complementi
La parola complemento ha assunto nella storia della linguistica e della grammaticografia occidentale molti e diversi significati. Nella tradizione scolastica italiana, tuttavia, essa ha un ambito d’uso particolare e condiviso, ed è a questo che faremo riferimento.
Nell’approccio tradizionale, infatti, si distinguono come elementi fondamentali della frase il soggetto e il predicato (➔ analisi logica; ➔ frasi nucleari). I complementi sono invece considerati elementi facoltativi, definiti come «determinazioni di varia natura che si aggiungono al soggetto e al predicato verbale per completare il significato della frase» (Trifone & Palermo 2007: 187). Dunque i complementi danno informazioni aggiuntive sull’oggetto sul quale si esercita l’azione del predicato, o sul suo punto di arrivo o termine, o sul luogo o sul tempo nel quale l’evento si colloca, o sulla causa scatenante dell’evento, ecc. Nell’ottica scolastica la disamina dei diversi tipi di complementi, la loro discriminazione e conseguente riconoscimento da parte degli allievi, la terminologia connessa vengono considerati l’esercizio fondamentale nell’analisi della frase.
L’analisi logica analizza e descrive i complementi a partire dal loro significato, e la terminologia rende conto in genere del tipo di analisi semantica sottostante: si parla allora di complemento di causa, di compagnia, di mezzo, di tempo, di fine, di pena, ecc., con numerosi esempi di sottoarticolazioni (complemento di tempo determinato, di tempo continuato) non sempre facili da identificare e distinguere esattamente.
La lista dei complementi è molto lunga e spesso non del tutto coincidente tra le grammatiche che si cimentano nell’impresa: trattandosi infatti di tassonomie semantiche, rimane insuperabile la difficoltà di imbrigliare in un numero definito e limitato i diversi tipi di relazioni esistenti e possibili fra gli eventi e le entità del mondo.
Secondo Simone, alla base di questo tipo di esercizio sta una «analisi ontologica dell’azione, cioè una scomposizione idealizzata degli ‘stati di cose’, delle situazioni extra-linguistiche di cui l’enunciato parla». Tale scomposizione, oltre ad alcune «istanze fondate» contiene «diversi possibili pericoli» (Simone 1994: 348). Uno, forse il più grave, ha a che fare proprio con i complementi:
questo orientamento, nello sforzo di catalogare gli aspetti del ‘mondo’ che l’enunciato deve rispecchiare, si è spinto ad estremi ingenui e in parte ridicoli, anche se di enorme fortuna: così nella classificazione dei complementi, che ha avuta ed ha (specialmente nella pratica dei dilettanti) un’incredibile diffusione. Nello sforzo di distinguere i tipi di ‘cose’ che possono diventar parole nell’enunciato, si è distinto tra complementi di ‘agente’, di ‘causa efficiente’, di ‘materia’, di ‘qualità’, di ‘quantità’, di ‘oggetto interno’, di ‘strumento’, ‘di mezzo’, e così continuando, fino ad arrivare ad una lista minuziosissima, ma poco applicabile nella realtà e soprattutto priva di appropriate contropartite formali (ibid.: 349).
Quest’ultimo passaggio allude al fatto che nelle lingue le informazioni aggiuntive che chiamiamo complementi hanno marche formali più o meno dedicate che le rendono più o meno facilmente riconoscibili: ci sono lingue che esprimono tali relazioni con i casi (ad es. il latino), ci sono lingue che le esprimono attraverso le preposizioni o l’ordine delle parole (ad es. l’italiano e il francese), altre lingue ricorrono a vari mezzi contemporaneamente: ad es. in latino il caso ablativo, introdotto da preposizioni diverse, esprime vari tipi di relazioni, molto diverse fra loro. In tutti i casi, comunque, le lingue non possiedono mezzi formali univoci per esprimere i diversi complementi, e infatti in italiano ogni preposizione può introdurre svariati complementi. Ad es., Sabatini & Coletti (2007-2008) sotto la voce di elenca ed esemplifica, nell’ordine, i seguenti complementi che possono tutti essere retti dalla preposizione in questione: specificazione, denominazione, origine o provenienza, partitivo, paragone, materia, abbondanza o privazione, qualità, quantità, stima e prezzo, colpa e pena, limitazione, argomento, modo, causa, tempo determinato, mezzo, fine o scopo, moto da luogo. Si farebbe prima, forse, a elencare i complementi che non possono essere retti da di.
L’esercizio scolastico di catalogazione e riconoscimento dei complementi conta sul fatto che i concetti, una volta elaborati e identificati sulla lingua italiana e a partire dalle caratteristiche strutturali dell’italiano, possano poi facilmente essere ‘trasferiti’, con gli opportuni accorgimenti, anche nell’analisi e nello studio di altre lingue, soprattutto classiche. Ora, è di tutta evidenza come in un approccio di tipo grammaticale-traduttivo allo studio del latino (ancora largamente predominante) imparare a discriminare esattamente le diverse funzioni e le marche formali che le esprimono sia ritenuto indispensabile. Da qui l’abitudine di esercitare sull’italiano questo tipo di analisi, per poi trasferirla, a momento debito, al latino: ritrovare nel latino le stesse funzioni, imparare a riconoscere le marche formali che le esprimono, lavorare sulle affinità e sulle differenze tra le due lingue.
Nelle grandi grammatiche di riferimento dell’italiano che hanno visto la luce alla fine del XX secolo, solo Serianni dedica ai complementi una trattazione di tipo tradizionale, in un capitolo in cui si presentano i concetti fondamentali dell’analisi logica e dell’analisi grammaticale. I complementi sono suddivisi in complemento oggetto o diretto («è l’elemento della frase su cui ricade l’azione espressa dal predicato, con un legame sintattico diretto»: Serianni 20003: 66), complemento predicativo («consiste in un nome o aggettivo che, riferito al soggetto o al complemento oggetto, serve a determinare e completare il significato del verbo»; ibid.: 68) e infine complementi indiretti («sono complementi che, nella grande maggioranza dei casi, si costruiscono con una reggenza preposizionale»: ibid.: 70).
Di questi ultimi viene fornita una lista con una descrizione ed esemplificazione essenziali, non prima però di aver avvertito che «tra le partizioni tradizionali dell’analisi logica quella dei complementi in genere, ed in particolare dei complementi indiretti, è la categoria di cui gli studiosi avvertono oggi più nettamente l’insufficienza di fondamenti ed i limiti operativi». I più discussi sono i criteri semantici, spesso opinabili, mentre «l’individuazione di differenze semantiche sempre più sottili può portare all’eccessiva proliferazione di complementi ‘minori’». E tuttavia, aggiunge, «il quadro tradizionale dei complementi mantiene una sua validità» ed una «indubbia efficacia descrittiva» (ibid., 70-71).
La lista di Serianni comprende, nell’ordine: i complementi d’agente e di causa efficiente, di termine, il dativo etico, di specificazione, di tempo (continuato e determinato), di luogo (stato in luogo, moto a / da / per luogo), di mezzo, di causa, di modo o maniera, di compagnia e di unione, di argomento, di quantità, di vocazione (ibid., 71-73). Ciascun complemento viene descritto per le sue caratteristiche semantiche e formali, dunque si dà di ciascuno la preposizione – o più spesso le preposizioni – da cui viene introdotto più frequentemente.
Si pongono sulla stessa linea le grammatiche scolastiche, che dedicano sempre un capitolo a questo argomento, anche quelle pensate per un pubblico straniero: così ad esempio Patota (2006) e Trifone & Palermo (2007), in cui troviamo, grosso modo, la stessa partizione di Serianni.
Molto diversa dalla sistemazione di Serianni è quella di Prandi, che scrive in proposito:
nella tradizione grammaticale italiana, la distinzione tra nucleo e periferia della frase è oscurata dall’uso indiscriminato della categoria di complemento: si parla di complemento sia per l’oggetto diretto, che è un argomento del verbo, sia per il tempo e la causa, che sono espansioni del processo, sia per il complemento di specificazione, che è un’espansione del nome (Prandi 2006: 120).
E infatti nella sua grammatica Prandi suddivide diversamente la materia. Presenta prima i complementi del verbo (ibid.: 97-108), vale a dire tutti quegli elementi che fanno parte del sintagma verbale e che nel modello valenziale sono considerati ➔ argomenti e costituiscono, assieme al verbo, la frase minima o nucleare (➔ frasi nucleari): dunque il complemento oggetto e vari tipi di complementi preposizionali (tradizionalmente chiamati di termine, di luogo, di argomento). Esamina poi (ibid.: 122-129) le diverse possibilità che abbiamo per espandere il nucleo della frase: queste possibilità, che chiama margini (termine metaforico che indica tutto ciò che è fuori del nucleo, o espansioni), comprendono gran parte dei complementi della tradizione: tempo, luogo, causa, concessione, mezzo o strumento, unione, compagnia, esclusione, beneficiario, fine, privazione. Tuttavia discute per ognuno di essi se possano presentarsi nella doppia forma di argomenti del verbo e di espansioni (come i complementi di luogo), se vadano considerati espansioni dell’intero processo (e in tal caso li chiama circostanziali), o se infine vadano considerati espansioni del solo predicato (come il complemento di strumento). Infine, all’interno di un capitolo dal titolo “Le espansioni del nome” trova posto, accanto ad altri modificatori (attributi e apposizioni) anche il complemento tradizionalmente chiamato di specificazione (ibid., 132).
Questa sistemazione di Prandi pare di gran lunga preferibile a quella tradizionale, perché introduce una serie di suddivisioni importanti tra i complementi, distinguendoli sulla base della loro diversa funzione sintattica, e quindi operando un raccordo tra il modello tradizionale e quello valenziale (➔ argomenti). Le designazioni dei complementi rimangono quelle della tradizione, ma si mette ordine tra di loro e si introduce un principio gerarchico che rende conto della struttura della frase. Non avere distinto, invece, tra i diversi tipi di complementi, considerati tutti a pari titolo elementi facoltativi della frase, e dunque appiattiti e forzati in una considerazione solo semantica (con tutte le insidie del caso), ci appare ancora oggi il difetto principale dell’analisi tradizionale (ormai solo scolastica) della frase.
Come abbiamo già detto, il modello valenziale distingue, sulla base del tipo di evento rappresentato dal verbo, tra elementi obbligatori della frase – i quali costituiscono assieme al verbo la frase nucleare – ed elementi facoltativi. Questa distinzione è fondamentale, ed è stata di fatto accolta da grammatici e linguisti di diversissima impostazione.
Degli argomenti e degli aggiunti si distingue poi una posizione e funzione sintattica e un ruolo semantico. Per differenziare i diversi piani dell’analisi Salvi & Vanelli (2004) introducono una diversa terminologia, chiamando argomenti i ruoli sintattici (soggetto, oggetto diretto ecc.), attanti i ruoli semantici (agente, beneficiario, esperiente ecc.). Così in Maria mangia il gelato l’argomento soggetto (sul piano sintattico) svolge il ruolo semantico di agente, inteso come il promotore volontario di un’azione; l’argomento oggetto diretto (sul piano sintattico) svolge il ruolo semantico di paziente o tema o oggetto (sono le diverse terminologie usate da autori diversi), e tale ruolo è inteso come l’attante verso cui si esplica l’azione, e che partecipa in modo non attivo al processo. In quest’ottica lo schema dei ruoli previsti dall’evento viene definito schema attanziale o griglia tematica, ed i ruoli vengono definiti semantici o tematici.
I ruoli più frequentemente citati sono: agente, esperiente, beneficiario (o termine o scopo o dativo), tema (o paziente o oggetto), possessore, strumento, luogo (o locativo), negli spostamenti qualcuno distingue una meta e una origine. Salvi & Vanelli (2004: 29) dispongono i ruoli semantici secondo una scala di «salienza semantica che privilegia l’animatezza dell’ente che svolge il ruolo e il controllo che esercita sull’evento descritto». Tale scala – che vede nel gradino più alto l’agente, nel più basso il luogo – «determina in parte la realizzazione sintattica degli attanti».
L’analisi tradizionale della frase invece non distingue i due piani e usa indifferentemente categorie sintattiche e semantiche, senza operare le necessarie distinzioni. Ad es., mentre le categorie di soggetto e predicato sono di tipo sintattico, la lista dei complementi è una classificazione semantica di superficie, come a suo tempo rilevò Berretta (1977: 260-261), spiegando la differenza tra la classificazione tradizionale e la «teoria dei casi profondi» di Charles Fillmore, che è alla base del modello appena presentato.
Questo è un punto molto importante, che vale la pena di chiarire con le parole di Simone (1990: 365-366): dopo aver ricordato che «ogni verbo può essere accompagnato da un certo numero di posti», Simone aggiunge che «ognuno di questi posti dà espressione ad una particolare categoria di significato. Il significato connesso a ciascun tipo di posto si indica come ‘caso profondo’». Dopo di che, servendosi di due frasi strutturalmente identiche (quella chiave apre la porta; quel ragazzo apre la porta) e di alcune manipolazioni sintattiche, dimostra che tra le due frasi esiste una differenza semantica profonda che riguarda il soggetto e che non è rilevabile dalla struttura sintagmatica apparente. I due soggetti infatti, quel ragazzo e quella chiave, esprimono due diversi casi profondi, rispettivamente l’agente e lo strumento, che possono avere diversa manifestazione superficiale nelle lingue. Basta forse quest’unico esempio a mostrare la distanza tra l’analisi tradizionale (superficiale) e l’analisi dei ruoli semantici (profonda): l’una e l’altra hanno in comune solo brandelli di terminologia, e questo contribuisce a complicare le cose.
Tuttavia, a scuola (➔ educazione linguistica) non sembra auspicabile sostituire i complementi della tradizione con i ruoli semantici, e questo per almeno due ragioni, entrambe molto serie. La prima è di ordine psico-pedagogico, e riguarda la convinzione più generale che si debba guidare i giovani e i giovanissimi ad una considerazione «abbastanza superficiale» dei fatti linguistici, riservando considerazioni profonde, inevitabilmente più astratte, a livelli alti o altissimi di scolarità, o addirittura alla «ricerca avanzata». È quello che sostiene Renzi (1977: 45), ad es., che aggiunge: «Un buon sistema è che prima si debba essere concreti, e registrare tutte le differenze e varietà, e poi si possa provare a esser astratti riducendole». Ma questa risalita dal concreto all’astratto, che consentirebbe di ritrovare, al di là delle apparenti differenze, delle somiglianze ‘profonde’ tra le lingue, è probabilmente fuori dalle possibilità cognitive dei bambini e dei ragazzi, e dunque fuori dagli interessi della scuola di base.
La seconda ragione ha a che fare con lo stato della ricerca. Come scrive Graffi (1994: 141), «un preciso inventario dei ruoli tematici, cioè una specificazione di quanti siano e di come esattamente vadano definiti, non è stato ancora elaborato». La conseguenza è che, nonostante linguisti di diversa impostazione facciano ricorso a questo tipo di analisi per spiegare una serie di fenomeni, permangono tra loro differenze importanti sia nella individuazione e delimitazione dei diversi ruoli semantici, sia nella loro designazione. Già Berretta (1977: 261), ragionando proprio sulla utilizzabilità didattica di questo modello, aveva scritto (a proposito del soggetto): «una definizione semantica del soggetto richiederebbe 1) una lista chiusa dei ‘casi’ profondi, definiti in base al significato; 2) delle regole che indicassero, per ciascuna lingua e per ciascuna classe dei verbi – o forse ciascun verbo singolo – quale ‘caso’ profondo deve essere portato a soggetto». Ma non esisteva allora, e non esiste neppure oggi, uno studio di questo tipo. Dunque sostituire la lista dei complementi tradizionali con i ruoli semantici profondi non è consigliabile.
La soluzione potrebbe allora essere quella di rinunciare alla lunga casistica della tradizione e introdurre, se e quando necessario, delle riflessioni semantiche ‘leggere’ sulla funzione dei diversi elementi della frase: in questo modo si arriverà al massimo a dire che un certo soggetto è agente o esperiente o strumento, che una certa espansione è un luogo, uno strumento o un fine e così via. Ma «senza rigidità, senza lunghe e inutili tassonomie precostituite, e soprattutto senza farne il momento centrale e portante dell’analisi della frase» (Lo Duca 2006: 6).
Come abbiamo già scritto, i complementi tradizionali non hanno ‛contropartite formali’ sicure: anzi spesso le marche formali (per l’italiano le preposizioni) sono addirittura fuorvianti. Basti per tutti un solo esempio, discusso da Sabatini (2004): che complemento è dalla mia finestra nella frase dalla mia finestra vedo il mare? In una prima classe superiore le risposte dell’alunno («complemento di stato in luogo») e dell’insegnante («complemento di moto da luogo») erano diverse ma entrambe giustificabili, sia pure in base a una diversa ‘logica’. È un caso in cui la marca formale, la proposizione da tipica del complemento di moto da luogo, entra in conflitto con la semantica di stato in luogo espressa dall’intera frase. Nonostante la lunga serie dei complementi a disposizione, non riusciremo a trovarne neppure uno che possa descrivere in modo convincente questa particolare relazione concettuale.
Berretta (1978) riferiva di alcune grammatiche scolastiche degli anni Settanta del XX secolo che, con disinvolta riverniciatura terminologica, operavano «il recupero, sotto l’etichetta martinetiana di ‘espansione’, della tassonomia tradizionale dei ‘complementi’» (Berretta 1978: 164): come se bastasse chiamare espansione temporale il complemento di tempo, o espansione di luogo, di modo, di mezzo, ecc. i complementi della tradizione per essere al passo con la ricerca grammaticale. Questa terminologia, evidentemente considerata più moderna, attecchì nella pratica scolastica ed è tuttora in uso. Ciò è emerso da una ricerca sui quaderni di italiano dei bambini delle elementari, in molti dei quali si continua a proporre il modello tradizionale della frase ma con l’adozione di una diversa terminologia: vi si parla infatti di frase minima, costituita da soggetto e predicato (che si fa consistere nel solo elemento verbale), considerati gli elementi obbligatori e costitutivi della frase, e di espansioni, in cui si fanno rientrare tutti gli altri elementi della frase, considerati tutti sullo stesso piano e tutti facoltativi (Fiona 2009-2010).
Berretta, Monica (1978), Linguistica ed educazione linguistica. Guida all’insegnamento dell’italiano, Torino, Einaudi.
Fiona, Laura (2009-2010), La grammatica nei programmi scolastici e nell’insegnamento: tra dibattito dei dotti e quaderni dei bambini (tesi di laurea), Università di Padova.
Graffi, Giorgio (1994), Sintassi, Bologna, il Mulino.
Lo Duca, Maria G. (2006), Si può salvare l’analisi logica?, «La Crusca per voi» 33, pp. 4-7.
Patota, Giuseppe (2006), Grammatica di riferimento dell’italiano contemporaneo, Novara, Garzanti Linguistica.
Renzi, Lorenzo (1977), Una grammatica ragionevole per l’insegnamento, in Scienze del linguaggio ed educazione linguistica, a cura di G. Berruto, Torino, Stampatori, pp. 14-56 (rist. in Id., Le piccole strutture. Linguistica, poetica, letteratura, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 207-234).
Sabatini, Francesco (2004), “Che complemento è?”, «La Crusca per voi» 28, pp. 8-9.
Salvi, Giampaolo & Vanelli, Laura (2004), Nuova grammatica italiana, Bologna, il Mulino.
Serianni, Luca (1997), Italiano. Grammatica, sintassi, dubbi, con la collaborazione di A. Castelvecchi; glossario di G. Patota, Milano, Garzanti.
Simone, Raffaele (1990), Fondamenti di linguistica, Roma - Bari, Laterza.
Trifone, Pietro & Palermo, Massimo (20072), Grammatica italiana di base, Bologna, Zanichelli (1a ed. 2000).