COLOMBINI, Giovanni, beato
Nacque a Siena nel 1304 da Agnolina e da Pietro. La famiglia, di origine nobile, aveva assunto il cognome Colombini agli inizi del secolo XIII in sostituzione di quello originario, Strozza-vacchae.
Poco si sa dei suoi primi anni. Attorno al 1320 si iscrisse alla corporazione della lana, numerosa e potente nella Siena della prima metà del sec. XIV, e si dedicò, seguendo una lunga tradizione familiare, al commercio. Grazie al suo spirito d'iniziativa, il C. creò una vasta e solida rete di rapporti per la vendita di panni di lana, che contava molti corrispondenti nelle città vicine, soprattutto sull'asse Siena-Città di Castello-Perugia. I frequenti viaggi di lavoro arricchirono sia il patrimonio (che egli in parte investì in proprietà immobiliari in San Giovanni d'Asso ed in Castello della Val d'Orcia) sia il suo bagaglio di esperienza e di cultura, e fecero di lui un uomo stimato e dalla solida posizione sociale, campione dell'alta borghesia senese.
Dopo essersi sposato, nel 1343, con Biagia Cerretani, che portava con sé una dote di 500 fiorini, e dalla quale avrà due figli, si dedicò anche alla vita pubblica, diventando membro del Consiglio del popolo e quindi, ripetutamente, priore della città.
Nel 1355 si situa la conversione del Colombini. L'episodio della lettura dalla vita di s. Maria Egiziaca è dalle fonti considerato quasi come una caduta sulla via di Damasco: ma, pur segnando effettivamente una svolta nella vita del C., costituì soltanto l'inizio di un cammino di conversione che fu lento e graduale. Egli cominciò, infatti, con la verifica della provenienza dei propri beni, restituendo il frutto degli illeciti guadagni; quindi si dedicò alla beneficenza, alla visita di chiese, di poveri e di malati; fece poi, con l'assenso della moglie, voto di castità; ed infine, dopo la morte del suo unico figlio maschio, il dodicenne Pietro, decise di adottare come membri della propria famiglia i poveri.
L'incontro con il certosino Pietro de Petroni, del quale scriverà più tardi una Vita, convinse il C. a compiere il passo finale; egli donò tutti i propri beni all'ospedale della Scala, al monastero dei SS. Abbondio e Abundanzio, detto di S. Bonda, e alla Congregazione di Maria Vergine, preoccupandosi però di lasciare una rendita annua alla moglie Biagia; affidò la figlia tredicenne Agnolina (da lui chiamata Guccia) alle benedettine di S. Bonda, dov'ella morirà, col nome di suor Maria Maddalena, l'anno successivo; ed infine, insieme con l'amico Francesco Vincenti (o Vincenzi), che ormai da tempo aveva convinto a questa scelta, il C. abbandonò la propria casa e si diede ad una nuova vita di povertà, di assistenza ai poveri ed ai malati, di preghiera e di penitenza.
Il C. non rifuggì da forme un poco teatrali e clamorose per sottolineare, anche davanti all'opinione pubblica senese, il capovolgimento radicale da lui operato nella propria vita; si sottopose per questo a dure mortificazioni, non tralasciando di scegliere a teatro delle stesse quei luoghi che l'avevano visto ricco mercante, stimato esponente della vita pubblica cittadina: per due mesi (cioè per un periodo corrispondente a quello della carica di priore) servì come sguattero nel palazzo comunale, rifiutando tuttavia di farsi pagare e vivendo di elemosina; si mostrò vestito miseramente, a cavallo di un asino sulla piazza del Campo, luogo di ritrovo della facoltosa gioventù senese; si fece trascinare, ignudo e con un cappio al collo, attraverso i suoi antichi possessi di San Giovanni d'Asso e di Castel di Val d'Orcia per scontare le ingiuste pratiche di usura agraria, cui si era in passato dedicato. Simile carattere penitenziale aveva anche la cerimonia di ammissione al gruppo che ormai andava formandosi attorno a lui, e che sostituiva il periodo di noviziato, considerato troppo lungo per una "brigata", come il C. chiamava i propri seguaci, scevra, in questo primo periodo, da istituzionalismi e appesantimenti: il candidato, normalmente di estrazione nobile o borghese, veniva spogliato in piazza del Campo e condotto per le strade della città, dov'era fatto oggetto di scherno.
Con tutta, probabilità attorno al 1361 è da porre la conversione, a opera del C., della cugina Caterina, alla quale presto si unirà un gruppo di donne animate dagli stessi ideali che muovevano i compagni del C., gruppo che più tardi si svilupperà in un'autonoma congregazione.
L'esempio e la predicazione del C., che aveva a suo bersaglio preferenziale la vita agiata e corrotta delle nobili e ricco-borghesi famiglie di Siena e che proprio ai loro piùsensibili componenti si rivolgeva con successo per distoglierli quindi dalle attività commerciali, viste all'origine ditale corrotta agiatezza, avevano provocato l'ostilità delle autorità comunali, preoccupate anche del turbamento dell'ordine pubblico che inevitabilmente accompagnava le clamorose manifestazioni penitenziali del gruppo. A ciò si aggiungano voci e maldicenze circa i rapporti del C. e dei suoi con le benedettine del monastero di S. Bonda e con altre religiose senesi, rapporti considerati da molti come pericolosi o addirittura scandalosi. Per tutti questi motivi l'autorità comunale, nel solco di una tradizione politica spesso seguita nei confronti di altri Ordini penitenziali, deliberò, nel 1363, la condanna all'esilio per il C. e per tutti coloro che ne volevano seguire le tracce: venticinque gesuati (come verranno detti i compagni del C. a causa, dice il Belcari, del loro continuo avere sulle labbra il nome di Gesù) lasciarono la città.
L'involontario ampliamento del campo d'azione del C. che la condanna comportò, l'incontro con altre realtà locali, l'esigenza d'una predicazione e d'una testimonianza in ciascuna di esse provocarono una svolta nella sua spiritualità, tanto che egli, ormai conscio delle nuove prospettive, rifiutò, di lì a poco, di ritornare a Siena, quando il Comune, in seguito ad un'epidemia di peste scoppiata in città, per combattere la quale occorreva anche l'opera di un gruppo come quello del C. che fino ad allora si era dedicato proprio all'assistenza ai malati, revocò la condanna.
Non tutti i gesuati, tuttavia, approvavano la scelta del C. di un apostolato itinerante, che cominciava, tra l'altro, a dare i suoi frutti nel sempre maggior numero di seguaci e nell'accoglienza che questi "povari" ricevevano nelle città della Toscana e dell'Umbria nelle quali si recavano e dove spesso ebbero addirittura l'appoggio dei vescovi, come Boso Ubertini ad Arezzo e, soprattutto, Buccio a Città di Castello: Giovanni d'Ambrogio, uno dei primi seguaci, riteneva che quei successi fossero il frutto di un attivismo che concretava una involuzione e un tradimento della originaria vocazione contemplativa. Con la dura replica del C., l'episodio si concluse, tuttavia, con un consenso totale alla linea da lui voluta da parte dei dissenziente.
Il successo ottenuto aveva anche creato ostilità con francescani e domenicani, ancor più comprensibile se si pone attenzione all'opera in qualche modo "concorrenziale" dei gesuati nei confronti di tali Ordini, e al clima di tensione e di aspri dibattiti che precedettero l'arrivo in Italia, nel 1367, del papa avignonese Urbano V. Desideroso di un riconoscimento "ufficiale" del proprio movimento ormai costituito da un sessantina di seguaci - riconoscimento della cui mancanza si era preoccupato già dal 1364-65 (Lettere, a cura di D. Fantozzi, I, pp. 108, 140), e che ora sembrava ancor più urgente, proprio per sostenete la polemica con gli Ordini mendicanti in condizioni di parità formale -, il C. decise di andare incontro al papa per chiedere un colloquio.
Ma, ormai malato, non riuscì a incontrare Urbano, sbarcato a Corneto; ci riuscì, invece, l'amico Francesco Vincenti, che ottenne un primo informale riconoscimento del movimento da parte del pontefice. Ma quando il C. giunse finalmente alla corte papale, vide messa in dubbio l'ortodossia della sua pratica religiosa, e i gesuati, che senza averne avuto sentore si trovarono al centro di un nodo di problemi di estrema gravità per tutta la Chiesa, furono sottoposti ad una inquisitio ordinata da Urbano e affidata al domenicano Guglielmo Sudre.
Il problema, infatti, era quello della povertà e l'attenzione dedicata dalla gerarchia ecclesiastica a quel gruppo di laici testimonia quanti consensi e quanti rifiuti suscitasse, nella seconda metà del Trecento, la questione. Tanto più che il Papato stava allora conducendo una lotta a fondo contro tutti i movimenti e le espressioni di sapore fraticellesco. Forse Urbano V intuì la possibilità di incanalare e disciplinare la "brigata" dei gesuati, a tutto favore della Chiesa, in risposta alle inquietudini pauperistiche che vi fermentavano. Ciò parrebbe da quel che si sà dell'incontro del pontefice col Vincenti, nel quale il primo mostrò di non accettare la povertà estrema dei gesuati, visibile fin nel vestire, ma diede loro una divisa (talare e cappuccio bianchi, sandali di legno) per la quale pagò anche le spese.Ma il Papato desiderava chiarimenti: da qui l'inquisitio, che peraltro si concluse con un'assoluzione piena. Fu cosi riconosciuta la Congregazione (che più tardi assumerà il nome di "chierici apostolici di s. Gerolamo") la quale fu posta sotto la protezione dei cardinale di Avignone, Anglico Grimoard, fratello del papa, e sostenuta dai domenicani Guglielmo Sudre, che aveva condotto l'inquisitio, e Cristoforo Biagi, del convento di S. Domenico a Camporegio.
I toni entusiastici e soddisfatti di C. sono forse la testimonianza più significativa del successo ottenuto, per perfezionare il quale il C. decise di trattenersi a Viterbo, dove procedette a un riordinamento della Congregazione per adattarla alle direttive papali, le cui linee furono tracciate con il consiglio e la guida del cardinale Grimoard. Non solo accettati, ma considerati elementi costitutivi del gruppo furono il suo carattere laicale e l'esperienza di una vita religiosa condotta in mezzo agli uomini; si rafforzarono invece i legami con la gerarchia ecclesiastica, mentre nessuna indicazione risulta fosse data a proposito della povertà, anche se certamente il fatto di accettare una "divisa", che veniva a sostituire l'abito comune fino ad allora indossato, costituiva, come infatti era nelle intenzioni di Urbano V, un cedimento.
L'improvvisa svolta della "compagnia", del tutto voluta dal C., non mancò tuttavia di suscitare una profonda crisi all'interno del gruppo stesso, specie fra i gesuati che si trovavano a Siena, crisi del resto forse motivabile proprio dall'assenza del Colombini. Certo vi furono defezioni, che lo addolorarono profondamente, ed alle quali egli tentò di porre freno vietando, anche se da lontano, spostamenti dalla propria sede e richiamando all'obbedienza. Diede, anzi, disposizioni molto caute relativamente all'ammissione di nuovi seguaci (Lettere, cit., II, pp. 134 s.), mentre in precedenza si era mostrato decisamente più accondiscendente alle nuove adesioni (ibid., I, p. 122).
Ottenuto il consenso papale e stabilite le nuove direttive per il movimento, il C. lasciò Viterbo per fare ritorno a Siena, dove la situazione richiedeva la sua presenza. Ma la malattia si aggravò e ad Acquapendente egli fu costretto ad una sosta, che sarà definitiva.
In questa città, il 26 luglio, il C., in atteggiamento penitenziale dettò a Benedetto di ser Pace, notaio di Città di Castello, che era stato fra i primi suoi seguaci, un documento che si conosce in duplice versione, latina, da Giovanni da Tossignano, e volgare, da Feo Belcari. Ritenuto dalla storiografia un "testamento" spirituale, l'originale documento, redatto, per volere del C., secondo tutte le forme della pubblicità, si dimostra piuttosto "una vera e propria confessio fidei, e, insieme, una professione di lealtà e di fedeltà alla Chiesa" (Gennaro, p. 268). Non testamento, dunque, ma "attestato" dell'ortodossia suae dei compagni, e soprattutto della fedeltà alla Chiesa, che lo mostra preoccupato del futuro della "brigata" e desideroso di lasciare ai compagni un indirizzo che li salvaguardasse da future deviazioni, che potevano nascere dalla passata esperienza libertaria del gruppo.
Pochi giorni più tardi, senza aver potuto riprendere il cammino, il C. si spense ad Acquapendente, il 31 luglio 1367.
Il suo corpo fu portato a Siena e sepolto nel monastero di S. Bonda. Nel 1554, durante la guerra di Siena i resti dei C. furono trafugati e portati a San Lorenzo di Gatteo (Romagna). Nel 1684 fecero ritorno a Siena. Il C. non fu mai ufficialmente beatificato, ma Gregorio XIII lo volle inserito nel martirologio romano e Paolo V concesse messa e ufficio propri alla diocesi di Siena ed ai gesuati.
L'esperienza del C. è stata più volte interpretata come una appendice, ancorché fervidissima, del francescanesimo; e certo almeno fin verso il 1364, notevoli sono i tratti comuni ai due movimenti: amore per la povertà, fraterno abbraccio del creato. In realtà il C. ed i suoi compagni si muovono in un clima del tutto differente, molto più inquieto e mosso di quello francescano, ove l'unione con Cristo non si raggiunge attraverso una imitatio di Gesù povero, ma nella contemplatio mistica, nel "trasformarsi" in lui. Se per il francescanesimo la mistica risiedeva nella comunicabilità dell'uomo con le cose, in quanto tutta la vita del divino è entrata nell'uomo e nelle cose, per il C. la trascendenza di queste è conseguenza della completa "trasformazione" (com'egli stesso ripetutamente scrive) dell'uomo in Dio. La prevalenza dell'ontologia sulla logica è nel C. (come spesso nei mistici del Trecento) soprattutto sentimentale, in uno slancio speculativo che ha inizio e fine nella divinità. Ma ciò che distingue decisamente la spiritualità del C. da quella francescana è l'assenza della "perfetta letizia" e del connaturato gioioso ottimismo; donde una visione più pessimistica della vita e del creato, anche nella contemplazione di Dio, una "insaziabilità di grazia" ed una inquietudine "attivistica" (Petrocchi, p. 66).
Con tutta probabilità il C., pur non avendo compiuto studi regolari, era a conoscenza di opere di mistica fiorite nell'ambito della devotio nova, ed in genere di testi ascetici patristici (s. Paolo, s. Agostino e s. Basilio) e di quelli francescani: in questo senso è illuminante la sua Vita del certosino Pietro Petroni, scritta in collaborazione con Nicola Vincenti, fratello di Francesco (anche se nel rifacimento scolastico in latino che ci è giunto si possono ipotizzare manipolazioni dell'originale, in senso retorico, da parte del traduttore, il certosino frate Bartolomeo da Siena), I temi privilegiati nel racconto ed il linguaggio scarno e piano fin nelle citazioni, ch'egli semplifica, fanno del C., per altri versi perfettamente inserito, come abbiamo poco sopra notato, nel proprio secolo, uno scrittore assimilabile ai mistici Popolari del Duecento.
Ma la fonte principale per comprendere il pensiero e la spiritualità del C. rimangono le sue Lettere, scritte per la maggior parte a Paola Foresi, badessa, e alle monache di S. Bonda, a sua cugina Caterina e ad altri. La prima edizione dell'epistolario, già in parte trascritto nella Vita di G. C. del Balcani, è quella del Bartoli (Lucca 1856) che si interessava però più allo studio filologico del linguaggio volgare trecentesco che alla spiritualità del senese, la cui opera, proprio per merito suo, è entrata di forza nella storia della letteratura. Quando non è troppo legata da intenzioni e desideri pedagogici, la prosa del C. si contraddistingue infatti per i suoi notevoli slanci lirico-mistici.
Dalle Lettere traspare il cammino della spiritualità del C., a cominciare dall'atteggiamento nettamente penitenziale dei primi anni. La penitenza non è, tuttavia, fine a se stessa: non in questa sta la perfezione, ma "in trovare Cristo" (Lettere, a cura di D. Fantozzi, II, p. 17). Il consiglio del C. è quindi quello di cercare "Jesù sopra ogni cosa" (ibid., II, pp. 48, 124) e di non esagerare con la penitenza, perché molto spesso essa "tiene l'anima, legata e non sciolta" (ibid., II, pp. 8 s.). Anche la povertà è vissuta in tono penitenziale, nella prospettiva di sopprimere ogni ostacolo all'unione con Dio; un legame assai stretto unisce dunque l'amore per la povertà e per la mortificazione con il desiderio di un incontro mistico con Dio.
La condanna all'esilio, come già abbiamo sottolineato, provocò un arricchimento ed una svolta nella spiritualità del C.: egli si convinse che tutti, "pubricani e peccatori" sarebbero stati pronti a seguire Cristo, se solo "avessero veduta la via" (ibid., I, p. 122). Per questo decise di farsi "banditore del nome di Cristo" (ibid., I, pp. 122 s.) per suo amore. Non si tratta, tuttavia, di una vocazione alla predicazione, ma ad un più piano, intimo e familiare, "parlare di Dio", ch'egli consiglia a tutti, per accendere "nuovo fuoco di carità (ibid., I, pp. 33, 118).
Una nuova ed ultima evoluzione della spiritualità del C. si opera nel contatto con la Curia pontificia, nel 1367. Molto sensibile come sappiamo, al tema della povertà, il C. annotava la diffidenza della gerarchia a tal proposito, ma osservava anche che storicamente tutti coloro che si erano fatti propugnatori della povertà "subito ereticavano contro la Chiesa" (ibid., II, p. 114) e che perciò - scriveva ad amici durante i colloqui dell'inquisitio - "se la povertà è qui a sospetto, questo non è colpa di coloro che reggono la Chiesa, ma dei povari erranti e superbi" (ibid.). Gli avvenimenti derivati dall'incontro con la Curia papale, per un uomo come il C., fino ad allora abituato a trattare i poveri umbri e toscani, il suo desiderio di garantire una sopravvivenza al proprio gruppo, l'"attestato" da lui dettato pochi giorni prima della morte ci mostrano come egli "uscisse provato dall'incontro con una Chiesa che poneva lui e i suoi compagni sotto accusa e da cui, tuttavia, sentiva la necessità di essere riconosciuto" (Gennaro, p. 270) poiché, contemporaneamente, ne sentiva l'autorità e la grandezza.
Con la morte del C. indubbiamente si concluse il suo movimento, almeno nelle forme originali che gli erano caratteristiche. Tuttavia i gesuati ebbero un'incidenza di un qualche rilievo nella storia della spiritualità dell'Italia centrosettentrionale, nel corso del Trecento e del Quattrocento.
Dopo la morte di Francesco Vincenti, che succedette al C. ma gli sopravvisse solo di qualche settimana, la guida del gruppo fu affidata a Gerolamo d'Asciano; quindi, nel 1398, a Spinello Buoninsegno, che ne revisionò gli statuti, messi per iscritto da Giovanni da Tossignano, futuro vescovo di Ferrara, secondola traccia della cosiddetta regola di S. Agostino, ed approvati dal capitolo del 1426. Tra i gesuati incontriamo personalità di un certo rilievo in Feo Belcari, autore di una Vita del C. in volgare, che ancora nel Quattrocento ne ripropone l'esperienza come nonconclusa; Antonio Bettini, gesuato, poi vescovo di Foligno, incarico cui rinuncerà per tornare gesuato; il poeta mistico Bianco da Siena; Paolo Morigia, superiore dell'Ordine ed autore del Paradiso dei giesuati; Bonaventura Cavalieri, noto matematico.
La Congregazione, tra molti travagli, ai tempi di Martino V (1417-31) e di Eugenio IV (1431-47) si diffuse, oltre che in Umbria ed in Toscana, ove si ebbe la ramificazione degli eremiti di s. Girolamo di Fiesole, anche a Roma, dove i gesuati possedettero le chiese dei SS. Giovanni e Paoloal Celio e di S. Giovanni in Trastevere, ed in Veneto; qui il ramo collaterale dei canonici celestini di S. Giorgio in Alga, del quale fecero parte Antonio edAngelo Correr, assurse a notevole potenza economica nel corso del sec. XVI. Il solo esempio di insediamento fuori d'Italia risale al 1425, quando, a Tolosa, alcuni gesuati tentarono una vita eremitica, sul tipo della camaldolese; ma fallì in pochi, mesi.
Annoverati da Pio V, nel 1567, fra gli Ordini mendicanti, i gesuati furono, nel 1606, autorizzati ad accedere alla dignità sacerdotale da Paolo V, che diede loro il nome di "chierici apostolici". Nel 1640Urbano VIII approvò le loro costituzioni e li chiamò Congregazione dei gesuati di s. Girolamo sotto la regola di s. Agostino.
Nel 1668, in seguito alle pressioni della Serenissima, che mirava, impegnata nella guerra di Candia, ai notevoli possedimenti dei canonici celestini, papa Clemente IX decretò la soppressione dei gesuati e delle loro ramificazioni, eccezion fatta per quella femminile fondata da Caterina Colombini, con la bolla Romanus Pontifex del 6dicembre.
Opere del C. sono la Vita del certosino Pietro Petroni, ora in Acta sanctorum Maii, VII, pp. 188-232, nella versione latina di Bartolomeo da Siena, e le Lettere, edite da A. Bartoli, Lucca 1856, e da D. Fantozzi, I-II, Lanciano s. d. [ma 1911]).
Fonti e Bibl.: La prima Vita di G. C. fu scritta da Cristoforo Gano, e non ci è pervenuta. Abbiamo invece: G. Tavelli da Tossignano, Ioannis Colombini memorandae vitae ac praeconiis efferandae series, in E. Baluze-D. Mansi, Miscellanea novo ordine digesta..., IV, Lucae 1764, pp. 566-571, scritta attorno al 1425; F. Belcari, Vita del beato G. C. da Siena, del 1449, numerose volte riedita fino al 1950 (Milano), a cura di P. Cherubelli; P. Morigia, Il Paradiso dei giesuati, Venezia 1582, pp. 1-120; G. Bonafede, Il Colombino amante di Giesù, Lucca 1644; G. B. Rossi, Triumphus B. Ioannis Columbini Iesuatorum fundatoris, Romae 1648 (pubblicata ridotta, in Acta sanctorum Iulii, VII, p. 354-398); infine si vedano i Fasti di Siena, a cura dell'Accad. degli Intronati, Siena 1669, pp. 361 ss. Altre brevi fonti: V. Riccardus, Panegyricus beato Ioanni Columbino, Romae 1617; F. I. Tonelli, Oratio de beato Ioanni Columbino, Romae 1631; tre compos. anon. pubbl. a Siena nel 1684: due dal titolo In Beatum Ioannem Columbinum Hymmus, e un sonetto in volgare, Il beato G. C. porta sulle spalle N. S. Giesù Cristo in forma di peregrino lebbroso. Sul C. v. poi: Comtesse de Rambuteau, Le bienheureux C.: hist. d'un toscan au XIVe siècle, Paris 1893; G. Pardi, Della vita e degli scritti di G. C. da Siena, in Bull. senese di st. patria, II (1895), pp. 1-50, 202-230; P. Misciatelli, Mistici senesi, Siena 1913, pp. 95-131; L. Tonelli, Il beato G. C., Torino 1921; G. Pardi, Il beato G. C., in Nuova Riv. storica, XI (1927), pp. 286-336; G. Petrocchi, Le lettere del beato C., in Ascesi e mistica trecentesca, Firenze 1957, pp. 147-176; F. Flora, Storia della letter. ital., Milano 1959, I, p. 393; G. B. Proja, C. G., in Bibliotheca sanctorum, IV, Romae 1964, coll. 122 s.; C. Gennaro, G. C. e la sua "brigata", in Bull. dell'Ist. st. ital. per il Medio Evo e Arch. Muratoriano (1969), pp. 237-271; Dizionario d. Istituti di perfezione, II, s. v.; IV, s. v. Gesuati. Per i gesuati, si veda, tra l'altro, C. Cracco, L'introduz. dei gesuati in Vicenza nel Quattrocento, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, XI (1957), pp. 407-422; G. Dufner, A. Bettini, Jesuat und Bischof von Foligno, ibid., XVIII (1964), pp. 399-428; R. L. Guidi, Influenza delle tradiz. relig. ed agiogr. nella Vita del beato G. C. di Feo Belcari, in Riv. di storia e letteratura religiosa, V (1969), pp. 391-412.