Commercio
In tutti e tre i momenti intorno ai quali si addensano le principali testimonianze relative all'azione di Federico II come rex Siciliae ‒ la dieta di Capua del 1220, lo slancio normativo di Melfi nel 1231, la gestione quotidiana degli affari della Curia nel registro del 1239-1240 ‒ si manifesta una tenace propensione del sovrano a intervenire nella vita economica, e in particolare nelle attività commerciali, dell'Italia meridionale e della Sicilia. Nel 1220, dopo l'incoronazione imperiale, l'intera organizzazione degli scambi del Regno fu investita dall'opera di restauro del potere regio e di recupero del demanio e dei diritti della Corona. Le leggi di Capua cancellarono le imposizioni sul transito e sui traffici instaurate dopo la morte di Enrico VI e di Costanza, insieme ai luoghi di scambio, di passaggio e ai porti stabiliti per prelevarle, e vietarono l'istituzione di nuove fiere e mercati (v.), mantenendo solo quelli stabiliti al tempo di Guglielmo II. A quanto si riscuoteva durante il regno di quest'ultimo, cassato ogni privilegio successivo, furono riportati gli oneri esatti da baiuli e ufficiali regi "tam ab extraneis quam ab hominibus regni in portubus, duanis et aliis locis" (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 90). Venivano in tal modo smantellate la maglia di nuovi dazi e gabelle, sviluppatasi nei decenni precedenti per iniziativa e a vantaggio di signori, chiese e comunità, e quella delle diminuzioni avvenute a danno dei diritti regi. Con queste ultime fu revocata anche la piena franchigia doganale ottenuta dai mercanti genovesi nel 1200. L'intervento di Federico II fu completato dalla riforma monetaria del 1221, che ‒ eliminando fra l'altro la circolazione di denari forestieri nella parte continentale del Regno ‒ impose i nuovi denari imperiali d'argento come moneta esclusiva per tutte le transazioni interne fra i sudditi; l'oro era consentito solo negli scambi e negli affari di veneziani e di altri mercanti stranieri, oltre che riservato ai pagamenti fiscali e agli usi della Curia.
Dieci anni dopo, le Costituzioni di Melfi non andarono oltre alcuni titoli generali contro le frodi di mercanti e artigiani. Fu invece nella contemporanea serie dei nova statuta che furono comprese più dettagliate e incisive misure, destinate ad ampliare i diritti e il controllo della Corona in primo luogo sui traffici con l'estero. Tutti gli scambi con l'esterno vennero concentrati in una rete di 'fondaci' pubblici, distribuiti nei principali centri urbani costieri, ma anche lungo il confine settentrionale del Regno: veri luoghi di commercio sorvegliato, dotati di magazzini per le merci in entrata e in uscita e di ostelli per i forestieri. Qui gli affari tra mercanti importatori ed esportatori avrebbero dovuto svolgersi sotto il controllo dei funzionari regi, incaricati della gestione della struttura e del prelievo dei diritti dovuti per la dogana in entrata e in uscita dal Regno, per il magazzinaggio, per l'eventuale soggiorno. Il sistema fu attivato insieme a un'accurata ridefinizione del quadro delle tariffe, le stesse per stranieri e regnicoli (dazi particolarmente elevati vigevano solo per le merci introdotte da mercanti saraceni non appartenenti al Regno). Il criterio della parità di trattamento di regnicoli e stranieri adottato nel 1231 si ritrovò in ogni caso sottoposto a deroghe. Nel Regno gli affari dei mercanti delle potenti città marittime italiane erano per le entrate di Federico II ‒ e per le sue strategie politiche ‒ troppo importanti perché egli non mostrasse la ricorrente disponibilità a mantenere e ricreare condizioni di favore e di eccezione, soprattutto per i veneziani (in particolare ‒ ma non solo ‒ con il diploma dato a Venezia nel marzo 1232). Altri interventi sembrerebbero avere invece in parte migliorato le condizioni vigenti per i sudditi. Diritti di esportazione lievemente inferiori rispetto a quelli prelevati sui forestieri furono a un certo momento fissati per i regnicoli, almeno su olio, formaggi e carni salate. Altre concessioni in materia di privilegi commerciali goduti dai cives nelle loro città avrebbero determinato modifiche ‒ alcune decise già nell'ottobre 1232 ‒ al disegno originario dei nova statuta.
Le riforme finanziarie del 1231 miravano d'altra parte ad assicurare la presenza e il vantaggio della Corona anche nel settore degli scambi interni. La libertà per i sudditi di commerciare la produzione rurale di victualia e ligumina, di lino e di canapa, era subordinata alla consegna ogni anno nei magazzini imperiali della dodicesima parte del raccolto. Altri provvedimenti regolavano i diritti per la pesatura pubblica delle merci, sulla base di misure e di un tariffario uniformi per tutto il Regno. Il sovrano infine si riservava il commercio interno del sale (con evidenti scopi fiscali) e rivendicava il monopolio sulla circolazione di altri prodotti di interesse variamente 'strategico'. Agenti del re dovevano acquistare l'intera quantità disponibile sia di seta grezza (da destinare in primo luogo agli opifici regi), sia di ferro e acciaio, di sego (questo ricavato dalla macellazione nei mattatoi pubblici), probabilmente del rame e della pece, forse anche della canapa lavorata (tutti materiali di corrente impiego militare e navale). Gli stessi agenti (generalmente società di appaltatori) erano incaricati della rivendita ‒ con una maggiorazione di prezzo prestabilita ‒ di quanto non consumato dalla Curia. Nel 1234, Federico II si sarebbe preoccupato infine di regolare ‒ e verosimilmente sottoporre al controllo dei suoi funzionari ‒ tutti i principali flussi commerciali interni, istituendo per la parte continentale del Regno un sistema di fiere annuali in stretta sequenza, da fine aprile all'inizio di novembre, iniziando da Sulmona e scendendo poi a Capua, Lucera, Bari, Taranto, Cosenza e Reggio, con il divieto per mercanti e agenti del re di commerciare in altri luoghi della provincia interessata durante lo svolgimento di ciascuna fiera.
Per l'imperatore tuttavia, come già per i normanni e poi ancor più per gli Angioini, il settore commerciale di gran lunga più importante fu quello della vendita all'estero dei grani, non solo perché i relativi diritti di esportazione costituivano gran parte delle sue entrate fiscali, ma perché egli stesso era il maggior produttore e mercante dei sovrappiù agrari del Regno. Nei magazzini pubblici si accumulavano le scorte provenienti dalle aziende e dalle masserie demaniali, dal prelievo sui raccolti dei sudditi, dai diritti sulle esportazioni versati in natura. Come attesta il registro del 1239-1240, buona parte del prodotto era utilizzata per i bisogni della Curia, il vettovagliamento degli eserciti e dei castelli, ma l'avanzo era venduto a mercanti stranieri o smerciato direttamente ‒ in Levante o in Barberia ‒ in cambio di oro, oggetti rari e prodotti di lusso. Per queste operazioni il re poteva avvalersi della flotta, le cui navi ‒ se disponibili ‒ erano anche noleggiate a privati. I commerci della Corona godevano di altri vantaggi. Il sovrano poteva favorire i propri clienti esentandoli dal pagamento dello ius exiturae; chiudere le esportazioni e acquistare grano a prezzi ribassati, per poi riaprirle e vendere a prezzi nuovamente alti; oppure ‒ come accadde nell'inverno 1240, quando approfittò di una carestia in Tunisia per smerciarvi 50.000 salme di grano al prezzo straordinario di un'onza la salma ‒ bloccare ogni operazione di privati (nel caso specifico, soprattutto genovesi) in attesa che fossero state caricate le proprie navi. Giusto nei mesi precedenti ‒ nel pieno del bisogno finanziario connesso all'impegno militare in Italia settentrionale ‒ Federico II e i suoi consiglieri avevano tuttavia varato un nuovo ambizioso intervento di regolamentazione e controllo del commercio estero del Regno, volto da un lato a rafforzare i canali di controllo fiscale sulle esportazioni e dall'altro ad aumentarne il volume attraverso una riduzione delle tariffe. Dall'ottobre 1239 erano stati infatti istituiti tra continente e Sicilia undici nuovi porti, dai quali soltanto ‒ nei successivi cinque anni ‒ avrebbero potuto essere venduti, comprati ed esportati grani e vettovaglie, mentre per lo stesso periodo il prelievo della Corona era in via sperimentale ridotto a un quinto del valore del carico nell'isola e a un settimo nel resto del Regno. L'amministrazione stava consapevolmente provando a passare da un contesto di dazi doganali e prezzi elevati, in cui erano avvantaggiati i traffici della Corona, a una crescita dell'entrata fiscale complessiva, basata sull'attesa di un incremento della domanda estera e della produzione ed esportazione del Regno ‒ in un nuovo contesto di dazi e prezzi ribassati, e di conseguente maggiore partecipazione di operatori privati agli affari granari.
Commodum e utilitas della Curia, reintegro e difesa dei diritti regi, attenzione al bisogno fiscale (non sempre e non soltanto immediato), insieme allo sforzo di manifestare per quanto possibile anche in questo campo la funzione regia di custodia dell'aequitas: queste dunque le linee principali dell'azione fridericiana. Essa si fondava sull'identificazione ‒ tradizionale, ma particolarmente vera nel caso del Regnum Siciliae ‒ della principale ricchezza di un territorio con l'abbondanza della sua produzione agraria, dalla quale dipendeva direttamente e indirettamente ‒ attraverso la fiscalità ‒ la forza dello stesso sovrano. I provvedimenti imperiali rivelano d'altra parte la specifica volontà di intercettare le nuove risorse e i flussi commerciali attivati dall'intensificarsi della crescita economica caratteristica del XIII secolo. Federico II si sforzò di parteciparvi utilizzando ed estendendo a tutto il Regno e alla sfera commerciale la particolare prassi di controllo 'burocratico' del territorio e di accorto sfruttamento del demanio (soprattutto in Sicilia e Calabria), che faceva parte della tradizione normanna. È tuttavia difficile valutare l'efficacia e le conseguenze delle sue misure, proprio perché quel poco che sappiamo della vita commerciale del Regno e dei suoi abitanti deriva in gran parte dalla stessa documentazione imperiale. Norme come quelle sulle fiere o sui porti, sui fondaci e sulla monetazione, se per un verso approntavano utili infrastrutture commerciali, per l'altro ne limitavano la diffusione e l'utilità, su-bordinandole all'utile e al controllo fiscale del sovrano. Non è semplice così stabilire quanto ‒ negli effetti a breve e medio termine delle disposizioni imperiali ‒ prevalesse l'incentivo dato alla commercializzazione di una economia arretrata, oppure l'ostacolo posto a un più libero ed efficace dispiegarsi delle iniziative private, dei mercanti stranieri e degli stessi ceti imprenditoriali locali, forse più dinamici di quanto non si sia soliti ritenere. Anche per questa ragione, inserire l'insieme dei provvedimenti di Federico nella cornice modernizzante di una 'politica economica' avant la lettre ‒ o formulare giudizi generali, come è spesso avvenuto nel dibattito storiografico, di biasimo o lode per l'opera dell'imperatore e dei suoi consiglieri ‒ costituisce una tentazione alla quale conviene resistere.
fonti e bibliografia
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