di Luca Salvatici
La maggior parte degli economisti condivide l’idea che un commercio internazionale sufficientemente libero possa contribuire alla sicurezza alimentare globale. Molti governi, però, continuano a dubitare dei benefici della liberalizzazione commerciale, come mostra il ritardo con cui le regole del Gatt sono state applicate al settore agricolo e le difficoltà degli attuali negoziati nell’ambito della Wto.
Il contributo positivo alla sicurezza alimentare degli scambi internazionali è stato recentemente riconosciuto in varie dichiarazioni politiche: la Un High Level Task Force sulla Global Food Security Crisis notava nel 2010 che mercati internazionali più aperti contribuirebbero alla sicurezza alimentare ampliando i volumi scambiati e diversificando le fonti di approvvigionamento degli alimenti, mentre l’Inter-Agency Report on Price Volatility predisposto per il G20 riconosceva nel 2011 che il commercio è una componente essenziale di qualsiasi strategia di sicurezza alimentare e che le politiche distorsive della produzione e del commercio dei prodotti agricoli costituiscono dei potenziali ostacoli al raggiungimento di una sicurezza alimentare duratura.
La diffidenza dei governi è in parte giustificata dai rischi di improvvisi aumenti nei prezzi internazionali del cibo e dall’assenza di reti di sicurezza per i più poveri; e la crisi finanziaria del 2008 non ha certo contribuito ad aumentare la fiducia dell’opinione pubblica e delle organizzazioni non governative nei confronti dei mercati mondiali. Proprio le posizioni assunte da alcune organizzazioni permettono di caratterizzare i termini del dibattito. Mentre alcune organizzazioni come Oxfam riconoscono il potenziale ruolo del commercio per togliere dalla povertà milioni di agricoltori, altre, come Via Campesina, sposano il principio della ‘sovranità alimentare’ in base al quale ciascun paese avrebbe diritto a mantenere e sviluppare la capacità di autoprodurre il cibo di cui necessita. Un simile approccio non necessita, evidentemente, di ampi scambi in quanto tende a proteggere i produttori interni e a scoraggiare le esportazioni, non necessarie per il perseguimento dell’autosufficienza.
Anche senza condividere posizioni estreme, è innegabile che lo sviluppo degli scambi internazionali solleva molti timori. Le esportazioni (più o meno sussidiate) da parte dei paesi sviluppati possono rappresentare una minaccia per gli agricoltori dei Pvs, ma anche le esportazioni dei Pvs destano preoccupazione in quanto utilizzano fattori produttivi limitati, innanzi tutto la terra, che potrebbero essere destinati a sfamare la popolazione locale: una preoccupazione alimentata anche dal recente fenomeno del land grabbing. Più in generale, si sottolinea che le esportazioni possono generare una serie di esternalità negative, nella misura in cui la conversione produttiva di foreste e pascoli riduce la biodiversità e aumenta le emissioni di gas che contribuiscono all’effetto serra. Va però ricordato che effetti negativi non dissimili, se non più gravi, sugli ecosistemi naturali si potrebbero registrare anche qualora l’obiettivo fosse l’autosufficienza alimentare.
Non è certo sorprendente che il ruolo del commercio internazionale e della sua liberalizzazione rispetto alla sicurezza alimentare sia controverso, in quanto gli effetti positivi del libero scambio passano attraverso una modifica dei prezzi relativi che portano benefici per alcuni e perdite per altri. Il fatto che il saldo complessivo possa essere positivo in termini di efficienza non è di per sé rassicurante se i soggetti colpiti (produttori e/o consumatori) sono quelli maggiormente vulnerabili dal punto di vista della sicurezza alimentare.
Sebbene critiche e timori colgano degli elementi oggettivi, è bene ricordare che un sistema di scambi aperto migliora significativamente l’efficienza della produzione globale di cibo. Al contrario, le politiche di autosufficienza alimentare possono rivelarsi assai costose se non sfruttano i vantaggi comparati, e illusorie nella misura in cui si basano su input importati. D’altra parte, se è vero che il commercio internazionale espone ai rischi di fluttuazione dei prezzi mondiali, è altrettanto vero che svolge un ruolo insostituibile nel fronteggiare eventi imprevisti, per esempio di tipo climatico, che possono colpire le economie locali.
Le politiche di stabilizzazione dei prezzi interni rendono evidente la necessità di un coordinamento multilaterale per il perseguimento di obiettivi globali. Qualsiasi tentativo di stabilizzare il mercato interno, infatti, aumenta l’instabilità internazionale, e ciascun paese ha quindi l’incentivo ad adottare politiche che neutralizzino gli effetti negativi derivanti da quelle altrui. Negli ultimi anni molti governi hanno cercato di contrastare l’aumento dei prezzi mondiali aumentando la tassazione delle esportazioni o riducendo i dazi all’importazione, in entrambi i casi aggravando la crisi dei mercati internazionali: ciò dimostra che il commercio può svolgere un ruolo positivo solo nell’ambito di un sistema di regole multilaterali condivise.