevoli agli interessi della Chiesa. Ma, anche se il papa poté mediare in varie città un accordo tra le fazioni opposte, perdurarono tuttavia le tensioni politiche creando una situazione molto labile e difficilmente controllabile dagli inviati pontifici, anche perché i guelfi si ripromettevano assai più da rapporti diretti con Carlo che non dalla politica del papa. La notizia che Corradino, il nipote di Federico II, aveva pubblicamente rivendicato ad Augusta i suoi diritti sull'eredità siciliana, offrendo così agli esuli siciliani e ai ghibellini un nuovo obiettivo politico, tolse ogni prospettiva di successo ai tentativi del papa di dissuadere Carlo d'Angiò da un intervento diretto nelle vicende toscane. Carlo infatti già verso la fine dell'anno 1266 accolse l'invito dei suoi seguaci toscani. Malgrado le trattative in corso con C. nella primavera del 1267 a Viterbo, il sovrano spostò il centro della sua azione per quasi un anno in Toscana, dove in numerose città poté intervenire come podestà anche nell'esercizio diretto del potere. I pericoli che si profilavano all'orizzonte con la discesa di Corradino in Italia indussero C. a conferire a Carlo, nominandolo "paciere" nel giugno del 1267, anche un titolo giuridico per la sua politica toscana. Questo titolo, anche se non soddisfaceva pienamente il re, poteva tuttavia dare una certa legittimità alla sua politica che si andava sempre più allontanando dalle condizioni poste inizialmente dal papa. Ma mentre Carlo, assediando il nucleo delle truppe ghibelline a Poggibonsi, vincolava per alcuni mesi le sue forze militari, i piani di restaurazione ghibellina assumevano contorni sempre più concreti. I mezzi usati dal papa contro i ghibellini - processi ecclesiastici e minacce di scomunica - si rivelarono poco efficaci, mentre la politica di Carlo in Toscana ingrossava le file dei seguaci di Corradino - soprattutto Senesi e Pisani passavano dalla sua parte -, aumentando le reali prospettive di successo per il grande progetto ghibellino di attaccare il Regno contemporaneamente da nord e da sud. Per tempo, C. si rese conto di questi pericoli, rimproverò aspramente il re e gli intimò di tornare nel Regno. Dopo lo sbarco di Corrado Capece in Sicilia nei pressi di Sciacca, nel settembre del 1267, e la conseguente rivolta dell'isola, Galvano Lancia, il rappresentante di Corradino, nel dicembre 1267 concluse un'alleanza con il senatore di Roma Enrico di Castiglia e con i ghibellini toscani, alla quale Carlo d'Angiò non seppe replicare in altro modo che con l'assedio - vano - di Pisa. Quando infine la rivolta dei Saraceni di Lucera nel febbraio del 1268 costrinse il re a rientrare precipitosamente nel Regno, a Corradino, che già nell'ottobre del 1267 a Verona aveva raccolto intorno a sé i suoi fedeli italiani e nel gennaio del 1268 era avanzato fino a Pavia, si aprì la strada per Pisa che egli raggiunse nell'aprile del 1268.
C. rispose il 5 aprile con una nuova scomunica del giovane Svevo che privò anche del titolo ereditario di re di Gerusalemme. Ma soprattutto si vide costretto ad abbandonare le sue riserve nei confronti della politica toscana di Carlo d'Angiò ed a conferirgli, sempre nell'aprile del 1268, il vicariato imperiale in Toscana che finora gli aveva negato. La svolta nella questione della senatoria romana era ormai soltanto una questione di tempo. Impressionato dall'enorme rischio che stavano correndo i suoi successi politici precedenti, C. sacrificò le garanzie contro un accerchiamento della Chiesa da parte di un potere laico, benché in quel momento non potesse aspettarsi alcun aiuto diretto da Carlo d'Angiò. A Pasqua sfoderò la sua arma più potente contro l'invasione dell'esercito di Corradino ordinando di predicare contro di lui la crociata. Proprio nei mesi in cui la Curia a Viterbo si vide esposta senza difese all'attacco dell'avversario che stava avanzando, rafforzandosi sempre di più con l'arrivo di nuove leve ghibelline, la ferma fiducia del papa fece scalpore in tutto il mondo. A Pentecoste, durante il Capitolo generale dei Domenicani, spostato da Pisa, che era passata al campo ghibellino, a Viterbo, C. annunciò il fallimento e la rovina di Corradino infondendo fiducia anche negli scettici. Il papa non dette per persa la sua causa neanche quando il 22 luglio 1268 l'esercito ghibellino sfilò sotto le mura di Viterbo, né quando pochi giorni più tardi gli giunse la notizia del trionfale ingresso di Corradino a Roma. La sua fiducia risultò giustificata dall'abile strategia di Carlo d'Angiò, la cui reazione, ponderata ma nello stesso tempo rapida, costrinse Corradino ad accettare lo scontro militare prima che le rivolte nel Regno e la spedizione della flotta pisana potessero risultargli vantaggiose.
La vittoria angioina di Tagliacozzo del 23 agosto 1268 salvò il risultato principale della politica di C., ma comportò per il papato il rischio permanente di una tutela angioina. Dopo Tagliacozzo C. non si oppose più al conferimento a vita della senatoria di Roma a Carlo d'Angiò, visto che la rinuncia del 1266 aveva provocato un vuoto politico riempito poi dai seguaci di Corradino. C. non ebbe parte nel processo contro Corradino, che tanto suscitò l'emozione dei contemporanei, ma non protestò nemmeno contro l'esecuzione del giovane Svevo. Si preoccupò soltanto che Corradino prima di morire fosse assolto a nome del papa.
Rispetto a questi problemi centrali del suo pontificato, altre questioni passano sullo sfondo. Riprendendo i contatti avviati da Urbano IV con l'imperatore bizantino Michele VIII, C. cercò di proseguire il dialogo con i Greci, che tuttavia ostacolò con richieste teologiche di massima e con l'intervento a favore dei progetti di restaurazione dell'Impero latino d'Oriente. Nel palazzo pontificio di Viterbo furono conclusi nel maggio 1267, alla presenza del papa, gli accordi segreti tra Carlo d'Angiò e l'imperatore latino Baldovino, che avrebbero dovuto permettere a quest'ultimo il ritorno a Costantinopoli con l'aiuto dell'Angioino, e al re siciliano la creazione di una solida base di potenza oltre l'Adriatico. Inoltre, per definire la crisi inglese, che come cardinale non aveva potuto risolvere, C. inviò in Inghilterra, come nuovo legato, il cardinale Ottobono Fieschi, il cui compito fu però facilitato dalla vittoria del re inglese sull'opposizione baronale e dalla morte sul campo di battaglia di Simone di Montfort. Il legato riuscì così a ricondurre all'obbedienza romana i prelati inglesi che già più volte avevano fatto causa comune con i baroni. Alla preoccupazione per le sorti della Terrasanta, che tanto angustiavano il re francese e suo fratello Alfonso di Poitiers, C. antepose in un primo momento la soluzione della questione siciliana, tanto più che il ricavo della decima per la crociata imposta in Francia era stato destinato alla campagna contro Manfredi. A partire dal 1266 C. riprese i progetti di crociata, sollecitato anche dalle richieste di aiuto che giungevano da San Giovanni d'Acri. L'appello pontificio indusse Luigi IX e i suoi figli a prendere nel 1267 personalmente la croce; un esempio largamente imitato nell'Europa occidentale. Inoltre C. impose una nuova tassa triennale per la crociata, contro la quale il clero francese protestò invano. Ancora poco prima di morire C. nominò nell'autunno del 1268 il cardinale vescovo di Albano, Raoul Grosparmy, ormai impegnato in Francia, legato per la crociata; ma la sua partenza per Tunisi avvenne quando il papa era già morto. La maggior parte dei cronisti contemporanei ricorda come il dato più rilevante del pontificato di C. la canonizzazione di Edvige di Polonia, avvenuta nel 1267. Ma l'aspetto più importante dell'azione di C. nel governo della Chiesa sembra essere piuttosto la sua politica diretta a precisare e ad ampliare la potestà del papa in merito alla disposizione dei benefici. Con la costituzione Licet ecclesiarum del 27 giugno 1265 egli riservò alla Sede apostolica tutti i benefici minori che si sarebbero resi vacanti; ma nella motivazione del provvedimento egli andò in realtà molto oltre, stabilendo il principio che tutti i benefici, le dignità ecclesiastiche e le chiese erano subordinati alla "plenaria dispositio" del papa romano, e che questa "dispositio" riguardava anche le aspettative su benefici non ancora vacanti. Le obiezioni sollevate contro questa prerogativa pontificia indussero, però, C. nel giugno del 1266 a fare ulteriori precisazioni e a dichiarare che la costituzione non riguardava i vescovati e i monasteri, la qual cosa nella prassi curiale quotidiana avveniva in realtà molto più frequentemente di quanto la concessione non facesse intendere. Nelle zone critiche, come nel Regno di Sicilia, nell'Italia settentrionale e in Inghilterra, C. riservò, inoltre, a sé le nomine a tutte le cariche ecclesiastiche, ottenendo così il pieno controllo della gerarchia. La rivendicazione della prerogativa pontificia su benefici e dignità, mai avanzata in passato con altrettanta decisione e fermezza, si associava in C. con criteri molto severi per quel che riguardava la loro concessione e con un chiaro rifiuto della prassi dilagante del cumulo dei benefici, rifiuto che egli manifestò costantemente anche quando si trattava di propri parenti. C., il cui rigore ascetico in tutta la sua condotta di vita veniva elogiato proprio dagli Ordini mendicanti, fu un osservatore attento e comprensivo di tutte le correnti spirituali del suo tempo. Molti rappresentanti di queste correnti furono stimolati e favoriti dal papa, che per la sua dottrina era celebrato come "iurista summus" (Tolomeo da Lucca). Con Ruggero Bacone C. aveva avuto colloqui probabilmente già nel 1257 quando il teologo francescano si trovava in esilio a Parigi. Durante la sua legazione inglese il futuro papa si rivolse da Boulogne al Bacone - ormai generalmente noto, ma tuttavia contestato all'interno del proprio Ordine - con la preghiera di mandargli le sue opere, preghiera che fu esaudita, però, solo nel 1266 dopo un nuovo sollecito. Il Bacone considerava C. un grande papa giurista ("quod nunquam fui papa, qui ita veraciter sciret ius sicut vos", gli scrisse); ma nello stesso tempo anche il difensore della Chiesa capace di impedire che la scienza della filosofia e della teologia si esaurisse nello "ius civile" ed andasse così in rovina. Si è attribuito a C. anche il progetto di accogliere nella gerarchia ecclesiastica i due grandi pensatori degli Ordini mendicanti, Bonaventura e Tommaso d'Aquino, conferendo al primo l'arcivescovato di York e al secondo quello di Napoli; ma i progetti, se esistevano, non andarono in porto. Esperto nelle cose di questo mondo, C. era tuttavia anche un poeta sensibile ed aperto alla mistica nella sua lingua madre, il provenzale. Si conserva un suo poema piuttosto ampio sulle sette gioie della Madonna - Los VII gautz de Nostra Dona - che egli compose quando era vescovo di Le Puy.
C. morì il 29 novembre 1268 a Viterbo. Per sua volontà fu sepolto nella chiesa del convento domenicano di S. Maria in Gradi fuori le mura della città.
Per iniziativa del suo camerlengo, il futuro arcivescovo di Narbona Pierre di Montbrun, fu scolpito per lui un monumento funebre parietale in marmo bianco. Con le sue forme gotiche, riprese per la prima volta in Italia, e con la figura scolpita in modo realistico, distesa sulla tomba costituita da un sarcofago romano, esso rappresenta il primo monumento funebre di questo tipo in Italia. Secondo l'iscrizione il sepolcro, che venne imitato presto da altri artisti, è opera dello scultore cosmatesco romano Pietro di Oderisio. È probabile che Arnolfo di Cambio abbia collaborato alla realizzazione figurativa dell'opera e dato con la figura tombale una delle prime prove della sua arte ritrattistica. Il culto sorto subito intorno alla tomba del papa provocò una violenta contesa per la sua collocazione. Nel 1271 la tomba fu spostata con la forza dalla chiesa di S. Maria in Gradi nel duomo di S. Lorenzo, ma, dopo vari inviti rimasti inascoltati di cardinali e di papa Gregorio X, fu collocata di nuovo in S. Maria in Gradi, in base a una sentenza di Innocenzo V. Dopo la soppressione del convento domenicano nel 1870 il sepolcro fu sistemato nella chiesa di S. Francesco alla Rocca, sempre a Viterbo. Oltre alla figura tombale scolpita in modo così naturalistico, è conservato un altro ritratto di C. in un affresco sulla parete della Tour Ferrande a Pernes nella Francia meridionale (riprodotto in C. Nicolas, pp. 334 ss.; cfr. anche G. Ladner, tav. XXXIII). Dei discendenti diretti di C., la figlia Mabilia già all'inizio del pontificato del padre si era fatta monaca. La seconda figlia, Cecilia, tra il 1268 e il 1270 acquistò ancora terre e rendite nella natia Saint-Gilles, ma anch'essa intorno al 1272 entrò come monaca nel monastero di St-Sauveur-de-la-Fontaine a Nîmes dove morì intorno al 1287.
fonti e bibliografia
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