comunismo
Dottrina che propugna un sistema sociale nel quale sia i mezzi di produzione sia i mezzi di consumo siano sottratti alla proprietà privata e trasformati in proprietà comune, e la gestione e distribuzione di essi venga esercitata collettivamente dall’intera società nell’interesse e con la piena partecipazione di tutti i suoi membri. Sebbene il termine appartenga al lessico politico moderno, l’idea del c. – ossia, l’idea di una società in cui venga abolita la proprietà privata e vengano instaurate forme (più o meno estese) di proprietà collettiva – è assai antica e ha assunto, nel corso dell’evoluzione storica, configurazioni molto diverse tra loro. A partire dal 19° sec., in connessione con il fenomeno dell’industrializzazione capitalistica, il c. si è inestricabilmente legato alle vicende del movimento operaio, stabilendo un rapporto di implicazione, distinzione e/o contrasto con il socialismo (➔).
La prima formulazione organica dell’ideale politico comunistico è rintracciabile nella Repubblica platonica (➔). Nel delineare il suo modello di città ideale, Platone – convinto che l’egoismo sia la radice di tutti i mali e che la proprietà privata rappresenti la sua massima espressione – prevede la soppressione della proprietà e della famiglia, affinché nessun interesse di tipo particolare possa entrare in conflitto con l’interesse pubblico. Tale ordinamento, tuttavia, vale soltanto per le classi dirigenti (governanti e guerrieri)e non per la classe dei produttori (contadini eartigiani). La ragione di questa differenza sta nell’avversione di Platone per l’egualitarismo: è vero, scrive il filosofo greco, che «l’eguaglianza generala concordia», ma soltanto se essa tiene conto del-le differenze di virtù, di talento e di educazione che rendono gli uomini diversi gli uni dagli altri. Lo Stato giusto sarà quindi quello in cui ciascuno svolgerà la funzione conforme alle sue attitudini: agli individui nei quali prevale l’anima razionale spetterà il governo, a quelli in cui prevale l’anima irascibile la difesa e a quelli in cui prevale l’anima concupiscibile la produzione dei beni. E poiché quest’ultima classe è fortemente soggetta alle passioni, la sua incapacità di sottrarsi al ‘particolarismo’ giustifica la concessione di forme sia pure parziali di proprietà. Del resto, nella visione aristocratica di Platone contano soltanto le classi dirigenti, sulle quali si appunta la sua ‘pedagogia politica’: il suo è pertanto un c. gerarchico. E poiché egli considera la ricchezza fonte di corruzione per l’anima individuale e per il corpo sociale, il suo Stato ideale è caratterizzato da uno stile di vita sobrio e frugale. Un altro es. di c. gerarchico-spirituale, nell’antichità, è rappresentato inoltre dalla setta ebraica degli esseni (2° sec. a.C. - 1° sec. d.C.), la cui organizzazione sociale, sotto la guida dei sacerdoti, prevedeva la comunione dei beni.
È nel cristianesimo che fioriscono i primi ideali comunistici rivolti a tutti gli uomini. Molteplici sono i passi dei Vangeli nei quali la ricchezza viene considerata un male e la povertà un sicuro viatico per il regno di Dio (Matteo, 6, 19-21; Luca, 6, 20-26; Marco, 10, 21-25); la stessa prima comunità cristiana, quella costituitasi attorno agli apostoli, viene descritta come una comunità nella quale i credenti «avevano tutto in comune; le loro proprietà e i loro beni li vendevano e ne facevano parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (Atti, 2, 44-45). Questi modelli di vita comunitaria non erano certamente espressione di un ideale politico; essi avevano un profondo significato religioso, ispirato all’amore fraterno e al distacco dai beni terreni. E tuttavia costituivano la testimonianza di un diverso ordine sociale, che avrebbe esercitato un profondo influsso su singole personalità e gruppi del mondo cristiano, spingendoli a tradurre il comandamento dell’amore non nella pratica della carità (che comporta una rinuncia parziale alla proprietà in favore dei più poveri), ma nell’adozione di forme di vita comunitaria dove non c’è posto per la proprietà privata. La posizione più radicale è quella di Ambrogio (4° sec.), secondo il quale «la natura ha messo tutto in comune per l’uso di tutti: essa ha creato il diritto comune; l’usurpazione ha creato il diritto privato». Nel basso Medioevo ideali comunistici vengono fatti propri dai valdesi, che rifiutano la proprietà privata, e dai catari, che proclamano la necessità di mettere ogni cosa in comune e di vivere del proprio lavoro. Gioacchino da Fiore (➔) predica ideali di povertà e castità, di fratellanza e di comunione universali, che influenzeranno sia i francescani intransigenti (i quali non ammettevano alcuna forma di possesso), sia il movimento comunistico di fra’ Dolcino (1304-07). La connessione tra spiritualità cristiana e rivendicazioni sociali a sfondo comunistico emerge anche agli esordi dell’età moderna: dapprima nel movimento rivoluzionario dei taboriti, che nella prima metà del 15° sec. danno vita, in Boemia, a una società teocratico-comunistica, e quindi nel movimento degli anabattisti, che – sotto la guida di Th. Müntzer – sostengono in Germania la guerra dei contadini (1524-25), predicando un ritorno alla comunione e all’eguaglianza propri del cristianesimo delle origini.
Non è forse un caso che il primo progetto moderno di società comunista veda la luce in Inghilterra, dove la modernizzazione capitalistica muove i suoi primi passi; ed è certamente significativo che il suo autore, Tommaso Moro (➔), inventi – per titolare la sua opera, Utopia (1516) – un neologismo che indica l’inesistenza e, al tempo stesso, la desiderabilità di un diverso tipo di società. Moro (che era Lord Cancelliere d’Inghilterra) traccia anzitutto un quadro drammatico delle condizioni socio-economiche del suo paese, attribuendolo alle enclosures con le quali i proprietari terrieri avevano trasformato i terreni destinati alla coltivazione comune in più redditizi pascoli per le pecore. Molti contadini, perso il lavoro e a volte anche la casa, erano finiti a lavorare, in condizioni terribili, nelle nuove manifatture tessili, oppure erano caduti nel vagabondaggio o nella delinquenza. Tali fenomeni nascevano, secondo Moro, da un difetto di fondo dell’assetto sociale: «Sembra a me che dovunque vige la proprietà privata, dove il denaro è la misura di tutte le cose, sia ben difficile che mai si riesca a porre in atto un regime politico fondato sulla giustizia e sulla prosperità». Per raggiungere tale scopo vi è un’unica strada: applicare il principio dell’eguaglianza nel modo più rigoroso. Ed è quanto avviene nell’immaginaria isola di Utopia, dove non esiste proprietà privata; tutti i beni immobili appartengono allo Stato e tutti i cittadini lavorano (come agricoltori o artigiani), il che permette di ridurre a sei ore la giornata lavorativa. Ogni famiglia deposita ciò che ha prodotto nel fondo comune e da esso preleva ciò di cui ha bisogno, senza che questo conduca a un aumento dei consumi, giacché tutti sanno che non saranno mai privi del necessario. Lo stile di vita degli utopiensi è sobrio: niente lussi, niente beni superflui, vestiti uguali per tutti. Un altro es. di utopia comunista è quello contenuta nella Città del Sole (post., 1643) di Campanella (➔). Anche il frate calabrese ritiene che la produzione debba essere finalizzata ai bisogni della comunità: tale organizzazione razionale del lavoro permetterà di avere abbondanza di beni e al contempo di ridurre la giornata lavorativa a sole quattro ore. Campanella prevede anche l’abolizione della famiglia e la regolamentazione delle unioni sessuali da parte dello Stato, che sarà retto da un’élite di sapienti.
Se con Campanella il c. è ancora una visione intellettuale ispirata a un imperativo etico-religioso – una visione per molti aspetti sovrapponibile a quella di Platone – con la prima Rivoluzione inglese le idee comuniste ‘entrano’ nella storia, grazie al movimento dei diggers («zappatori», così detti per aver preso a zappare terreni pubblici in nome del lavoro libero e della proprietà comune). Costoro rappresentano l’ala sinistra del movimento dei levellers e, a differenza di questi, ritengono che qualsiasi riforma ispirata all’ideale politico della democrazia sia illusoria se non si interviene sulle ingiustizie del sistema economico. A dividere levellers e diggers è la questione della proprietà: i primi la considerano un diritto da garantire, i secondi un male da eliminare. Il teorico dei diggers, G. Winstansley, afferma che esiste un diritto comune ai mezzi di sussistenza: la proprietà privata (e, in particolare, la proprietà fondiaria) deve quindi essere eliminata. La terra, data da Dio a tutti gli uomini, deve essere coltivata in comune, in modo che ognuno possa attingere ai suoi prodotti secondo le sue necessità. Gli ideali comunisti emergono anche durante la Rivoluzione francese, trovando espressione nel pensiero di Babeuf, la cui importanza sta nel fatto che esso non rimase un’espressione dottrinale, ma ispirò la Congiura degli eguali (1796), entrando con forza nella storia e nell’immaginario della politica contemporanea. Il pensiero di Babeuf riprende le idee delle tendenze politicamente più radicali dell’Illuminismo francese, che si caratterizzano non solo per la critica alla proprietà privata (Rousseau, Morelly, Mably), ma anche per il collegamento tra c. e materialismo (Meslier, Morelly), che portava con sé la critica allareligione. Si pone in tal modo fine al connubio,presente ancora nei diggers, tra c. e cristianesimo delle origini. Nel Manifeste des plébéiens (1795) Babeuf scrive che la diseguaglianza, frutto della proprietà privata, non può essere eliminata con la legge agraria (cioè con la divisione della proprietà fondiaria in parti eguali) perché un’eguaglianza di questo tipo durerebbe soltanto un giorno. Non resta dunque che «sopprimere la proprietà privata; destinare ogni uomo al talento, alla professione che conosce; obbligarlo a depositare il frutto in natura nel magazzino comune; e creare una semplice amministrazione delle sussistenze che, registrando tutti gli individui e tutte le cose, farà spartire queste ultime nella più scrupolosa eguaglianza». Al di là di questi obiettivi (non particolarmente originali) vi sono nel pensiero di Babeuf alcuni elementi fortemente innovativi: l’idea della democrazia diretta e soprattutto la convinzione che il popolo, per portare a termine la rivoluzione, debba essere guidato da una ‘minoranza illuminata’, ossia da «alcuni cittadini saggi e coraggiosi, che [...] hanno già sondato a lungo le cause dei mali pubblici, si sono liberati dai pregiudizi e dai vizi comuni delle loro età, e hanno superato la mentalità dei contemporanei». Questa minoranza dovrà poi instaurare una «dittatura dell’insurrezione», cioè non dovrà esitare ad adottare misure politiche estreme per garantire il successo della propria opera. L’originalità del babuvismo – che ne fa la prima forma di c. contemporaneo – consiste dunque nell’aver elaborato una teoria della transizione rivoluzionaria, i cui elementi torneranno in Marx e in Lenin.
Le prime scuole che si richiamano al socialismo e al c. – quelle di Saint-Simon, Fourier e Owen – si distinguono dal programma babuvista perché concepiscono il passaggio a un nuovo ordine sociale non per via rivoluzionaria, ma attraverso l’esempio di comunità-modello fondate sulla cooperazione e sull’unione fraterna. Fourier (➔) teorizza lo sviluppo di comunità autosufficienti (falansteri), nelle quali, superata la divisione del lavoro, gli individui eseguono liberamente ogni lavoro in comune. Anche Owen (➔) progetta dei «villaggi cooperativi», ossia delle comunità in cui ai principi della proprietà individuale e della competizione si sostituiscono quelli della proprietà comune e della cooperazione: tali villaggi sono fondamentalmente agricoli, anche se Owen non esclude determinate attività industriali e prevede una produzione che possa servire anche per gli scambi tra le varie comuni. A differenza di Fourier e Owen (i cui esperimenti di piccole comunità falliranno nel giro di qualche anno), Cabet progetta – nel suo romanzo utopistico Viaggio in Icaria (1842) – una riorganizzazione sociale su base nazionale. Egli esclude qualsiasi forma di proprietà, anche personale: il suo è quindi un rigoroso c. (ed è a lui, infatti, che sideve l’ingresso del termine nel lessico politico). In Icaria i mezzi di produzione appartengono alla collettività, la quale elegge dei funzionari incaricati di elaborare piani di produzione annuale. Ogni cittadino dà alla collettività una quantità eguale di lavoro e ritira da un magazzino pubblico ciò di cui abbisogna. Anche per Cabet, tuttavia, la nuova società andrà realizzata attraverso la convinzione e l’esempio. Rispetto a questi autori la scuola sansimoniana rappresenta un passo in avanti, perché coniuga gli ideali socialisti e comunisti con l’organizzazione industriale del mondo moderno. Saint-Simon non aveva parlato di antagonismo tra operai e imprenditori, ma i suoi seguaci, soprattutto S.-A. Bazard e G. Leroux, riprendono le sue formulazioni all’interno di uno schema fondato sul contrasto tra proprietà privata e funzionamento ottimale del sistema industriale. Mentre la grande industria è in grado di produrre una quantità enorme di ricchezza, l’organizzazione sociale fondata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione fa sì che tale ricchezza sia appannaggio di una minoranza. Di qui la condanna dello «sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo» (formulazione che sarà ripresa da Marx ed Engels) e la proposta di trasferire allo Stato, trasformato in associazione dei lavoratori, la proprietà di terre e capitali.
Anche la concezione comunistica di Marx ed Engels è strettamente connessa all’organizzazione industriale del mondo moderno: anzi, essa si presenta come l’analisi scientifica della società capitalistico-borghe-se, di cui ritiene di aver individuato le leggi di sviluppo. In questo quadro il c. rifiuta ogni carattere utopistico e intende presentarsi come l’esito inevitabile del capitalismo, il frutto che matura nel suo grembo. Di qui l’assenza di qualsiasi componen-te ‘moralistica’ nell’analisi di Marx, come emerge chiaramente dal profilo della borghesia tracciato nel 1848 nel Manifesto del partito comunista (la scelta del termine comunista fu determinata dal giudizio negativo che Marx ed Engels davano sul variegato movimento socialista dell’epoca, ritenuto privo di nerbo teorico, di carica rivoluzionaria e sostanzialmente ‘borghese’). Nel Manifesto la borghesia viene presentata come una classe che non può esistere senza rivoluzionare incessantemente gli strumenti e i rapporti di produzione e quindi l’insieme dei rapporti sociali. Essa, scrivono Marx ed Engels, ha modificato la faccia della Terra in una misura che non ha precedenti: ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; ha portato a termine ben altre imprese che le migrazioni dei popoli e le crociate. La borghesia ha realizzato per la prima volta l’unificazione del genere umano: rivoluzionando le comunicazioni e cercando sempre nuovi sbocchi per i suoi prodotti ha creato un mercato mondiale, trascinando nella civiltà anche le nazioni più barbare. All’isolamento locale e nazionale ha sostituito un traffico universale e un’universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra, ponendo le basi per un reale cosmopolitismo. Senonché la borghesia, che ha sviluppato mezzi di produzione e di scambio così formidabili, assomiglia ormai allo stregone che non riesce più a dominare le forze evocate. Alle moderne forze produttive i rapporti sociali di tipo capitalistico stanno ormai stretti, come dimostrano le periodiche crisi di sovraproduzione, un fenomeno sconosciuto alle società precapitalistiche. La borghesia supera queste crisi distruggendo grandi quantità di forze produttive, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati esistenti. Ma in questo processo essa distrugge progressivamente i ceti medi e li proletarizza. Ciò condurrà alla divisione della società in due soli grandi campi: da un lato la classe dei capitalisti, sempre più ristretta e sempre più ricca; dall’altro quella dei proletari, sempre più estesa e sempre più povera. Al culmine di questa immane contraddizione sociale, il capitalismo crollerà, perché il movimento proletario, a differenza dei movimenti rivoluzionari del passato, sarà il movimento «dell’enorme maggioranza nell’interesse dell’enorme maggioranza». Alla rivoluzione proletaria seguirà un periodo di «dittatura del proletariato», necessario per distruggere l’apparato statale della borghesia e per affrontare le residue sacche di resistenza. È questa la fase che Marx definirà ‘socialista’, ossia quella in cui – eliminato il presupposto dello sfruttamento economico con la socializzazione dei mezzi di produzione – «a ciascuno verrà dato secondo il suo lavoro». A essa seguirà, con il completo sviluppo delle forze produttive e lo sgorgare copioso della ricchezza materiale, la fase ‘comunista’, che permetterà di dare «a ciascuno secondo i suoi bisogni»: in essa lo Stato si estinguerà e si giungerà alla sola «amministrazione delle cose». La concezione comunistica di Marx deve molto a quelli che egli chiama i socialisti e i comunisti «critico-utopistici» (come del resto egli ammette nel Manifesto del Partito comunista). L’abolizione del contrasto fra città e campagna (tema mutuato da Fourier e da Owen), l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo (espressione sansimoniana), la soppressione dello Stato politico, trasformato in una semplice amministrazione delle cose (tema ricavato anch’esso da Saint-Simon), il principio distributivo della prima fase del c. – «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro» (ripreso di nuovo, con lieve modifica, dai sansimoniani): queste sono tutte proposizioni che caratterizzano pienamente la dottrina comunistica marxiana. E tuttavia Marx si differenzia anche dal c. critico-utopistico, al quale rivolge un’aspra critica: tale c. riflette sì gli interessi del proletariato, ma allorché quest’ultimo si trova in uno stadio di sviluppo insufficiente. Ecco perché, secondo Marx, i comunisti critico-utopistici si limitano a contrapporre alla società attuale una società ideale, senza preoccuparsi minimamente del fatto che questa sia in qualche misura contenuta nella prima. Perciò i comunisti critico-utopistici respingono ogni azione politica, soprattutto se rivoluzionaria, del proletariato, vogliono raggiungere i loro scopi con mezzi pacifici, e puntano soltanto sulla forza dell’esempio. Inoltre, secondo Marx, un’altra caratteristica negativa del c. critico-utopistico è che esso propugna un «ascetismo universale e una rozza tendenza a tutto eguagliare». In tal modo esso vuole trasformare la proprietà privata in proprietà di tutti, e vuole fare di tutti gli uomini dei salariati con eguale salario. Si tratta dunque, per Marx, di un c. «distributivo», che, mentre concepisce la società come un capitalista universale, applica alla ripartizione della ricchezza fra i singoli quel diritto «uguale» o diritto «borghese», che è di fatto un diritto disuguale, dal momento che astrae completamente dalle differenze individuali. Marx propugna invece un c. che abolisca davvero il capitale e ogni formadi lavoro salariato, e che al tempo stesso non sialivellatore, cioè non astragga dalle differenze dei singoli, e che inoltre riconosca i meriti e i talentiindividuali. Del «diritto borghese» o diritto «eguale» Marx dà una critica aspra e serrata. A suo avviso libertà ed eguaglianza sono, nel mondo moderno, astratte ed illusorie, perché in realtà esse costituiscono le condizioni elementari indispensabili per il funzionamento della società capitalistica fondata sullo «sfruttamento»: uno sfruttamento non più coercitivo e diretto come nelle società precapitalistiche, bensì indiretto, in quanto si realizza attraverso il mercato. In questa società, infatti, lo scambio è costituito in primo luogo dalla «libera» compravendita di forza-lavoro, che nell’ambito della circolazione è scambio di equivalenti (il capitalista compra la forza-lavoro al suo valore, e l’operaio è libero di venderla o di non venderla); ma nell’ambito della produzione, dove il lavoro viene utilizzato e consumato, è scambio di non-equivalenti (qui il lavoro produce un «plusvalore», che viene intascato dal capitalista), cioè «sfruttamento». Libertà ed eguaglianza si rovesciano così in disuguaglianza e illibertà; il diritto formalmente uguale mostra di essere un diritto sostanzialmente disuguale. Lo Stato moderno deve tutelare e garantire questo meccanismo generatore di disuguaglianza, e quindi la sua ‘neutralità e la sua ‘universalità’ sono illusorie. Di qui anche tutte le funzioni coercitive dello Stato moderno, che, secondo Marx, è apparentemente mediatore fra le classi in lotta fra loro, fra oppressi e oppressori: ‘mediazione’ che si riduce però a garantire con tutti i mezzi il predominio delle classi dominanti. Di qui l’idea marxiana che il proletariato, una volta conquistato il potere politico, non possa impossessarsi semplicemente della macchina statuale borghese, ma debba spezzarla. Questa idea viene svolta ed elaborata da Marx soprattutto nel suo saggio del 1870 sulla Comune di Parigi. Egli definisce infatti la Comune come «la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro». I punti essenziali del modello comunardo erano secondo Marx i seguenti. La Comune soppresse l’esercito permanente e lo sostituì col popolo armato, cioè con una guardia nazionale composta prevalentemente di operai. Anche la polizia fu trasformata in strumento della Comune, revocabile in qualunque momento. Lo stesso fu fatto per i funzionari di tutte le branche dell’amministrazione, retribuiti con salari da operai. Per i magistrati e i giudici fu stabilito il principio elettivo, essi furono resi responsabili di fronte al popolo, e revocabili in qualunque momento come tutti i funzionari pubblici. La Comune era composta dai consiglieri municipali eletti, con suffragio universale, nei diversi mandamenti di Parigi, e revocabili in qualunque momento. Ma la Comune non era solo un organismo parlamentare, bensì legislativo ed esecutivo al tempo stesso. Il modello della Comune parigina avrebbe dovuto essere esteso in primo luogo a tutti i grandi centri industriali della Francia, e poi a tutte le città e a tutti i paesi, fino al più piccolo borgo. In questo modo il vecchio governo centralizzato avrebbe ceduto il posto anche nelle province all’autogoverno dei produttori. Questa idea marxiana, imperniata sulla distruzione dello Stato borghese e sull’avvento dell’autogoverno dei produttori (idea che sarà ripresa e sviluppata da Lenin (➔) in Stato e rivoluzione), mirava a trasformare la società in una comunità coesa e organica, senza capitale e senza lavoro salariato, senza scambio e senza denaro, senza politica, senza burocrazia e senza Stato. Un’idea che avrebbe mostrato assai presto il suo carattere utopistico (simile, in ciò, ai sogni dei comunisti critico-utopistici), e che sarebbe stata corretta o abbandonata da molti degli stessi seguaci di Marx (➔ marxismo).