COMUNISMO (XI, p. 29; App. II, 1, p. 667)
Movimento comunista internazionale. - Lo scioglimento dell'Ufficio d'informazione (noto in Occidente sotto il nome di Cominform), nell'aprile 1956, fu giustificato con la situazione mondiale maturata negli ultimi anni e con la necessità di una diversa strategia: ma le innovazioni del XX congresso (coesistenza, apprezzamento positivo del neutralismo, vie nazionali e politica di vaste alleanze) non si estesero immediatamente al movimento comunista, che anzi sviluppò una varietà di atteggiamenti. Da una parte, la corrente polacca e ungherese del "c. nazionale" (come fu definita da osservatori occidentali) invocava i principi della politica iugoslava di Chruščëv, codificati nella dichiarazione congiunta del 20 giugno 1956: ricchezza delle forme di sviluppo del socialismo, parità di diritti fra paesi socialisti, collaborazione affidata al libero consenso. Dall'altra, invece, l'inattesa e violenta campagna di destalinizzazione suscitava resistenze di vario genere: i cinesi difesero il contributo di Stalin alla teoria e alla prassi rivoluzionaria; Togliatti, in una nota intervista a Nuovi Argomenti, segnalò che la denuncia del culto della personalità aveva aperto un processo di revisione difficilmente contenibile e accennò per la prima volta a una struttura "policentrica" del movimento comunista mondiale; i francesi posero contemporaneamente l'esigenza di approfondire le deviazioni del sistema sovietico, e di trovare un giusto equilibrio nella valutazione del periodo staliniano.
Dunque, a contrasto con la salda organizzazione del Cominform, garantita tra l'altro dal carattere ristretto e segreto delle riunioni, nel 1956 il movimento comunista attraversò una fase di profonda incertezza; i primi richiami alla solidarietà e alla coesione sopraggiunsero con lo scoppio della crisi in Polonia e Ungheria (risoluzione del PCUS, 30 giugno 1956, che denunciava la rivolta di Poznań come una provocazione dell'imperialismo; dichiarazione del governo sovietico, 30 ottobre 1956, che faceva appello all'"internazionalismo proletario", alla "stretta collaborazione fraterna e mutua assistenza dei paesi della comunità socialista"). Il 6 novembre M. Suslov, al Soviet di Mosca, invocò l'unità in funzione della resistenza all'offensiva dell'imperialismo, tornando a sfruttare il vecchio motivo psicologico e propagandistico dell'accerchiamento. La crisi nell'Europa orientale segnò certamente una svolta per la politica sovietica, minacciando la stessa leadership di Chruščëv, che fu costretto ad affrontare l'opposizione del gruppo antipartito e a rivedere l'indirizzo del sesto piano quinquennale. La fase successiva all'ottobre-novembre 1956 fu caratterizzata dal tentativo di ricostituire l'unità del movimento comunista sulla base di conferenze regionali o mondiali, che impegnano i singoli partiti a seguire una stessa strategia, consegnata nelle dichiarazioni e nei documenti programmatici approvati in comune.
Le prime due conferenze internazionali, tenute a Mosca nel novembre 1957 e, a tre anni di distanza, nel novembre 1960, modificarono sensibilmente alcuni punti della dottrina stabilita al XX congresso. Aperta la seconda controversia iugoslava (1956-61), alla conferenza del 1957 mancò naturalmente la Lega comunista; vi parteciparono dodici partiti al potere d'Europa e d'Asia, mentre i partiti occidentali inviarono delegati in qualità di osservatori, che furono poi consultati in merito alla dichiarazione conclusiva. Quest'ultima corresse e limitò la dottrina delle vie nazionali: riprendendo la distinzione già avanzata da Stalin, nel 1929, tra le "particolarità specifiche" di una situazione nazionale e gli "elementi generali", identici in tutti i paesi, che definiscono una formazione sociale, essa attaccò la tendenza a sopravvalutare il ruolo delle particolarità nazionali e a dimenticare le verità del marxismo-leninismo. La conferenza del novembre 1960 (cui parteciparono ben ottantuno partiti) rispecchia una situazione nuova, caratterizzata dalla polemica con albanesi e cinesi, giunta a maturazione nel corso dell'anno: i comunisti cinesi, infatti, avevano riaffermato la loro intransigenza rivoluzionaria, fino a considerare inevitabile la guerra, nell'epoca dell'imperialismo, e improbabile la transizione al socialismo per via pacifica. Sia per influenza cinese, sia in virtù dell'evoluzione della politica sovietica, questa volta la dottrina della coesistenza subì considerevoli limitazioni: fu detto, infatti, che la coesistenza pacifica rappresenta una forma della lotta di classe sull'arena internazionale, creando le condizioni più favorevoli alla vittoria del proletariato e al successo dei movimenti di liberazione.
La storia successiva del movimento comunista è caratterizzata dalla contrapposizione di differenti strategie rivoluzionarie: i sovietici identificano nel sistema socialista mondiale la principale forza rivoluzionaria del nostro tempo, rispetto alla quale svolgono una funzione secondaria la classe operaia internazionale e il movimento di liberazione dei popoli oppressi (N. Chruščëv, rapporto sulle prospettive del movimento comunista mondiale, 6 gennaio 1961; saggio sui problemi di sviluppo del sistema socialista, apparso sul Kommunist nell'agosto 1962, e poi ancora sui Problemi della pace e del socialismo nel settembre dello stesso anno). I cinesi sviluppano, invece, una concezione "sinocentrica", affermando che "nelle vaste regioni dell'Asia, dell'Africa e dell'America latina convergono le differenti contraddizioni del mondo contemporaneo...; queste regioni costituiscono oggi la principale zona di agitazione della rivoluzione mondiale, che porta colpi diretti all'imperialismo" (lettera del PCC al PCUS, 14 giugno 1963, dov'è esposta in venticinque punti la dottrina maoista). Inoltre il programma d'integrazione economica in seno al Comecon suscitò, nel 1964, la polemica con i romeni, decisi a mantenere un aspetto essenziale della sovranità di uno stato socialista, come la direzione pianificata dell'economia nazionale; mentre l'esperimento cecoslovacco, nello spirito di una convergenza europea e del tramonto delle ideologie, portò nel 1968 un'ulteriore sfida alla compattezza del sistema dei paesi e dei partiti comunisti.
I sovietici puntarono allora su un'altra conferenza mondiale, che avrebbe condannato la prospettiva maoista, o almeno serrato le file dei partiti europei. Lungamente preparata attraverso una serie di contatti e incontri regionali (fra cui assume particolare rilievo quello dei partiti comunisti europei a Karlovy Vary, nel 1967, che sviluppò il tema della sicurezza collettiva), la conferenza di Mosca del giugno 1969 vide prevalere la tendenza a limitare l'autonomia dei singoli partiti, considerati responsabili non più solo di fronte alla classe operaia del proprio paese, ma anche di fronte alla classe operaia internazionale (questa parte della dichiarazione non fu firmata dal PCI); mentre il problema cinese era esasperato da rivendicazioni territoriali e dall'aumentato peso internazionale dei dirigenti di Pechino, le pressioni sovietiche non riuscirono a determinare un'esplicita condanna da parte del movimento comunista nel suo complesso; e anzi l'esistenza di una questione cinese favorì gli atteggiamenti autonomistici dei maggiori partiti euro-occidentali. Collocandosi sul versante opposto rispetto agl'ideologi cinesi e, in genere, al marxismo asiatico, E. Berlinguer ha inteso rilanciare l'iniziativa del proletariato dell'Occidente, rivendicando la transizione non-violenta al socialismo, nelle condizioni offerte dalla democrazia borghese; ha sottolineato anche il ruolo della coesistenza, mentre ha negato la possibilità che la strategia coesistenzialistica si risolva in un accordo delle superpotenze a danno di terzi. La diversa valutazione del ruolo della CEE nell'attuale fase politica (convegno del PCI sul tema "I comunisti italiani e l'Europa", Roma, novembre 1971) ha ritardato la convergenza fra il PCI e il PCF; un'intesa, tuttavia, si è delineata agl'inizi del 1974, durante la conferenza di Bruxelles dei partiti comunisti dell'Europa occidentale. In seguito alla distensione sancita a Helsinki (v. sicurezza europea, in questa App.), l'"eurocomunismo" ha toccato un traguardo decisivo con le dichiarazioni comuni dei partiti italiano e spagnolo, italiano e francese (luglio e novembre 1975). La conferenza di Berlino dei ventinove partiti comunisti dell'Europa occidentale e orientale (29-30 giugno 1976) è stata condizionata, dunque, dall'esistenza di un molteplice dissenso: da una parte, ha recepito alcuni postulati fondamentali dell'"eurocomunismo" (la politica di vaste alleanze non riguarda più solo la socialdemocrazia, ma tocca anche settori sempre più ampi del mondo cattolico e cristiano); d'altra parte, essa ha taciuto sui problemi concernenti l'internazionalismo proletario e la responsabilità dei singoli partiti di fronte alla classe operaia internazionale. Mentre i sovietici continuano a ripetere senza varianti la dottrina dell'internazionalismo proletario (per bocca, fra l'altro, di Suslov), la formulazione più sistematica della nuova linea è fornita dal segretario spagnolo S. Carrillo, che in "Eurocomunismo" y Estado, Barcellona 1977, spinge la sua critica al burocratismo di marca sovietica fino a incontrarsi con alcune correnti del dissenso in URSS (v. medvedev, roy, in questa App.).
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