Comunismo
di Adam B. Ulam
Comunismo
sommario: 1. Introduzione. 2. Il marxismo e il suo rapporto con il comunismo. 3. La rinascita del comunismo. Lo stadio prenatale (1902-1917). 4. La Rivoluzione bolscevica e la fondazione della Terza Internazionale. 5. Il comunismo all'opera. Lo stadio iniziale. 6. La fase stalinista. 7. Il comunismo nell'era post-staliniana. Il policentrismo. 8. Il comunismo cinese. 9. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Nel vocabolario politico moderno il termine ‛comunismo' è tra quelli che generano la maggior confusione. Esso si presta ad assumere ed ha infatti assunto significati diversi. Già prima della Rivoluzione bolscevica del 1917 si registravano i seguenti.
1. Il termine comunismo valeva come descrizione tecnica di una società, reale o immaginaria che fosse, in cui esistesse una condizione di eguaglianza economica completa (o perlomeno completa nella misura dell'umanamente possibile).
2. Lo stesso termine fu adoperato per descrivere un tipo di organizzazione sociale in cui, del tutto indipendentemente da ogni questione di eguaglianza, il potere economico fosse esercitato dalla comunità nel suo insieme e non dagli individui singoli. A questa stregua John Stuart Mill definisce il socialismo come il sistema in cui soltanto i mezzi di produzione sono proprietà statale, mentre nel comunismo anche l'organizzazione della distribuzione è posseduta e gestita globalmente dalla società.
3. Nella Critica del programma di Gotha Marx fornisce una definizione più precisa: il comunismo è una fase dello sviluppo sociale che fa seguito al socialismo. La teoria del comunismo si fonda sull'ipotesi che nella fase socialista l'intrinseca contraddizione tra sistema sociale e forze produttive, caratteristica del capitalismo, venga abolita e di conseguenza l'industria e l'agricoltura, liberate dai vincoli soffocanti della proprietà privata, siano in grado di produrre un'abbondanza di beni per la società tutta intera. In Marx, quindi, condizione preliminare necessaria del comunismo è non soltanto il passaggio del sistema sociale e politico dal capitalismo al socialismo, ma anche il superamento della scarsità di beni.
La breve descrizione della fase comunista dello sviluppo sociale chiarisce inoltre che si tratta, più che di una condizione pienamente sviluppata e compiuta della società che nasce una volta completato il ciclo socialista, di una fase dinamica. Con l'abbondanza, e dopo l'abolizione dello sfruttamento, cominciano a trasformarsi non solo le istituzioni economiche, ma anche quelle politiche. Per il marxismo, come in genere per la maggior parte delle altre espressioni della filosofia socialista, è assiomatico che lo Stato, e con esso tutte le altre istituzioni coercitive, è necessario soltanto a causa delle imperfezioni del sistema sociale in atto, vale a dire di fattori come la proprietà privata dei mezzi di produzione e di distribuzione, la conseguente scarsità di beni e la lotta di classe (c'è qui un parallelismo con la concezione cristiana per la quale lo Stato e le altre istituzioni coercitive hanno la loro fonte nel peccato e nell'impossibilità, propria dell'uomo, di raggiungere la perfezione). Con la scomparsa di tali imperfezioni sociali viene meno anche la necessità dello Stato. Secondo la formula classica, lo Stato ‛si estingue', giacché, una volta che le suddette imperfezioni siano scomparse, di esso non c'è più bisogno. Ma si ritiene che, anche nella società comunista, si tratti di un processo graduale: l'ipotesi (mai chiarita espressamente da Marx ed Engels) è infatti che la completa scomparsa dello Stato sia condizionata non soltanto dalla liberazione universale dal bisogno e dall'assenza di qualsiasi distinzione classista, ma anche da certe modificazioni della psicologia umana.
Queste modificazioni sono illustrate da Marx in modo alquanto epigrammatico. Il motto della nuova società comunista è: ‟Da ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni". Da mera necessità (vale a dire da attività imposta all'individuo dalla natura della società capitalista e anche socialista) il lavoro si trasforma in un bisogno basilare, in qualcosa che si può in qualche modo assimilare all'amore. Ciò che nel comunismo vien meno è quindi, oltre allo Stato, la dimensione competitiva del comportamento umano, quella che si avvantaggia della diseguaglianza e la riproduce. Correlativamente, trova il suo pieno vantaggio il lato collaborativo, altruistico, del comportamento umano (diciamo ‛comportamento', anziché ‛natura', perché nel marxismo è assiomatico che nella sfera dell'attività sociale non esista nulla di ‛naturale' o di ‛innaturale', dato che ogni cosa dipende dalle caratteristiche delle istituzioni sociali e in definitiva dal carattere e dallo stadio di sviluppo delle forze produttive).
Osservazioni occasionali di Marx e contributi offerti da altri suoi discepoli ci consentono di individuare alcune ulteriori caratteristiche del comunismo in quanto fase conclusiva dello sviluppo sociale. Già nel Manifesto Marx prevedeva la scomparsa della distinzione tra città e campagna e immaginava che la società futura avrebbe incorporato i tratti migliori di entrambe, eliminando al contempo i loro elementi negativi. Il comunismo avrebbe visto inoltre l'attenuarsi - se non l'effettivo scomparire - della distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. L'alienazione, che è un prodotto della divisione del lavoro e dello sfruttamento, sarebbe stata naturalmente assente dall'orizzonte comunista. Ciò è del resto implicito nell'idea del lavoro non più come necessità ma come bisogno basilare per il membro della nuova società: ognuno farà il proprio lavoro così come l'artista pratica la propria arte.
4. Oltre al comunismo visto come la fase conclusiva e suprema dell'evoluzione sociale, il marxismo postula anche il comunismo ‛primitivo' come sua fase iniziale. È questo un modello di società che all'epoca di Marx aveva i suoi esempi più probanti presso gli aborigeni australiani. Sulle orme di alcuni antropologi, Marx ed Engels vedevano, in quelle comunità di cacciatori e cercatori di cibo, il residuo di un'organizzazione sociale che era stata in origine comune all'intera umanità. In comunità siffatte la divisione del lavoro non ha ancora messo radici e di conseguenza neppure la proprietà privata e la differenziazione in classi. Nell'infanzia dell'umanità si ritrova quindi quella medesima situazione di sostanziale eguaglianza e di assenza di istituzioni politico-coercitive destinata a essere il prodotto della fase più alta dello sviluppo umano.
5. Per completare la rassegna degli usi più rilevanti del termine ‛comunismo' prima della Rivoluzione russa, osserviamo infine ch'esso fu la denominazione adottata da svariati movimenti sociali e politici (o a essi attribuita), che si ponevano come obiettivo - immediato o finale - la costituzione di una società completamente egualitaria. Il termine fu così impiegato per caratterizzare certe comunità del cristianesimo primitivo in Palestina, per le rivendicazioni sociali e politiche di movimenti religiosi sul tipo degli anabattisti del Cinquecento, ecc. Durante la Rivoluzione puritana la piccola setta dei Diggers tentò di realizzare quello che potrebbe esser definito come una sorta di comunismo agrario.
In breve, il termine comunismo è stato impiegato per definire programmi e movimenti accomunati dal fatto di esprimere in una forma radicale la fondamentale aspirazione umana all'eguaglianza e alla semplicità nei rapporti sociali. Quasi sempre si è trattato, almeno sino alla fine del Settecento, di fenomeni confinati a quella che potremmo dire la periferia della vita politica, cioè a piccoli organismi e a piccole sette; e, analogamente, più dell'opera di pensatori isolati che di correnti intellettuali. Questi pensatori possono in massima parte venir classificati come appartenenti a quella letteratura utopistica che ha nell'Utopia di Tommaso Moro il suo punto di partenza e il suo prototipo. Sino al grande spartiacque della Rivoluzione francese, tra il comunismo e l'ethos rivoluzionario non ci fu alcuna diretta connessione. Il comunismo era stato invocato come un imperativo morale o religioso. I suoi fautori o esperimentatori avevano creduto in esso come nella forma più elevata e più pura di esistenza sociale, ma non lo avevano ritenuto concretamente praticabile dalla massa dell'umanità. O comunque, anche se la pensavano diversamente, non avevano tentato di imporlo con la forza, ma soltanto con l'esempio o con la predicazione. Diversamente da Marx (per il quale, come abbiamo visto, il comunismo - fase conclusiva dell'evoluzione sociale - è reso possibile da una società capace di produrre abbondanza per tutti), il comunismo premoderno è, nella sua corrente principale, fondato sulla rinuncia. Nell'Utopia di Moro come nella Repubblica di Platone, il comunismo è sostenuto in base all'argomento che la cura del guadagno materiale e le conseguenti diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza avviliscono la natura umana, o perlomeno esercitano su di essa un'influenza negativa, e sminuiscono la vocazione dell'uomo come essere spirituale e morale.
La Rivoluzione francese, pur senza segnare la fine di questo particolare tipo di movimenti e programmi comunisti, che possiamo considerare come una varietà interna alla più ampia specie del comunismo utopistico, genera una tendenza nuova, attivista e per ciò stesso rivoluzionaria. In realtà la Rivoluzione segna la nascita di quella che potremmo definire la politica come programma.
Le norme in materia di azione sociale, che prima del 1789 erano considerate campo esclusivo di filosofi che scrivevano per un ristretto uditorio, o codici di comportamento interno ad uso di piccole sette, divennero, alla luce della Rivoluzione francese, programmi politici suscettibili di essere adottati da intere nazioni, o di venire a queste imposti. Durante l'ultima fase della Rivoluzione l'egualitarismo sociale e politico divenne una forza potente. Ma fu dopo la conclusione della fase radicale del processo rivoluzionario che si ebbe l'esplosione più violenta di questo sentimento egualitario. Nel 1796 il Direttorio annunciò che una cospirazione della clandestina Società degli Eguali, guidata da Francois-Noèl Babeuf, era stata scoperta e soffocata. Il motto della Società - ‟la natura ha dato ad ogni uomo egual diritto al godimento di tutti i beni" - fa sì che essa sia giustamente considerata come il primo movimento comunista moderno che abbia cercato di perseguire il proprio scopo non mediante la parola o l'esempio, ma mediante la conquista del potere politico. Possiamo quindi considerare il ‛babuvismo' in qualche misura un prototipo del comunismo rivoluzionario, una delle numerose forme di radicalismo lasciateci in eredità dalla Rivoluzione francese.
2.Il marxismo e il suo rapporto con il comunismo
Il marxismo è una corrente del socialismo. Il rapporto che intercorre tra i termini ‛marxismo', ‛socialismo', ‛comunismo' ha creato perplessità non soltanto tra gli studiosi del pensiero politico, ma nell'opinione pubblica in generale. Per molti il comunismo è giunto a significare la forma più radicale di socialismo; ma tale definizione, è come vedremo, non tanto imprecisa quanto inadeguata (v. anche marxismo e socialismo).
Il marxismo è una branca del socialismo - la più importante in questo secolo. A sua volta il socialismo è, nei suoi termini più generali, una filosofia-movimento che mira ad abolire o a limitare in modo rigoroso il diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione. Il comunismo è ben lungi dall'esaurire il contenuto del marxismo e non ne costituisce nemmeno la parte più importante. Esso è, come abbiamo visto, la fase finale nello schema marxiano dello sviluppo sociale. Diversamente dai seguaci di altre dottrine, Marx e i marxisti credono che un passaggio immediato al comunismo non sia nè desiderabile nè possibile. E ciò è non meno vero oggi che nel 1848, quando apparve il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels.
Il titolo, che trae in inganno, fu dovuto, come Engels avrebbe spiegato quarant'anni dopo, a particolari circostanze storiche. Nel 1848 il termine ‛socialismo' era usato largamente e, a giudizio di Engels, a sproposito. Esso era infatti riferito a una molteplicità di filosofie e di movimenti. Come Engels scrisse: ‟Quando fu pubblicato, non l'avremmo potuto chiamare Manifesto socialista. Nel 1847 per socialisti s'intendevano da una parte i seguaci dei vari sistemi utopistici, specialmente gli owenisti in Inghilterra e i fourieristi in Francia, che già allora s'erano ridotti al livello di semplici sette che si estinguevano a poco a poco; dall'altra parte i numerosi ciarlatani che volevano porre rimedio, con le loro varie panacee, alle differenze sociali, senza recare alcun danno nè al capitale nè al profitto: in entrambi i casi uomini che stavano fuori del movimento operaio e cercavano anzi appoggio fra le classi ‛colte'. Invece, quella parte della classe operaia che, convinta della insufficienza di una rivoluzione puramente politica, esigeva una trasformazione a fondo della società [...] si dava allora il nome di comunista [...]. Nel 1847 socialismo significava un movimento di borghesi, comunismo un movimento di operai" (Marx-Engels, Manifesto del Partito comunista, tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Torino 19706, p. 315). La spiegazione engelsiana non è del tutto esatta. Non si può dire che nel 1847-1848 il comunismo fosse davvero un ‛movimento di operai'. La stessa Lega dei Comunisti, cui Marx ed Engels appartenevano, poteva meglio qualificarsi come una setta con alcuni operai tra i suoi membri. E naturalmente né Marx né Engels potevano, e per formazione e per professione, dirsi proletari.
Ma la spiegazione è convincente nella misura in cui mette in evidenza il desiderio dei due pensatori tedeschi e della ristretta cerchia dei loro compagni della Lega dei Comunisti di differenziarsi da ciò che comunemente s'intendeva con il termine ‛socialista'. Nel 1847-1848 ‛comunista' era peraltro lungi dall'essere un termine perfettamente univoco e neppure era una qualifica che potesse essere monopolizzata dai seguaci di Marx ed Engels. Nel suo uso più corrente, esso si riferiva piuttosto all'insegnamento e ai discepoli di E. Cabet, il cui Voyage en Icarie presenta uno schema di socialismo-comunismo che, in quanto a connotati utopistici, non ha nulla da invidiare ad alcune delle dottrine che Engels richiama per giustificare la scelta sua e di Marx di evitare il termine ‛socialista'.
Ma Marx ed Engels intendevano sottolineare con la parola ‛comunista' sostanzialmente due cose. Innanzitutto, che la loro era una filosofia attivista, militante. Il socialismo portava con sé l'idea di una dottrina di carattere essenzialmente filosofico. R. Owen e Ch. Fourier avevano sperato di raggiungere i loro scopi mediante la propaganda e l'esempio. Owen fondò comunità modello sul tipo di New Harmony (1825), il cui esempio sperava sarebbe stato imitato da altri. Quanto ai seguaci di Fourier, essi pure si sforzarono, non tanto in Francia quanto negli Stati Uniti, di costituire dei ‛falansteri' secondo le regole poste dal maestro; il loro esempio avrebbe dovuto ammaestrare il mondo. L'idea dell'attivismo, per non parlare della rivoluzione, era estranea a questi pensatori.
Oltre a concepire i loro scopi come suscettibili di essere raggiunti mediante la lotta politica, Marx ed Engels avevano di questa lotta una nozione molto precisa: ‟L'emancipazione della classe operaia dev'essere opera della classe operaia stessa". Questo è dunque il contrassegno distintivo del comunismo nel suo originario significato quarantottesco. Secondo questa concezione, tutta la storia è fatta di lotte di classe, sin da quando l'uomo si è allontanato dalla sua condizione primitiva, vale a dire dal comunismo primitivo. E l'atto finale di questo processo vede il proletario, l'operaio industriale, levarsi contro il capitalista, cioè il possessore dei mezzi di produzione.
L'originario significato di ‛comunismo' ci aiuta dunque a spiegare perché Lenin tentasse nel 1914 di mutare in comunista la denominazione del suo partito, riuscendovi infine nel 1918. Come già Marx ed Engels nel 1848, egli mirava a differenziare la sua filosofia e il suo movimento dalle altre correnti del socialismo. E come Marx ed Engels giudicava - ma aveva ragione solo in parte le altre dottrine e gli altri partiti intrinsecamente riformisti, anziché rivoluzionari: tali cioè che si sforzavano di modificare l'ordine di cose esistente per mezzo di esortazioni e di altri strumenti non ispirati a combattività, invece di riconoscere la necessità e l'inevitabilità della lotta di classe. Per Lenin e per i suoi seguaci ciò significava, nel contesto dell'Europa del 1918, riconoscere che il passaggio dal capitalismo al socialismo doveva avvenire mediante una rivoluzione, piuttosto che attraverso il sistema parlamentare.
Ma torniamo alla formulazione originaria del marxismo. Nel giro di pochi anni dalla comparsa del Manifesto, il termine ‛comunista' cade di nuovo in disuso nel campo marxista. La ragione di ciò è principalmente storica. Il Manifesto del partito comunista enuncia in termini ancora estremamente generali ed epigrammatici il sistema che Marx ed Engels elaboreranno nel corso dei decenni successivi. Il suo stile, e almeno in parte il suo stesso contenuto, sono influenzati dall'agitata atmosfera rivoluzionaria del 1848. Nelle sue stesse parole di apertura si esprime un modo di sentire che dopo il 1850 sarebbe divenuto del tutto anacronistico: ‟Uno spettro si aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo". Questa immediatezza del sentimento rivoluzionario, questa anticipazione di una rivoluzione, e anzi di un'intera serie di rivoluzioni, scompare nel volgere di pochi anni per cedere il passo all'Europa decisamente controrivoluzionaria della seconda metà del XIX secolo. Nel suo linguaggio, se non nelle sue tesi, il Manifesto sembra preannunciare un drastico mutamento rivoluzionario nell'immediato futuro. Ma dopo il 1850, nel quadro della nuova realtà sociale e politica, all'interno del marxismo la dottrina prende il sopravvento sulla fraseologia rivoluzionaria. Il marxismo diviene più teoretico, assume l'aspetto di una dottrina economica e sociologica e correlativamente il suo lato cospirativo-rivoluzionario diviene per il momento secondario. Negli scritti di Marx ed Engels è implicito, anche se non viene mai chiaramente espresso, il riconoscimento del fatto che il capitalismo, diversamente da come avevano pensato nel 1848, non ha ancora raggiunto il suo pieno sviluppo e non è quindi ancor pronto a scomparire dalla scena della storia.
Tra il 1850 e il 1900 il marxismo cessa dunque di essere una cospirazione rivoluzionaria che raccoglie non più di un pugno di individui, per divenire un fenomeno dal duplice aspetto. Il primo è quello di un'organica dottrina socio-economica, il cui canone è dato dall'opera di Marx e di Engels, soprattutto dal Capitale (il cui libro I viene pubblicato nel 1867). Questa dottrina comprende una filosofia della storia, un'analisi dei meccanismi dell'economia capitalistica e, nella misura in cui postula certe teorie intorno al comportamento delle classi sociali, anche una psicologia sociale. Il suo principio basilare è il primato dell'elemento economico: i mutamenti sociali e politici, così come i sistemi religiosi e morali, poggiano sulla struttura economica della società; nella storia il fattore causale è l'evoluzione delle forze produttive.
In secondo luogo, il marxismo diviene un movimento socialista internazionale. La minuscola Lega dei Comunisti non era che un'associazione di esuli tedeschi. Ma negli anni sessanta il marxismo è ormai incontestabilmente il più influente tra i movimenti socialisti europei. Esso costituisce la forza principale all'interno della Prima Internazionale che, fondata nel 1864, ha praticamente termine nel 1872, e della Seconda, che, fondata nel 1889, è enormemente più potente della precedente. La Prima Internazionale dovette il suo crollo al conflitto tra marxisti e anarchici, vale a dire tra i seguaci di Marx e i seguaci di Bakunin.
La Seconda Internazionale dissipò risolutamente l'aura cospirativa che aveva avvolto la Prima. Essa era una confederazione di partiti socialisti di vario colore, ma la corrente marxista fu sin dall'inizio dominante. Il suo pilastro era il Partito Socialdemocratico Tedesco, fondato nel 1875. Le mutate condizioni dell'Europa nell'ultimo quarto dell'Ottocento misero in grado la maggioranza dei partiti e dei gruppi socialisti di operare nella legalità e apertamente, pur con qualche grossa eccezione, come la messa al bando del Partito Socialista Tedesco ad opera di Bismarck, revocata dopo l'allontanamento di questi dal cancellierato nel 1890. È però vero che in alcuni paesi europei il socialismo come movimento rimase al bando e fu quindi costretto ad operare illegalmente e secondo uno stile cospirativo. In particolare, fu questo il caso della Russia, dove a partire dalla metà degli anni ottanta esistono vari gruppi socialisti, di tendenza prevalentemente marxista. Nel 1898 essi si unificano nel Partito Operaio Socialdemocratico Russo, progenitore del movimento e della filosofia comunisti moderni.
La parola ‛comunista' non è che un ricordo dell'iniziale passato cospirativo del movimento marxista. Ma pur liquidando la dimensione cospirativa, il marxismo conserva la propria spinta attivista e militante. Esso rifiuta risolutamente la propaganda riformistica propria di altre correnti socialiste. Fino alla fine dei suoi giorni (muore nel 1883), Marx continua a esser convinto della fondatezza dello schema teorico secondo il quale lo Stato e il sistema economico capitalistici debbono essere abbattuti piuttosto che riformati e il potere politico va conquistato, con ogni verosimiglianza, mediante una rivoluzione violenta piuttosto che per via elettorale o attraverso altri mezzi legali.
E tuttavia non c'è dubbio che nella previsione e nel connesso postulato di una rivoluzione violenta, come anche nel rifiuto dello Stato capitalistico con tutto il suo apparato parlamentare e giudiziario, si insinuasse una certa ambiguità. Il consolidarsi e il diffondersi delle istituzioni rappresentative, l'estendersi del suffragio - tutte cose che nell'Europa del 1848 sarebbero apparse inverosimili - aprono nuove possibilità alla lotta politica combattuta attraverso la scheda elettorale e la propaganda legale; e dopo qualche esitazione la maggioranza dei partiti socialisti che sono in grado di farlo cominciano a servirsene. Lo stesso Marx nella sua Critica del programma di Gotha (1875) autorizza i partiti socialisti a valersi delle possibilità offerte dai progressi compiuti sulla via della democrazia e ad abbandonare l'atteggiamento del tutto negativo e di opposizione nei confronti delle istituzioni dello Stato capitalistico. E di fatto alcuni partiti, tra cui la socialdemocrazia tedesca, adottano, pur senza delineare chiaramente una piattaforma riformistica, una tattica riformistica. L'imperativo rivoluzionario associato dal marxismo alla fase comunista dell'evoluzione sociale perde la sua immediatezza. Finché non giunga il momento adatto - vale a dire una crisi economica esplosiva - si ammette tacitamente che i partiti marxisti possono e debbono combattere la lotta politica attraverso mezzi legali. Nello stesso tempo è universalmente accettata l'idea che per i socialisti sia cosa desiderabile ricercare, attraverso l'opera delle organizzazioni sindacali, il miglioramento della condizione operaia sotto il capitalismo: altro obiettivo che il marxismo nella sua fase iniziale avrebbe respinto come indesiderabile e, soprattutto, come impossibile, giacché esso riteneva che nessuna legislazione e nessuna contrattazione con i capitalisti potessero migliorare le condizioni della classe operaia nel suo insieme.
La tendenza non-rivoluzionaria all'interno del marxismo raggiunge il suo culmine negli anni ottanta. Persino Marx sembra prendere in considerazione - anche se, è vero, soltanto in alcune occasionali formulazioni verbali, mai in un'opera sistematica - la possibilità di un passaggio di tipo pacifico, non rivoluzionario, dal capitalismo al socialismo. Ad esempio, una volta afferma che in paesi come la Gran Bretagna, l'Olanda e gli Stati Uniti i socialisti possono conquistare il potere con mezzi parlamentari e pervenire quindi al socialismo per via pacifica. Avviene così che, mentre i principi del marxismo restano immutati, la sua atmosfera generale diviene col tempo del tutto diversa da ciò che era inizialmente. A questo riguardo la qualificazione di ‛socialdemocratico', adottata dalla maggioranza dei partiti socialisti, è particolarmente eloquente. Certo, nel primo marxismo il concetto di democrazia veniva liquidato come irrilevante per il socialismo. Ma nella Critica del programma di Gotha Marx reintroduce questo concetto, seppure, per così dire, dalla porta di servizio. Il periodo socialista - vale a dire quello che segue il capitalismo e precede il comunismo - è definito come quello in cui si avrà la dittatura del proletariato. Ma, aggiunge Marx, il proletariato costituirebbe allora la maggioranza schiacciante della popolazione. Manca quindi ogni indicazione nel senso che la dittatura del proletariato debba essere equivalente alla dittatura di un solo partito. Nei suoi scritti sulla Comune parigina - l'unico esempio di governo socialista rivoluzionario che egli avesse visto attuato nella sua vita - Marx, approvando il governo costituito dai comunardi che era una coalizione di parecchi gruppi socialisti, esprimeva implicitamente la sua approvazione per un governo pluripartitico durante la fase socialista.
Come si vede, il lascito di Marx era, a dir poco, ambiguo. Certo, una parte di esso - e probabilmente quella dominante - era l'idea della trasformazione comunista della società per via rivoluzionaria. Il passaggio dal capitalismo al socialismo doveva cioè avere un carattere rivoluzionario. Quali che siano i progressi compiuti sulla via della democratizzazione dello stato capitalistico, un cambiamento radicale può avvenire soltanto attraverso una rivoluzione, attraverso un atto di volontà, cioè attraverso la conquista del potere ad opera dei socialisti militanti.
Ma l'altra tendenza esistente in seno al marxismo fa leva su quello che potremmo chiamare il tema della scientificità del socialismo. Una rivoluzione non può essere improvvisata in condizioni storico-sociali non favorevoli. Il socialismo non può essere introdotto nè con la violenza nè in alcun altro modo in una società che non sia pronta per esso. E soltanto una società altamente industrializzata, in cui il capitalismo abbia assolto la sua missione e le sue istituzioni siano divenute degli intralci per le forze produttive, è pronta per una trasformazione in senso socialista.
Infine, nell'ultimo Marx, e più ancora in Engels dopo la morte dell'amico, c'è quanto meno un accenno alla possibilità di un passaggio pacifico, di carattere parlamentare, al socialismo. Se il suffragio è sufficientemente ampio, in una società altamente industrializzata gli elettori saranno in maggioranza lavoratori dell'industria. E quindi quanto meno immaginabile ch'essi voteranno per il partito che ne rappresenterà gli interessi: il socialista. A sua volta questo partito dovrebbe essere in grado di effettuare il passaggio al socialismo mediante provvedimenti legislativi come la nazionalizzazione dell'industria e della terra, l'istituzione di un sistema fiscale severamente progressivo e simili. Insomma, sul finire dell'Ottocento il comunismo, in quanto sinonimo della tendenza cospirativa militante in seno al marxismo, sembrava decisamente morto.
3. La rinascita del comunismo. Lo stadio prenatale (1902-1917)
L'addomesticamento del socialismo - giacché di questo si trattava - si conformava alla tendenza generale dell'evoluzione sociale e politica nella seconda metà dell'Ottocento. Il progresso materiale, la democratizzazione della vita politica in Occidente e, soprattutto, l'assenza di guerre importanti e prolungate finirono inevitabilmente con l'attenuare il mordente della maggior parte dei movimenti rivoluzionari, marxismo compreso. Il ruolo di nemico attivo dell'ordine costituito borghese-parlamentare passò a una varietà di gruppi e movimenti, che possiamo raccogliere sotto la generale etichetta dell'anarchismo. Anche se non tutte le correnti anarchiche predicavano la violenza rivoluzionaria, tutte però concordavano sulla necessità di abolire lo Stato e di sostituire alle istituzioni coercitive forme volontarie di cooperazione politica ed economica. Diversamente dalla Prima, la Seconda Internazionale escluse i partiti il cui orientamento risultasse apertamente anarchico. Eppure, malgrado tutti questi sviluppi, la fine dell'Ottocento e l'inizio del nostro secolo segnarono la nascita del dibattito che avrebbe gettato le fondamenta intellettuali del comunismo moderno. Retrospettivamente, appare ovvio che la rinascita in seno al marxismo della tradizione cospirativa militante dovesse aver luogo in un paese le cui condizioni sociali e politiche fossero diverse da quelle esistenti in Occidente. Il marxismo russo degli anni novanta ereditò buona parte delle tradizioni del populismo rivoluzionario delle origini. Malgrado la loro ideologia non avesse nulla di marxista, gruppi come la Narodnaja volja (1879) rassomigliavano, dal punto di vista dell'organizzazione, alla tedesca Lega dei Comunisti del 1848. La Narodnaja volja era un'organizzazione cospirativa clandestina che si proponeva di provocare un mutamento rivoluzionario attraverso mezzi extralegali, non parlamentari, anche se il suo obiettivo dichiarato era di costringere il governo zarista a convocare un'assemblea costituente che desse una costituzione alla Russia. In occasione della sua costituzione formale nel 1898, il Partito Socialdemocratico Russo ripudiò la tattica terroristica dei suoi predecessori populisti. E tuttavia una parte notevole della psicologia dei primi movimenti rivoluzionari filtrò inevitabilmente in buona parte del socialismo russo, fino a incorporarsi in una delle sue diramazioni, il bolscevismo precursore del Partito Comunista.
L'ultimo decennio dell'Ottocento vide un dibattito all'interno del socialismo internazionale che avrebbe avuto un'importanza capitale sui suoi sviluppi futuri. Infatti, anche se le sue conseguenze non si sarebbero pienamente concretizzate che dopo un ventennio circa, questo dibattito pose le basi della spaccatura del movimento marxista nelle due correnti socialista e comunista, divisione che coincide con quella tra la Seconda e la Terza Internazionale. Nel periodo tra le due guerre mondiali le due Internazionali lottarono tra loro per conquistarsi l'appoggio degli operai in tutto il mondo e per rivendicare il diritto di rappresentare l'autentica tradizione marxista.
Il dibattito ebbe origine dal tentativo compiuto da alcuni marxisti tedeschi, il più noto dei quali era E. Bernstein, di esplicitare ciò che essi ritenevano fosse implicito nella storia recente dei partiti socialisti dell'Europa occidentale. Il socialismo, pensava Bernstein, doveva senza esitazioni riconoscersi come un movimento democratico non-rivoluzionano, che perseguiva riforme politiche ed economiche e la trasformazione del capitalismo per via pacifica e parlamentare. Nella sua opera più importante - Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (1899) - Bernstein chiedeva non il ripudio del marxismo, ma la modificazione di parecchi dei suoi principî. Egli pensava che l'analisi marxiana del capitalismo, secondo la quale quest'ultimo conduce la società a una crisi sempre più profonda, fosse stata smentita dalla storia. La verità era invece che il capitalismo aveva portato a un più alto tenore di vita l'intera popolazione, compresa la classe operaia. Il socialismo era tuttavia da preferirsi sia sul piano morale sia su quello pratico. Ma avendo abbandonato l'idea di una catastrofe economica come preludio necessario al rovesciamento del capitalismo, i marxisti dovevano altresì abbandonare l'imperativo rivoluzionario proprio della dottrina iniziale. Essi dovevano adottare i sistemi politici della democrazia parlamentare, non con riserva e come espediente temporaneo, secondo l'esortazione di Marx nella Critica del programma di Gotha, ma con piena, completa accettazione. Lungi dal respingerle, dovevano ricercare le alleanze politiche con gli altri partiti di orientamento progressista e radicale al fine di allargare l'ambito delle libertà e delle riforme democratiche. Nella prospettiva di Bernstein, il socialismo doveva quindi diventare l'avamposto radicale del movimento democratico. L'affermazione bernsteiniana secondo la quale il movimento era tutto e l'obiettivo finale del marxismo tradizionale nulla, compendiava efficacemente la concezione di coloro che volevano trasformare il marxismo in un partito socialdemocratico di fatto oltre che di nome.
Il socialismo evoluzionistico - sotto questo nome divenne nota questa corrente di idee - fu respinto ufficialmente dalla socialdemocrazia tedesca. I portavoce della sua maggioranza - tra i quali figurava K. Kautsky, considerato allora l'erede teorico di Marx ed Engels - giudicarono intollerabile una siffatta manomissione della dottrina. Ma, pur mantenendo fermo il suo programma rivoluzionario, di fatto il partito socialdemocratico tedesco continuò sino al 1914 a seguire la via non-rivoluzionaria.
Gli echi della disputa si fecero sentire oltre i confini tedeschi. I marxisti russi furono tra gli oppositori più vigorosi delle idee di Bernstein. L'elemento decisivo della loro opposizione era dato indubbiamente dal fatto che la scena politica della Russia del tempo era assai diversa da quella tedesca. In Germania i socialdemocratici, pur essendo di tanto in tanto oggetto di qualche angheria ad opera del governo imperiale, potevano agire come un partito legale. A ogni nuova elezione la loro forza al Reichstag cresceva ed era possibile prevedere che i socialisti avrebbero a un certo momento ottenuto la maggioranza dei seggi nel parlamento imperiale. La Germania - come del resto la Gran Bretagna e la Francia - era retta da un sistema costituzionale. Nei principali paesi occidentali il potere giudiziario proteggeva l'individuo dall'arresto arbitrario e proteggeva altresì la libertà di parola e di stampa. Ne conseguiva che il diritto di diffondere le idee socialiste era garantito dalla legge.
L'impero russo era invece l'unica autocrazia che rimanesse in Europa. Le condizioni politiche ivi esistenti costringevano alla clandestinità non soltanto i socialisti, ma qualsiasi movimento di orientamento radicale, o anche solo liberale. All'assenza delle istituzioni parlamentari e alla mancanza di garanzie giudiziarie contro l'arresto arbitrario si accompagnavano altri fattori di oppressione. Le nazionalità non russe erano private non solo dei diritti politici, ma, in taluni casi, anche di quelli culturali (nel caso degli Ucraini e dei Polacchi, del diritto di usare la loro lingua nelle pubbliche istituzioni). Alla considerevole minoranza ebraica erano imposte restrizioni speciali, tra cui figurava il divieto di insediarsi in certe parti del paese.
Si può dunque facilmente comprendere come mai tra i socialisti russi la componente rivoluzionaria del marxismo, lungi dall'essere assente o latente, come nell'Europa occidentale, fosse invece l'elemento dominante.
C'erano, tuttavia, anche tra i socialisti russi, sia in patria che all'estero, voci che riecheggiavano alcuni temi dei revisionisti - così erano denominati i seguaci di Bernstein. Alcuni autori sostenevano che in Russia, paese ancora prevalentemente agricolo, la situazione era lungi dall'esser matura per un passaggio al socialismo; e di fatto costoro non accettavano l'idea di una campagna politica per il raggiungimento del socialismo. Nella situazione russa i marxisti dovevano soprattutto, a loro giudizio, consacrare i propri sforzi al miglioramento delle condizioni materiali della classe lavoratrice. Questi autori - ed è divertente che essi stessi provenissero dalle file della borghesia - proclamavano che l'intelligencija non doveva pretendere per sé la funzione di guida degli operai: nello stadio presente dello sviluppo storico della Russia ciò che il marxismo richiedeva era l'attività sindacale organizzata, vale a dire qualcosa che mettesse la direzione del movimento nelle mani degli operai stessi.
È per combattere gli argomenti di questi ‛economisti' - come furono chiamati nei circoli socialdemocratici russi - che Vladimir Il′ič Ul′janov, che sarebbe divenuto famoso con il nome di Lenin, scrisse il Che fare? (1902). Il padre del comunismo aveva allora trentadue anni. Membro, una decina d'anni prima, di un circolo marxista di Pietroburgo, Lenin aveva al tempo stesso legami, sia intellettuali che personali, con le tradizioni del populismo russo. Il fratello maggiore Aleksandr era stato processato e giustiziato nel 1887 per aver partecipato a un complotto contro la vita dello zar Alessandro III: un tentativo, compiuto da un pugno di studenti cospiratori, di far rinascere l'attività terroristica della Narodnaja volja, che nel 1881 era culminata nell'uccisione di Alessandro II. Prima di scoprire Marx, il giovane Lenin lesse e ammirò le opere di N. G. Černyševskij, l'oracolo del populismo russo degli anni sessanta. Ed è al titolo del romanzo socialista e utopistico di Černyševskij che Lenin si rifece per questa sua opera capitale, la quale, sotto molti profili, pone le premesse ideologiche e organizzative del comunismo, ch'egli avrebbe messo in pratica sedici anni più tardi.
Il Che fare? si proponeva di delineare il progetto di un partito marxista rivoluzionario conforme alla situazione russa. Pur occupandosi in massima parte di problemi organizzativi, esso contiene anche importanti affermazioni ideologiche. Lenin vi prende posizione al fianco dell'ortodossia marxista, opponendosi sia ai revisionisti sia agli economisti. E tuttavia anche la sua è per molti aspetti una revisione del marxismo, resa necessaria da un lato dai mutamenti intervenuti nel cinquantennio intercorso dall'epoca della prima enunciazione dei principi marxisti, e dall'altro dalle sue particolari convinzioni intorno alla missione di un partito rivoluzionario marxista nella Russia del XX secolo.
Lenin respinge così l'idea, che in Marx aveva profonde radici, secondo la quale la coscienza di classe si sviluppa tra gli operai spontaneamente, in risposta alle condizioni del loro lavoro e all'aggravarsi della situazione economica sotto il capitalismo. Ciò che si sviluppa spontaneamente è quella ch'egli chiama coscienza sindacale, vale a dire la tendenza degli operai ad unirsi, a formare associazioni per la difesa e l'estensione dei propri diritti nei confronti dei capitalisti, per il miglioramento delle condizioni di lavoro e per salari più alti. Ma la coscienza di classe ‛politica' deve essere introdotta nella classe operaia dall'esterno a opera del partito marxista, il quale non può quindi limitare il suo reclutamento ai soli operai, ma ha bisogno anche di persone appartenenti ad altri ceti sociali.
Lenin afferma così due concetti la cui importanza per il futuro sviluppo dei partiti comunisti sarebbe stata inestimabile. Il primo è che il partito marxista dev'essere una avanguardia della classe operaia. Esso deve certo rispecchiare le aspirazioni concrete degli operai, ma deve anche, e soprattutto, educarli e guidarli nella lotta politica. Non deve porsi come unico obiettivo - e anzi neppure come obiettivo principale - quello di migliorare le condizioni di vita degli operai o di garantire i loro diritti nel contesto del capitalismo. Soprattutto, esso deve persuaderli della necessità di rovesciare il sistema capitalistico e guidarli verso la vittoria finale del proletariato.
La seconda conseguenza della concezione leniniana è l'idea del membro del partito come rivoluzionario professionale. Il partito non può esser composto soltanto - e neppure principalmente - da persone che si limitano ad aver simpatia per il suo programma o a credere nel marxismo come filosofia di vita; esso deve contenere almeno un nucleo di individui che consacrano tutto il proprio tempo all'attività politica. E nella situazione russa attività politica significava attività rivoluzionaria e una vita da viversi fuori della legge e nel rischio.
Sebbene la cosa non venga dichiarata a tutte lettere, la generale concezione leniniana implica un partito di élite e rigorosamente disciplinato. L'espressione ‛centralismo democratico', venuta in uso più tardi, significava che il partito socialista russo non poteva permettersi di diventare un libero circolo di cultura. Le necessità del momento richiedevano una direzione centralizzata e la sottomissione dell'insieme dei membri del partito al direttorio, vale a dire, nella terminologia comunista, al Comitato centrale. La componente democratica consisteva nel fatto ch'era la base a eleggere gli organi centrali e a decidere, in congressi periodici, sulle più importanti questioni politiche del momento. Ma una volta che il Comitato centrale fosse stato eletto e si fosse espresso con un voto su un dato problema, la discussione e la controversia dovevano cedere il passo all'obbedienza.
La lotta condotta da Lenin all'interno della socialdemocrazia russa tra il 1902 e il 1914 si imperniò in buona parte sul tentativo di dare un'espressione organizzativa ai principi enunciati nel Che fare? Il II Congresso del Partito Socialdemocratico Russo, svoltosi a Londra nel 1903, vide la fatidica scissione tra bolscevichi - i seguaci di Lenin - e menscevichi. Malgrado i successivi numerosi tentativi di riunificazione (in certi periodi le divergenze tra le due correnti del socialismo russo furono messe da parte), la scissione sarebbe rimasta. Con l'andar del tempo, divenne anche chiaro che nella lotta tra le due fazioni un fondamentale punto di divergenza era la questione della leadership personale di Lenin. Sebbene il Lenin del periodo prerivoluzionario non possa in alcun modo essere definito un dittatore, è certamente incontestabile ch'egli fosse il ‛capo' dei bolscevichi. Possiamo dunque osservare che il comunismo, già nel suo stadio prenatale, acquisisce la tradizione per cui è un singolo individuo a dettare la ‛linea' teorica così come quella organizzativa del partito. Le idee di Lenin sulla natura cospirativa del partito e la sua preferenza per l'attivismo militante, contrapposto ai mezzi parlamentari di lotta per il potere, divennero i principî basilari del comunismo in materia di organizzazione. Va però osservato che, diversamente da alcuni dei suoi seguaci più estremisti, negli anni tra il 1907 e il 1910 Lenin non respinse l'idea di una partecipazione dei bolscevichi alle elezioni e di una utilizzazione dei mezzi legali per diffondere la loro dottrina; possibilità in questo senso emersero dopo la rivoluzione del biennio 1905-1906, quando la Russia si trasformò in quello che potremmo chiamare uno Stato semicostituzionale.
L'idea di ribattezzare il partito, l'idea del comunismo, matura nella mente di Lenin dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. Profondamente disgustato dal comportamento della maggior parte dei socialisti dei paesi belligeranti, vale a dire dall'appoggio da essi fornito all'impegno bellico dei rispettivi governi, egli non ne è stato però sorpreso. La cosa è anzi venuta a confermare la sua convinzione che nel corso dell'ultimo quarto di secolo le energie dell'intero marxismo europeo sono state convogliate in una direzione sbagliata e che il socialismo ha in buona parte rinnegato il suo retaggio rivoluzionario. In una parola, i partiti socialisti sono in maggioranza divenuti ‛opportunisti'. Egli propone quindi che quanti seguono l'autentica tradizione marxista adottino il nome di ‛comunisti', giacché la qualifica di ‛socialdemocratico' è divenuta degradante e umiliante. Lo spartiacque è segnato dalla questione della rivoluzione. La guerra mondiale dev'essere il segnale di uno spostamento del marxismo su una posizione intransigentemente rivoluzionaria. Lenin condanna non soltanto quei socialisti che, come il suo stesso vecchio maestro di marxismo, O. V. Plechanov, appoggiano l'impegno bellico del governo russo, ma anche quelli che adottano una posizione pacifista e invocano la fine della guerra europea. Dal 1914 in poi egli sostiene la necessità di trasformare la guerra imperialistica in una serie di guerre civili, in cui i partiti socialisti rivoluzionari si pongano come obiettivo la conquista del potere.
4. La Rivoluzione bolscevica e la fondazione della Terza Internazionale
La guerra, che sconvolse l'assetto politico e culturale dell'Europa ch'era prevalso dopo il 1815, vide anche il rinascere del comunismo, questa volta non come una cospirazione di un pugno di esuli politici di una singola nazionalità, ma come un potente movimento internazionale che aveva la sua base d'appoggio, la sua fonte e la sua ispirazione principale nel governo del più grande Stato del mondo.
Esule in Svizzera, Lenin continuò i suoi sforzi per costruire un nuovo tipo di movimento socialista militante. Partecipò alle conferenze di Zimmerwald (1915) e Kienthal (1916), che riunirono un certo numero di socialisti di sinistra e pacifisti di alcuni dei paesi belligeranti. Ma costruire una nuova Internazionale si rivelò per il momento impossibile. Inoltre, e soprattutto, la tendenza dominante era, anche tra gli elementi di sinistra, quella pacifista e non quella rivoluzionaria: era invece quest'ultima che Lenin sollecitava con il suo slogan per cui una guerra imperialistica avrebbe dovuto trasformarsi in guerra civile, in lotta di classe.
Deluso sul piano della politica attiva, Lenin rivolse la sua attenzione alla teoria. Il suo Imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916) è, insieme con il Che fare?, la più importante opera teorica del comunismo. In esso Lenin getta le basi della tattica che egli stesso e gli altri capi del comunismo russo avrebbero messo in atto nel cinquantennio successivo.
Lenin comincia con lo spiegare la ragione per cui la fase socialdemocratica del marxismo è stata soppiantata dalla fase comunista. Le recenti prese di posizione, verbali e scritte, del marxismo a favore della possibilità di un passaggio pacifico al socialismo rispecchiavano il fatto che nell'epoca ad esse immediatamente precedente - gli anni tra il 1850 e il 1875 - il capitalismo poteva ancora essere considerato come una forza progressiva. Esso stimolava le forze produttive dell'Europa occidentale, promuovendo l'espansione dell'economia. Accanto all'espansione economica, le istituzioni sociali e politiche del capitalismo rispecchiavano le vedute progressiste della borghesia: nei maggiori Stati capitalistici il suffragio fu allargato, il campo delle libertà individuali ampliato, il diritto degli operai a organizzarsi fu, sia pure a malincuore, riconosciuto. Ma gli sviluppi successivi al 1870 avevano mostrato che le originarie combattive conclusioni del marxismo contenute nel Manifesto non erano erronee, bensì semplicemente premature. All'incirca dopo il 1870 il capitalismo non è più una forza di progresso, esso entra nella sua fase ‛imperialistica'.
L'imperialismo è dunque la fase suprema, vale a dire l'estrema fase, del capitalismo. La sua capacità di influenzare beneficamente, in senso lato, l'economia dall'interno è ormai ridotta a zero. Da questo momento in poi esso diviene repressivo all'interno e militarista ed espansionista all'esterno. Poiché i suoi mercati interni vanno facendosi inadeguati e le occasioni di investimento entro i paesi capitalistici sempre meno remunerative, il capitalismo è costretto a ricercare mercati d'investimento nei paesi meno sviluppati. I capitalisti inglesi, francesi e belgi sono ormai nell'impossibilità di investire con profitto e di evitare gravi depressioni nei propri paesi. Lo sviluppo dei sindacati, la legislazione sociale e simili non consentono loro più di sfruttare gli operai nella misura che aveva caratterizzato la fase precedente. Al tempo stesso la potenza produttiva dell'industria, fortemente aumentata, richiede mercati esterni. Avviene così che i capitalisti, che costituiscono nei rispettivi paesi la classe dominante - lo Stato, secondo la classica formulazione di Marx, è il comitato d'affari della classe sfruttatrice - impongono ai governi politiche imperialistiche, espansionistiche. Gran Bretagna e Francia, e in misura minore altri grandi paesi capitalistici, s'impadroniscono di imperi enormi, dove i capitalisti possono investire con profitto, giacché, diversamente dall'operaio europeo, l'operaio indiano, cinese, ecc. non è in grado di lottare per ottenere un salario equo. Le colonie forniscono inoltre al capitalista materie prime a buon mercato, giacché il produttore locale, completamente sprovvisto di forza contrattuale, è costretto ad accettare per il suo prodotto il prezzo più basso che gli viene offerto. Nei paesi occidentali avanzati il capitalismo può sopravvivere soltanto grazie agli imperi coloniali. L'operaio inglese, francese, ecc. non avverte in modo acuto la propria condizione di sfruttato perché in un certo senso è egli stesso un beneficiario dell'imperialismo: i ‛suoi' capitalisti possono permettersi di pagargli un discreto salario perché sono al tempo stesso in grado di sfruttare in modo spietato l'operaio e il contadino delle colonie, che non godono di alcun diritto politico ed economico.
Come si vede, questa teoria demolisce - o perlomeno pretende di demolire - le principali critiche rivolte al marxismo dai revisionisti. Essa spiega in che modo il capitalismo ha elevato il tenore di vita degli operai nella maggior parte dei paesi industriali avanzati anziché comprimerlo sempre di più, come aveva postulato Marx, al livello della mera sussistenza. E spiega anche come sia stato possibile evitare l'aumento della disoccupazione e crisi economiche sempre più gravi. Con le trasfusioni di sangue operate dall'imperialismo, il capitalismo è riuscito ad allungare la propria vita.
Al tempo stesso, avendo il capitalismo trasferito l'asse dello sfruttamento economico nei paesi meno sviluppati, gli operai delle nazioni industriali più avanzate non hanno raggiunto quella coscienza rivoluzionaria che Marx aveva preconizzato. Essi sono vissuti nell'illusione che con l'azione sindacale e con altre attività non rivoluzionarie avrebbero potuto continuare a migliorare la propria condizione e che insomma il capitalismo può essere riformato e non è necessario distruggerlo. La verità è che se il capita- lista occidentale è riuscito a tener tranquillo il suo operaio, il prezzo di ciò è stato pagato dal contadino indiano e dal coolie cinese.
Ma il capitalismo non può rinviare all'infinito il suo giorno del giudizio. L'imperialismo è un processo competitivo e la guerra è, alla fine, l'unico mezzo per risolvere la competizione. Ne consegue che nella sua fase imperialistica il capitalismo porterà sicuramente a guerre ricorrenti sul tipo di quella allora in corso. E, a parte la sua sempre maggiore atrocità, la guerra significa la limitazione dei di- ritti democratici e delle istituzioni parlamentari, miseria crescente per la popolazione civile, ecc. Le predizioni ottimistiche di un passaggio pacifico al socialismo, di una costante espansione dell'area dei diritti democratici e delle istituzioni parlamentari nel quadro del capitalismo vengono quindi ora smascherate come crudeli illusioni. Il capitalismo deve essere distrutto per porre termine non soltanto all'imperialismo, allo sfruttamento occulto degli operai in patria e a quello palese degli operai e dei contadini nelle aree coloniali e semicoloniali, ma alla stessa guerra.
Le conseguenze dell'Imperialismo leniniano sarebbero state, sotto il profilo della sua influenza sulla tattica e sulla ideologia future del comunismo, formidabili. Innanzitutto, la teoria ivi esposta fornì una giustificazione all'attività socialista rivoluzionaria in un paese non ancora pienamente industrializzato. La concezione originaria di Marx riteneva che soltanto un paese altamente industrializzato, dove il modo capitalistico di produzione e la proprietà privata dei mezzi di produzione avessero conseguito il loro pieno sviluppo, fosse maturo per una rivoluzione socialista. La concezione leniniana legittimava invece una rivoluzione socialista in un paese come la Russia, la cui economia andava giudicata, alla stregua dei concetti marxisti classici, come solo parzialmente capitalistica e in cui anzi la forma di produzione dominante era ancora di tipo precapitalistico. Il capitalismo avanzato implica una proprietà di tipo monopolistico dei mezzi di produzione. Ora, nella Russia del 1917, la proprietà della terra, eccettuati i grandi latifondi, era frazionata tra circa 16 milioni di famiglie contadine. D'altra parte, il proletariato industriale non rappresentava che una percentuale relativamente modesta della popolazione totale.
In secondo luogo l'Imperialismo legittimava, e anzi sollecitava come imperativa, l'attività rivoluzionaria anche in quei paesi che non avevano ancora fatto il loro ingresso nell'era industriale. Certo, Lenin rimaneva convinto, da buon marxista, che il socialismo potesse affermarsi soltanto in una società pienamente industrializzata e modernizzata. E tuttavia la sua concezione sollecitava un'attività marxista rivoluzionaria mirante alla conquista del potere anche nelle società prevalentemente agricole e arretrate. Il capitalismo operava su scala mondiale e per provocarne il crollo il socialismo-comunismo rivoluzionario doveva anch'esso acquisire dimensioni mondiali e non limitarsi a essere attivo nei soli paesi che secondo il marxismo classico risultavano maturi per il passaggio al comunismo. Questo spostarsi dell'asse originario del marxismo dalle regioni industrializzate del mondo verso quelli che nel nostro linguaggio odierno sono i paesi sottosviluppati, avrebbe avuto conseguenze incalcolabili e per lo sviluppo del comunismo e per la storia della nostra epoca.
Con la rivoluzione del febbraio 1917, il problema della maturità del paese per il socialismo provocò una nuova scissione, stavolta definitiva, tra i marxisti russi. I menscevichi - e con essi un altro partito socialista russo, i socialisti rivoluzionari, che avevano aderito alla Seconda Internazionale, ma professavano un socialismo di tipo agrario piuttosto che rigorosamente marxista - giudicarono che la Russia dovesse rimanere, per il futuro prevedibile, una repubblica democratico-borghese. Ma Lenin e i bolscevichi sostennero che il socialismo rivoluzionario doveva battersi per conquistare il potere.
Si è spesso pensato, a torto, che Lenin giudicasse la Russia di allora matura per il passaggio al socialismo. Ma in effetti la chiave per intendere la sua tattica rivoluzionaria nel biennio 1917-1918 sta nella sua convinzione che il problema del ‛potere' può e deve essere separato dallo schema marxiano degli stadi di sviluppo. Poiché la guerra mondiale aveva fornito al socialismo rivoluzionario un'occasione unica per prendere il potere, i socialisti non dovevano sentirsi trattenuti dalla relativa arretratezza della Russia. Essi dovevano invece prendere il potere, anche se ciò significava l'impossibilità di procedere immediatamente all'instaurazione di una società socialista. Contro questa linea, altri, tra i quali O. V. Plechanov, il padre del marxismo russo, insistevano sul concetto che, non essendo il paese pronto per il socialismo ed essendo il proletariato ancora soltanto un'esigua minoranza, qualsiasi colpo di stato socialista era fatalmente destinato ad avere risultati catastrofici.
Nella mente di Lenin le necessità politiche e le opportunità del momento avevano la priorità sui vincoli ideologico-economici della dottrina. Il regime zarista era crollato. Il suo successore, il governo provvisorio, una coalizione di partiti liberali e socialisti, era incapace di concludere la pace e di far fronte alla marea montante delle rivendicazioni politiche ed economiche. Sarebbe stato dunque sciocco per i socialisti sprecare l'occasione che gli si offriva di rovesciare il capitalismo, anche se ciò significava l'impossibilità di istituire ‛immediatamente' una società socialista. Gli slogan bolscevichi miravano a ottenere popolarità e consensi tra le masse e pertanto avevano ben poco a che fare con il marxismo nel senso stretto del termine.
La rivendicazione principale era quella della pace immediata. I bolscevichi confidavano che, una volta uscita la Russia dalla guerra, gli altri paesi europei sarebbero stati costretti a fare la pace. Le idee rivoluzionarie si sarebbero allora diffuse per tutta l'Europa e con ogni verosimiglianza il socialismo rivoluzionario sarebbe giunto al potere anche nei paesi industrializzati dell'Occidente.
Lo slogan ‟tutto il potere ai Soviet" sfruttava la popolarità di questa originale istituzione, comparsa d'un tratto in Russia nel corso della rivoluzione del 1905 e ora, col febbraio 1917, introdotta in tutto il paese: i Soviet, appunto, vale a dire i consigli degli operai e dei soldati. Rispetto al formalismo delle istituzioni parlamentari di tipo occidentale, i Soviet erano giudicati una forma superiore di rappresentanza, che esprimeva le aspirazioni delle classi inferiori.
Infine, i bolscevichi reclamavano - scontrandosi qui direttamente con l'insegnamento del marxismo - la terra ai contadini, vale a dire l'espropriazione dei latifondi privati e pubblici a favore dei singoli contadini. Il marxismo vuole la proprietà statale della terra, così come degli altri mezzi di produzione. Ma nella Russia del 1917 i bolscevichi avevano bisogno dell'appoggio, o quanto meno dell'acquiescenza, delle masse contadine se volevano conquistare il potere e mantenerlo. Da qui la loro rinuncia a uno dei fondamentali principi del marxismo.
Gli avversari dei bolscevichi all'interno del movimento socialista ne denunciarono i postulati che sembravano ispirarsi più all'anarchismo che al marxismo. La risposta di Lenin fu che la tattica bolscevica rispecchiava lo spirito del marxismo anche se si allontanava ‛per il momento' dalla lettera della dottrina. Regolare la tattica in funzione delle circostanze storiche piuttosto che attenersi alla dottrina nelle sue formulazioni letterali sarebbe così divenuta la caratteristica più sconcertante del comunismo in quanto movimento. La conquista del potere politico viene posta in cima alla scala delle priorità. E solo una volta giunto al potere il partito comunista si adopererà a costruire una società dapprima socialista e poi comunista.
Nell'opuscolo leniniano Stato e rivoluzione (1917) si esprime quello che potremmo chiamare il pragmatismo rivoluzionario del comunismo, la sua capacità di adattarsi alle contingenze di una crisi politica senza abbandonare gli obiettivi finali del movimento. Lenin fa appello qui alle aspirazioni egualitarie e semianarchiche proprie delle masse in questa fase del processo rivoluzionario. Dall'opuscolo - esso fu scritto prima della Rivoluzione d'Ottobre - si ricava l'impressione che, una volta al potere, i bolscevichi prenderanno numerosi provvedimenti di carattere politico che Marx aveva riservato alla fase conclusiva, la fase comunista, della società socialista. Troviamo così l'intransigente dichiarazione che lo Stato borghese deve essere completamente demolito con la sua burocrazia, il suo esercito e le sue classi sociali. Una libertà completa esige l'eliminazione dello Stato: ‟Finché c'è lo Stato non c'è la libertà. Quando ci sarà la libertà non ci sarà più lo Stato". Lo Stato socialista postulato da Lenin sarà egualitario e non richiederà alcuna burocrazia specializzata. Gli operai sono essi stessi in grado di controllare e gestire le fabbriche e lo stesso vale per l'esercito, che può essere guidato dai militari di truppa. Nè c'è alcun bisogno di incentivi materiali: tutti i funzionari, dirigenti e simili riceveranno il salario operaio. Tutto ciò che Lenin è disposto a concedere in materia di necessità tecniche dell'arte dell'amministrare si riduce alla ‛vigilanza' e alla ‛contabilità'. Nel giro di pochi mesi dalla presa del potere Lenin e i suoi bolscevichi ebbero modo di pentirsi di queste idee semplicistiche. Ma quando furono formulate, esse non solo costituivano un efficace strumento propagandistico, bensì esprimevano la partecipazione indubbiamente sincera dei bolscevichi allo spirito rivoluzionario ed egualitario del momento.
Il colpo di stato bolscevico dell'ottobre 1917 diede il via alla seconda fase della Rivoluzione russa. Nel giro di pochi mesi divenne pienamente evidente un'altra caratteristica del movimento comunista: la sua intrinseca tendenza a monopolizzare il potere politico. Secondo il postulato marxiano, lo stadio del socialismo avrebbe conosciuto la dittatura del proletariato. Ma non c'è nessuna valida motivazione, nel corpus originario del marxismo, per identificare la dittatura del proletariato con la dittatura di un solo partito. E tuttavia all'indomani della Rivoluzione Lenin respinse la proposta, avanzata da numerosi suoi seguaci, di far entrare nel governo sovietico da lui capeggiato altri socialisti che condividessero la posizione bolscevica su questioni come la guerra e la pace. Qualche tempo dopo alcuni socialisti rivoluzionari di sinistra sarebbero in verità entrati nel governo, ma la coalizione sarebbe durata solo sino al marzo 1918, quando i socialisti rivoluzionari di sinistra lasciarono il Consiglio dei commissari del popolo in segno di protesta contro la firma del trattato di pace di Brest-Litovsk con la Germania e le altre potenze centrali.
Il deciso rifiuto bolscevico della componente democratica della tradizione socialista trovò la sua espressione più evidente nello scioglimento, decretato dal governo sovietico, dell'assemblea costituente nel gennaio 1918. I bolscevichi e i loro alleati, i socialisti rivoluzionari di sinistra, erano in minoranza in quest'assemblea eletta democraticamente, in cui la maggioranza dei delegati proveniva dalle file dei socialisti rivoluzionari, ancora fortissimi tra le masse contadine russe. La liquidazione dell'assemblea lasciò presagire il ripudio da parte del comunismo di ciò che i portavoce del movimento avrebbero etichettato come ‛democrazia formale'. D'allora in poi il comunismo, pur affermando la sua fedeltà ai principi democratici, avrebbe respinto - a livello sia teorico che pratico - l'idea che le sue attività dovessero considerarsi vincolate all'osservanza del principio maggioritario. I comunisti proclamano che il loro scopo è la creazione di una società socialista democratica, la quale a tempo debito cederà il passo a una vera e propria società comunista. Ma nella lotta per l'instaurazione di questa società essi rifiutano il vincolo delle norme della ‛legalità borghese' o delle fluttuazioni dell'opinione pubblica. Essi rifiutano di riconoscere che il principio democratico ha la precedenza su quello di classe. Il partito comunista si considera l'avanguardia, l'incarnazione delle aspirazioni e degli interessi autentici della classe operaia. Come tale pertanto, pur ammettendo la legittimità di alleanze temporanee con altri partiti, esso rifiuta o perlomeno ha sinora rifiutato l'idea di una democrazia pluripartitica come suo obiettivo finale.
L'8 marzo 1918 la frazione bolscevica del Partito Operaio Socialdemocratico Russo fu ribattezzata Partito Comunista (bolscevico) Russo. ‛Comunista' divenne così il nome ufficiale del partito, la cui attuale denominazione, che fa seguito ad alcune altre modificazioni, è Partito Comunista dell'Unione Sovietica. Nel 1952 fu lasciata cadere la ‛b' minuscola tra parentesi che stava per ‛bolscevico'.
Il nuovo nome riconosceva una realtà esistente a partire almeno dal 1912: la creazione da parte di Lenin di un nuovo tipo di partito marxista, il suo ripudio della tradizione socialdemocratica, la sua insistenza sull'attività rivoluzionaria militante al di là e al disopra del parlamentarismo la cui utilizzazione non veniva peraltro esclusa.
Nel 1918 alla base del pensiero bolscevico c'era ancora l'idea di una generale rivoluzione europea. Da principio neppure Lenin pensava che in mancanza di una tale rivoluzione il governo sovietico potesse sopravvivere. Ciò spiega la disinvoltura con cui si sbarazzò della classica argomentazione marxista, avanzata dai menscevichi, per la quale la Russia non era pronta per una rivoluzione socialista e la presa del potere da parte del proletariato era dunque prematura e destinata a risolversi in un disastro. Certo, egli si rendeva conto che ciò che i bolscevichi stavano facendo andava contro le regole. Ma si trattava di un'occasione storica unica. Il comunismo poteva anche naufragare in Russia e la cosa era probabile. Ma nel frattempo la scintilla della rivoluzione avrebbe attecchito nei paesi industriali dell'Occidente. Il capitalismo sarebbe stato rovesciato in buona parte, se non nella maggior parte, dell'Europa. Pertanto qualsiasi scrupolo basato sulla considerazione dell'arretratezza russa era fuori luogo.
Di fatto, però, nè le speranze nè i timori di Lenin dovevano realizzarsi. Malgrado i fermenti politici e sociali, che contrassegnarono la fine della guerra mondiale nei principali paesi belligeranti e che provocarono la caduta della monarchia in Germania e in Austria, una rivoluzione comunista non si concretizzò. E alla fine del 1919 era ormai chiaro che il regime comunista russo sarebbe uscito vittorioso dalla guerra civile e che nel 1921 avrebbe ereditato la maggior parte dei territori del vecchio impero russo. Il Partito Comunista divenne così un partito di governo nello Stato più grande del mondo. Malgrado venisse progettato un elaborato sistema costituzionale, dapprima per la Russia e poi, nel 1923-1924, per l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, di fatto il Partito Comunista assunse sin dall'inizio il monopolio del potere e nel 1921 le ultime tracce di opposizione legale al comunismo erano ormai cancellate. Un partito organizzato per fini di cospirazione rivoluzionaria prendeva dunque il potere in Russia. Non può quindi sorprendere che nei suoi metodi di governo il comunismo abbia conservato a tutt'oggi un carattere rivoluzionario.
Nel 1919 fu costituita la Terza Internazionale, o Internazionale Comunista (Komintern). Sin dall'inizio la nuova Internazionale fu concepita come uno strumento per proiettare l'esperienza rivoluzionaria russa sulla scena mondiale. Ciò divenne esplicito nel 1920, in occasione del II congresso del Komintern, che può esser considerato l'autentico atto di fondazione del comunismo internazionale. Il congresso adottò un documento di ventun punti, vincolante per ogni partito che aderisse alla nuova Internazionale. I primi venti furono formulati personalmente da Lenin.
Dalle ‛21 condizioni' - una sorta di carta costituzionale della nuova Internazionale - emergevano chiaramente le differenze rispetto alla Prima e alla Seconda Internazionale. Diversamente da queste, il Komintern non doveva essere una mera confederazione di partiti uniti da un generico programma socialista, ma un organismo centralizzato. Le decisioni dei suoi congressi e le direttive dei suoi comitati esecutivi dovevano essere vincolanti per tutti i partiti membri. Il comunismo internazionale doveva, insomma, essere un disciplinato partito internazionale e non una federazione di movimenti che, conservassero, sul terreno della tattica politica, ciascuno la propria autonomia e libertà di decisione.
Ma le ‛21 condizioni' andavano oltre. In esse era contenuta la proposta di regolare il comportamento dei singoli partiti in conformità con le scelte politiche e tattiche che i bolscevichi avevano trovato utili durante la loro ascesa al potere. L'esperienza rivoluzionaria del comunismo russo divenne così un modello d'obbligo, cui il Partito Comunista Italiano o quello Svizzero erano tenuti a conformarsi nella elaborazione della loro linea politica e tattica. Qualsiasi allontanamento dal modello non poteva essere deliberato dal solo partito interessato, ma doveva essere approvato dagli organismi direttivi dello stesso Komintern. Le ‛21 condizioni' prevedevano che i partiti comunisti conservassero un apparato clandestino, accanto a quello ufficiale, anche in quei paesi dove era possibile operare legalmente. Esse insistono sul criterio che i comunisti debbono lottare sempre e ovunque, oltre che contro il capitalismo e i partiti borghesi, anche contro le organizzazioni e i sindacati socialisti ‛riformisti'. Non bisogna consentire che la lotta mediante mezzi legali divenga la forma principale della attività politica comunista. I comunisti che seggono nelle assemblee parlamentari non sono autorizzati ad agire indipendentemente dagli organi centrali del partito. La condizione n. 13 fa obbligo a tutti i partiti membri di effettuare epurazioni periodiche, al fine di eliminare gli elementi piccolo-borghesi e ‛riformisti'.
La Seconda Internazionale era davvero un'organizzazione internazionale. Nessun partito nazionale ne dettava la linea politica e tattica globale, anche se indubbiamente la socialdemocrazia tedesca vi occupava, in virtù della sua forza politica e dei suoi legami storici con le origini del marxismo, una posizione egemonica. Invece, all'interno della Terza Internazionale fu chiaro sin dall'inizio che il comunismo russo avrebbe dettato legge. Il Partito Comunista Russo era l'unico partito comunista al potere e godeva di un prestigio senza eguali dovuto alla Rivoluzione bolscevica e al fatto che il suo leader, Lenin, era non solo il capo del governo sovietico, ma anche la guida incontestata dell'intero movimento. La sede del Komintern fu fissata a Mosca. Il primo presidente del suo Comitato esecutivo fu G. E. Zinov′ev, uno degli intimi di Lenin. Ben presto i comunisti operanti in paesi in cui il comunismo era illegale cominciarono a trovare rifugio e sostegno nella Russia sovietica. Non poteva dunque esserci alcun dubbio, malgrado i sentimenti sinceramente internazionalistici di Lenin e di alcuni dei suoi compagni, sul fatto che il Komintern sarebbe stato segnato dall'impronta russa e che con l'andar del tempo le opinioni e i desideri del Partito Comunista Russo avrebbero esercitato un'influenza decisiva sulla politica sia del Komintern che dei singoli partiti membri. Non si deve però credere che l'Internazionale fosse sin dall'inizio soltanto uno strumento della politica russa e che la tattica dei vari partiti si limitasse a rispecchiare puramente e semplicemente i desideri e gli ordini di Mosca. Questo sarebbe avvenuto più tardi, col predominio e poi con la dittatura di Stalin nell'Unione Sovietica. Sino al 1924-1925 i congressi del Komintern mantennero il carattere di assemblee deliberative e le scelte politiche dell'Internazionale non furono sempre sincronizzate con quelle del governo sovietico.
La costituzione del Komintern provocò una spaccatura in seno al movimento operaio e socialista internazionale. La Seconda Internazionale continuò a raccogliere quei socialisti che rifiutavano la nuova organizzazione. Nel periodo tra le due guerre mondiali la maggioranza degli elementi politicamente consapevoli della classe operaia si schierò, in quasi tutta l'Europa, piuttosto nel campo socialista che in quello comunista. Tra gli operai dell'Occidente l'iniziale moto d'entusiasmo per la Rivoluzione bolscevica e il comunismo si affievolì a mano a mano che ci si rendeva conto di quanto scarsa fosse l'autonomia dei partiti comunisti e di come non solo le loro scelte politiche, ma anche la composizione dei loro gruppi dirigenti fossero determinate in misura sempre maggiore dagli organi centrali del Komintern e cioè, in ultima analisi, dai capi del comunismo sovietico. Ma, sempre alla luce dell'esperienza russa, il comunismo attribuisce scarsa importanza al dato puramente quantitativo sia per quanto concerne la forza numerica del partito sia per quanto concerne i suffragi da esso raccolti nelle elezioni parlamentari. La sua ideologia organizzativa sottolinea l'importanza assolutamente preponderante della disciplina rispetto al numero in un'organizzazione compatta e centralizzata, capace, giunto il momento storicamente favorevole, di mobilitare i suoi aderenti e non soltanto di rendersi popolare tra le grandi masse. Così stando le cose, il bilancio del Komintern non può esser giudicato senz'altro come fallimentare, anche se tra le due guerre mondiali il comunismo non riuscì a conquistare il potere in nessun altro paese. Esso riuscì infatti ad assicurarsi propri raggruppamenti praticamente in ogni angolo del mondo e divenne un movimento di rilievo, legale o clandestino a seconda dei casi, pressoché in tutti i paesi europei e in alcuni paesi asiatici.
5.Il comunismo all'opera. Lo stadio iniziale
Il regime comunista russo sopravvisse alla guerra civile del 1918-1921 e nel 1924-1925 era ormai universalmente riconosciuto de facto come governo della Russia e della maggior parte dei territori europei e asiatici del vecchio impero russo (il riconoscimento diplomatico giunse invece più lentamente; l'ultima grande potenza a riconoscere ufficialmente l'Unione Sovietica furono gli Stati Uniti, nel 1933). Ma, per ammissione dei suoi stessi capi, la società in cui lo Stato comunista operava era lungi dal potersi qualificare come comunista, o anche come socialista. Certo, il periodo della guerra civile vide un tentativo di introdurre quello che in seguito sarebbe stato chiamato, retrospettivamente, comunismo di guerra. Ma in effetti si trattò per lo più di misure pragmatiche determinate dal virtuale collasso della economia russa piuttosto che di un tentativo sistematico di saltare alcune fasi dello schema marxiano dell'evoluzione sociale ed economica. Le fabbriche furono confiscate e gestite dagli operai. Nelle campagne, sebbene uno dei primi atti del regime bolscevico fosse stato quello di assicurare ai contadini il libero uso individuale della loro terra, si fece il tentativo di creare comuni agricole in cui i contadini poveri mettessero insieme la loro terra, il loro bestiame e così via. Il governo si vide costretto, per poter nutrire le città, a requisire i surplus dei contadini, operazione che in effetti si risolveva spesso nella confisca di tutto ciò che andasse oltre i meri bisogni di sussistenza della famiglia contadina. Il ‛comunismo di guerra' venne così a rassomigliare al comunismo primitivo di Marx: esso fu cioè il risultato di un collasso completo dell'economia, della virtuale scomparsa della produzione industriale, della riduzione a zero del valore della moneta e anzi di un ritorno dall'economia monetaria all'economia di baratto.
Nel 1921 il regime riconobbe la necessità, per ragioni insieme politiche ed economiche, di ripristinare gli incentivi materiali, se si voleva riportare l'economia russa al suo livello prebellico, per non parlare dell'esigenza di procedere sino al punto da poter gettare le basi economiche di una società socialista. La Nuova Politica Economica (NEP), inaugurata nel 1921, sarebbe durata sino al 1928-1929. La NEP era una combinazione di capitalismo di Stato e impresa privata. Il campo della proprietà statale comprendeva ciò che rimaneva della grande industria, le miniere, il commercio e il sistema bancario. All'impresa privata fu lasciato spazio nella piccola industria, nel commercio al dettaglio e, naturalmente, nell'agricoltura (la Rivoluzione bolscevica nazionalizzò sì formalmente la terra, ma poiché ai contadini fu lasciato il libero uso di tutte le terre, sarebbe mera pedanteria non ammettere che in Russia ci fu la proprietà privata della terra sino al 1929-1930, cioè sino all'inizio della collettivizzazione forzata). Una misura assolutamente fondamentale fu la sostituzione della confisca dei surplus contadini con un'imposta in natura. Una volta certi che lo Stato avrebbe prelevato solo una quota fissa dal loro prodotto, i contadini furono stimolati a produrre di più.
La NEP accoglieva quella premessa basilare del marxismo per cui prima di poter istituire il socialismo è necessario disporre di una base economica altamente sviluppata: vale a dire l'idea che il socialismo non può nascere dalla scarsità, ma sul fondamento dell'abbondanza e di un livello elevato della produzione industriale. Malgrado ciò, questo riconoscimento da parte del regime leniniano dei fatti economici provocò in seno al Partito Comunista notevoli controversie e un vasto malcontento.
Innanzitutto sorse un movimento, chiamato Opposizione operaia, il quale sosteneva che, con tutte le violazioni del marxismo e con la necessità di risanare l'economia, il regime stava in effetti tradendo gli scopi della Rivoluzione bolscevica. La NEP significava in realtà l'abbandono dell'egualitarismo, dei principi enunciati da Lenin nel suo Stato e rivoluzione. La disparità negli stipendi e nei salari era già considerevole. Sebbene questa fosse attuata per la necessità di fornire incentivi economici, l'Opposizione operaia sostenne che essa equivaleva alla reintroduzione di una classe privilegiata - la burocrazia statale, economica e di partito - la quale godeva di un tenore di vita di gran lunga superiore a quello dell'operaio comune. L'Opposizione operaia criticò inoltre alcuni aspetti della direzione statale dell'economia. A suo giudizio le imprese industriali non dovevano essere gestite da dirigenti professionisti, in buona parte reclutati tra i vecchi specialisti e proprietari borghesi, ma dagli operai attraverso i loro sindacati. Le tesi dell'Opposizione operaia furono esposte e battute nel X e nell'XI Congresso del Partito Comunista nel 1921 e 1922. La posizione di questa ala sinistra, egualitaria, del movimento fu stigmatizzata da Lenin come una ‟deviazione anarco-sindacalista" che contraddiceva gli insegnamenti fondamentali del marxismo.
Con il primo insorgere della malattia di Lenin (1922) e poi con la sua morte, nel gennaio 1924, un'altra critica, non meno grave, fu rivolta alla NEP. Molti nel partito - più tardi anche Trotzki si sarebbe allineato su queste posizioni - sostenevano che la NEP favoriva lo sviluppo del capitalismo nelle campagne. Era vergognoso che finora il principale beneficiario della rivoluzione comunista fosse stato non l'operaio industriale, ma il contadino.
Negli anni 1924-1925, divenuto Stalin la personalità dominante del regime, il governo sovietico continuò a seguire una politica economica moderata. Essa consentì ai contadini di prendere in affitto terra al di là del podere familiare e di assumere manodopera salariata: misure che, sostenne l'Opposizione, avevano per effetto un'ulteriore accentuazione delle differenze di classe nelle campagne e un rafforzamento della posizione dei contadini agiati - i cosiddetti kulaki - smentendo così in maniera clamorosa l'orgogliosa pretesa del comunismo di aver abolito lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo.
Alle critiche economiche contro la linea ufficiale, l'Opposizione interna al partito accompagnò presto critiche politiche. Essa fu allarmata dall'espansione della burocrazia di partito, al cui vertice, in posizione assolutamente dominante, era Stalin, dal 1922 segretario generale del PCUS. E sostenne che questa burocrazia aveva soffocato la democrazia all'interno del partito, come mostrava il fatto che le questioni politiche più importanti venivano discusse e decise da una cerchia di dirigenti sempre più ristretta anziché dalla base degli iscritti in quanto rappresentata dai congressi del partito, o anche dal Comitato centrale.
La leadership di Stalin fu attaccata anche perché - si disse - sacrificava gli interessi del comunismo mondiale. Trotzki sostenne che la linea politica del Komintern aveva condotto il comunismo a una catastrofe in Cina e determinato gravi problemi altrove. Stalin, che ora dominava sia il Komintern che il regime sovietico, non si preoccupava della rivoluzione mondiale ed era sin troppo pronto a sacrificare i fini ideologici del movimento al rafforzamento del proprio potere personale e del regime di cui era a capo.
La controversia - spesso riassunta nello scontro tra il ‟socialismo in un solo paese" (Stalin) e la ‟rivoluzione mondiale" (Trotzki) - raggiunse la sua fase culminante negli anni 1925-1927. Ma questi slogan costituiscono una semplificazione eccessiva delle posizioni dei due principali protagonisti del dibattito. Non è vero che Stalin ripudiasse la missione del comunismo di rovesciare il sistema capitalistico mondiale, ma sosteneva che l'avventurismo rivoluzionario all'estero fosse fuori luogo. I comunisti russi potevano e dovevano edificare una società socialista in patria. Soltanto una Russia industrializzata e modernizzata sarebbe stata in grado di aiutare efficacemente i partiti comunisti stranieri.
Da parte sua Trotzki non negava la possibilità di porre le fondamenta del socialismo in patria. Egli sosteneva anzi che con la sua politica di conciliazione verso le masse contadine in generale e di mancata pressione fiscale sui contadini ricchi Stalin stava ritardando la necessaria industrializzazione del paese. Ma da sola la Russia non poteva realizzare il socialismo; essa abbisognava dell'aiuto dei paesi più avanzati. E con il suo atteggiamento tiepido verso i comunisti stranieri il regime staliniano stava in effetti mettendo in pericolo lo stesso comunismo russo.
Dalla battaglia Stalin uscì vincitore e Trotzki andò in esilio dapprima in Asia centrale e poi all'estero. La vittoria di Stalin fu dovuta, oltre che alla sua superiore abilità politica e al suo dominio dell'apparato del partito, al fatto che egli riuscì a far sì che Trotzki, agli occhi della massa degli iscritti al partito, s'identificasse con posizioni politiche avventuristiche sui problemi sia interni che internazionali: posizioni cioè che in Russia avrebbero fatalmente condotto ad una rivolta contadina e con le loro implicazioni internazionali avrebbero gettato l'ancor debole Unione Sovietica in un conflitto, e forse in una guerra aperta, con le grandi potenze capitalistiche.
Nel 1928 Stalin può essere ormai giustamente visto come un dittatore. Politicamente il suo potere non era ancora assoluto, giacché poggiava in parte sull'alleanza con quegli elementi del partito che guardavano a lui come al moderato fautore di una marcia ‛prudente' sulla via dell'industrializzazione e del socialismo.
Alla fine di questo periodo (negli anni 1928-1929) il comunismo significava, dal punto di vista delle sue concrete applicazioni, un sistema politico in cui il potere veniva sempre più centralizzandosi. La burocrazia di partito, capeggiata dal segretario generale, era ora in posizione chiaramente dominante. Un qualche freno al suo potere veniva ormai non più dai congressi del partito, in cui dominavano sempre più uomini da essa imposti, ma soltanto dagli organi collocati al vertice della gerarchia - il Politburo e il Comitato centrale -, nei quali Stalin e le sue creature non disponevano ancora di una maggioranza assoluta.
Dal punto di vista economico la società sovietica non poteva ancora essere qualificata come socialista. Nella piccola industria e nel commercio al dettaglio prevaleva la proprietà privata. La barriera principale sulla via del socialismo era però la situazione esistente nell'agricoltura: la terra era divisa tra circa 24 milioni di famiglie contadine, i metodi di coltivazione erano ancora primitivi e la produttività media bassissima. Nel 1928 l'economia russa aveva più o meno sanato le ferite prodotte dalla guerra mondiale e dalla guerra civile, in termini sia strutturali che di efficacia e di produttività, ma rimaneva tuttavia lontana dalla realizzazione dei requisiti essenziali di una società socialista: la modernizzazione e l'industrializzazione.
In questo momento il movimento comunista mondiale può essere descritto, senza forzature, come il prolungamento all'estero del Partito Comunista Sovietico. Le epurazioni succedutesi all'interno del PCUS furono regolarmente seguite da processi analoghi fuori dei confini russi. Avvenne così che i seguaci stranieri, prima di Trotzki e poi di L. B. Kamenev e O. E. Zinov′ev - gli ex alleati di Stalin, da lui liquidati - furono debitamente espulsi dai partiti francese, tedesco, ecc. Questi partiti erano obbligati a conformarsi - per quanto concerneva e la linea politica e la composizione del gruppo dirigente - non solo alle decisioni del Komintern, ma addirittura ai desideri della élite dominante del PCUS e particolarmente del suo segretario generale. Il principio della direzione individuale, delle decisioni prese da un gruppo ristretto di dirigenti al vertice, e in ultima analisi da un solo uomo, mise così radici sia nel comunismo mondiale nel suo insieme sia nelle sue singole componenti nazionali.
6.La fase stalinista
Quella che è talvolta chiamata la ‛terza rivoluzione russa' cominciò negli anni 1928-1929. I suoi principali elementi caratterizzanti furono una rapida industrializzazione e una trasformazione drastica nella proprietà e nei metodi di coltivazione della terra. L'industrializzazione doveva ora regolare il suo passo sulla base di piani governativi ben precisi. Tali piani, elaborati solitamente per periodi quinquennali, miravano innanzitutto ad accrescere la produzione dell'industria pesante: acciaio, macchinari, prodotti elettrici e chimici, ecc. I bisogni del consumatore furono in un primo tempo deliberatamente sacrificati e in seguito, anche dopo il consolidamento dell'industria pesante, considerati di secondaria importanza. Questa priorità dei beni strumentali su quelli di consumo fu giustificata, oltre che con il richiamo alla teoria marxista, con. ragioni di difesa nazionale. Il risultato fu che tra il 1928 e il 1932 il tenore di vita medio registrò un crollo catastrofico - forse pari al 25% - e soltanto dopo questo periodo cominciò una lenta ripresa. L'Unione Sovietica - annunciò Stalin nel 1930 - doveva realizzare in un decennio un processo che ai paesi sviluppati dell'Occidente aveva richiesto più di mezzo secolo: colmare il divario che separa una società arretrata, prevalentemente agricola, da una società industriale moderna. La Russia doveva ‟raggiungere e superare" l'Occidente capitalistico, oppure perire.
L'aspetto più importante della nuova rivoluzione fu la immensa trasformazione intervenuta nell'agricoltura russa e il mutamento nello status e nel modo di vivere del contadino russo. La collettivizzazione forzata dell'agricoltura realizzata tra il 1929 e il 1934 fu indubbiamente, prima delle riforme analoghe attuate nella Cina comunista negli anni cinquanta, la più colossale riforma economico-sociale mai realizzata in epoca moderna in qualsiasi paese.
All'inizio della collettivizzazione i contadini erano quasi l'80% della popolazione russa. Nel 1934 il modo di vita di ogni singolo individuo di questa enorme comunità aveva subito trasformazioni radicali. Molti avevano lasciato i loro villaggi per entrare nelle attività industriali urbane, in costante espansione. Molti altri, anzi la parte di gran lunga maggiore, rimasero occupati nell'agricoltura. Ma da singoli proprietari erano divenuti o operai agricoli in fattorie statali, o membri di fattorie collettive (kolchoz) le quali, in teoria libere associazioni cooperative, erano di fatto gestite e strettamente controllate dallo Stato.
Fu posto fine alla NEP e lo Stato assunse il controllo dell'intera attività economica. Gli antichi piccoli imprenditori furono espropriati e in molti casi incarcerati.
La riforma dell'agricoltura venne avviata all'insegna della lotta di classe: il suo primo obiettivo esplicito era la liquidazione dei kulaki, vale a dire dei contadini ricchi. Ma quasi subito il governo cominciò a esercitare pressioni sull'insieme delle masse contadine perché mettessero in comune, in fattorie collettive, la loro terra, il loro bestiame e i loro strumenti produttivi. La lotta per costringere i contadini a entrare nelle fattorie collettive fu assai dura. In un primo tempo il governo impiegò la propaganda e alcune misure economiche, tassando pesantemente il proprietario individuale e al tempo stesso concedendo privilegi fiscali ai collettivi. Ma presto dovette ricorrere a misure di polizia contro i contadini recalcitranti - deportazione e incarcerazione - e introdurre pene draconiane contro chi sottraeva allo Stato grano o altri prodotti. Spesso i contadini reagivano opponendo una resistenza passiva e talvolta anche attiva. Macellavano le loro bestie piuttosto che cederle alle mandrie collettive, aggredivano i funzionari inviati nelle campagne per introdurvi il nuovo ordine, limitavano le coltivazioni a ciò che era strettamente necessario al consumo familiare, ecc. Questa lotta tra il regime e la maggioranza della popolazione, combinandosi con gli effetti di due cattivi raccolti consecutivi (1932-1933), produsse una carestia che colpì buona parte delle campagne russe e fece, secondo calcoli non ufficiali, circa quattro milioni di vittime.
L'esito finale della lotta segnò la vittoria, anche se solo parziale, del regime. Nel 1934 la grande maggioranza dei contadini russi era stata costretta a entrare nei kolchoz. Ma per salvare l'agricoltura da un collasso completo il governo dovette abbandonare la sua intenzione iniziale di sopprimere interamente la proprietà privata. La famiglia contadina fu autorizzata a conservare un piccolo podere per la coltivazione di ortaggi e ad allevare a titolo privato bovini e pollame.
La trasformazione dell'agricoltura si proponeva due obiettivi principali. Il primo era di rastrellare la manodopera agricola in sovrappiù per trasferirla nell'industria in rapido sviluppo. In luogo dei circa 25 milioni di unità produttive del periodo antecedente alla collettivizzazione, il governo aveva ora a che fare con circa duecentomila fattorie collettive. Diveniva possibile applicare all'agricoltura metodi più efficienti, legati alla produzione su vasta scala. Gli attrezzi incredibilmente primitivi (prima del 1929 molti contadini usavano ancora aratri di legno) furono sostituiti da trattori e da altro macchinario moderno.
Il secondo era un obiettivo di controllo. Prima della collettivizzazione il governo aveva dovuto infatti negoziare con il contadino per ottenere grano e altri prodotti necessari per i consumi urbani e per l'esportazione. Se il prezzo offertogli non era soddisfacente, il contadino sottraeva al mercato il suo grano e la sua farina e il governo non disponeva di un apparato abbastanza efficiente da costringere il contadino a vendergli le derrate al prezzo fissato. Ora diveniva possibile imporre alle fattorie collettive la consegna di quote precise e il kolchoz veniva autorizzato a vendere a prezzi più elevati soltanto le eccedenze rispetto a tali quote.
Nella teoria marxista corrente le fattorie collettive rappresentano una fase transitoria tra la proprietà privata e quella socialista. E tuttavia la collettivizzazione costituì di fatto, pur con i limiti suaccennati, una virtuale nazionalizzazione dell'agricoltura. L'area delle decisioni prese autonomamente dai membri di una fattoria collettiva era estremamente ristretta e ciò è rimasto oggi quasi altrettanto vero che nel 1934. È lo Stato che determina non solo i prezzi, ma le colture, i metodi di coltivazione, il sistema di remunerazione dei singoli membri del kolchoz e altri aspetti vitali del loro lavoro. In parecchi casi sono gli organi statali o di partito locali che nominano i dirigenti del kolchoz e se un contadino vuole lasciare il suo villaggio ha bisogno della loro autorizzazione (anche se oggigiorno si tratta sempre di più di una mera formalità).
Malgrado tutti gli inconvenienti economici e sociali del sistema, la collettivizzazione fu - ed è tuttora - considerata come il passo decisivo nella trasformazione della società sovietica in una società socialista. Essa abolì gli ultimi residui di proprietà privata dei mezzi di produzione e sostituì, in un settore vitale dell'economia nazionale, a una miriade di minuscole unità produttive una rete di aziende di grandi dimensioni. E tuttavia questo scopo, uno dei più cari ai padri del comunismo, fu raggiunto non, come aveva auspicato Lenin, sulla base di un'adesione volontaria, dell'acquisizione da parte del contadino della consapevolezza della superiorità della proprietà comunitaria e delle grandi unità produttive meccanizzate, ma in massima parte attraverso metodi coercitivi.
Anche nel campo dell'industria, pur se in misura minore, Stalin ruppe con la prassi precedente del comunismo. Già Lenin si era accorto che l'effettivo funzionamento dell'economia richiedeva incentivi materiali e disciplina industriale, ovvero, in altri termini, paghe differenziate e persone tecnicamente addestrate alla direzione delle fabbriche. Ma nel periodo prestaliniano (vale a dire prima del 1928-1930, gli anni in cui Stalin assurge al potere assoluto) la società russa era ancora largamente egualitaria e l'autorità dei dirigenti industriali era ancora soggetta all'influenza frenante dei sindacati operai. Invece, con la spinta all'incremento produttivo, queste concessioni allo spirito del comunismo originario furono abbandonate. Il ventaglio delle remunerazioni divenne assai più ampio. Dovunque fosse possibile fu introdotto il cottimo e premi speciali e riconoscimenti furono concessi a quei lavoratori e a quelle imprese che superavano il livello standard della produzione. Fu rafforzata l'autorità del dirigente, e il diritto dell'operaio a scioperare, mai formalmente abrogato, divenne però una fictio giuridica. Sanzioni severe, anche di natura penale, colpivano quanti si rendevano colpevoli di assenteismo o anche soltanto di ritardi sul lavoro. I sindacati erano ora soggetti ad uno stretto controllo governativo; il loro compito principale doveva consistere nell'adoperarsi ad accrescere la produttività.
Nel suo spirito, se non nei suoi metodi, la rivoluzione stalinista fu coerente con gli obiettivi del marxismo-leninismo. In accordo con tali obiettivi, nel giro di un decennio essa trasformò l'Unione Sovietica in uno dei maggiori Stati industriali del mondo, abolì la proprietà privata dei mezzi di produzione e pose così - per dirla in termini marxisti - le fondamenta istituzionali ed economiche del socialismo. Quanto, invece, questa rivoluzione attuò nel campo politico e sociale, smentì i pronostici dei fondatori del marxismo. La loro previsione era stata che il progresso economico avrebbe avuto dei riflessi nel campo sociale e politico, che all'abolizione dello sfruttamento economico si sarebbe accompagnata una crescita della libertà reale dell'individuo. La dittatura del proletariato non fu mai assimilata da Marx alla dittatura di un solo partito, né da Lenin alla dittatura di un solo individuo. Eppure nel 1936 il sistema politico sovietico non era ormai più - come avrebbero riconosciuto anche i successori di Stalin - una dittatura del proletariato, e neppure una dittatura del Partito Comunista, ma un dispotismo personale. Lo stesso Partito Comunista era ormai governato non più da una cerchia ristretta di capi, come era stato nel periodo 1928-1934, ma dal Capo, assistito dalla polizia politica. Nella terminologia post-staliniana il periodo successivo al 1934 è noto come quello del ‛culto della personalità'. Tutte le forme dell'attività sociale - dalla politica alla letteratura - erano regolate dalla volontà di un solo uomo. Gli anni tra il 1936 e il 1939 videro la ‛grande purga'. Il terrore colpì duramente l'élite sovietica, decimando i gruppi dirigenti del partito, della burocrazia governativa e dell'esercito e facendo vittime innumerevoli tra i cittadini comuni. Questa campagna, il cui fine ufficiale era di epurare il paese dai ‛nemici del popolo', vale a dire dai traditori e dagli agenti delle potenze fasciste, oltre che dai residui delle vecchie classi sfruttatrici, mirava in realtà a cancellare ogni opposizione - passata, presente e futura - al dittatore.
Le valutazioni del comunismo staliniano dipendono dalla prospettiva dell'osservatore. I bilanci ufficiali del regime mettevano in risalto il progresso economico e sociale del paese, che, si diceva, giustificava tutti i sacrifici e tutte le privazioni. Nel 1936 fu ufficialmente proclamato che nell'Unione Sovietica era stato raggiunto il socialismo, vale a dire era stato abolito lo sfruttamento e con esso il sistema classista del capitalismo. Non rimanevano ormai che due classi: gli operai industriali e i contadini. L'intelligencija e i funzionari non costituivano più, dal punto di vista stalinista, una classe speciale, ma soltanto un gruppo sociale prodotto dalle due classi dominanti, la cui funzione era di servire gli interessi di queste. Per celebrare il raggiungimento del socialismo fu proclamata una nuova costituzione ‛staliniana', che introdusse, almeno sulla carta, istituzioni parlamentari di tipo occidentale, elencò una serie imponente di libertà civili e politiche e riaffermò le garanzie dell'individuo contro l'arresto arbitrario.
Per un osservatore non-comunista la costituzione del 1936 costituiva invece la prova basilare dell'abisso esistente nell'Unione Sovietica tra la realtà politica e la finzione costituzionale. La sua promulgazione coincise esattamente con l'inizio del periodo di più intenso terrore e di violazione dei più elementari diritti dell'individuo. Per un anticomunista, non importa se di orientamento democratico, socialista o liberale, l'essenza del sistema sovietico era il dispotismo puro e semplice. Ai suoi occhi il culto ufficiale del comunismo appariva come una vernice ideologica destinata a coprire un sistema che esaltava a un tempo il potere assoluto di un singolo uomo e i privilegi economici e di altro tipo della classe dominante: la burocrazia del partito e dello Stato.
Dal punto di vista dei comunisti dissidenti, così come venne espresso da Trotzki (assassinato in esilio nel 1940 da un agente del servizio segreto sovietico), l'Unione Sovietica era sì una società socialista, ma una società socialista ch'era stata pervertita da Stalin con la sua dittatura personale e con la creazione di una classe burocratica privilegiata. Rimane da aggiungere che gli orientamenti dissidenti, come appunto il trotzkismo, ebbero scarsa udienza presso i comunisti degli altri paesi. Il prestigio dell'Unione Sovietica, la sua crescente potenza industriale e militare, la minaccia del fascismo e infine la lotta eroica e la vittoria della Russia sovietica nella seconda guerra mondiale, contribuirono a far sì che il comunisino mondiale conservasse la sua struttura monolitica. La liquidazione ufficiale del Komintern nel 1943 (decretata da Mosca a titolo di concessione agli alleati democratici della Russia) non incise minimamente sulla dipendenza dei partiti comunisti stranieri dal PCUS, né sul loro culto per il capo supremo di questo.
La seconda guerra mondiale condusse ad un'espansione davvero notevole del comunismo. Regimi dominati dai comunisti sorsero in parecchi Stati dell'Europa orientale. Nel caso della Polonia, della Romania, dell'Ungheria e della Bulgaria furono imposti puramente e semplicemente dalla forza dell'Esercito rosso, mentre in Iugoslavia e in Albania dovettero la loro origine alla funzione di guida avuta nella Resistenza dalle forze comuniste locali. Infine in Cecoslovacchia i comunisti risultarono nelle elezioni politiche il partito più forte. Ma, quale che ne fosse stata l'origine, fu la potenza dell'Unione Sovietica ad assicurare, contro una considerevole opposizione popolare, la continuità dei regimi comunisti. Fu insomma la minaccia di un intervento dell'Esercito rosso a mantenere il comunismo al potere e l'egemonia sovietica sull'intera regione. Il suo ruolo fu in particolare decisivo nel febbraio 1948 nell'evitare il rovesciamento del regime comunista cecoslovacco e nel mettere in grado il partito comunista locale di tenere più saldamente in pugno il paese.
Nella terminologia marxista, i nuovi Stati comunisti non erano società socialiste pienamente realizzate secondo il modello dell'Unione Sovietica, ma costituivano una forma transitoria, cui si dette il nome di ‛democrazia popolare'. Fu solo nel 1948, a seguito della defezione iugoslava dal blocco sovietico, che furono introdotte in tutta l'Europa orientale riforme sociali di vasta portata, come ad esempio la collettivizzazione.
Nell'Europa occidentale il comunismo mancò la conquista del potere, malgrado il forte impulso dato dalla nuova potenza e dal nuovo prestigio dell'Unione Sovietica. I partiti comunisti francese e italiano uscirono dalla guerra grandemente rafforzati. Nelle elezioni succedutesi sino ad oggi hanno ottenuto di regola, insieme con i loro alleati, dal 20 al 30% dei suffragi. Sono anche riusciti ad assumere il controllo dei rispettivi movimenti sindacali organizzati. Ma poco dopo la fine della guerra furono estromessi dalle coalizioni di governo. Con il crescere della tensione e della conflittualità tra l'Unione Sovietica e quelli ch'erano stati i suoi alleati occidentali, l'Europa venne così a trovarsi divisa in due blocchi sia dal punto di vista ideologico, sia dal punto di vista politico. La linea di divisione passava attraverso la Germania, dove l'occupazione dette origine a due stati diversi: la Repubblica Federale Tedesca e la Repubblica Democratica Tedesca. La spaccatura fu simboleggiata dalla creazione del Kominform nel 1947. Questo nuovo organismo internazionale comunista comprendeva i partiti comunisti europei al potere (con l'eccezione della Germania orientale e dell'Albania) e i partiti francese e italiano. Ma, diversamente dal Komintern, esso fu sin dall'inizio un palese strumento della politica e della propaganda sovietiche. Il Komintern, invece, era rimasto sotto alcuni profili sino al 1924-1925 un'organizzazione non interamente controllata da Mosca.
È invece fuori dell'Europa, in Asia, che il comunismo dimostrò di sapersi sviluppare e di essere in grado di arrivare al potere senza l'aiuto dell'esercito sovietico. Certo, i successi iniziali del comunismo cinese furono grandemente facilitati dall'occupazione della Manciuria da parte del- l'Esercito rosso nella fase finale della guerra contro il Giappone e dal fatto che i Sovietici consegnarono nelle mani nell'Esercito popolare di liberazione di Mao i depositi giapponesi di armi e munizioni. Ma nella vittoria riportata dai comunisti nella guerra civile degli anni 1945-1949 il ruolo decisivo fu indubbiamente svolto dagli sforzi degli stessi comunisti cinesi. Nel 1949 essi avevano sconfitto le forze del Kuo Min Tang, costringendo il regime di Chiang a rifugiarsi a Formosa, e avevano proclamato la Repubblica Popolare Cinese, che nel corso dell'anno successivo avrebbe stabilito il suo fermo controllo su tutta la Cina continentale. Ciò costituì sulla scena mondiale un evento di importanza storica paragonabile alla Rivoluzione bolscevica: la nazione più popolosa del mondo era passata nel campo comunista.
In parecchi altri paesi asiatici, e particolarmente in quella che sino alla seconda guerra mondiale era stata l'Indocina Francese, il comunismo trasse profitto dalla lotta nazionalista contro l'imperialismo straniero. Il modello dell'Europa orientale - la fondazione di un regime comunista come conseguenza diretta dell'occupazione sovietica - si ripeté in Asia soltanto nella Corea del Nord.
La fase finale del periodo della leadership staliniana (1945-1953) conservò l'apparenza di un'unità monolitica del blocco comunista, sebbene l'Unione Sovietica non fosse più il solo Stato comunista. La defezione della Iugoslavia, avvenuta nel 1948, e sulla quale diremo qualcosa più oltre (v. sotto, cap. 7), sembrò soltanto l'eccezione che conferma la regola. I dissensi assai seri tra Mosca e Pechino rimasero celati al mondo così come a chiunque non appartenesse ai vertici delle gerarchie dei due giganti comunisti. Stalin rappresentava a un tempo il simbolo dell'unità e la volontà direttiva: egli era venerato a Varsavia come a Pechino, presso i comunisti francesi come presso i comunisti brasiliani, ovunque in modo eccessivo come accadeva a Mosca. Era Stalin insomma che dettava la linea politica che i comunisti di tutto il mondo si sentivano obbligati a seguire. Il suo risentimento personale contro Tito e i comunisti iugoslavi giuocò un ruolo decisivo nell'espulsione del Partito Comunista Iugoslavo dal Kominform nel 1948. E anche se siamo ancora all'oscuro per quanto concerne i particolari degli intrighi svoltisi prima e dopo lo scoppio della guerra di Corea nel 1950, è perfettamente verosimile che sia stata una decisione personale di Stalin a spingere i comunisti cinesi a intervenire nella lotta nel novembre 1950, per evitare che il regime nord-coreano fosse distrutto dalle forze congiunte americane e sud-coreane.
Nella Russia sovietica gli ultimi anni della dittatura di Stalin videro la riaffermazione del conflitto ideologico e politico con l'Occidente. Dopo il 1946 l'isolamento imposto al blocco comunista (la ‟cortina di ferro", secondo l'espressione di Churchill), per mantenerlo al riparo dalle influenze inquinanti, politiche e culturali, dell'Occidente, divenne più rigido di quanto fosse mai stato nel periodo prebellico. All'interno i controlli ideologici furono rafforzati e il nazionalismo russo divenne, insieme al marxismo, l'idea fondamentale che regolava la vita politica, culturale e persino scientifica. Il potere politico rimase nelle mani di una cerchia ristrettissima di persone, comprendente il dittatore e quanti, in quel momento, gli erano più vicini. Tra il 1929 e il 1952 non venne tenuto alcun congresso del partito e, secondo le notizie ufficiali, ebbero luogo soltanto tre riunioni del Comitato centrale, mentre gli statuti del partito prescrivevano un congresso almeno ogni quattro anni e il Comitato centrale avrebbe dovuto riunirsi almeno una volta al mese.
Strutturalmente, in quegli anni, la società sovietica subì pochi mutamenti di rilievo. Lo sforzo principale del regime fu dedicato al riassestamento dell'economia rovinata dalla guerra. Nel 1952 l'anziano dittatore scrisse i suoi Problemi economici del socialismo nell'URSS. Nella misura in cui volgeva lo sguardo al futuro, l'opuscolo preconizzava ulteriori mutamenti nella struttura dell'agricoltura sovietica. Anche prima, negli anni 1949-1950, il regime aveva lanciato una campagna per aumentare le dimensioni delle fattorie collettive diminuendone contemporaneamente il numero. Agli occhi dei governanti, l'agricoltura sovietica rimaneva da un punto di vista sia economico che sociale il tallone d'Achille del comunismo. Diversamente da quanto avveniva nell'industria, la produttività agricola non cresceva. E il podere privato del contadino rimaneva un incomodo residuo di proprietà privata, che lo Stato non rinunciava a limitare e controllare e, in prospettiva, ad abolire.
Quanto alla scena mondiale, lo scritto di Stalin prevedeva la continuazione della lotta tra comunismo e capitalismo, ma al tempo stesso respingeva l'idea dell'inevitabilità della guerra.
Stalin morì il 5 marzo 1953. La sua morte portò allo scoperto le tensioni esistenti all'interno del comunismo - sia nell'URSS, sia in campo internazionale - che il suo ferreo dominio sulla società sovietica e sul movimento comunista aveva tenuto celate.
7. Il comunismo nell'era post-staliniana. Il poli- centrismo
La morte di Stalin provocò alcune modificazioni nella struttura del potere sovietico. La direzione collegiale sostituì il potere dispotico di un solo uomo. All'insegna del ‟ritorno a Lenin" si procedette a rinvigorire il partito. D'ora in avanti i congressi sarebbero stati tenuti più o meno ogni cinque anni. Quando si verificava una divisione entro l'oligarchia dominante (il caso più notevole si verificò nel 1957, quando la maggioranza del Politburo cercò di destituire Chruščëv dalla segreteria), il Comitato centrale recuperava una parte del suo antico ruolo di arbitro. Ma in linea di massima il potere politico rimase concentrato nel Presidium (che nel 1966 ritornò al suo antico nome di Politburo), un organismo con un numero di membri variante tra dodici e quindici, con il Primo segretario del Comitato centrale (anch'egli tornato nel 1966 all'antico titolo di Segretario generale) come figura dominante del regime.
Nel 1956 la leadership lanciò una campagna di destalinizzazione. Prima ancora che venissero abrogate le misure più dure del vecchio dispotismo, si provvide a liberare la maggior parte degli internati nei campi di lavoro forzato. Molti esponenti del partito e soprattutto dell'esercito, che erano stati liquidati durante le purghe, vennero riabilitati. Nel suo discorso al XX Congresso Chruščëv attaccò frontalmente il ‛culto della personalità': l'operato di Stalin successivo al 1934 fu proclamato contrario ai principi del marxismo-leninismo, mentre alcune sue azioni furono qualificate come criminali o spiegate con la sua sfrenata brama di potere e con la sua morbosa diffidenza. La campagna fu particolarmente intensa tra il 1961 e il 1964. Al XXI Congresso (1961) Chruščëv usò un linguaggio molto più forte che nel 1956: gli orrori delle purghe, e specialmente i delitti perpetrati durante i periodi di terrore più sfrenato (1936-1939 e 1949-1952), furono imputati non solo a Stalin, ma anche ai suoi stretti collaboratori V. M. Molotov, G. M. Malenkov e L. M. Kaganovič. La salma di Stalin fu rimossa dal Mausoleo dove, tra il 1953 e il 1961, aveva riposato accanto a quella di Lenin. Con l'allontanamento di Chruščëv dalle cariche di Primo segretario e di Presidente del consiglio dei ministri (ottobre 1964), la campagna anti-Stalin fu dapprima messa in sordina, e quindi fermata. I successori di Chruščëv ritennero che essa fosse stata portata troppo oltre, e che avesse finito col ripercuotersi non soltanto sulla memoria del despota defunto, ma su tutto il regime sovietico.
La politica interna seguì in buona parte le fortune della destalinizzazione. Pur non potendo venir qualificato come liberale, il periodo chruščëviano (1954-1964) registrò certamente una certa ‛liberalizzazione'. I poteri della polizia segreta vennero drasticamente ridotti. Il terrore di massa di tipo staliniano divenne inconcepibile. Tra il 1961 e il 1964 il regime allentò il suo controllo sulla vita artistica e letteraria. La pubblicazione di una descrizione così fosca della vita sotto Stalin quale era quella contenuta in Una giornata di Ivan Denisovič di Solzenicyn fu autorizzata personalmente da Chruščëv. Si pose fine al dominio di vari piccoli Stalin in certi settori della vita culturale sovietica (ricordiamo il caso della biologia e di T. D. Lysenko, un ciarlatano che aveva ottenuto la fiducia di Stalin). Fu consentito un certo scambio culturale e scientifico con i paesi occidentali, anche se il regime insisteva sul concetto che la coesistenza pacifica con il mondo non-comunista, da esso predicata, non doveva estendersi, e non sarebbe stata estesa, alla sfera ideologica.
Con il 1964 questa linea di sviluppo fu in gran parte arrestata e in qualche caso rovesciata. I requisiti di ortodossia politica imposti alle arti e alle scienze divennero nuovamente rigorosi. La descrizione realistica della vita sovietica sotto Stalin fu dapprima scoraggiata, e quindi proibita. Alcuni letterati dissidenti furono incarcerati. Pur non potendo essere paragonata a ciò ch'era accaduto prima del 1953, la repressione del dissenso sia politico che culturale è stata nell'Unione Sovietica, specialmente dopo il 1968 e l'invasione della Cecoslovacchia, sistematica e brutale. Il regime non pensa più - come era avvenuto tra il 1961 e il 1964 - che un minimo di dissenso costituisca un'utile valvola di sfogo. Esso si adopera ora a reprimere questo dissenso, a punire o almeno a isolarne gli esponenti principali - si pensi a Solzenicyn - e a limitare (e forse riuscirà presto a sopprimerla interamente) l'attività letteraria e giornalistica clandestina (il cosiddetto samizdat′).
Nel campo della politica economica e sociale non è intervenuta invece alcuna analoga inversione di tendenza. Qui il governo Breznev-Kosygin ha continuato, e anzi addirittura accentuato, la politica chruščëviana mirante a migliorare la posizione del consumatore sovietico. L'era staliniana fu caratterizzata da uno sfruttamento sistematico delle masse contadine. È il contadino russo che ha pagato in larga misura il costo della rapida industrializzazione del paese. Chruščëv cercò di far progredire l'agricoltura sovietica con una serie di iniziative frettolosamente improvvisate: l'apertura alla collettivizzazione di nuove terre ‛vergini', mutamenti nella struttura del partito, incoraggiamento di nuovi tipi di colture, ecc. I suoi successori, respingendo quelli che hanno chiamato i suoi progetti scervellati, si sono invece preoccupati di accrescere gli investimenti nel settore agricolo e di estendere ai contadini delle fattorie collettive i servizi sociali di cui già godevano gli operai urbani (ad es. le pensioni di vecchiaia). E il piano esposto al XXIV Congresso (1971) prevedeva per la prima volta un'espansione del settore dei beni di consumo proporzionalmente maggiore rispetto a quella dei beni strumentali. Dire che la società sovietica è ormai una società orientata verso i consumi sarebbe eccessivo. E tuttavia negli ultimi anni il governo, mentre ha irrigidito i controlli politici e ideologici, ha mostrato invece qualche segno di maggiore considerazione per il consumatore e di preoccupazione per la qualità oltre che per la quantità della produzione. Ha inoltre introdotto un certo grado di decentralizzazione (indubbiamente ancora modestissima) nei meccanismi di formazione delle decisioni economiche.
I mutamenti più importanti intervenuti nel comunismo nel corso dell'ultimo ventennio riguardano la sua dimensione internazionale. Già sotto Stalin un paese comunista, la Iugoslavia, aveva abbandonato il blocco sovietico. I governanti iugoslavi, pur determinati ad attuare i principi comunisti in politica interna, avevano proclamato la loro indipendenza in campo internazionale. Dopo il 1953 l'Unione Sovietica cercò un accomodamento con la Iugoslavia. Mosca riconobbe che il vecchio modello, fondato sulla pura e semplice accettazione del suo predominio da parte degli altri paesi a regime comunista, era ormai divenuto obsoleto. Chruščëv sperò di poter sostituire ai rapporti del passato, basati sul rigido controllo di Mosca, rapporti nuovi, basati sugli interessi reciproci e sui legami ideologici. Nel 1956 questo riconoscimento trovò espressione nella formula per cui i membri del blocco comunista erano liberi di seguire ciascuno la propria via al socialismo. Non spettava dunque a Mosca determinare il ritmo della collettivizzazione in Polonia o in Ungheria o decidere la composizione del gruppo dirigente dei partiti comunisti al potere. Ma il regime sovietico fissò prestissimo limiti molto precisi all'autonomia ch'esso era disposto a tollerare negli altri paesi comunisti. Nel 1956 l'esercito sovietico intervenne in Ungheria per arrestare sviluppi che a giudizio del Cremlino minacciavano di produrre il rovesciamento del comunismo in quel paese. Ci si rese allora conto che l'Unione Sovietica, pur tollerando un certo grado di autonomia interna nei paesi del blocco est-europeo, sarebbe intervenuta ogniqualvolta gli sviluppi in corso in uno qualsiasi di questi paesi avessero minacciato di rovesciare il regime comunista. Lo stesso sarebbe avvenuto se un dato governo, pur non mettendo in pericolo il carattere comunista del regime, avesse ricercato una completa emancipazione dalla Russia nel campo della difesa e della politica internazionale e se il gruppo dirigente russo avesse giudicato che un processo di liberalizzazione interna andava tanto oltre da produrre effetti potenzialmente pericolosi sugli altri paesi comunisti.
Questa linea, però, non è stata applicata con coerenza assoluta: nel 1960 l'Albania, approfittando della mancanza di una frontiera comune con l'URSS e avvalendosi dell'appoggio cinese, ruppe con Mosca; e nel corso dell'ultimo decennio la Romania, approfittando del dissidio cinosovietico, ha raggiunto una certa indipendenza in materia sia di politica economica, sia di politica internazionale. Ma nel 1968 l'Unione Sovietica fece nuovamente ricorso all'intervento armato in Cecoslovacchia, il cui governo stava procedendo sotto la guida di A. Dubček ad una liberalizzazione interna che a Mosca veniva giudicata non solo eccessiva, ma anche un esempio pericoloso per gli altri paesi a dominazione comunista. Si giunse quindi con la cosiddetta dottrina Brežnev a ribadire il diritto di intervento dell'URSS ogniqualvolta ‛a suo giudizio' in uno qualsiasi dei paesi del blocco socialista venisse minacciato il regime comunista.
8. Il comunismo cinese
Alla luce della disputa politica e ideologica in corso tra Cina e Unione Sovietica, è opportuno soffermarsi a esaminare il problema se il comunismo cinese rappresenti oppure no una forma diversa della dottrina.
È innanzitutto necessario riassumere brevemente la genesi e lo sviluppo del comunismo cinese. Secondo i precetti del marxismo classico, la Cina del primo dopoguerra non era nello stadio di sviluppo sociale adatto a una trasformazione socialista. Pur essendo ancora un paese prevalentemente agricolo, la Russia prerivoluzionaria possedeva un'industria considerevole e in rapida espansione. Invece la Cina non era neppure entrata, secondo i criteri marxisti, nello stadio capitalistico dello sviluppo. Il suo assetto economico e sociale poteva ancora essere classificato come essenzialmente feudale, con qualche modesto elemento capitalistico rappresentato soprattutto da attività bancarie e industriali straniere e da una cospicua classe commerciale cinese, concentrate nelle grandi città portuali. Il proletariato industriale, nel senso proprio della parola, costituiva una frazione minuscola della popolazione. Secondo il marxismo ortodosso, prima che un partito marxista potesse anche soltanto cominciare a esistere in Cina sarebbero state necessarie due condizioni: l'unificazione nazionale e un grado considerevole di sviluppo economico e di modernizzazione.
Contro siffatte obiezioni ‛sostanzialistiche', due furono le cause principali che condussero allo sviluppo del comunismo nel paese più popoloso del mondo. Innanzitutto, come abbiamo visto, Lenin sostenne nel suo scritto sull'Imperialismo che le zone coloniali e semicoloniali erano il luogo naturale per vibrare un colpo al capitalismo mondiale. E dopo la Rivoluzione russa il Komintern rivolse un'attenzione speciale a quelle che, con un'espressione più recente, possiamo chiamare le aree sottosviluppate, specialmente in Oriente. Questa strategia fu influenzata in parte dalla relativa stabilizzazione del capitalismo nell'Europa occidentale degli anni venti, e in parte dal riconoscimento del fatto che la Gran Bretagna costituiva il pilastro del sistema capitalistico mondiale. Ne seguiva che, come già affermato dall'Imperialismo leniniano, il possesso inglese dell'India e i vasti interessi britannici nella Cina meridionale erano giudicati essenziali al mantenimento del capitalismo in patria. Da qui lo speciale interesse dei dirigenti del Komintern e del governo sovietico (in quell'epoca i due gruppi non coincidevano ancora completamente) per la Cina, la quale dal rovesciamento dei Manciù (1911) in poi non aveva più avuto un effettivo governo nazionale. Non si esagera se si afferma che all'inizio degli anni venti la Cina e il suo potenziale rivoluzionario assorbivano l'attenzione del Komintern più di ogni altro paese straniero, eccettuata forse la sola Germania.
Ma, a parte la spinta proveniente dall'esterno, c'erano valide ragioni interne perché il comunismo mettesse radici nel suolo cinese, all'apparenza poco promettente. L'arretratezza del paese, l'anarchia interna e le ripetute sconfitte e umiliazioni subite ad opera delle potenze imperiali avevano indotto alcuni gruppi dell'intelligencija a ricercare un'ideologia occidentale che fosse capace di fornire la cura più radicale ed efficace dei mali tradizionali della Cina. Date le sue premesse, in un primo tempo il marxismo non poteva sperare di esercitare una grande attrazione sui Cinesi di orientamento riformista. E infatti anteriormente alla prima guerra mondiale è quasi impossibile parlare di un pensiero o di un movimento socialisti in Cina. Ma dopo la guerra e la Rivoluzione russa il marxismo arrivò nel paese sotto la nuova e attraente veste dell'antimperialismo. Inoltre, l'ostentata rinuncia da parte dell'Unione Sovietica ai privilegi di extraterritorialità e di altro genere goduti in Cina dalla Russia zarista non poteva non impressionare favorevolmente a confronto con il comportamento delle altre potenze imperiali. L'esperimento sovietico doveva quindi necessariamente imporsi all'attenzione dell'intelligencija riformista cinese, mentre il comunismo non poteva mancare di attrarre la sua componente radicale (la quale era certo agli inizi piuttosto modesta). Piccoli gruppi di studenti cinesi all'estero (da segnalare particolarmente quello parigino del 1919, di cui faceva parte Chou En-lai) formarono circoli comunisti. Nel luglio 1921 si tenne a Shang hai il congresso di fondazione del partito comunista cinese, nel quale Mao Tse-tung fu uno dei delegati.
I comunisti cinesi e i loro consiglieri moscoviti ritenevano - i secondi più dei primi - che, data la situazione del paese, il comunismo non potesse proporsi la presa del potere, ma dovesse innanzitutto fungere da fermento all'interno di un più ampio fronte progressista, il quale avrebbe realizzato una rivoluzione nazionale che avrebbe segnato la fine dei signori della guerra e della dominazione straniera e unificato la Cina. La ‛linea' del Komintern voleva che nelle aree coloniali e semicoloniali i comunisti collaborassero con la borghesia nazionale progressista. E in conformità con tale tattica i comunisti cinesi stipularono un patto con il Kuo Min Tang, ch'era la maggiore organizzazione nazionalista. Nel 1923 il suo capo, Sun Yat-sen, affermò, in una dichiarazione sottoscritta insieme con il diplomatico sovietico A. loffe, che i comunisti potevano aderire al Kuo Min Tang senza rinunciare ad una propria distinta organizzazione; in cambio, l'aiuto sovietico sarebbe stato esteso alla causa del nazionalismo cinese.
L'alleanza tra Kuo Min Tang e comunisti terminò con una catastrofe per questi ultimi quando nel 1926-1927 il nuovo gruppo dirigente del Kuo Min Tang, capeggiato da Chiang Kai-shek, si rivolse contro gli ex alleati. Nell'aprile del 1927 Chiang decimò l'organizzazione comunista di Shang hai. Quindi procedette a consolidare il suo potere sulla maggior parte del territorio cinese per via o di conquista diretta o di accordi con i signori della guerra locali (v. Isaacs, 1951; v. Brandt, 1958). Vari tentativi comunisti di opposizione armata - ad esempio l'insurrezione del dicembre 1927 a Canton - furono spietatamente repressi.
Mentre il gruppo dirigente del partito continuava ad operare nella clandestinità a Shang hai, alcuni comunisti, delusi e dalla tattica precedentemente adottata e dai consigli del Komintern, abbandonarono i centri urbani per tentare di organizzare unità guerrigliere nelle campagne. Tra costoro era Mao, che sin dal 1925 aveva rilevato le possibilità di un'azione rivoluzionaria tra i contadini poveri. Nell'ancora caotica situazione del paese, e data la condizione di oppressione in cui si trovavano i fittavoli, alcuni movimenti guerriglieri riuscirono a ottenere successi locali e a costituire zone ‛sovietiche', sfidando così l'autorità del governo nazionale. La più importante di queste imprese fu il regime sovietico creato nel Chiang hsi a seguito dell'unificazione tra le unità guerrigliere di Mao e di Chu Te. Respingendo i numerosi tentativi di annientarli compiuti dalle forze di Chiang, nel novembre 1931 i comunisti del Chiang hsi proclamarono in quella provincia la Repubblica Sovietica Cinese, con Mao come presidente.
Il fatto che questo ‛Piemonte' della Cina comunista sia riuscito in seguito a sopravvivere fu indubbiamente dovuto al conflitto cino-giapponese, scoppiato nel 1931 con l'occupazione nipponica della Manciuria. Esso venne dapprima a interferire con i tentativi del governo di Nanchino di domare le zone ribelli, e poi - quando Chiang ricercò e ottenne una tregua con i Giapponesi per concentrarsi sui problemi interni - valse ai comunisti la simpatia di molta gente convinta che la guerra contro l'invasore straniero fosse assolutamente prioritaria. Nel 1934 le forze nazionaliste erano sul punto di liquidare l'enclave comunista. Le forze comuniste s'impegnarono allora nella famosa ‛lunga marcia', che dopo un intero anno e numerose peripezie le portò nella provincia settentrionale dello Shen hsi, che sarebbe stata la loro nuova base (v. Wilson, 19712). Questa regione e la sua capitale Yen an rimasero in mano comunista sino a dopo la seconda guerra mondiale.
Il successivo importante sviluppo nella storia del comunismo cinese fu il nuovo fronte unito con il Kuo Min Tang costituito per combattere l'aggressione giapponese, che nel 1937 aveva assunto il carattere di una guerra totale. Questa alleanza fu ardentemente voluta dai comunisti di Mao e dall'Unione Sovietica, desiderosa di controbilanciare la minaccia giapponese contro i suoi territori orientali. Chiang dapprima oppose resistenza, infine l'accettò sotto la pressione dei suoi collaboratori. Malgrado fosse caratterizzata da una profonda diffidenza reciproca, e fosse turbata ogni tanto da combattimenti tra truppe comuniste e truppe governative, l'alleanza resisté sino alla fine della guerra e alla capitolazione del Giappone nell'estate del 1945.
Le circostanze della capitolazione giapponese svolsero un ruolo importante nella vittoria finale dei comunisti cinesi. La Manciuria fu occupata dalle truppe sovietiche, che la evacuarono soltanto nel maggio 1946. Se da un lato rispettarono esteriormente la lettera del loro accordo con il governo nazionale cinese dell'agosto 1945, dall'altro i Sovietici appoggiarono di fatto i gruppi comunisti locali operanti in Manciuria, e soprattutto consegnarono nelle loro mani le considerevolissime riserve di armi e munizioni catturate ai Giapponesi. Ne seguì che quando i Russi se ne andarono, i partigiani di Mao si trovarono ad avere il virtuale controllo delle campagne mancesi. Con la ripresa in pieno della guerra civile nel luglio 1946 Chiang decise, poco avvedutamente, di puntare tutto sul recupero della Manciuria, la regione industrialmente più avanzata della intera Cina. Il tentativo, dopo alcuni successi apparenti, portò all'annientamento delle forze più valide di Chiang. Già minato dall'inflazione e dalla corruzione, il regime del Kuo Min Tang subì nel 1948 una serie di catastrofi militari. E così, quando alla fine di quell'anno i comunisti conquistarono la Manciuria e la Cina settentrionale, nessuna forza organizzata era in grado di contrastare il loro dilagare nel resto dell'immenso paese. Nell'ottobre 1949, con l'intera struttura del Kuo Min Tang ormai in pezzi, i comunisti proclamarono la Repubblica Popolare Cinese, e nel giro di pochi mesi l'intera Cina continentale era nelle loro mani. Il regime nazionalista cercò riparo a Formosa.
Le circostanze della lotta comunista per il potere nel periodo 1928-1949 incisero profondamente da un lato sulla natura del nuovo regime, e dall'altro sull'atteggiamento dei comunisti cinesi verso l'Unione Sovietica. È evidente che mentre nel corso di quegli anni seguiva in massima parte le direttive dell'Unione Sovietica (il ‟fratello maggiore", secondo l'espressione di Mao), il comunismo cinese andava però accumulando sotto la superficie forti risentimenti nei confronti della Russia. Il Cremlino non si aspettava una vittoria completa dei comunisti cinesi, e neppure la desiderava, giacché le sue speranze puntavano, nella situazione del dopoguerra, sulla costituzione di uno stato comunista nella Cina del nord-est, che sarebbe inevitabilmente divenuto un satellite di Mosca (v. Ulam, 1968). Messo di fronte alla inattesa vittoria dei comunisti cinesi, Stalin comprese che il nuovo gigante comunista non poteva essere trattato come i Sovietici trattavano, per fare un esempio, la Bulgaria comunista. Il Trattato cino-sovietico di amicizia e alleanza firmato dalle due potenze comuniste nel 1950 comprendeva concessioni assai dolorose dal punto di vista dell'URSS, come la rinuncia a Port Arthur, la base acquisita dai Sovietici sul suolo cinese soltanto cinque anni prima nel quadro del loro accordo con Chiang, e agli speciali diritti economici in Manciuria. Non è chiaro quali fossero i disegni di Stalin a proposito della Cina, e se tra le ragioni che lo spinsero nel 1950 ad autorizzare l'attacco nord-coreano vi fosse la speranza che la conseguente crisi in Estremo Oriente portasse a uno scontro tra Stati Uniti e Cina comunista, scontro che a sua volta avrebbe perpetuato la dipendenza di quest'ultima da Mosca. In ogni caso, l'intervento dei comunisti cinesi nella guerra di Corea avrebbe aggiunto un'altra voce all'elenco delle loro lagnanze contro la Russia. Pur avendo proprie ragioni per intervenire, i Cinesi furono in effetti in un certo senso chiamati a risolvere problemi propri dei Sovietici e a correre il rischio di un massiccio attacco americano, magari con l'impiego della bomba atomica. Inoltre i Sovietici fornirono ai ‛volontari' cinesi un armamento moderno, ma pretesero che gli fosse pagato.
Con la morte di Stalin crebbe la preoccupazione del Cremlino di conciliarsi la Cina e di impedire che le tensioni sotterranee erompessero. Gli aiuti economici e tecnici alla Cina furono aumentati. Nel 1954 l'URSS procedeva finalmente a evacuare Port Arthur e Dairen e a trasferire alla Cina la Ferrovia mancese con tutti i suoi beni. Nella stessa occasione la Russia rinunciò a vari altri privilegi economici in Cina, tra i quali le famigerate compagnie miste.
Malgrado tutte queste concessioni e l'ovvio interesse di entrambe le parti a tener celate le tensioni esistenti nei loro rapporti, nel 1960 il conflitto divenne pubblico. D'allora in poi il contrasto cino-sovietico - e con esso la competizione tra le due potenze per la leadership del movimento comunista mondiale - è stato uno dei fattori di maggiore importanza nelle relazioni internazionali. La vicenda ha conosciuto alti e bassi: talvolta i due paesi si sono trovati sulla soglia di un conflitto armato, e talaltra hanno deciso che era nel loro comune interesse attuare una politica conciliativa e proclamare l'unità di fondo del campo comunista.
Sino a che punto il conflitto cino-sovietico rispecchia una lotta di potere tra due grandi potenze, e sino a che punto si tratta invece di un'autentica spaccatura ideologica? Non c'è alcun dubbio che l'elemento fondamentale del contrasto siano stati i timori nutriti da ciascuna delle due parti nei confronti dell'altra. La Cina si rende conto che la Russia è una potenza industriale e militare ancora incomparabilmente superiore. La Russia guarda al suo vicino comunista con giusto timore a causa dell'enorme popolazione cinese e della probabilità che nel giro di una generazione la Cina divenga anche una potenza industriale di prima grandezza. L'affinità ideologica acuisce anziché attenuare le paure reciproche: entrambe le parti sono infatti consapevoli del fatto che uno Stato comunista è in grado di perseguire l'obiettivo della potenza industriale e militare con una risolutezza maggiore di quella consentita ad uno Stato non comunista. I governanti di uno Stato comunista possono agire nel campo internazionale più fermamente dei governanti di uno Stato democratico, e senza alcuno dei vincoli che normalmente impacciano questi ultimi. Malgrado tutte le sue premesse internazionalistiche, il comunismo ha mostrato di fatto un orientamento accentuatamente nazionalistico. Possiamo dunque affermare che il conffitto tra le due grandi potenze comuniste rispecchia lo scontro degli interessi nazionali russi e cinesi. La Cina non può dimenticare che territori immensi dell'Asia sovietica sono stati un tempo sotto la sovranità dell'impero cinese, cui furono strappati da una serie di ‛trattati ineguali' le cui origini risalgono al Seicento. Pechino ha quindi chiesto che l'Unione Sovietica riconosca in linea di principio che quei territori furono sottratti alla Cina con la minaccia della forza.
E tuttavia l'elemento ideologico, se non è la causa originaria del contrasto, ne è divenuto una componente importantissima.
Il comunismo cinese è cresciuto ed è giunto al potere in un ambiente contadino. Il proletariato industriale, ch'era stato il nucleo della forza del comunismo sovietico, anche se l'Unione Sovietica del 1917 era ancora un paese prevalentemente agricolo, nel caso cinese non svolse invece praticamente alcun ruolo nella lunga ascesa al potere del partito di Mao tra il 1928 e il 1949. Ciò ha posto il comunismo cinese in una prospettiva diversa, inducendolo a una visione della politica molto più esistenzialistica. ‟Il potere politico nasce dalla canna del fucile", ha scritto Mao (v. Schram, 1963), esprimendo un atteggiamento che i comunisti russi avrebbero ben potuto condividere, ma a cui nè Lenin nè Stalin avrebbero mai dato voce così apertamente. Sulla base della propria esperienza, i comunisti cinesi hanno fatto compiere alla formulazioni dell'Imperialismo leniniano un passo ulteriore: i paesi contadini sottosviluppati non sono più, come aveva affermato Lenin, soltanto degli alleati importanti del proletariato dei paesi industriali avanzati, ma costituiscono anzi il teatro principale delle lotte rivoluzionarie odierne. Nel 1965 il maresciallo Lin Piao, allora successore designato di Mao, parlò degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica come di ‛città' circondate dal mare dei paesi contadini, volendo intendere che in un paese urbanizzato la passione rivoluzionaria vien meno, e che può bruciare con fiamma incorrotta soltanto nelle regioni contadine: è insomma accaduto che il progresso materiale della società russa ha corrotto il comunismo sovietico. Secondo la terminologia di Pechino, i dirigenti comunisti dell'URSS sono divenuti ‛revisionisti', preoccupati di promuovere gli interessi di grande potenza del loro paese anziché quelli della rivoluzione mondiale. Non è verosimile che il recentissimo riavvicinamento tra Cina e Stati Uniti (1972-1973) abbia modificato questa basilare analisi ideologica di Mao e del suo gruppo.
Ciò che noi abbiamo chiamato la visione esistenzialistica dei comunisti cinesi ha influenzato anche la loro politica interna. Rispetto ai russi, essi si sono mostrati molto più egualitari, molto più propensi a credere che lo sviluppo politico ed economico può essere improvvisato mediante un atto di volontà. Non tenendo conto delle esperienze sovietiche in materia di collettivizzazione forzata, rivelatesi piuttosto disastrose, hanno tentato di avanzare sul fronte agricolo molto più velocemente di quanto avessero fatto gli stessi russi. A metà degli anni cinquanta Mao s'imbarcò in una campagna di collettivizzazione globale dell'agricoltura. Nel 1958 lanciò il ‛ balzo in avanti': le fattorie collettive dovevano essere unificate in Comuni in cui la proprietà privata fosse quasi interamente soppressa. I comunisti cinesi respingevano così la conclusione raggiunta dai Sovietici nel 1931, vale a dire che gli incentivi materiali e un minimo di proprietà personale sono necessari per indurre i contadini a produrre in modo efficiente. Contemporaneamente si tentò di porre rimedio alle deficienze in fatto di industria pesante incoraggiando la creazione di una miriade di piccole fabbriche e acciaierie. Com'era facile prevedere, questi esperimenti condussero a una catastrofe economica caratterizzata da un lato dalla carestia degli anni 1961-1962 e dall'altro da una battuta d'arresto nello sviluppo del paese. Nel 1962 un elemento di realismo tornò a farsi sentire nella pianificazione cinese.
Ma l'esperienza del ‛grande balzo in avanti' non incise sulla determinazione del regime di Mao a insistere sull'egualitarismo e sugli altri aspetti che distinguevano la sua concezione del comunismo. Nel 1966 scoppiò così la ‛rivoluzione culturale', che stavolta portò il paese sulla soglia dell'anarchia politica. Su ordine di Mao e di Lin Piao, allora suo secondo nel comando, molti dei principali personaggi dello Stato e del partito, incluso il presidente Liu Shao-chi, furono esautorati. Le ‛guardie rosse', gruppi di giovani fanatici, infierirono sugli uffici governativi e di partito, così come sulle altre istituzioni, terrorizzando i funzionari e imponendo nel nome di Mao nuovi organi di governo, approntati ad hoc. Negli anni tra il 1966 e il 1970 le scuole superiori e le università cessarono di funzionare, e alla maggior parte del loro personale insegnante e amministrativo furono imposte mansioni manuali e altre forme di attività rieducativa, secondo i dettami del ‛pensiero del presidente Mao'. Ma con il 1969-1970 la ‛rivoluzione culturale' si esaurì, e si cominciò a ricostruire le strutture del partito e dello Stato.
Le ragioni che stanno dietro questo curioso episodio non ci sono ancora interamente note. Ma è probabile che tra esse figurino le seguenti: a) la convinzione del capo (Mao) che l'apparato del partito e dello Stato andasse burocratizzandosi e stratificandosi, e abbisognasse quindi, per riacquistare l'antico slancio rivoluzionario, di una epurazione radicale; b) il sospetto di Mao che l'oligarchia dominante, capeggiata da Liu Shao-chi, tentasse di fare di lui, pur facendo mostra di venerarlo, un personaggio puramente decorativo, privo di qualsiasi reale influenza sugli affari politici; c) il tentativo da parte di Lin Piao di impadronirsi del potere allontanando i suoi rivali nella successione a Mao, e facendo conseguentemente dell'esercito la forza dominante del regime.
La fine della ‛rivoluzione culturale' non poteva non significare anche la fine dell'influenza di Lin Piao. E nel 1971 ne venne annunciata la morte, avvenuta, secondo la versione ufficiale, mentre tentava di fuggire in volo verso l'Unione Sovietica. Nel 1970-1971 ebbe anche termine l'isolamento della Cina dal resto del mondo. Con la visita del presidente Nixon nel 1972 e con il successivo ingresso della Cina nelle Nazioni Unite si è profilata una nuova era di ‛normalità'. Rimane ancora aperto il problema di sapere in che modo la scomparsa di Mao dalla scena politica, che non può avvenire in un futuro troppo lontano (egli è nato infatti nel 1893), inciderà sul regime.
L'influenza cinese sugli altri partiti comunisti, pur non potendo competere con quella russa, ha messo fine al dominio assoluto dei Sovietici sul movimento mondiale. Alcuni partiti comunisti, e particolarmente quello romeno, si sono serviti del contrasto cino-sovietico per assicurarsi una notevole autonomia nei confronti del Cremlino. Il governo albanese già nel 1960 passò interamente nel campo di Pechino. E in Asia nel corso degli anni sessanta numerosi partiti, tra cui particolarmente quelli del Giappone, della Indonesia e del Vietnam del Nord, si sono avvicinati, pur continuando a manovrare tra i due centri del mondo comunista, al loro confratello asiatico. L'Unione Sovietica dal canto suo ha dovuto, dopo ripetuti tentativi, rinunciare al proposito di espellere la Cina dal movimento a causa dell'opposizione manifestata da molti partiti che, pur rimanendo nel campo russo, invocavano una riconciliazione o perlomeno un occultamento del contrasto, il quale ha ovviamente danneggiato gli interessi del comunismo mondiale nel suo complesso.
La ‛rivoluzione culturale' ha inferto un grave colpo all'influenza di Pechino fuori dei confini cinesi. E tuttavia la spaccatura persiste, e i suoi contraccolpi continuano a farsi sentire in regioni così lontane come l'America Latina. La propaganda di Pechino ha tentato di presentare il ‛revisionismo' sovietico come il ‛comunismo dell'uomo bianco', insinuando non senza successo l'idea che in virtù della sua intrinseca natura il modello cinese è in grado di offrire di più ai rivoluzionari delle aree sottosviluppate non bianche del mondo. A causa della loro apparente maggiore combattività e degli elementi egualitari e ascetici della loro ideologia, i Cinesi hanno esercitato un'attrattiva considerevole su gruppi isolati, anche nei paesi occidentali. Agli occhi degli estremisti più giovani e impazienti il comunismo sovietico sembra, specialmente in seguito al suo ripudio dello stalinismo, aver perduto il suo slancio rivoluzionario e messianico, e la stessa società sovietica appare come una mescolanza di capitalismo di Stato e di dominio oligarchico-burocratico. Infine, alcuni partiti comunisti, come s'è visto nel caso della Romania, pur rifiutando l'esempio cinese, guardano al contrasto cino-sovietico come a un mezzo per affermare la propria autonomia nei confronti di Mosca. Dati gli schieramenti attuali delle forze e delle correnti ideologiche sulla scena mondiale, è probabile che questa spaccatura all'interno del comunismo internazionale sia destinata a durare, e non è verosimile che un'eventuale temporanea riconciliazione tra i due giganti comunisti riesca a sanarla.
Chiediamoci ora: questo policentrismo all'interno del comunismo mondiale riflette oppure no divergenze ideologiche di fondo? Come abbiamo già accennato più sopra, sarebbe difficile dare una risposta affermativa. Le divergenze tra le due tendenze del comunismo sono radicate nelle differenti tattiche e nello scontro tra i nazionalismi rivali dei due grandi paesi. Che ambedue i campi avvertano il contrasto ideologico come genuino, e giudichino in piena sincerità come eretica la posizione dell'avversario è peraltro indubbio. Per i Russi la ‛cricca di Mao' è colpevole di ‛dogmatismo e settarismo di sinistra', cioè di qualcosa che non ha nulla a che fare con il socialismo scientifico così come è stato definito dal marxismo-leninismo. Per i Cinesi il gruppo dirigente del partito sovietico ha tradito la rivoluzione: il suo comunismo non è che ‛revisionismo', una vernice ideologica dietro la quale c'è lo sciovinismo sovietico (e anzi, più precisamente, russo), un imperialismo da grande potenza. Ma a un osservatore esterno le due forme di comunismo rivelano sorprendenti analogie. Entrambe insistono sul dominio assoluto del partito, a sua volta governato dall'oligarchia dei suoi massimi dirigenti. La centralizzazione politica ed economica è la regola in Cina come in Russia, e in entrambi i paesi la vita sociale, economica e culturale dell'individuo è subordinata ai dettami dell'onnipotente Stato-partito. Non è dato notare nella fase attuale del comunismo cinese alcun tentativo di modificare il rapporto tra individuo e Stato socialista, cioè quel tentativo che ritroviamo nel pensiero di teorici come Gramsci e ch'era presente nello sfortunato esperimento cecoslovacco del 1968. È naturalmente doveroso rinviare il giudizio finale sul significato del comunismo cinese. Certe tendenze insite nel comunismo sovietico sono venute alla luce soltanto dopo la scomparsa di Stalin. Analogamente, sia la solidità che le caratteristiche fondamentali dell'esperimento cinese diverranno pienamente verificabili soltanto dopo che la generazione che ha fatto la rivoluzione, e che è capeggiata da Mao e da Chou En-lai, avrà lasciato la scena della storia.
9. Conclusione
Anche nel mondo odierno il comunismo significa dunque parecchie cose diverse, ma non è facile distinguerle. In un caso il punto di riferimento può essere l'ideologia, in un secondo il movimento mondiale, e in un terzo la sua prassi concreta in quei paesi che professano il comunismo come dottrina ufficiale.
L'ideologia può essere concisamente definita come un marxismo interpretato, e applicato alla sfera politica e organizzativa, da Lenin. Ciascuna delle tendenze in cui è diviso il comunismo contemporaneo la russa, la cinese o quella che si dice trotzkista ed ha ancora piccoli gruppi di seguaci in numerosi paesi - pretende di rappresentare la tradizione autentica della fede, mentre le altre non sarebbero che versioni degenerate del marxismo-leninismo. I comunisti delle varie tendenze sono però uniti nella convinzione che il comunismo è destinato a divenire la filosofia e il sistema universale dell'umanità, e che la rivoluzione, violenta o non violenta che sia, è la meta comune di tutte le società, le quali passeranno per una fase socialista e arriveranno infine a quella comunista.
Come sempre, il significato concreto di questa fase conclusiva è tuttora incerto. Sono pochi, anche tra i più fermamente convinti, a pensare che questioni come l'estinzione dello Stato, l'eguaglianza economica assoluta e la società comunista mondiale saranno messe all'ordine del giorno in un futuro prossimo, o anche più lontano. Il XXII Congresso del PCUS preconizzò l'ingresso della Russia sovietica nella fase comunista per il 1980, ma ciò nonostante lo Stato sovietico avrebbe continuato a sussistere con il suo partito al potere e con tutti gli altri suoi apparati. L'essenza del comunismo significherebbe dunque in concreto l'abolizione del capitalismo, il passaggio allo Stato della proprietà dei mezzi di produzione e il governo di questo Stato da parte del Partito Comunista. La possibilità che un partito comunista tolleri un'autentica opposizione politica e consenta un'autentica libertà di stampa e di parola sembrò prender vita nel quadro dell'esperimento cecoslovacco del 1968. Ma, come è noto, l'esperimento ebbe vita breve. Nessuna delle maggiori tendenze del comunismo - né quella sovietica nè quella cinese, e neppure la più tollerante di tutte, quella iugoslava - contempla la possibilità di una ‛coesistenza ideologica', vale a dire di una società comunista in cui le altre ideologie possano essere liberamente affermate e possano liberamente competere per il potere. Alcuni partiti comunisti non al potere hanno occasionalmente dichiarato che il loro obiettivo non è uno Stato monopartitico sul modello sovietico o cinese. Ci sono anche stati singoli pensatori comunisti, come ad esempio Antonio Gramsci, che hanno combattuto il concetto di una necessaria antitesi fra il comunismo e le libertà individuali e democratiche nella loro classica accezione ottocentesca. Ma sul terreno pratico il comunismo al potere ha invariabilmente significato la centralizzazione del potere e la sua monopolizzazione da parte di un solo partito, e nel migliore dei casi l'imposizione di limitazioni considerevoli alla libertà dei singoli cittadini.
In quanto movimento, il comunismo si è avvantaggiato di numerose tendenze operanti nel mondo contemporaneo. A livello ideologico esso sottolinea la necessità dell'industrializzazione e della modernizzazione, che non possono mancare di attrarre quelle società che soltanto in tempi recentissimi hanno cominciato a uscire da una situazione di generale arretratezza e povertà. Inoltre il declino pressoché universale delle ortodossie religiose ha giovato all'affermazione del movimento, che è per molti versi una religione laica che promette il raggiungimento dell'eguaglianza e la liberazione dell'uomo dal flagello della povertà. Ancora, le ideologie concorrenti - le si chiami capitalismo o liberalismo poco importa - si sono sviluppate in larga misura come il risultato dell'esperienza storica dell'Europa occidentale e dei suoi prolungamenti oltremare; e con il venir meno dell'egemonia dell'Occidente sulla scena mondiale anche la loro capacità di affermazione ha registrato un declino parallelo. Infine, il comunismo è l'ideologia dominante in due tra i più grandi e popolosi paesi del mondo contemporaneo.
Quando si venga alle realizzazioni concrete, i non-comunisti contesteranno la pretesa del movimento di aver creato un nuovo tipo di società, caratterizzato da un modello di relazioni sociali interamente nuovo. E per quanto concerne specificamente l'URSS, s'impone la conclusione che il potere economico e politico è nelle mani di un'élite, la quale esercita inoltre sulla vita dei cittadini un controllo assai più stretto di quanto facesse nell'epoca prerivoluzionaria la burocrazia zarista. La grande espansione dei servizi sociali e delle strutture educative va quindi valutata tenendo presenti le indubbie limitazioni che pesano sulla libertà dell'individuo. Né il comunismo ha significato in Russia la scomparsa di quei fenomeni che il marxismo-leninismo associa al capitalismo: cospicue diseguaglianze in fatto di redditi reali, antagonismi nazionali, e anche sociali, e l'alienazione dell'individuo dovuta alla tediosità e all'impersonalità del lavoro industriale. Si è sostenuto che sotto questi profili il comunismo cinese è giunto più vicino alla realizzazione degli ideali e delle speranze dei fondatori del movimento. Ma, per giudicare la fondatezza ditali affermazioni, occorrerà disporre di un minimo di prospettiva storica e di un'informazione più adeguata su quanto avviene nella Cina comunista.
Il comunismo si è dimostrato l'ideologia più dinamica dell'ultimo mezzo secolo. Va però osservato che la sua fortuna è dovuta al fatto ch'è stato alimentato dalla più universale tra le tendenze dell'età contemporanea: il nazionalismo. La sua sorte finale, come quella delle ideologie concorrenti, dipenderà dunque dalla sua capacità di conciliare il nazionalismo con ciò che il progresso della scienza moderna e della tecnologia ha reso sempre più essenziale: la creazione di una società internazionale vitale.
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