Abstract
Si espone la disciplina della competenza del giudice civile, esaminando in particolare: la portata del concetto; il sistema del riparto; la rilevanza della domanda giudiziale; le preclusioni al rilievo della questione; il regime della pronuncia.
Secondo una formulazione fortunata (benché forse in tempi più di ora frastornati dagli echi dell’idealismo), la competenza può essere definita come una «misura della giurisdizione» (v. per es. già Chiovenda, G., Principii di diritto processuale civile, III ed., Roma, 1923, 368; e v. ancora Mandrioli, C.-Carratta, A., Diritto processuale civile, XXIV ed., I, Torino, 2015, 275). L’espressione può trarre in inganno, poiché il regime processuale delle questioni di competenza in senso stretto è assai diverso da quello delle questioni di giurisdizione, ma il nesso fra competenza e giurisdizione è tutt’altro che arbitrario.
Premesso, infatti, che si può concepire la giurisdizione come il potere di risolvere le controversie, attuando la volontà concreta della legge, in quanto appartenente ad un complesso di organi giudiziari, la competenza può allora definirsi come il potere di risolvere le controversie attuando la volontà concreta della legge, in quanto spettante ad uno in particolare fra i diversi uffici giudiziari egualmente provvisti di giurisdizione. In altri termini, la competenza rappresenta il criterio di distribuzione del potere di risolvere controversie, attuando la volontà concreta della legge, fra uffici giudiziari appartenenti al medesimo ordine giurisdizionale.
In base a questa scelta lessicale costituisce quindi un uso in senso lato del termine l’espressione competenza giurisdizionale, con la quale talvolta si allude a ciò che nel linguaggio codicistico viene indicata come giurisdizione tout court. Questa locuzione si ritrova soprattutto allorché si considerano i limiti del potere di risolvere controversie, attuando la volontà concreta della legge, del complesso degli organi giurisdizionali nazionali, in quanto derivanti dalla scelta legislativa di coordinare l’esercizio della giurisdizione nazionale con quello delle giurisdizioni straniere, ma si tratta di un uso non corrispondente al linguaggio del codice di rito.
Ovviamente la competenza dell’organo amministrativo che lo abbia emanato rappresenta altresì requisito di legittimità dell’atto amministrativo, ma sotto questo profilo il tema appartiene al diritto pubblico. Si può peraltro sottolineare che secondo l’opinione dominante, nel processo civile la competenza costituisce requisito di validità non di qualsiasi atto giurisdizionale, ma della sola sentenza di merito (per la opposta posizione v. peraltro già Attardi, A., Sulla traslazione del processo dal giudice incompetente a quello competente, in Riv. dir. proc., 1951, I, 142). È inoltre pacifico che ai sensi dell’art. 50 c.p.c., la competenza del giudice non è requisito di validità degli atti di parte, sicché la domanda giudiziale (ossia la richiesta di tutela giurisdizionale rivolta dalla parte al giudice) produce pienamente i suoi effetti – determinativi della pendenza del procedimento, impeditivi della decadenza, sospensivi della prescrizione e così via – anche se proposta al giudice incompetente (a condizione però che il procedimento, a seguito della dichiarazione di incompetenza del giudice erroneamente adito, sia coltivato riassumendo tempestivamente la causa presso il diverso giudice indicato come competente).
Non attiene invece alla competenza in senso stretto il riparto del carico di lavoro all’interno dell’ufficio giudiziario, sia con riferimento ai diversi magistrati che lo compongono, sia con riferimento alla composizione monocratica o collegiale del tribunale, sia con riferimento, nel secondo caso, alla divisione di compiti fra collegio e istruttore, sia con riferimento alle sezioni in cui l’ufficio si articola: la disciplina della competenza, in quanto attuativa della garanzia di cui all’art. 25 Cost., implica che la parte, anche se in torto sul piano sostanziale, abbia comunque diritto a ottenere che ogni grado di giudizio si svolga presso il giudice competente; la violazione dei criteri di riparto interni all’ufficio nel giudizio di primo grado determina invece una mera nullità, e secondo la regola generale tale vizio può essere sanato direttamente attraverso lo svolgimento non viziato del giudizio d’appello, senza che sia necessario assicurare un nuovo valido svolgimento del procedimento di prime cure. Si ritiene che l’art. 25 Cost. non sia violato da questa regola, fintantoché la disciplina della competenza non venga del tutto svuotata di contenuto precettivo (v. Verde, G., Giudice monocratico e collegiale (divagazioni su costituzione e processo), in Riv. dir. proc., 1991, 961; per opinioni diverse cfr. però Luiso, F.P., Res sunt consequentia nominis: la ripartizione delle controversie all’interno della pretura circondariale, in Giust. civ., 1994, I, 627; Sassani, B., Le S.U. civili, la pretura circondariale e la disciplina della “non-competenza”, in Riv. dir. proc., 1994, 566 ss.).
Costituiscono peraltro uffici giudiziari autonomi, soggetti alle regole di riparto della competenza, quelle sezioni specializzate la cui composizione sia integrata da specialisti di discipline non giuridiche, come il tribunale dei minori o i tribunali regionali delle acque pubbliche (deve invece negarsi la natura di uffici giudiziari autonomi delle sezioni specializzate non integrate da esperti non giuristi, ancorché previste solo in alcune sedi giudiziarie: v., da ult., Cass., 22.11.2011, n. 24656). Inoltre la qualificazione della questione di riparto fra sezioni come questione di competenza può riemergere in casi in cui non incida sulla quantità di gradi di giudizio (per es. ai fini del giudizio di rinvio: v. la giurisprudenza esaminata da Finocchiaro, G., Sulla competenza “interna” nella giurisprudenza della corte di cassazione, in Riv. dir. proc., 1997, 930 ss.).
È in larga misura, anche se non completamente, assimilato al regime del riparto della competenza quello dei rapporti fra arbitro e giudice ai sensi dell’art. 819 ter c.p.c., e l’evoluzione del sistema appare indirizzata a incrementare tale assimilazione (v. C. Cost., 19.7.2013, n. 223; sulle sue ragioni cfr. per es. già Boccagna, S., L’impugnazione per nullità del lodo, I, Napoli, 2005, 255 ss.).
Tradizionalmente si distingue il riparto cd. verticale dal riparto cd. orizzontale della competenza, alludendo rispettivamente ai criteri di attribuzione del potere di risolvere controversie attuando la volontà concreta della legge fra uffici giudiziari di tipo diverso, ancorché appartenenti al medesimo ordine giurisdizionale, e ai criteri di distribuzione di tale potere fra gli uffici giudiziari dello stesso tipo distribuiti sul territorio.
Ai fini del riparto verticale della competenza, la legge non ammette concorrenza di fori: i criteri di riparto portano sempre all’individuazione di un unico tipo di ufficio giudiziario. Nei casi in cui la controversia non sia soggetta ad alcun criterio di competenza per materia (per es. di lavoro subordinato, di locazione, di famiglia), il riparto verticale viene determinato in applicazione del criterio residuale del valore della causa: tale valore viene poi a sua volta determinato in base a criteri essi pure previsti dalla legge, diversi a seconda del tipo di rapporto dedotto in giudizio, o in subordine del tipo di bene controverso (beni immobili, mobili, somme di danaro), salva, nei casi di indeterminabilità del valore, la competenza del tribunale. Vi sono poi casi particolari in cui il criterio di riparto verticale è misto: in tali occasioni l’ascrizione della controversia a una certa materia comporta l’applicazione di criteri di riparto per valore diversi da quelli previsti in via generale (v., per es., l’art. 7 c.p.c.).
Ai fini del riparto orizzontale della competenza vi è invece spesso concorrenza di più fori: il criterio generale di riparto orizzontale della competenza è costituito dal luogo di residenza o domicilio del convenuto (cd. forum rei), ma in svariate occasioni, in ragione della specialità della materia controversa o per altri particolari motivi, tale foro si aggiunge ad uno o più altri o ne viene del tutto sostituito; in diverse ipotesi l’attore può dunque scegliere arbitrariamente fra più uffici giudiziari. Nonostante che una parte della dottrina da tempo dubiti della compatibilità di tale vantaggio strategico dell’attore – a cui si offre così la possibilità del cd. forum shopping, ossia di avvalersi dell’ufficio giudiziario preferito – con la garanzia costituzionale della naturalità del giudice precostituito per legge, la Consulta ha costantemente ritenuto infondata la relativa questione (v., per riferimenti e rilievi critici, già Romboli, R., Il giudice naturale, I, Milano, 1981, 195 ss.).
L’accordo delle parti non può modificare validamente il riparto verticale della competenza, ma può modificare quello orizzontale, purché sia concluso per iscritto e determinato nell’oggetto (nonché, laddove sia concluso tramite moduli o formulari, rispettoso dei particolari requisiti di validità previsti per le clausole vessatorie). Deve essere espressamente pattuita anche l’eventuale esclusività del foro convenzionale (in mancanza producendosi la concorrenza del foro pattizio con quelli legali).
Anche il riparto orizzontale della competenza, però, non è passibile di alcuna deroga quando la legge lo esclude esplicitamente, nonché, secondo l’interpretazione ormai invalsa nella prassi, allorché l’inderogabilità del foro sia deducibile tramite interpretazioni di tipo sistematico, in particolare se idonee a giustificare tale conclusione attribuendogli un carattere funzionale. Secondo un’importante tradizione dottrinale (su cui v., per riferimenti ed anche per rilievi critici, Rascio, N., In tema di competenza funzionale, in Riv. dir. proc., 1993, 136 ss.), infatti, è possibile discernere ipotesi in cui la distribuzione della competenza sul territorio risponde all’esigenza di assicurare una speciale accuratezza della decisione – per esempio assicurando la prossimità del processo al luogo in cui si sono svolti i fatti, onde consentire un loro più accurato apprezzamento – e in cui quindi la competenza, essendo legata alla funzione del giudice anziché al mero interesse delle parti, non può essere derogata per accordo delle stesse (esempi significativi sono quelli delle controversie in materia di famiglia, e in generale laddove l’indisponibilità sostanziale del diritto giustifichi anche una compressione del potere di disposizione processuale delle parti, e della competenza per le opposizioni alla e per l’impugnazione della sentenza, la cui inderogabilità viene ravvisata nonostante che il linguaggio del codice sia tutt’altro che esplicito in tal senso; può riconoscersi tale ratio anche nell’inderogabilità attribuita alla competenza determinata per relationem nei casi di cui all’art. 30 bis c.p.c.).
Non tutte le fattispecie in cui il riparto orizzontale della competenza è determinato dalla specialità della materia controversa sono però ipotesi di competenza funzionale, neppure allorché il foro sia esclusivo: occorre a tal fine la presenza di ulteriori indici di indisponibilità (risolvendosi altrimenti l’esclusività nella mera prevalenza sul forum rei).
Possono inoltre darsi casi di inderogabilità relativa della competenza: in particolare la disciplina della tutela del consumatore prevede sovente la rilevabilità d’ufficio della nullità della clausola derogatoria della competenza del foro di residenza del consumatore, ma in alcune occasioni è ammessa la deroga convenzionale che a particolari condizioni si provi essere stata specificamente contrattata e non essere determinativa di significativi squilibri (cfr., per approfondimenti, Cass., S.U., 1.10.2003, n. 14669, e di recente, per es., Cass., 23.5.2012, n. 8189, Cass., 10.7.2013, n. 17083), e inoltre la nullità opera solo a vantaggio del consumatore stesso. In tali ipotesi dunque l’inderogabilità della competenza del giudice della residenza del consumatore non è rilevabile d’ufficio nel foro adito dallo stesso consumatore (cfr., per es., Vaccarella, R., Il problema del foro competente nei contratti fra “professionista” e “consumatore”, in Doc. giust., 1996, 1717; in giurisprudenza v. da ult., per es., Cass., 16.4.2012, n. 5974, Cass., 19.6.2014, n. 13944; cfr. anche Cass., 19.4.2012, n. 6116).
Deve infine notarsi che nel riparto orizzontale della competenza può aversi concorrenza di fori anche nei casi di inderogabilità della competenza per accordo delle parti: per esempio, ai sensi dell’art. 413 c.p.c., nelle controversie in materia di lavoro subordinato. In queste occasioni l’attore può liberamente scegliere fra più uffici giudiziari, ma non può accordarsi con il convenuto per adirne uno ancora diverso.
Secondo la regola generale, la competenza si determina in base alla domanda giudiziale, ma occorre distinguere fra diversi significati.
Anzitutto essa può comportare che rilevino le situazioni di vantaggio giuridicamente protette dedotte in giudizio al fine di conseguire il provvedimento di tutela, e non quelle che, al contrario, siano dedotte affinché la richiesta del provvedimento sia respinta (in altri termini rilevano le domande e non le eccezioni): quindi laddove la competenza dipenda dalla natura del rapporto giuridico intercorso fra le parti, la circostanza che il convenuto deduca un rapporto giuridico diverso ai soli fini del rigetto della domanda (e non anche per ottenerne l’accertamento ad ogni effetto), non sarebbe rilevante ai fini della determinazione della competenza. Questo però non implica comunque che siano del tutto irrilevanti le contestazioni del convenuto: se infatti questi contesta le allegazioni fattuali attoree per affermare che la competenza per l’accoglimento della domanda spetta a un giudice diverso, il giudice adito deve valutare quale delle due ricostruzioni sia corretta ai fini della decisione sulla sua competenza.
Una parte della dottrina nega tale conclusione, affermando che laddove gli elementi determinativi della competenza siano rilevanti anche per il merito, la prospettazione attorea sia idonea a determinare la competenza del giudice indipendentemente dalla sua fondatezza: si dice, in quest’ottica, che il giudice deve essere competente anche per il rigetto della domanda nel merito (v., per es., già Attardi, A., Sulla regola che “la competenza si determina dalla domanda”, in Riv. dir. proc., 1956, II, 52; e v. ancora Buoncristiani, D., Giurisdizione, competenza, rito e merito (problemi attuali e possibili soluzioni), in Riv. dir. proc., 1994, 198). Questa lettura appare tuttavia discutibile: è chiaro che se il convenuto nega fondatamente che vi sia stato alcun rapporto giuridico il giudice non può dichiararsi incompetente e deve invece rigettare la domanda nel merito, impedendone la riproposizione; in tale occasione, però, il convenuto non sta affatto contestando la competenza del giudice adito, perché una contestazione della competenza si ha solo se le deduzioni del convenuto implicano, ove fondate, che un diverso giudice possa accogliere la domanda; in quest’ultimo caso, però, non sembra che le contestazioni del convenuto possano davvero ritenersi irrilevanti ai fini della competenza, perché altrimenti o si ammette che l’attore possa scegliersi il giudice a piacimento (con la conseguenza che la garanzia costituzionale del giudice naturale risulti pregiudicata), ovvero si fa conseguire un rigetto della domanda nel merito a un errore nella individuazione del giudice competente (contrariamente alla già menzionata configurazione della competenza come condizione di validità della decisione sul merito e non degli atti di parte).
Sembra in realtà esservi una sola fattispecie in cui effettivamente una contestazione del convenuto in astratto idonea a determinare la competenza di un giudice diverso da quello adito viene invece resa irrilevante dalla legge ai fini della competenza: si tratta della disciplina del riparto verticale della competenza per valore nelle cause relative a somme di denaro. Per questa ipotesi, infatti, l’art. 14 c.p.c. prevede esplicitamente che rilevi solo la quantificazione attorea della somma dovuta, sicché in tali occasioni l’attore può unilateralmente ed arbitrariamente determinare la competenza del tribunale in luogo di quella del giudice di pace senza pregiudizio per la pronuncia sul merito (poiché il tribunale può poi accogliere la domanda nel merito anche ove sia fondata per un valore inferiore al limite minimo della sua competenza; non vale però l’inverso, poiché il giudice di pace, ancora ai sensi dell’art. 14 c.p.c., non può invece accogliere la domanda nel merito per un valore superiore al limite massimo della sua competenza; cfr. però, nel senso che il convenuto possa efficacemente contestare anche l’indicazione della somma, Capponi, B., Note in tema di rapporti fra competenza e merito, Torino, 1997, 149 ss.).
Laddove invece debba valutarsi la competenza per valore nelle cause relative a beni mobili, la tempestiva contestazione del convenuto intorno alla quantificazione attorea torna (sempre ex art. 14 c.p.c.) ad assumere rilevanza, e il giudice è tenuto a determinare, ai fini della decisione sulla competenza, quale sia l’effettivo valore del bene in contesa. Indubbia, poi, è la rilevanza delle contestazioni del convenuto in ordine a quegli elementi determinativi della competenza che non riguardino il merito della causa: un tipico esempio è costituito dalla residenza del convenuto, criterio determinativo della competenza per territorio di solito non attinente al merito.
Infine, è largamente accolta in giurisprudenza l’idea che le eccezioni in senso proprio possano comunque concorrere a determinare la competenza del giudice adito (v., per es., Cass., 23.6.1999, n. 6404), e persino, in deroga al principio generale, determinarne una diversa quando deducano, anche se a fini meramente difensivi, una fattispecie soggetta alla competenza per materia di un altro ufficio giudiziario, purché non siano prima facie infondate (cfr., per es., Cass., 23.9.2009, n. 20494, Cass., 26.7.2010, n. 17502, Cass., 21.7.2011, n. 16005).
Questi rilievi pongono inoltre le premesse per chiarire come non possa attribuirsi carattere di regola generale ad un secondo possibile significato del principio secondo cui la competenza si determina dalla domanda: la presunzione di competenza del giudice adito. In proposito va anzitutto rimarcato che, al contrario, la giurisprudenza riconosce talvolta che in via generale grava sull’attore l’onere di provare la sussistenza degli elementi determinativi della competenza del giudice adito (v., per es., Cass., 21.3.1991, n. 3026). Si deve però notare che tale principio soffre deroghe e limiti applicativi – veri o immaginari – talmente ampi da dare a volte l’impressione che valga la regola opposta.
Una vera e propria deroga riguarda il riparto orizzontale della competenza: la violazione di norme sulla competenza derogabili per accordo delle parti non è rilevabile d’ufficio dal giudice, e quindi il convenuto che solleva la questione della competenza per territorio di un giudice diverso da quello adito propone, nei casi in cui il foro non sia funzionale, un’eccezione in senso proprio e stretto, con la conseguenza, secondo la giurisprudenza, che gravi su di lui l’onere di provarne la fondatezza (v., per es., Cass., 14.10.2011, n. 21253, Cass., 21.8.2012, n. 14594, Cass., 22.7.2013, n. 17794). In tali occasioni è dunque corretto affermare che la competenza del giudice adito è presunta: grava sul convenuto l’onere di provare che il giudice adito non è competente, anche quando ciò comporti la non facile impresa di dimostrare un fatto negativo (per es. di non avere alcun domicilio nel territorio di riferimento del giudice adito).
Si ha invece un limite all’applicazione del principio generale, che non si traduce però in una presunzione di competenza del giudice adito, con riguardo al valore delle cause relative a somme di denaro in presenza di quantificazione attorea: in tal caso, ai sensi del già menzionato art. 14 c.p.c., l’attore non ha l’onere di provare il valore, e nemmeno il convenuto ha la possibilità di provare che il valore è diverso da quello dichiarato (si ha quindi una fissazione formale della fattispecie corrispondente alla presunzione assoluta di corrispondenza del valore a quello dichiarato), ma in astratto ciò può ben determinare la incompetenza del giudice adito, nel caso di scuola in cui l’attore dichiari un valore inferiore al limite minimo o superiore al limite massimo della sua competenza per valore. Con riguardo al valore delle cause relative a beni mobili opera invece, in mancanza di dichiarazione attorea del valore, la presunzione che esso non superi il limite massimo della competenza del giudice adito, ma il convenuto ha la facoltà di contestare il valore così presunto: deve quindi ritenersi che tale presunzione riguardi il valore solo in quanto dichiarabile dall’attore, e che in presenza di tempestiva contestazione del convenuto gravi di nuovo sull’attore, secondo la regola generale, l’onere di provare che il valore del bene non superi il limite massimo della competenza del giudice adito.
I criteri di riparto della competenza per materia, infine, sembrano corroborare l’idea che la competenza del giudice adito sia presunta perché quasi sempre dipendono da elementi rilevanti anche per il merito, e spesso si afferma che le dichiarazioni attoree relative a tali elementi non sono contestabili ai fini della pronuncia sulla competenza. Come si è osservato, appare preferibile respingere l’idea che tali elementi non possano essere contestati ai fini della competenza, ma se anche così fosse, non per questo se ne potrebbe dedurre una generale presunzione di competenza del giudice adito: anzitutto perché talvolta i criteri determinativi della competenza per materia non sono rilevanti anche per il merito e quindi possono comunque operare le regole generali; inoltre perché anche rispetto alla competenza per materia può darsi il caso in cui proprio dall’incontestabilità delle dichiarazioni attoree discenda l’incompetenza del giudice adito (per es. laddove si adisca un giudice di pace per una controversia che si affermi derivante da un rapporto di lavoro subordinato).
Nella giurisprudenza più recente si è in più occasioni ritenuto che le contestazioni del convenuto intorno ai fatti rilevanti anche per il merito possano in via generale rilevare ai fini della pronuncia sulla competenza, ma vadano decise solo in base a risultanze precostituite (così, per es., Cass., 17.4.2003, n. 6218, e da ult. Cass., 18.2.2014, n. 3845; nel senso che siano invece incontestabili purché non manifestamente infondate v. però ancora, con riferimento alla competenza per territorio, Cass., 16.11.2010, n. 23110, e con riferimento a quella per materia Cass., 30.10.2012, n. 18671, e cfr., a proposito delle eccezioni, supra, § 3.1).
Un terzo significato della regola per cui la competenza si determina dalla domanda è poi quello secondo cui essa si determina in base allo stato di fatto e alla legge vigente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilievo i loro successivi mutamenti. Il principio della perpetuatio iurisdictionis, così recepito nell’art. 5 c.p.c., in particolare a seguito delle modifiche introdotte dalla l. 26.11.1990, n. 353, risponde a una ratio di economia processuale e può pertanto soffrire deroghe e limiti di applicabilità.
Deroghe dirette possono infatti essere previste dal legislatore, posto che secondo la Consulta tale principio, diversamente dalla disciplina più direttamente distributiva della competenza del giudice, non deve considerarsi coperto dalla garanzia costituzionale della naturalità e precostituzione del giudice (v., per ampi riferimenti e rilievi critici, Oriani, R., La “perpetuatio iurisdictionis”, in Foro it., 1989, V, 35 ss.), purché sia salva la soddisfazione della pretesa sostanziale attorea (cfr. già C. cost., 10.4.1987, n. 123), o almeno la conservazione degli effetti della domanda (da ritenersi indefettibile: cfr. C. cost., 12.3.2007, n. 77, e da ult. C. cost., 19.7.2013, n. 223). Incidono inoltre naturalmente sui giudizi in corso quei mutamenti della legge in materia di competenza e giurisdizione che discendano proprio da declaratorie di illegittimità costituzionale, a causa della loro normale retroattività (v., per es., Cass., S.U., 13.2.2007, n. 3046).
Nei casi, poi, in cui le sopravvenienze di fatto o di diritto attribuiscano al giudice adito la competenza o la giurisdizione di cui questi fosse inizialmente privo, non si applica la lettera dell’art. 5 c.p.c., poiché risponde maggiormente alla ratio di economia processuale sottostante alla regola della perpetuatio iurisdictionis, diretta a favorire la risoluzione della causa nel merito, permettere che il giudice possa appunto decidere nel merito anche sulla base dello stato di fatto o della legge formatisi nello spazio temporale intercorrente fra la proposizione della domanda e la pronuncia della decisione (v. in proposito Comoglio, L.P., Il principio di economia processuale, I, Padova, 1980, 76 ss.; in giurisprudenza cfr., per es., Cass., 17.1.2008, n. 857, Cass., S.U., 12.3.2008, n. 6532).
Inoltre, non si applica la norma nei casi in cui la competenza o la giurisdizione dipendano dall’oggetto del giudizio e questo venga modificato in corso di causa da iniziative di parte che non siano state rese necessarie da sopravvenienze normative. In tale ipotesi, infatti, l’applicazione della regola della perpetuatio iurisdictionis sembra offrire troppo facilmente all’attore l’opportunità di scegliere il giudice al di là dei limiti stabiliti dalla legge, attraverso una prospettazione inizialmente artificiosa e correggibile una volta radicata la competenza del giudice prediletto: ai mutamenti dell’oggetto del giudizio deve quindi in linea di massima attribuirsi efficacia modificativa della competenza (v. già Chiovenda, G., Sulla “perpetuatio iurisdictionis”, in Foro it., 1923, I, 362 ss., e più di recente, si vis, Giussani, A., La “perpetuatio iurisdictionis”, in Le riforme della giustizia civile, II ed., a cura di M. Taruffo, Torino, 2000, 224 ss.).
La competenza può essere inoltre modificata dalla connessione, ossia dalla circostanza che l’oggetto o il titolo di una domanda giudiziale siano comuni a quelli di altra domanda, in alcune fattispecie anche se successivamente proposta ad altro giudice. In tali occasioni, infatti, si rende opportuno, o a volte necessario, il coordinamento delle decisioni di siffatte domande, in modo da evitare contrasti di giudicati, e questo coordinamento può realizzarsi concentrando i due (o più) giudizi in un unico procedimento presso lo stesso giudice, ovvero sospendendo uno dei due sino alla definizione dell’altro: posto che la prima soluzione risulta preferibile alla seconda (poiché questa comporta una cospicua dilatazione dei tempi per la risoluzione della controversia), il legislatore permette che il cumulo di più cause nello stesso processo possa quindi realizzarsi sia per effetto della scelta delle parti, che possono direttamente proporre la domanda soggetta allo spostamento della competenza presso il giudice competente per connessione, sia per effetto di un provvedimento del giudice adito in base alla competenza originaria, con cui le parti vengono rimesse all’altro.
Anche nei casi in cui la violazione della disciplina della competenza è rilevabile d’ufficio, la questione può essere utilmente sollevata solo entro la prima udienza di trattazione: decorso questo termine, la competenza del giudice adito non può più essere posta in dubbio, neppure da lui stesso. Ad opera del convenuto la questione può inoltre essere sollevata solo nella comparsa di risposta in sede di costituzione tempestiva (e soltanto la parte che abbia assolto tale onere può lamentare il mancato rilievo officioso della questione).
Si è osservato in dottrina che la formazione della preclusione attribuisce al giudice adito una competenza in senso dinamico, fondata sulla stessa pendenza del processo (v. Arieta, G., La sentenza sulla competenza, Padova, 1990, 6 ss.). Restano peraltro rilevabili anche successivamente i profili di litispendenza e continenza nonché quelli fondati su sopravvenienze rilevanti (cfr. supra, § 3.3).
Ulteriori limiti alla contestabilità della competenza del giudice adito vengono posti in via interpretativa. In primo luogo si afferma infatti costantemente in giurisprudenza che nei casi di concorrenza di fori la contestazione della violazione del riparto orizzontale è utilmente sollevata solo se si deduce l’inapplicabilità al giudice adito di ciascuno di essi (v., da ult., Cass., 5.3.2014, n. 5225; ove l’attore abbia specificato il criterio di collegamento utilizzato, è sufficiente contestare l’applicabilità del foro così indicato solo allorché questo sia stato dedotto come esclusivo e purché si affermi che proprio tale criterio radica la competenza di un diverso giudice, v. Cass., 14.2.2014, n. 3539), salvo che si invochi un diverso foro esclusivo (v. Cass., 29.12.2011, n. 29824). Tale regola vale anche nelle ipotesi in cui l’incompetenza sia rilevabile d’ufficio (v. Cass., 30.7.2004, n. 14718; è inoltre sempre richiesta, a pena di inefficacia dell’eccezione di incompetenza per territorio, l’indicazione del diverso giudice ritenuto competente, benché solo nei casi di derogabilità del foro essa sia a sua volta funzionale al cd. regolamento convenzionale della competenza di cui all’art. 38, co. 2, c.p.c., in forza del quale se le altre parti costituite aderiscono all’indicazione, si perfeziona in corso di causa una fattispecie equiparata al patto derogatorio stragiudiziale, v. in proposito già Acone, M., Accordo processuale di proroga della competenza e condanna alle spese, in Riv. dir. proc., 1961, II, 688 ss.).
In aggiunta, secondo un tradizionale orientamento limiti alla deducibilità della questione di competenza possono derivare dalla circostanza che la causa concerna una pluralità di parti: benché la Consulta abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 38 e 102 c.p.c., nella parte in cui consentiva di ritenere del tutto improduttiva di effetti l’eccezione non sollevata da tutti i litisconsorzi necessari (v. C. cost., 8.2.2006, n. 41), un soggetto che sia convenuto in una causa, per la quale il giudice sia competente in forza della connessione per l’oggetto o per il titolo con altra domanda nei confronti di altro soggetto, ha comunque l’onere di contestare l’applicabilità del forum rei anche rispetto a quest’ultimo, e in caso di connessione per garanzia anche gli altri fori (ovvero di contestare la sussistenza della connessione: cfr. da ult. Cass., 5.11.2012, n. 18967, Cass., 14.12.2010, n. 25269).
Superando il precedente orientamento in senso contrario, la giurisprudenza oggi ritiene che la pronuncia resa su questione di competenza preclusa sia comunque impugnabile come pronuncia sulla competenza (v. Cass., S.U., 19.10.2007, n. 21858, e da ult. Cass., 21.7.2014, n. 16593; in precedenza v., in senso opposto, Cass., S.U., 12.11.1999, n. 764).
La tempestività della sollevazione della questione di competenza non implica comunque che la causa debba essere immediatamente rimessa in decisione. Anzitutto, è espressamente prevista dall’art. 38 c.p.c. la raccolta di sommarie informazioni ai fini della risoluzione della questione (e devono ritenersi eccezionali quelle previsioni che impongono di decidere solo ‘allo stato degli atti’, il che vale a dire soltanto sulla base di risultanze precostituite di carattere documentale e senza possibilità di assumere ulteriori elementi di prova, come per es. l’art. 14 c.p.c.).
Inoltre è possibile che il giudice si riservi, anche implicitamente, di decidere la questione unitamente al merito della causa, dopo aver svolto quindi una completa istruzione probatoria. La rimessione immediata (salva ovviamente la raccolta di sommarie informazioni) si giustifica dunque solo quando l’eccezione appaia fondata (e quindi soprattutto quando la questione sia stata sollevata d’ufficio): opinare diversamente offrirebbe al convenuto animato da intenti dilatori il destro per proporre, una volta sollevata un’eccezione di incompetenza anche platealmente infondata, un immediato regolamento di competenza dinanzi alla Corte di cassazione e così lucrare il conseguente effetto sospensivo automatico della trattazione del merito della causa ai sensi dell’art. 48 c.p.c. (ferma restando comunque l’auspicabilità della soppressione da parte del legislatore dell’automatismo di tale effetto sospensivo, condivisa anche da chi afferma il diritto della parte all’immediatezza della pronuncia sulla competenza: v., per es., Cipriani, F., Autoritarismo e garantismo nella riforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 1994, 52).
A seguito della previsione, da parte della l. 18.6.2009, n. 69, che la pronuncia sulla sola competenza sia resa con ordinanza, la giurisprudenza si è orientata nel senso che laddove le parti non siano state espressamente invitate a precisare le conclusioni sul punto, un provvedimento decisorio irretrattabile sulla competenza, e in quanto tale impugnabile, si presenti solo in caso di statuizioni esplicitamente qualificate come tali (v. Cass., S.U., 29.9.2014, n. 20449, in sede di composizione dei contrasti; cfr., si vis, quanto osservato in Giussani, A., Le novità in materia di scelta del giudice, in Il processo civile riformato, a cura di M. Taruffo, Torino, 2010, 47).
Se non impugnata, d’altronde, la pronuncia sulla competenza può passare in giudicato formale (v., per es., Cass., 8.2.2010, n. 2775), ma ai sensi dell’art. 310 c.p.c tale efficacia si produce solo all’interno dello stesso procedimento in cui si è resa la pronuncia, e quindi non opera ove il processo si estingua senza essere definito nel merito e la domanda venga riproposta, a meno che la decisione sia stata resa dalla Corte di cassazione (nel qual caso si dice che l’efficacia di giudicato della decisione è panprocessuale: v. già Ferri, C., Sentenze a contenuto processuale e cosa giudicata, in Riv. dir. proc., 1966, 428). La pronuncia sulla competenza si considera quindi inidonea al cd. giudicato sostanziale ex art. 2909, c.c., e la giurisprudenza ne trae a volte l’implicazione che ove uno ius superveniens in materia di competenza risulti applicabile in corso di causa (in deroga quindi alla regola della perpetuatio iurisdictionis), allora questo prevalga anche sul giudicato interno affermativo della competenza (v., per es., Cass., 12.2.1987, n. 1529; più di recente aveva ritenuto che resistesse allo ius superveniens retroattivo anche la mera preclusione al rilievo della questione Cass., 18.12.2006, n. 27040, smentita poi però da Cass., 14.2.2008, n. 3533).
Particolarmente debole, poi, ai sensi dell’art. 44 c.p.c., è l’efficacia anche di giudicato interno delle pronunce declinatorie della competenza. Dovendo essere valida la sentenza con cui il giudice dichiara di essere incompetente quando lo è, si desume infatti che ciascun giudice è giudice della propria competenza, ma da questo basilare significato del cd. principio Kompetenz-Kompetenz si evince altresì che non sia del tutto vincolato neppure il giudice adito in riassunzione se la competenza non è stata regolata dal Supremo Collegio: persino laddove la decisione non venga impugnata e la causa sia riassunta tempestivamente – con la già vista conseguenza che il processo continui senza estinguersi – il giudice adito in riassunzione può ancora sotto alcuni profili dubitare della propria competenza e chiedere una nuova decisione sul punto alla Corte di cassazione attraverso il cd. regolamento di competenza d’ufficio previsto dall’art. 45 c.p.c. (avendo la giurisprudenza respinto la tesi dottrinale – dovuta in particolare a Oriani, R., Il nuovo testo dell’art. 38 c.p.c., in Foro it., 1991, V, 336 ss. – della sua abrogazione implicita per effetto della l. n. 353/1990: v. già Cass., 17.12.1996, n. 11266).
Inoltre, alla luce dell’art. 38, co. 4, c.p.c., il giudicato interno sulla competenza non può pregiudicare la decisione sul merito. Questo non vuol dire che le sommarie informazioni acquisite ai fini della pronuncia sulla competenza non possano utilizzarsi ai fini della decisione sul merito, né che, laddove la pronuncia sulla competenza sia stata riservata, non possa decidersi la questione sulla base delle risultanze della piena istruzione probatoria: i principi generali suggeriscono anzi che queste soluzioni siano entrambe ammissibili (v., si vis, Giussani, A., L’incompetenza, in Le riforme della giustizia civile, cit., 204); tuttavia la giurisprudenza più recente nega che possa decidersi sulla competenza in base all’istruzione piena (v. Cass., 22.7.2013, n. 17794). La regola comporta comunque senz’altro che anche ove la competenza del giudice adito sia stata riscontrata in base all’affermazione– o alla negazione – di elementi rilevanti anche per il merito, tali elementi possono essere poi negati – o, rispettivamente, affermati – ai fini della pronuncia sul merito della causa (v., per es., Cass., 12.2.2013, n. 3274).
Art. 25 Cost.; artt. 5-30 bis, 38, 819 ter c.p.c.
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