Commedia elegiaca
Il teatro sacro nasce e si sviluppa in età medievale attraverso le forme liturgiche della sequenza e del tropo; quando, uscito dal tempio, esso propone le sue rappresentazioni sul sagrato, acquista una popolarità sempre maggiore anche grazie alla notorietà delle vicende rappresentate, di solito connesse alle festività pasquale e natalizia. Che cosa accade nel frattempo al teatro profano? Se per teatro intendiamo uno spettacolo effettivo che richiede azione scenica e battute recitate da attori che agiscono davanti a un pubblico eterogeneo, sotto la guida di un regista in un ambiente spaziale appropriato, il teatro profano in età medievale non esiste e l'unica sopravvivenza spettacolare riconducibile a moduli antichi si limita alla pratica delle rappresentazioni mimiche e pantomimiche, mai interrotta, a giudicare dagli indignati sermoni di vescovi e abati e dalle perentorie prescrizioni dei concili.
Ciononostante, in realtà, anche i generi distintivi del teatro classico, vale a dire la commedia e la tragedia, hanno modo di tornare in auge nel Medioevo: infatti, tra il XII e il XIII sec. furono composte, prevalentemente in Francia, ma anche in Inghilterra, in Germania e in Italia, una ventina di 'commedie' che ebbero notevole importanza nella storia letteraria, determinando il sorgere di un nuovo genere, quello delle cosiddette 'commedie elegiache', caratterizzate in sintesi da scelta del metro elegiaco (da cui l'etichetta moderna), drammatizzazione della poesia ovidiana d'argomento amoroso, comune tematica erotica, atteggiamento misogino, tipologia degli schiavi e, alla base, imitazione di fondo (di ordine anzitutto emulativo, ma poi, in seconda istanza, anche parodistico) dei tre archetipi del filone: l'adespoto Pamphilus, o il Geta (1125-1130) o infine l'Aulularia, composti questi ultimi due da Vitale di Blois. Ma si tratta davvero di teatro? In alcuni prologhi gli autori proclamano a gran voce di avere rielaborato, tradotto, riscritto e, in certi casi, migliorato commedie plautine o addirittura menandree, carpendo la buona fede non solo dei loro contemporanei, ma anche di gran parte degli studiosi moderni, sebbene, a un attento esame, risulti che dei presunti modelli antichi sono stati abbandonati tanto i metri fondamentali giambico-trocaici, quanto le strutture drammatiche. Il richiamo a Plauto e a Menandro serve soltanto a conferire il sigillo di un'auctoritas riconosciuta a un genere letterario nuovo, che trova i suoi veri modelli in Orazio (specie l'Orazio delle Satirae e delle Epistulae, presente, insieme a Terenzio, soprattutto nei prologhi), Virgilio, Giovenale, Lucano, Stazio, Massimiano e, in maniera a tratti invasiva, Ovidio, da cui vengono mutuati forma e contenuto, riproposti in un'inedita chiave semidrammatica (perché, se si eccettuano il Pamphilus e il Babio, testi interamente dialogati, in queste commedie si alternano parti composte dalle sole battute dei personaggi a sezioni narrative di raccordo fra le 'scene' che si susseguono).
Nel secolo seguente al XII, conclusa la stagione franco-britannica, la commedia latina conosce una nuova fioritura in area italo-germanica, e in questo passaggio essa, pur conservando inalterate alcune delle componenti basilari del genere, ne perde altre, acquisendone in compenso delle nuove. Mentre nelle due commedie localizzabili in area germanica, vale a dire l'Asinarius e il Rapularius, circola un'incantata aria fiabesca, che nei testi precedenti si respirava soltanto nel De mercatore e in alcuni brani del Milo di Matteo di Vendôme, scendiamo invece su un piano assai più realistico e concreto con le commedie composte in Italia meridionale nella prima metà del sec. XIII.
Nel De Paulino et Polla, composto fra il giugno del 1228 e il giugno del 1229 e dedicato all'imperatore Federico II, il giudice Riccardo da Venosa (v.) segue per i primi cinquecento versi, parodiandola, la falsariga del Pamphilus, ma poi la materia finisce per prendergli la mano e i suoi sforzi per rendere piacevole la narrazione, tramite il ricorso alla parodia e al farsesco, non raggiungono sempre l'obiettivo. Nel poemetto si racconta come la vecchia Polla chieda al giudice Fulcone di aiutarla a convincere il vecchio Paolino a sposarla. Fulcone è un tronfio leguleio di campagna, chiacchierone e pedante, sempre pronto a intavolare, con i suoi non meno ciarlieri interlocutori, logorroiche disquisizioni moralistiche costruite in ligia conformità ai dettami retorici delle controversiae in utramque partem. Pertanto, benché Riccardo cerchi in vario modo di movimentare e alleggerire il racconto, il contenuto non gli offre davvero molte possibilità e la fabula finisce per incepparsi di continuo fra le molteplici e pedanti disquisizioni, svolte forensi more molto più che dramaticomore nei 'monologanti dialoghi' che compongono i millecentoquaranta versi di questa commedia, dominata, specie nella prima parte, da un senso di monotonia e verbosa staticità. Il De Paulino et Polla doveva essere, negli intenti del suo autore, un sarcastico e soprattutto carnevalesco mea culpa sceneggiato sub speciecomica da un colto giudice lucano, poeta a tempo perso, disposto a dileggiare e schernire, per la durata d'un ludus letterario, certi eccessi retorici della prassi formale giudiziaria e avvocatesca, con l'intento 'corporativo' di divertire gli altri dotti funzionari, suoi colleghi, della Magna Curia federiciana: come il Geta, anche il De Paulino et Polla è quindi un tipico divertissement intellettuale, ma il passaggio dall'ambiente filosofico, in cui operava Vitale, a quello giuridico non sembra dei più felici.
Più di un'affinità stilistica e concettuale col De Paulino et Polla rivela l'anonimo De more medicorum, collocato da Brunhölzl attorno al 1250, ma risalente con ogni probabilità alla prima metà del sec. XIII. A differenza del testo di Riccardo, la cui lingua è intessuta di continui espedienti retorici, il De moremedicorum è un componimento caratterizzato da uno stile più sobrio e meno artificioso nell'impiego dei colores e dell'ornatus: a fianco di colloquialismi e di espressioni sentenziose e proverbiali, si riscontrano elementi peculiari del latino biblico e cristiano, oltre a vocaboli e a tecnicismi tipici del lessico medico; ma, soprattutto, appare di scarso rilievo l'influsso di Ovidio, preponderante invece in tutte le altre commedie. La presenza, a margine o interlineare, di didascalie che indicano il personaggio che 'agisce', benché differenti in ciascuna delle due classi di manoscritti che tramandano il testo (y e M), consente inoltre di avanzare l'ipotesi, se non di una 'messa in scena', di una 'lettura drammatica' della pièce. In sintesi, nei centosettantatré distici elegiaci del De more medicorum si narra come, dopo ripetute visite a un malato e attraverso frequenti dialoghi col malato stesso e il suo servitore, un medico venale (preoccupato più del suo onorario che dello stato effettivo dell'infermo) riesca alla fine, per mezzo di una martellante somministrazione di farmaci d'ogni sorta, che si conclude con la prescrizione di un clistere, a vincere l'ostinata stipsi intestinale del malcapitato paziente. La parte conclusiva del componimento (vv. 261-326) è interamente occupata da una lunga tirata moralistica contro l'avidità di guadagno dei medici e, più in generale, dell'uomo.
Una dura condanna della ceca lucri cupido è presente anche nell'ultima commedia di area italica meridionale: il De uxore cerdonis del giudice Iacopo da Benevento (v.), in cui si riconosce l'influenza delle commedie latine del secolo precedente, e segnatamente del Pamphilus nonché dell'Alda di Guglielmo di Blois. Questa commedia, a quattro personaggi, che si può considerare l'anticipazione della tipica commedia umanistica, racconta dell'amore d'un brutto prete per la bella e giovane moglie di un calzolaio (cerdo, termine storicamente carico di valenze plurime, perlopiù negative). Avvicinatala per mezzo di una vecchia ruffiana (anus) e sedottala tramite l'invio di doni, il prete riesce alfine a ottenerne i favori e a farsi beffe del calzolaio, che aveva cercato di trarre bassamente profitto dalla circostanza per ricattarlo. Anche questa commedia, come il De more medicorum, si conclude con un'indignata apostrofe contro la turpis lucri cupiditas, sebbene la morale posticcia sia sostanzialmente solo un pretesto (o una giustificazione) che consente di recuperare da un punto di vista etico la piccante narrazione a sfondo erotico e di presentarla come exemplum negativo, comprovante la bontà della morale universalmente approvata. È un'appendice poco convincente, appiccicata a mo' di conclusione a un testo di notevoli pregi tecnici e formali, caratterizzato da un'agilità narrativa che non consente mai al discorso di appesantirsi.
fonti e bibliografia
Per un panorama generale sul genere della 'commedia elegiaca' cf. F. Bertini, La commedia elegiaca, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1, Il medioevo latino, a cura di G. Cavallo-C. Leonardi-E. Menestò, I, La produzione del testo, 2, Roma 1993, pp. 217-230.
Per inquadramenti generali d'ordine storico, letterario e filologico, nonché per problematiche critiche e interpretative riguardanti i singoli testi critici (con traduzioni) del corpus delle 'commedie elegiache' cf. Commedie latine del XII e del XIII secolo, a cura di F. Bertini, I-VI, Genova 1976-1998; sulle commedie elegiache d'età federiciana cf. F. Bertini, Le 'Commedie elegiache' del XIII secolo, in Tredici secoli di elegia latina. Atti del Convegno internazionale (Assisi, 22-24 aprile 1988), Assisi 1989, pp. 249-263, in partic. cf. sul De Paulino et Polla, pp. 255-256, sul De more medicorum, p. 256, e sul De uxore cerdonis, pp. 256-263; A. Bisanti, 'Fabliaux' antico-francesi e 'commedie' latine: alcuni sondaggi esemplificativi, "Schede Medievali", 18-19, 1990, pp. 5-22 (lo studioso passa in rassegna i lavori che riguardano i rapporti fra 'commedie elegiache' dei secc. XII e XIII e fabliaux antico-francesi, rilevando la presenza nei due generi di personaggi e di motivi contenutistici comuni o affini. In particolare, la figura del prete lascivo del De uxore cerdonis ricorre anche nel Vilain de Bailluel di Jean Bodel); F. Doglio, Rapporti fra le diverse esperienze drammatiche europee nel Medio Evo: la commedia elegiaca, ambito italiano, in Id., Il teatro scomparso. Testi e spettacoli fra ilX e il XVIII secolo, Roma 1990, pp. 161-181 (ripercorre la storia della commedia elegiaca, esponendone i tratti salienti; fra i testi di area italiana, analizza il De Paulino et Polla di Riccardo da Venosa e il De uxorecerdonis di Jacopo da Benevento).
Per quanto concerne il De more medicorum, l'ediz. di riferimento è quella a cura di P. Gatti in Commedie latine, VI, pp. 379-427 (Notizie introduttive alle pp. 381-395, Bibliografia alle pp. 524-525), che sostituisce quella di F. Brunhölzl, 'De more medicorum'. Ein parodistisch-satirisches Gedicht des 13. Jahrhunderts, "Sudhoffs Archiv für Geschichte der Medizin und der Naturwissenschaften", 39, 1955, pp. 289-315.
Per informazioni bibliografiche sul De Paulino et Polla e sul De uxore cerdonis v. qui Riccardo da Venosa e Jacopo da Benevento.