Clemente V
Bertrand de Got, terzo dei dodici figli di Ida de Blanqueforte e Béraud de Got, signore di Villandraut, Grayan, Livran e Uzeste, nacque a Villandraut (Gironde) intorno alla metà del sec. XIII. La famiglia paterna era di origine nobile ma economicamente non agiata. Per tradizione, la carriera ecclesiastica offriva alla famiglia de Got la possibilità di una rapida ascesa.
Lo zio paterno, anch'egli di nome Bertrand, fu vescovo della diocesi di Agen dal 1292 al 1306, vescovo di Langres per qualche mese, poi di nuovo vescovo di Agen dall'11 novembre 1306 al 5 maggio 1313. Due fratelli di C. abbracciarono la carriera ecclesiastica: il primo, Béraud, fu arcivescovo di Lione (1289-1294) prima di essere creato cardinale vescovo di Albano da Celestino V nel 1294; il secondo, Guillaume de Got, di recente identificazione (J.A. Kicklighter, An Unknown Brother), morì, giovane (1299), canonico di Agen.
Destinato anch'egli alla carriera ecclesiastica, Bertrand fu dapprima educato nel priorato di Defés nella diocesi di Agen, appartenente all'Ordine di Grandmont, e studiò quindi diritto canonico e civile nelle Università di Orléans e Bologna ottenendo il titolo di "magister" attestato da numerosi documenti. Appare però del tutto infondata la notizia secondo cui avrebbe studiato anche a Tolosa: si tratta di una affermazione provocata dalla confusione con un omonimo membro della famiglia de Got, nipote di Bertrand. La sua ottima formazione giuridica viene ricordata esplicitamente dal cardinale Iacopo Stefaneschi nell'introduzione al suo Opus metricum: "Qui legali maxime canonicaque scientia ac rerum experientia doctus [...]" (in Monumenta Coelestiniana, a cura di F.X. Seppelt, Paderborn 1921, p. 12). L'iter prebendale di Bertrand passa attraverso Bordeaux e Agen, città legate alla famiglia de Got sul piano della politica ecclesiastica da parecchie generazioni. Ancora molto giovane fu titolare di un canonicato nella cattedrale di Bordeaux e nella collegiata di St-Caprais ad Agen. Incerta rimane invece l'attribuzione di un canonicato a Tours, fatta da un erudito seicentesco (R. Monsnyer, Celeberrimae S. Martini Turonensis Ecclesiae iura propugnata, Paris 1663, pp. 156 s.) sulla base di una lettera di C. del 1308 successivamente perduta. La particolare posizione geopolitica della Guascogna, terra del re d'Inghilterra, vassallo del re di Francia nella sua veste di duca di Aquitania, poneva Bertrand nella necessità di ricercare costantemente una soddisfacente posizione di equilibrio politico. La prima attestazione di funzioni da lui assunte al servizio del re d'Inghilterra, Edoardo I, risale al 1285, quando sedette nel Parlamento in cui venivano trattate le questioni relative alla Guascogna. Un inserto in un registro di conti (1287-1288) della guardaroba del sovrano inglese ricorda certe assegnazioni fatte al "magistro Bertrame de Goth et sociis suis procur[atoribus] regis in curia Rom[ana]" (J.H. Denton, p. 307). La laconicità dell'inserto non permette di stabilire se si tratta veramente del futuro pontefice. Il "magister" in questione potrebbe essere anche il suo omonimo zio, futuro vescovo di Agen. Se l'identificazione con Bertrand fosse possibile, avremmo in questo item un sicuro termine ante quem per i suoi rapporti con la Curia romana.
L'omonimia con il futuro vescovo di Agen ha provocato non poche incertezze anche a proposito di una lettera non datata, inviata da un "magister" B. de Got, canonico di Agen, per sollecitare un beneficio ecclesiastico dal re d'Inghilterra. Secondo recenti ricerche (ibid., pp. 303 ss.), è molto probabile che la lettera (Ch.-V. Langlois, p. 50) debba essere messa in relazione con Bertrand, al servizio del sovrano inglese dal 1285 al giorno in cui fu eletto vescovo di Comminges (1295). A Parigi egli presenziò sovente ai lavori del Parlamento in veste di procuratore del siniscalco della Guascogna.
La sua carriera ecclesiastica fu profondamente influenzata da quella del fratello Béraud, il quale, nominato arcivescovo di Lione nel luglio 1289, lo chiamò a sé probabilmente lo stesso anno per affidargli l'importante incarico di vicario generale. Bertrand non tardò del resto a essere accolto fra i canonici di quella cattedrale (termine ante quem: 1294). Durante il periodo lionese continuò, però, a prestare servizio al re d'Inghilterra quale procuratore del siniscalco di Guascogna, in un intreccio di funzioni che ben caratterizza il suo carattere e temperamento politico.
La nomina del fratello a cardinale per opera di Celestino V gli aprì le porte della Corte pontificia: nell'ottobre dello stesso anno Celestino V inviò in Inghilterra Bertrand, suo cappellano, per indurre il sovrano inglese a cessare le ostilità con la Francia. Tale scelta era giustificata dal fatto che, benché cappellano papale, Bertrand era chierico del re d'Inghilterra con vasta esperienza nel campo delle relazioni anglo-francesi. La sua missione durò formalmente fino alla fine di marzo, data in cui il successore di Celestino V, Bonifacio VIII, lo nominò (28 marzo 1295) vescovo di Comminges, sostituendolo in quell'incarico diplomatico con due cardinali legati, Béraud de Got e Simone da Beaulieu.
Ottenendo, il 23 dicembre 1299, il seggio arcivescovile di Bordeaux, Bertrand diventò il principale dignitario ecclesiastico del feudo continentale di Edoardo I. Come i suoi predecessori, egli contestò all'arcivescovo di Bourges il titolo di primate di Aquitania, incorrendo nella di lui scomunica il giorno in cui decise di arrogarsene il titolo e le prerogative. L'allora arcivescovo di Bourges, Egidio Colonna, avrà poi motivo di dolersene. Durante il pontificato di Bonifacio VIII, Bertrand riuscì a mantenere un'abilissima posizione di equilibrio tra Filippo il Bello e il papa. La situazione politica della Guascogna doveva consigliare al re di Francia di considerare con prudente benevolenza l'oscillante comportamento di Bertrand il quale, nella lotta che lo opponeva al pontefice, si schierava ora con l'uno ora con l'altro. Nell'aprile 1302 egli prese parte all'assemblea degli Stati generali di Parigi e sottoscrisse la protesta del clero francese destinata al pontefice e ai cardinali, però soltanto dopo essere riuscito a far accettare dal sovrano la tesi secondo cui gli arcivescovi di Bordeaux, per antica tradizione, non dovevano prestare alcun vassallaggio al re di Francia. Nel 1302, malgrado l'insistente proibizione di Filippo, si recò a Roma, per partecipare al concilio indetto da Bonifacio per condannare il re di Francia. Per attraversare le Alpi dovette superare non pochi tranelli tesi dai militi del re. Il priore del convento domenicano di Asti, Isnardo da Pavia, gli offrì ospitalità e lo aiutò a continuare il viaggio in incognito. A Roma strinse rapporti di amicizia con i bonifaciani e ottenne persino il titolo di cappellano del cardinale Francesco Caetani. Queste relazioni avrebbero assunto un'insospettata importanza per la sua ascesa al trono pontificio. Se il viaggio a Roma e la sua presenza al concilio del 1302 provocarono un momentaneo raffreddamento nei suoi rapporti con Filippo il Bello, già nell'aprile 1304 le sue relazioni con il sovrano francese erano sensibilmente migliorate. Francesco Pipino poteva inoltre affermare che "mortuo tandem papa Bonifacio, interventu quorundam prelatorum et nobilium, restitutus est ad gratiam regis Philippi" (Chronicon, in R.I.S., IX, 1726, col. 740). Il conclave per l'elezione del successore di Benedetto XI, apertosi il 18 luglio 1304 a Perugia, durò undici mesi meno due giorni. Il partito di maggioranza, guidato da uno dei più anziani membri del Sacro Collegio, Matteo Rosso Orsini, contava su otto voti. Un altro Orsini, Napoleone, più giovane del primo, era il personaggio più influente del partito di minoranza composto da sette cardinali, tra i quali quattro erano cardinali celestiniani. Incerti rimanevano Gentile da Montefiore e Walter di Winterburn, mentre Giovanni Boccamazza, legato pontificio in Germania dal 1286 al 1309, non prese parte ai lavori del conclave. Il nome e la memoria di Bonifacio VIII dominarono interamente il conclave. In un primo periodo (metà luglio 1304-Natale 1304) i cardinali cercarono un candidato all'interno del Collegio senza giungere ad un accordo. I candidati possibili erano Matteo Rosso Orsini, che non approdò per l'inamovibile resistenza del nipote Napoleone; Giovanni Murrovalle, Niccolò da Prato e Riccardo Petroni, che si scontrarono nel rifiuto di Matteo; Walter di Winterburn, che dovette però abbandonare il conclave la sera di Natale per motivi di salute, e Iacopo Stefaneschi, la cui candidatura venne fatta cadere la stessa sera di Natale.
Il nome di Bertrand venne fatto nelle prime sedute del 1305 in seno al partito di maggioranza (bonifaciani). Wenck pensava che fossero stati Filippo e i suoi alleati a dirigere la scelta su di lui, ma la fonte aragonese scoperta dal Finke (Acta Aragonensia, I, p. 190) dice esplicitamente che Bertrand fu presentato da Matteo Rosso. Come si ricorderà, le sue relazioni con i bonifaciani risalivano al concilio di Roma del 1302. Benché francese, egli, quale creatura di Bonifacio, poteva offrire al partito di maggioranza le garanzie necessarie per essere il continuatore e il vendicatore di Bonifacio VIII. Assai sorprendentemente, Napoleone, pur sapendo che Bertrand intratteneva ottime relazioni con i bonifaciani, non lasciò cadere il nome, ma mandò informatori "ad inquirendum latenter de voluntate et intencione istius pape, scilicet, utrum faveret partem regis Francie, et ad quam partem cardinalium declinabat" (ibid.). Il passato e la personalità di Bertrand presentavano indubbiamente tratti e caratteristiche tali da interessare anche il capo del partito antibonifaciano. Napoleone avvertì che Bertrand poteva garantire una certa equidistanza tra le parti in conflitto.
Secondo Giovanni Villani (VIII, 80, p. 149), Filippo il Bello e l'arcivescovo di Bordeaux si sarebbero incontrati presso la città di Bordeaux, nella foresta di St-Jean d'Angély, e là il re avrebbe assicurato all'arcivescovo che l'avrebbe fatto papa se gli avesse a sua volta promesso di eseguire sei grazie (assoluzione del re e dei suoi fedeli consiglieri, condanna di Bonifacio VIII, riabilitazione dei cardinali Colonna, concessione delle decime per cinque anni per spese sostenute nella guerra di Fiandra e, infine, attribuzione della Corona imperiale al fratello Carlo di Valois). Il racconto del Villani è cronologicamente sospetto, perché al tempo in cui sarebbe avvenuto l'incontro i protagonisti si trovavano lontani l'uno dall'altro in località diverse dalla Francia. Il cronista fiorentino, indignato per l'eccessiva sottomissione del futuro pontefice a Filippo il Bello, ha voluto celare il suo risentimento con il racconto fantasioso di trattative anteriori, attribuendo a prima della elezione vittorie conseguite dal re di Francia durante il pontificato di Clemente V. Se non si può dunque dare alcun credito al racconto del Villani circa la drammatica scena di St-Jean d'Angély, si devono invece ritenere del tutto attendibili le notizie relative a trattative avvenute tra il cardinale Napoleone Orsini e il futuro pontefice, e tra il cardinale Orsini e il re di Francia.
L'elezione, avvenuta a Perugia il 5 giugno 1305, fu resa possibile dall'abilissima manovra diplomatica di Napoleone Orsini - che fece cadere in un tranello tre cardinali bonifaciani -, ma anche dalla improvvisa assenza dal conclave del suo grande rivale, Matteo Rosso Orsini, che non volle accedere all'elezione e non firmò il decreto di elezione. La notizia dell'elezione raggiunse Bertrand mentre stava compiendo, a Lusignan, la visita pastorale della sua arcidiocesi (19 giugno 1305). Il decreto di elezione gli fu consegnato a Bordeaux il 24 luglio. Come sede della sua incoronazione scelse dapprima Vienne, città non soggetta al re di Francia ma all'Impero, anche se vicinissima a questa e facilmente raggiungibile dal re. Filippo riuscì però a imporgli Lione, che da tempo agognava annettere al proprio Regno e dove voleva fare sfoggio della sua reale presenza. Il neopontefice, che assunse il nome di Clemente V, mosse alla volta della città di Lione il 1° novembre. L'incoronazione avvenne il 14 novembre del 1305 alla presenza del re di Francia, di suo fratello Carlo di Valois, degli ambasciatori del re d'Inghilterra e di tutti i cardinali, tranne Matteo Rosso Orsini (morto a Perugia il 4 settembre), Riccardo Petroni e Walter di Winterburn, deceduti durante il viaggio verso Lione.
Il Tesoro di Benedetto XI era rimasto a Perugia, ma il papa poté servirsi del prezioso triregno di Bonifacio VIII. Mentre il corteo passava per le vie della città, il crollo di un muro investì e causò la morte di illustri personaggi, tra i quali il conte di Bretagna. Anche il papa venne sbalzato a terra dalla sua cavalcatura. Nell'incidente venne momentaneamente smarrito l'enorme prezioso rubino che adornava la tiara. L'incidente fu interpretato dal popolo come un cattivo presagio. La scelta di Vienne come luogo per l'incoronazione indica che C. non era di per sé contrario all'idea di recarsi a Roma. Da Vienne si discende infatti facilmente la valle del Rodano e la via per l'Italia è vicina. C. non prese comunque nessuna iniziativa concreta per affrontare il lungo viaggio da Lione a Roma. È vero che tutta una serie di difficoltà glielo avrebbe impedito. Anzitutto Roma non era giudicata abbastanza sicura. La guerra tra i Caetani e i Colonna, malgrado una breve pausa, continuava a imperversare con violenza. Ancor prima della sua incoronazione, il 23 agosto 1305, il papa aveva inviato in Toscana e nello Stato pontificio due plenipotenziari - Guglielmo Durante il Giovane, vescovo di Mende, e Pelfort de Rabastens, abate di Lombez - per ricercare soluzioni di pace. Ma il risultato della missione fu molto deludente. L'autorità pontificia era in Italia fortemente diminuita. Come avrebbe potuto del resto C. trovare il coraggio di trasferire la Curia a Roma, da dove il suo predecessore era dovuto fuggire? C. in più di un'occasione si dichiarerà pronto ad andare a Roma purché le circostanze glielo permettano. In realtà ha però poi sempre procrastinato l'attuazione del viaggio, pur non rinunciandovi mai in maniera definitiva. Per temperamento C. era un uomo sempre preoccupato delle proprie condizioni fisiche. "Itinerante e irrequieto" (E. Dupré Theseider), C. lo fu anche per sfuggire alla propria malattia. Il clima di Roma veniva considerato troppo caldo ed insalubre, e, secondo le concezioni del tempo, un clima più freddo era più favorevole alla sua salute. Gli osservatori dell'epoca (H. Finke, Aus den Tagen, p. XCII) ricordano anche altri motivi: amore per la propria terra, attaccamento esagerato per i propri familiari, paura di dover subire la sorte di Bonifacio VIII, ecc.
Problemi di natura squisitamente politica occuparono intensamente C. subito dopo l'incoronazione: il costante attrito tra i re di Francia e d'Inghilterra per il dominio della Guascogna e della Guienna e la questione della crociata. La definitiva sistemazione del dissidio franco-inglese avrebbe costituito la base necessaria per la soluzione del secondo problema: la crociata non si poteva realizzare senza l'unanime intervento di Francia e d'Inghilterra. In via temporanea, la presenza della Curia in Francia presentava indubbi vantaggi per la soluzione dei maggiori problemi europei, perché il baricentro politico europeo si era spostato verso Francia e Inghilterra da quando l'Impero era politicamente inesistente. Filippo il Bello manovrò abilmente per trattenere il nuovo papa in Francia. Da parte francese si fece persino diffondere la notizia che C. era contrario a una immediata partenza per l'Italia. In verità, il papa era talmente preso dalle intense trattative con il re che era praticamente inaccessibile per qualsiasi altra persona. La pace che il re aveva stipulato con la Fiandra, rinunciando all'annessione di quella Contea, non era stata riconosciuta dalle città fiamminghe, che temevano il ritorno del governo aristocratico e la fine del dominio popolare. Per vincere la ribellione fiamminga era indispensabile l'appoggio del papa, così come per mantenere la pace e l'amicizia con l'Inghilterra. Inoltre, il progetto di Carlo di Valois di conquistare Costantinopoli, che trovava consenziente Filippo il Bello, non poteva essere portato avanti senza la concessione di un'adeguata tassa ecclesiastica.
A Lione però Filippo non si intrattenne con C. soltanto su problemi di natura politica, ma svolse presso il pontefice un'insistente opera di persuasione perché desse immediatamente corso alla soluzione di due problemi che gli stavano particolarmente a cuore: la soppressione dell'Ordine dei Templari e la condanna di Bonifacio VIII quale papa eretico. Davanti alla gravità e alla delicatezza di tali questioni C. cercò di guadagnare tempo, prendendo alcune misure favorevoli al re. Anzitutto rinnovò l'assoluzione già concessa a Filippo da Benedetto XI. Il 15 dicembre 1305 creò dieci cardinali, tutti francesi e guasconi tranne un inglese: quattro erano parenti del papa, uno il confessore di Filippo, un altro il suo ex cancelliere. L'influsso francese nel governo della Chiesa, annientato da Bonifacio VIII, era così pienamente ristabilito e destinato a crescere ancora perché C. creerà più tardi altri dieci cardinali francesi, ma mai un italiano. I cardinali italiani erano stati fin dall'inizio del pontificato messi in minoranza. Lo stesso giorno della creazione cardinalizia del 1305, C. ordinò la reintegrazione totale nel Sacro Collegio dei cardinali Colonna (Pietro e Giacomo) che erano stati destituiti da Bonifacio VIII. Inoltre ordinò che venissero restituite alla famiglia Colonna tutte le sue proprietà. Autorizzò quindi il re a percepire per cinque anni la decima dei proventi ecclesiastici del Regno di Francia e attribuì numerosi benefici ecclesiastici a seguaci e parenti del re. Il 1° febbraio 1306 annullò la bolla Clericis laicos, ristabilendo, nella questione della tassazione del clero, la situazione giuridica regolamentata dal IV concilio Lateranense del 1215. Quindi dichiarò che il re di Francia e il suo Regno non dovevano subire alcuna diminuzione dei loro diritti dall'esecuzione della bolla bonifaciana Unam sanctam. Gli incontri di Lione segnano indubbiamente una data importante per il pontificato di C., perché da lì derivano i maggiori impulsi per la sua futura azione. Lo aveva in un certo qual modo avvertito lo stesso Villani, che, nel suo racconto sulle presunte trattative segrete nella foresta di Saint-Jean d'Angély, non fa altro che riassumere la sostanza delle richieste formulate a Lione da Filippo il Bello.
C., da Lione, mosse in direzione di Bordeaux, dove non venne però accolto con particolare calore. Il fatto è che l'immagine della Curia non uscì affatto gloriosa da quel viaggio per le vere e proprie spoliazioni inflitte a chiese e istituzioni monastiche dai curialisti e accompagnatori del papa. Come ad esempio a Bourges, il cui arcivescovo Egidio Colonna - e si disse trattarsi di vendetta personale del pontefice per la scomunica inflittagli quando era ancora arcivescovo di Bordeaux - fu ridotto a vivere della mensa capitolare per sopravvivere alla depredazione dei curialisti.
Poco dopo il suo arrivo a Bordeaux C. fu colto da un grave malore, che, guarito in luglio, riprese con ancora maggiore violenza in autunno, facendo temere per la vita del pontefice. Filippo IV insisteva per riprendere le trattative interrotte a Lione, ma passò più di un anno prima che si potesse giungere alla fissazione di un nuovo incontro. La lunga malattia del pontefice e interminabili discussioni sulla scelta del luogo (C. voleva Tolosa, il re premeva per Tours, alla fine fu scelta Poitiers) ne furono la principale causa. Tra l'aprile e il maggio 1307 si riunì a Poitiers un vero e proprio congresso di principi: erano presenti il re di Francia, il conte di Fiandra, Carlo II di Napoli e gli ambasciatori del re d'Inghilterra. Per le trattative di pace tra Francia e Inghilterra non si giunse ad un accordo, ma il nuovo re d'Inghilterra, Edoardo II, accettando di sposare la figlia di Filippo, Isabella (il matrimonio sarà celebrato il 20 gennaio dell'anno successivo), creò indubbiamente una situazione più favorevole per le relazioni tra i due paesi. Per la questione di Fiandra Filippo riuscì in un primo momento ad ottenere che ogni rottura del trattato di pace fosse punita con la scomunica e che la sentenza potesse essere revocata soltanto su intervento del re di Francia. La pubblicazione della concessione papale - equivalente all'investitura di poteri ecclesiastici - non avvenne però a Poitiers. Più tardi C. pretenderà che la straordinaria condizione imposta da Filippo fosse stata inserita per errore nel testo della lettera papale. Tutte le altre questioni, prima fra tutte la crociata, furono eclissate a Poitiers dalle richieste, di enorme rilevanza politico-ecclesiastica, formulate da Filippo il Bello circa la soppressione dei Templari e la condanna di Bonifacio VIII.
Il famoso racconto del Villani, secondo il quale il cardinale Niccolò da Prato avrebbe consigliato al papa di dire a Filippo che l'affare della condanna di Bonifacio era troppo importante e delicato per essere trattato soltanto dal papa - tanto più che i cardinali non erano concordi - e che di conseguenza sarebbe stato più opportuno portare la questione davanti ad un concilio generale, che avrebbe potuto nel contempo trattare anche questioni di riforma della Chiesa, deve essere letto con cautela. Se è sicuro che C. chiese a Filippo di avocare a sé l'intera questione, non sembra che si sia parlato di portare il processo davanti a un concilio.
I difensori della memoria di Bonifacio VIII sostenevano che un papa poteva essere giudicato soltanto da un concilio e soltanto per eresia: nel caso specifico non ammettevano però tale convocazione perché la ritenevano inammissibile. Nogaret e gli ambasciatori francesi sostenevano invece che il papa doveva giudicare l'affare senza ricorrere ad un concilio. Nel 1307 Filippo sembrò accettare l'idea avanzata dal pontefice di riservarsi la questione: C. preparò il 1° giugno un progetto di lettera in tal senso, che però non promulgò perché il re cambiò opinione all'ultimo momento. Si dovrà attendere il 1311 per vedere Filippo accettare la posizione del papa in questa materia. Nel frattempo però C. aveva dovuto subire altre pressioni ed accondiscendere - durante il secondo incontro con il re a Poitiers (1308) - a celebrare un processo alla memoria del defunto pontefice anagnino. Il 13 settembre 1309 C. citò alcuni accusatori di Bonifacio a comparire davanti la Curia ad Avignone per il 16 marzo 1310, giorno in cui venne aperto il processo che si svolgerà con una lunga serie di testimonianze giunte in parte fino a noi. Il merito di C. fu quello di essere comunque riuscito a mettere un termine a quell'interminabile processo senza che si formulasse una condanna contro Bonifacio VIII. Il prezzo da lui pagato per questo compromesso fu però assai alto. Il papa dovette accettare pesanti condizioni: annullare le sentenze sfavorevoli al re e al suo Regno emanate dopo la festa di Ognissanti del 1300 da Bonifacio VIII e dal suo successore; ordinare l'immediata cancellazione di tali sentenze dai registri della Cancelleria papale e la distruzione di tutti gli altri esemplari (che non fu però effettuata); dichiarare nel decreto Rex gloriae virtutum del 27 aprile 1311, riproducente in sintesi il testo della lettera progettata nel 1307 e non pubblicata, che Filippo era stato mosso da buone intenzioni ("nos bonum pronunciamus zelum atque iustum").
Tale elogio, considerato eccessivo da numerosi storici moderni, deve essere interpretato alla luce della situazione di allora. C. era al corrente del fatto che molti suoi contemporanei diffidavano dell'ortodossia del suo predecessore, pur non considerandolo eretico e meritevole di una pubblica condanna. Numerosi cardinali, anche se vicini al re, ritennero che Filippo aveva agito per il bene della Chiesa. Filippo aveva potuto sostenere una lotta così incessante anche perché aveva incontrato comprensione in alcuni ambienti della Curia. Fin dal 1297 cardinali e inquisitori, non dichiaratamente ostili a Bonifacio VIII, avevano indirizzato al re di Francia accuse contro il papa circa la sua irregolare elezione al papato, la sua eresia, ecc. Durante il processo contro Bonifacio aperto da C., i suoi difensori avevano evitato di entrare nei particolari delle accuse, adottando una linea di difesa essenzialmente giuridica. Le parole di C. erano anche destinate a soddisfare l'amor proprio di un re che, pur acconsentendo di metter fine ad un processo dal quale si attendeva grandi vantaggi sul piano del prestigio personale, pretendeva un solenne encomio da parte del pontefice proprio ora che, arrestando la formale procedura giuridica senza condanna o giudizio finale, Filippo e i suoi consiglieri correvano il rischio di essere tacciati di diffamazione. L'elogio contenuto nel decreto Rex gloriae virtutum ha quindi un valore e un significato cautelativo e liberatorio per il re di Francia che non deve essere sottovalutato.
Fin dall'incontro di Lione, Filippo IV aveva proposto al pontefice la soppressione e la riunificazione di tutti gli Ordini cavallereschi in un unico Ordine che fosse posto sotto la sua sovranità o quella di un membro della sua famiglia. A Poitiers, nel 1307, Filippo chiese sic et simpliciter la soppressione dell'Ordine dei Templari, titolare di immense ricchezze e di fiorenti attività finanziarie, formulando contro di esso le più infamanti accuse di eresia e di immoralità. Nogaret, rimasto a Poitiers dopo la partenza del re, indusse (24 agosto) il papa ad ordinare un'inchiesta sulle accuse rivolte contro l'Ordine, che venivano del resto fatte circolare soprattutto dagli ambienti del re di Francia. C. accettò, forse anche per venire incontro al desiderio dello stesso maestro generale dell'Ordine di vedere ristabilita la verità, ma chiese al re di attendere una sua risposta fino alla metà di ottobre. Per impressionare il pontefice e forzare una sua decisione, il 14 settembre Filippo fece adottare dal suo Consiglio la decisione di arrestare tutti i Templari del Regno lo stesso giorno. Nel solenne proclama pubblicato il giorno dell'arresto (13 ottobre), a giustificazione dell'avvenuta carcerazione di ben centotrenta Templari, Filippo riuscì persino a far intendere che l'arresto era il risultato di un accordo con il papa. Affermazione che il papa rifiutò il 27 ottobre in una severa requisitoria contro il re, che accusò di non aver mantenuto i patti e di aver recato un grave pregiudizio alla libertà della Chiesa, sottomettendo i Templari ai tribunali laici. Il papa chiese quindi al re di rimettere, tramite i cardinali Berengario Frédol e Stefano di Susy, peraltro amici del sovrano francese, alla giurisdizione ecclesiastica tutti i Templari e i loro beni, e sospese le autorizzazioni rilasciate dai vescovi e dagli inquisitori francesi di procedere contro i Templari per eresia. Fu questa l'unica energica risposta di C. alla violenza del re nelle alterne vicende della questione dei Templari.
È probabile che i cardinali inviati a Parigi si siano lasciati convincere della fondatezza delle accuse rivolte contro l'Ordine, perché C., operando una vera e propria svolta, inviò a Filippo una sorta di certificato di buona condotta e si spinse persino ad ordinare agli altri principi (novembre-dicembre 1307) di procedere all'arresto dei Templari. Così facendo favorì ancora una volta, forse inconsciamente, il re di Francia, perché impedì in pratica al re d'Inghilterra e al re di Aragona di erigersi a difensori dell'Ordine. Nel secondo incontro di Poitiers (29 maggio-12 agosto 1308), Filippo esigette di nuovo la condanna dei Templari e la consegna dei colpevoli al braccio secolare. C. cercò, anche in questa occasione, di guadagnare tempo: chiese la consegna dei Templari detenuti dal re, respinse sdegnato la richiesta di assoluzione di Nogaret dalla scomunica, ma non si rifiutò di esaminare altre richieste del re (canonizzazione di Celestino V e processo contro Bonifacio VIII). All'inizio del mese di luglio 1308 la sorte dei Templari sembrò decisa: dopo nuove complesse trattative tra il re e il pontefice, il principale desiderio del re, ossia la restituzione a uomini di sua fiducia dei pieni poteri dell'Inquisizione, era stato soddisfatto. La consegna dei Templari (27 giugno) al papa era stata soltanto fittizia. Con le minacce sarebbe stato molto facile portare davanti al papa gli accusati per far ripetere loro confessioni estorte precedentemente con la tortura. Settantadue Templari furono infatti riuniti a Poitiers davanti al papa, lì interrogati dai cardinali e dal pontefice, e quindi assolti dopo le dovute confessioni. C. si era riservato l'interrogatorio dei dignitari dell'Ordine; ma ciò non avvenne per manovre dilatorie del re. In seguito alle confessioni prodotte dal gran maestro e dai grandi precettori dell'Ordine davanti a tre cardinali inviati per l'occasione al castello di Chinon (17-20 agosto), C. si mostrò convinto della colpevolezza dell'Ordine. Il 12 agosto 1308, con la bolla Faciens misericordiam, ordinò la costituzione di commissioni diocesane per giudicare i Templari e decise quindi di portare al prossimo concilio generale - convocato a Vienne per il novembre 1310 - la questione della soppressione dell'Ordine.
Al concilio si cercò di guadagnare tempo, ma quando Filippo arrivò il 20 marzo 1312 a Vienne con una scorta così numerosa che sembrava un esercito ed esigette nuovamente l'abolizione immediata dell'Ordine - mentre una grande maggioranza dei cardinali e dei padri conciliari protestavano contro una condanna senza nuove prove -, C. adottò (il 22 marzo 1312) una soluzione che era stata proposta fin dall'inizio del concilio da alcuni suoi membri e decise l'abolizione dell'Ordine non per motivi giuridici "de iure", ma "per modum provisionis seu ordinationis apostolicae", cioè per sollecitudine per il bene generale e in virtù di una ordinanza pontificia. Il 3 aprile la decisione (Vox in excelso) venne resa pubblica alla presenza di Filippo il Bello e di tre suoi figli. Con la bolla Ad providam C. trasferì i beni del Tempio all'Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme. Con lettera del 6 maggio 1312 (Considerantes dudum) il papa designò nominalmente i membri dell'Ordine di cui si riservava il giudizio. In seguito però, forse perché costantemente malato, C. si lasciò convincere (22 dicembre 1312) ad abbandonare tale prerogativa ad una commissione interamente composta da persone devote al re di Francia (tre cardinali e l'arcivescovo di Sens), la quale condannerà le vittime alla prigionia perpetua. Jacques de Molai e il grande precettore di Normandia saranno poi condannati a morte dai giudici del re il 18 marzo 1314 senza che il papa e i suoi commissari fossero stati consultati, e bruciati subito dopo su un'isola della Senna.
Mentre C. e Filippo discutevano a Poitiers, fu ucciso il 1° maggio 1308 Alberto I d'Asburgo re dei Romani. Il re di Francia si inserì rapidamente nella lotta per la successione ed esigette dal papa l'appoggio per la candidatura del fratello Carlo di Valois. Si sarebbe in tal modo realizzata una "renovatio imperii" sotto l'assoluta influenza francese. C. si limitò però in un primo momento a raccomandare ai principi elettori la scelta di un personaggio devoto alla Chiesa. Soltanto in ottobre intervenne per raccomandare esplicitamente Carlo di Valois. Gli elettori tedeschi, informati delle reali intenzioni del papa, in verità ostile al progetto francese, elessero re di Germania - il 27 novembre 1308 - il conte di Lussemburgo Enrico, vassallo del re di Francia e di cultura francese. C. favorì fin dall'inizio il nuovo monarca, affrettandosi - eccessivamente secondo Filippo IV - a confermarne l'elezione. Verso la fine di luglio 1309 fissò la data dell'incoronazione imperiale a una certa distanza di tempo, per il 2 febbraio 1312, promettendo di recarsi per quella data personalmente a Roma. Se si fosse restaurata in Italia, allora in preda alle più accese lotte intestine, l'autorità sovrana dell'imperatore sotto il patrocinio della Chiesa, C. sarebbe forse riuscito a liberarsi dalle strette in cui lo teneva Filippo e a far ritorno a Roma. Appoggiando Enrico VII, C. seguiva una linea politica tradizionale per il papato dal pontificato di Gregorio X in poi. La rappacificazione dell'Italia presupponeva però una profonda intesa tra Roberto d'Angiò ed Enrico da una parte e Filippo il Bello ed Enrico dall'altra. Ma il papa non fu in grado di tessere con sufficiente abilità un'azione diplomatica di così largo respiro.
Nel confermare l'elezione di Enrico il papa rinunciò a chiedere particolari garanzie per il conseguimento della sua politica italiana. Tali garanzie furono concesse soltanto nell'agosto 1310 a Losanna nelle mani di procuratori papali. Enrico aveva deciso di accelerare la sua partenza per l'Italia, scontento della procrastinazione della solenne cerimonia dell'incoronazione imperiale. Il 1° settembre 1310, non senza essersi fatto a lungo pregare, il papa inviò un pressante appello a tutti i sudditi e prelati del Regno perché accogliessero benevolmente Enrico. Ben presto si sarebbe però rivelato che assai scarse erano le possibilità di un accordo duraturo tra il re di Napoli e il re di Germania. Le fazioni in lotta erano in Italia troppo accese per permettere ad Enrico di rimanere neutrale tra guelfi e ghibellini. Se le trattative tra i due re non furono interrotte neanche durante il lungo rovinoso assedio di Brescia, ribellatasi contro Enrico per il sostegno da lui accordato al partito ghibellino, tra la fine del 1310 e il 1311 la situazione mutò però rapidamente. Il re di Germania si accordò con il rivale di Roberto, Federico III di Aragona, signore della Sicilia. In Francia il re Filippo impose al pontefice una solenne dichiarazione (aprile 1312) che vietava l'alienazione del Regno di Arles e di Vienne ad altra potenza che non fosse il Regno di Francia. Il programma politico di C. veniva così completamente svuotato: per premunirsi contro la prevedibile opposizione dell'Angioino, la Curia aveva infatti progettato di far sposare la figlia di Enrico VII al figlio del re di Napoli. Il re di Germania avrebbe dato in dote alla figlia il Regno di Arles e di Vienne.
Enrico VII dovette conquistare militarmente il Campidoglio per poter entrare in Laterano, dove fu incoronato imperatore il 29 luglio 1312 da tre cardinali. La cerimonia non ebbe luogo a S. Pietro, come voleva la tradizione, perché gli Imperiali non avevano potuto impossessarsi di Castel S. Angelo tenuto saldamente dagli Orsini. I lunghi giorni di lotta nelle strade di Roma misero definitivamente fine a qualsiasi possibilità di riconciliazione tra Enrico e Roberto. Nel settembre 1312 Enrico lasciò Roma e marciò contro Firenze, a fianco della quale si era schierato Roberto fin dal dicembre 1311. Dopo vari insuccessi militari, Enrico si ritirò a Pisa. In agosto, con un esercito assai più forte di quello dell'anno precedente, mosse verso sud. Ma, malato di malaria e fisicamente stremato, morì a Buonconvento il 24 agosto 1313 non ancora quarantenne. L'invasione imperiale del Regno di Napoli era scongiurata. C., nell'ultimo mese della sua vita (aprile 1314), preparò una bolla per nominare Roberto - durante la vacanza dell'Impero - vicario imperiale di tutti i territori dell'Impero ad eccezione di Genova. A causa della sopravvenuta morte del pontefice, la bolla non fu però mai promulgata.
Come per molti suoi contemporanei, Dante ritiene che C. avesse tradito l'imperatore con fallace inganno (Paradiso XVII, vv. 82-3) e lo accusa di doppiezza (ibid. XXX, vv. 142-44). Dante condanna nel finale del canto XXXII del Purgatorio la fornicazione tra il "gigante" (Filippo il Bello) e la "puttana sciolta", ossia la "Chiesa carnale", rappresentata nella simbologia apocalittica della "meretrix magna". C. viene ritenuto reo di aver permesso il trasferimento della Curia ad Avignone. L'esortazione a tornare a Roma e a cancellare il "Vasconum obprobium" era già presente nell'epistola di Dante ai cardinali italiani (ep. XI, 10-1). Sprezzante verso C., Dante lo paragona ad Alcimo, il sommo sacerdote che contro Giuda Maccabeo aveva chiesto l'aiuto di Demetrio (1 Maccabei 7, 5).
In Italia, durante il pontificato di C., l'autorità papale decadde fortemente. Dopo l'insuccesso della legazione inviata nella penisola ancor prima dell'incoronazione, C. incaricò Napoleone Orsini di ristabilire l'ordine e la pace in Toscana. Per le sue affinità politiche, Napoleone non era però il miglior candidato per ottenere la riconciliazione tra Bianchi e Neri. Il cardinale, costretto a fuggire da Bologna, non conseguì nessun risultato notevole. Raggiunto l'esercito dei Bianchi ad Arezzo, pose Firenze e Bologna sotto l'interdetto, ordinando contro quelle città la predicazione della crociata. Nello Stato pontificio, poi, il pontefice non sembrò controllare la situazione politica. Per assicurare il mantenimento di Ferrara alla Chiesa dopo le dispute sorte tra gli eredi del defunto Azzo d'Este (31 gennaio 1308), Aldobrandino e Francesco, il papa inviò due nunzi, che riuscirono a raccogliere un esercito e ad entrare - il 5 ottobre 1308 - a Ferrara. Già a dicembre dovettero però capitolare davanti alle continue insidie tese dai Veneziani accorsi in aiuto dei Ferraresi. C. non accettò la capitolazione, scomunicò i Veneziani e ordinò la predicazione della crociata. Il cardinale Ainaud Pelagrue, aiutato da Bologna e Firenze che si guadagnarono nell'occasione l'assoluzione dalle sanzioni ecclesiastiche, riprese Ferrara alla fine di agosto 1309 massacrando i Veneziani. Il successo fu comunque fragile e di breve durata. L'amministrazione pontificia fu incapace di vincere l'opposizione interna della città. C. preferì cederla nel 1312 a Roberto d'Angiò.
A capo dei rettorati dello Stato pontificio C. aveva nominato cugini e nipoti, i quali, avidi di facili guadagni, disdegnarono dal mettere piede in Italia limitandosi a inviarvi vicari, del tutto sprovvisti però della necessaria autorità per svolgere la complessa opera di governo. Le varie regioni dello Stato pontificio furono praticamente abbandonate a se stesse. Perugia continuò la propria politica espansionistica. Ad Ancona, il papa, dopo alcuni tentativi, rinunciò a ristabilire l'ordine e la sovranità. La città cadde in balia delle famiglie Malatesta e Montefeltro costantemente in lotta fra loro.
C. era uno dei personaggi più al corrente delle questioni attinenti alle relazioni franco-inglesi. Il papa fu il principale sostegno del giovane e inesperto Edoardo II nelle molteplici difficoltà che lo assillavano e continuò quindi una politica filoinglese già in atto sotto Edoardo I. Nella questione di Aquitania, però, C. evitò sempre di prendere una posizione precisa e di appoggiare l'uno o l'altro sovrano, perché era cosciente del fatto di non avere sufficiente autorità per determinare con la sua influenza il destino del suo paese di origine. Pur essendo il solo papa che potesse vantarsi di conoscere perfettamente il problema dei rapporti di forza franco-inglesi in Aquitania, C. non fu capace di imporre una soluzione del problema. Come già a Edoardo I (1306), C. concesse anche al figlio Edoardo II il gettito di tutta una serie di decime sul clero inglese dal 1309 al 1313. Quando però il concilio di Vienne decise di destinare il gettito della decima del periodo 1313-1319 a favore della crociata, Edoardo II si trovò in serie difficoltà finanziarie. Dopo lunghe, estenuanti e complesse trattative, C. concesse al re un prestito di 160.000 fiorini d'oro (come avvenne in altra occasione anche per il re di Francia). Si deve comunque ricordare che C. utilizzò come proprio il denaro della Chiesa: tanto che in occasione del prestito al re inglese furono i suoi eredi ad intervenire nelle diverse fasi della trattativa e furono loro i creditori del sovrano dopo la morte del pontefice. L'importo del prestito era notevole (circa il venti per cento delle entrate monetarie a disposizione del pontefice).
Nel formulare un giudizio sul pontificato, contrastato e complesso, di C. la storiografia ha sempre messo in rilievo come l'evidente arrendevolezza del suo carattere si sia particolarmente manifestata in uno sfrenato nepotismo e nell'uso non sempre felice delle ingenti somme confluite nel Tesoro papale. C. creò cardinali cinque suoi parenti: Raymond de Got, Raimondo de Fargues, Bernard de Jarre, Ainaud Pelagrue e Arnauld da Canteloup. Altri quattro membri della sua numerosa parentela furono nominati vescovi. C., più di ogni altro suo predecessore, fu estremamente generoso nel distribuire benefici ecclesiastici a parenti e amici. Nell'estate 1307, allorché, gravemente malato, temette seriamente per la propria vita, egli riconobbe con sorprendente onestà le sue colpe in questo campo e dichiarò solennemente di non voler più prestare attenzione alle suppliche che gli venivano costantemente rivolte. Lo Ehrle ha fatto giustamente osservare che, per quanto sia possibile ricavare dai registri papali, C. mantenne la promessa fatta, almeno entro certi limiti. Tuttavia si deve ricordare che il suo sensibilissimo attaccamento alla famiglia e alla propria terra lo portò a distribuire nel suo testamento a propri familiari lucrosi benefici e rettorati, nonché un terzo dell'intero Tesoro pontificio di cui dispose come se fosse proprio. Nel suo ultimo testamento del 29 giugno 1312, C. distribuì 814.000 fiorini. In nove anni di pontificato era riuscito ad accumulare la somma di circa un milione di fiorini. Al suo successore lasciò per testamento una cifra modesta: circa 70.000 fiorini d'oro. Quando era stato eletto, C. aveva trovato le casse del Tesoro papale praticamente vuote. Nei primi mesi del suo pontificato la situazione finanziaria della Santa Sede era talmente grave che i "mercatores Romanam curiam sequentes" avevano sospeso qualsiasi credito. C. fu costretto a prendere energiche misure: il 1° febbraio 1306 istituì una nuova tassa - chiamata annata perché consistette nel versamento delle entrate del primo anno delle chiese vacanti durante il periodo 1316-1319 - in Inghilterra, Scozia, Irlanda e Galles.
Sebbene passata in secondo piano durante l'incontro di Poitiers del 1307, la questione della crociata fu per C. una preoccupazione costante. I progetti di crociata, allora numerosi, perseguivano però interessi particolaristici. In Occidente, all'inizio del XIV secolo, era svanita l'idea che tutti i popoli cristiani si sarebbero potuti riunire per un'azione comune. C. riuscì nondimeno ad incoraggiare alcuni progetti particolari.
I suoi primi sforzi in questo campo furono dettati dal desiderio di soddisfare un appello del re armeno e l'aiuto sollecitato da Cipro. Richiesti di una loro precisa collaborazione, Genova e il conte di Bretagna, il cui figlio, morto a Lione durante l'incoronazione aveva lasciato certe somme di denaro nel suo testamento per la crociata, dettero a C. una risposta insoddisfacente. Nel 1307 C. sostenne con vigore l'operazione progettata dall'Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme per conquistare Rodi. Su richiesta dell'Ordine assegnò ai Gerosolimitani nel settembre 1307 l'isola di Rodi. Si trattava della prima terra che C. concedeva in qualità di sovrano pontefice. L'11 agosto 1308 lanciò un appello a tutti i vescovi per la predicazione della crociata: gli sforzi diplomatici di Fulco de Villaret, maestro generale dell'Ordine, vennero coronati da successo. Consigliato forse dallo stesso Villaret, nonché certamente su pressione di Filippo il Bello, C. inserì la questione della crociata tra i "tractanda" del concilio di Vienne. Verso il mese di giugno 1309, informato dal Villaret della rapida conclusione dei preparativi, lanciò un nuovo appello per aiuti finanziari. La flotta partì da Marsiglia a metà settembre con venticinque galere dei crociati e dieci battelli dei Genovesi. Rodi venne conquistata, e si gettarono così le fondamenta di uno Stato dell'Ordine gerosolimitano. Contemporaneamente alla crociata di Rodi, anche il re di Spagna continuava i preparativi per la crociata contro Granada, che C., su invito del re, dichiarò progetto ufficiale della Chiesa.
Il "passagium generale", desiderato dal pontefice ed inserito tra le questioni da trattarsi al concilio di Vienne, non fu realizzato. L'assenso del re di Francia a questo progetto era il più atteso durante il concilio di Vienne. Per Filippo il Bello la crociata sarebbe diventata di possibile realizzazione soltanto dopo la soluzione della questione dei Templari. Non ci si deve quindi stupire se la discussione sulla crociata diventò discussione sugli Ordini cavallereschi (in vista di una loro riunificazione) e se Filippo il Bello si dichiarò disponibile soltanto nel momento in cui venne decisa la soppressione dell'Ordine (3 aprile 1312). C. riuscì, almeno formalmente, durante il concilio, a programmare la crociata, ma proprio con questa decisione la crociata diventò un pratico mezzo per far fluire decime nelle casse dei vari Stati e della Chiesa.
C. fu chiamato a risolvere un problema scottante all'interno della Chiesa: ossia ricercare una soluzione di compromesso al contrasto sorto in seno all'Ordine francescano. Da un lato riconobbe la fondatezza delle critiche mosse dagli Spirituali sul piano religioso ai loro confratelli e concesse loro una qualche autonomia. D'altro canto, però, non volle dar credito alle rigorose esigenze pauperistiche degli Spirituali, ai quali confermò la loro appartenenza all'Ordine francescano. Il compromesso non risolveva praticamente nulla: le tensioni tra le due parti, entrambe convinte di aver ottenuto ragione, provocò poco tempo dopo nuovi dissidi più violenti che mai.
Uomo di cultura, C. prese alcune decisioni importanti nel campo dell'insegnamento: ordinò, ad esempio, che si nominassero insegnanti di ebraico, greco, arabo e siriaco nelle Università di Roma, Parigi, Oxford, Bologna e Salamanca (Corpus iuris canonici, II, col. 1179: canone del concilio di Vienne inserito nelle Clementinae, l. V, tit. I, cap. 1). Nel 1308 egli rilasciò la bolla di fondazione per lo "Studium generale" di Perugia. Nel 1309 intervenne con importanti misure per regolamentare alcuni punti controversi degli statuti dell'Università di Montpellier. Nel 1306 aveva riorganizzato l'Università di Orléans, dotandola di statuti simili a quelli vigenti nell'Università di Tolosa. Il 13 luglio 1312, dando seguito ad una petizione dell'arcivescovo di Dublino John Lech, decise che la realizzazione di uno "Studium generale" (senza il conferimento dello "ius ubique docendi") a Dublino avrebbe dovuto dipendere dall'approvazione unanime dell'arcivescovo e dei suoi suffraganei.
L'attività legislativa di C., durante il cui pontificato si tenne il concilio generale di Vienne (ottobre 1311-maggio 1312), fu importante. Egli stesso fece riunire una serie di costituzioni da lui emanate prima, durante e dopo il concilio in una collezione che avrebbe voluto chiamare Liber septimus, per analogia con il Liber sextus di Bonifacio VIII. Il titolo di Clementinae prevalse però assai rapidamente, fin dall'epoca del suo primo commentatore, Giovanni d'Andrea. Tranne le costituzioni Dudum a Bonifacio e Si Dominum (Clementinae, l. III, tit. VII, cap. 2 e tit. XVI), tutte le altre emanano da Clemente V. Circa venti risalgono alla terza sessione del concilio di Vienne (3 maggio 1312). Durante il pontificato di C. vi sono state almeno due pubblicazioni delle costituzioni del concilio di Vienne (il 3 maggio del 1312 e il 24 marzo del 1314), e nel 1314 si iniziò ad inviarle alle Università. La promulgazione ufficiale della collezione clementina non avvenne però sotto di lui. La decisione di adottare ufficialmente le Clementinae nelle cause giudiziarie e nelle università per l'insegnamento del diritto canonico fu presa da Giovanni XXII il 25 ottobre 1317.
A rigore di termini, C. non dovrebbe essere considerato un papa "avignonese". Quando il papa si impegnò con Filippo il Bello - nel secondo incontro di Poitiers (1308) - a fissar la residenza della Curia in territorio francese, non pensava di stabilirsi ad Avignone definitivamente, ma cercava anche in quell'occasione di guadagnare tempo, pretestando l'opportunità di fissare la sede della Curia non lontano da Vienne, città che avrebbe dovuto accogliere il concilio generale il 1° novembre 1310. Scelse Avignone perché la città, appartenente alla casa angioina, vassalla della Chiesa romana per il Regno di Napoli, era circondata dal dominio del Contado Venassino, territorio di proprietà della Santa Sede fin dal pontificato di Gregorio X. Prima di abbandonare Poitiers, il papa dette disposizione ai cardinali di recarsi ad Avignone secondo l'itinerario di loro scelta, purché vi giungessero prima dell'Epifania del 1309. C. non aveva previsto particolari preparativi per la fissazione duratura della sua Corte nella città di Avignone. Egli si accontentava di abitare nel convento dei Domenicani fuori delle mura della città o nella casa del vescovo, più facile da difendere e da sorvegliare. Poco prima di morire, C. voleva persino ritirarsi a Bordeaux: secondo Napoleone Orsini il papa avrebbe avuto l'intenzione di trasferirvi anche la Curia romana (cfr. J. Huys-kens, p. 205).
C. non ha precisato le pratiche dei servizi amministrativi del papato. La società curiale di questo pontificato presenta tutte le caratteristiche del secolo precedente: le istituzioni curiali non hanno subito evoluzioni importanti sotto Clemente V. Per nove anni però la Corte pontificia si è trovata fuori d'Italia, rinnovandosi con la scelta di nuovi curialisti provenienti dall'Ovest e dal Sud della Francia.
Un giudizio complessivo su C. deve prendere in considerazione il fatto che durante i nove anni del suo pontificato si è dovuto costantemente muovere entro ristrettissimi margini di manovra a causa delle pesanti pressioni esercitate su di lui dal re di Francia e dal suo entourage. Raramente un pontefice si trovò a dover risolvere contemporaneamente problemi come la condanna di un suo predecessore quale eretico e la soppressione di un prestigioso Ordine cavalleresco. La tesi di un C. al totale servizio dei Capetingi non può essere accettata. C. riuscì a non soccombere totalmente al giogo francese. Grazie alle sue indubbie qualità di abile temporeggiatore, al suo spirito conciliante e alla sua innata prudenza, egli evitò la condanna formale di Bonifacio VIII e dell'Ordine dei Templari e assegnò i loro beni non a sovrani, ma all'Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme. Se fece qualche concessione al re di Francia sopprimendo alcune frasi della bolla Unam sanctam, la sostanza della dottrina della superiorità del papato rimase intatta (se ne veda la proclamazione nella costituzione Pastoralis cura, in Clementinae, l. II, tit. XI, cap. 2). La tesi di Filippo il Bello di un Benedetto Caetani intruso fu annientata da C. canonizzando Pietro del Morrone (e non Celestino V) nel 1311, esprimendo con ciò implicitamente il riconoscimento della validità della sua rinuncia al papato. Lo stato di salute del pontefice fu cagionevole durante tutto il pontificato. Quando aveva crisi acute trovava sollievo soltanto in una completa solitudine. Una febbre violenta lo colse nell'estate 1306; si riprese solo all'inizio del 1307. Dalla fine del concilio di Vienne (aprile 1312) al giorno della sua morte la malattia non lo lasciò praticamente più tranquillo. I suoi assalti - forse cancro allo stomaco o agli intestini - non ebbero conseguenze irrimediabili sulla sua volontà, ma, rendendolo sfiduciato verso il prossimo, lo indebolirono gravemente, incitan-dolo a trovare sollievo in continui spostamenti. Così fu quando, proprio in coincidenza con l'uccisione del maestro generale dell'Ordine dei Templari, Jacques de Molai, C., troppo sofferente per poter reagire, decise di tornare nella propria terra, Bordeaux. Ma appena valicato il Rodano la morte lo colse a Roquemaure nel Gard il 20 aprile 1314. Sembra che sul letto di morte si sia pentito della sua condotta verso i Templari. Siccome il papa e il re di Francia morirono lo stesso anno, l'opinione popolare vi vide un castigo divino.
Oltre che di cupidigia e di simonia, il Villani lo accusò di lussuria: "che palese si dicea, che tenea per amica la contessa di Pelagorga [Périgord], bellissima donna, figliuola del conte di Fuscy [Foix]". Come ha già fatto osservare il Mollat (Clément V, col. 1128), le voci raccolte dal Villani peccano di inverosimiglianza, perché gli ambasciatori aragonesi, pur così loquaci, non menzionano la presenza di Brunissenda alla Corte pontificia. Il cadavere del papa, quasi interamente carbonizzato dalla caduta di candele durante la notte, fu trasportato secondo le disposizioni testamentarie del defunto nel feudo familiare di Uzeste (nei pressi di Bazas). Il cardinale Gailhard de la Mothe gli fece erigere un magnifico mausoleo che sarà saccheggiato e distrutto dagli Ugonotti nel 1577.
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