COMUNISMO
(XI, p. 29; App. II, I, p. 667; IV, I, p. 507)
Dopo la conferenza di Berlino di 29 partiti comunisti europei del giugno 1976 divennero sempre più evidenti le difficoltà che incontrava a farsi strada la proposta, pur reiteratamente avanzata per iniziativa sovietica, di organizzare, dopo quella di Mosca del 1969, una nuova conferenza mondiale allo scopo, se non di eliminare, almeno di ridurre le differenziazioni e i contrasti che continuavano a manifestarsi.
Le difficoltà maggiori venivano dall'Europa, da una parte perché alcuni partiti, e segnatamente, oltre alla Lega dei comunisti iugoslavi, quelli italiano e spagnolo, consideravano improponibile l'iniziativa, e dall'altra perché, dopo la conferenza di Bruxelles del 1974 che ne aveva visto il sorgere, il rapido diffondersi dell'eurocomunismo spingeva verso nuove forme di aggregazione, determinando contrapposizioni anche assai aspre.
Di fatto le idee dell'eurocomunismo (sul nesso democrazia-socialismo, sul ruolo che per superare − si diceva − lo ''squilibrio storico'' venutosi a creare dopo la prima guerra mondiale andava attribuito al movimento operaio dei paesi capitalistici sviluppati e sulla conseguente valutazione critica circa i caratteri e i limiti dell'esperienza sovietica), seppure fra ambiguità che dovevano presto emergere e portare alla crisi del fenomeno, divennero per qualche tempo la piattaforma comune della maggioranza, e dei maggiori partiti comunisti dell'Europa occidentale. Partecipavano al movimento dell'eurocomunismo il Partito comunista italiano, quello francese, quello spagnolo, quello inglese, quello belga, quello svizzero, quello greco (dell'interno) nato nel 1968 dalla scissione del Partito comunista greco. Una segnalazione a parte va fatta per il Partito comunista olandese, la cui totale autonomia dal Partito sovietico era stata sancita da tempo. Alle stesse idee si richiamavano, sia pure con motivazioni diverse, al di là dell'Europa, il Partito comunista giapponese, il Partito comunista australiano e il Partito comunista messicano, nonché formazioni politiche sorte attraverso rotture di Partiti comunisti, quale, per es., il MAS (Movimiento Al Socialismo) nel Venezuela.
Nell'Europa occidentale allo schieramento dei Partiti eurocomunisti si contrapponevano in quel periodo i Partiti comunisti portoghese, greco (dell'esterno), austriaco, lussemburghese e norvegese. Momento alto e persino spettacolare della presenza dell'eurocomunismo fu l'incontro di Madrid dei segretari del Partito Comunista Italiano (PCI), del Partito Comunista Francese (PCF) e del Partito Comunista Spagnolo (PCS), E. Berlinguer, G. Marchais, S. Carrillo, del marzo 1977. Dopo l'incontro però, per la fragilità dell'intesa raggiunta, per l'assenza di una strategia regionale comune e ancora per le resistenze che le nuove tesi incontravano presso aree legate ai vecchi orientamenti e per il sostegno ad esse dato dai Sovietici, si aprì una fase di travaglio che doveva portare rapidamente al declino dell'eurocomunismo.
La crisi divenne esplicita quando, di fronte all'intervento sovietico nell'Afghānistān del dicembre 1979 e ai ''fatti'' polacchi del 1980 (scioperi del Baltico, nascita di Solidarnosc) seguiti nel dicembre 1981 dalla proclamazione dello stato d'assedio, si spezzò lo schieramento eurocomunista. Posizioni critiche nei confronti delle scelte di Brežnev espressero i Partiti comunisti italiano, spagnolo, inglese, belga, svedese, svizzero, olandese, messicano e giapponese, ma una diversa posizione venne presa da altri partiti e segnatamente dal Partito comunista francese. Gravi difficoltà non tardarono a conoscere però anche alcuni dei partiti che avevano continuato a muoversi sulla linea dell'eurocomunismo. In seguito alle pressioni esercitate dalle aree rimaste sulle vecchie posizioni, ma anche per intervento diretto dei Sovietici, si sono avute così scissioni e fratture che hanno colpito soprattutto i Partiti spagnolo, finlandese e inglese determinando brusche e gravi cadute elettorali. Determinante è stata però la divaricazione che si era venuta a creare tra i partiti maggiori. Il PCF, anche se non giungerà mai a sconfessare le posizioni della fase precedente (dal Manifesto di Champigny del 1968 ai documenti del 22° Congresso del febbraio 1976 sul ''socialismo dai colori della Francia'' e sull'abbandono della formula della ''dittatura del proletariato''), dopo aver di fatto giustificato l'intervento sovietico nell'Afghānistān si spinse sino a farsi promotore, insieme al Partito polacco (POUP), di una riunione che, presenti 19 partiti, si svolse a Berlino Est nel marzo 1979. Al 24° Congresso, abbandonando le riserve critiche sulla politica sovietica espresse in passato, il PCF definì poi ''globalmente positivo'' il bilancio del ''socialismo reale'' degli anni di Brežnev. L'assunzione di queste nuove posizioni, va anche detto, non solo non impedì ma accompagnò la caduta elettorale che si ebbe nelle elezioni amministrative e politiche.
Anche nel Partito comunista spagnolo scissioni e rotture (che hanno avuto a protagonisti, dopo il caso di E. Lister, dapprima I. Dallego, fondatore di un partito prosovietico, e poi lo stesso Carrillo, divenuto segretario nel 1982 di una piccola formazione politica riconosciuta di fatto soltanto dai Rumeni e dai Coreani del Nord) hanno portato a una serie di gravi sconfitte elettorali.
Diverse e anzi opposte, seppure accompagnate anch'esse da un calo elettorale dopo i positivi risultati conseguiti nella prima fase, le scelte del PCI. Portando avanti le riflessioni critiche da tempo avviate (1956, 1968) sui problemi della trasformazione nelle società capitalistiche avanzate e sul rapporto democrazia-socialismo (nonché su quello che veniva chiamato, all'interno di una visione insieme europeistica e attenta alle problematiche del rapporto Nord-Sud, il ''nuovo internazionalismo''), i comunisti italiani avanzarono l'idea, in riferimento sia all'esperienza sovietica che a quella socialdemocratica considerate entrambe inefficaci, di una ''terza via'' o ''terza fase'' (15° Congresso, marzo 1979). Lungo questa via il PCI giungeva così allo ''strappo'' del 26° Congresso (marzo 1983) con la dichiarazione di Berlinguer sull'''esaurimento della spinta propulsiva'' dell'esperienza sovietica e sulla conseguente necessità di percorrere altre strade per giungere a un socialismo ''diverso'' (e diverso perché caratterizzato dall'assunzione della democrazia come ''valore universale''). In Europa, oltre a varie minoranze in Finlandia, Inghilterra e anche Francia, tra i partiti dell'eurocomunismo soltanto quello greco (dell'interno) sostenne posizioni analoghe a quelle del PCI contro le quali assai dura è stata la reazione polemica del PCUS, del POUP e di numerosi altri partiti.
Il Partito comunista giapponese, dal canto suo, al 17° Congresso (1985) confermò la sua indipendenza dal PCUS e così fecero il Partito comunista olandese e quello messicano. Ma se si guarda a quel che avvenne al di là dell'Europa, si deve notare come l'Unione Sovietica e il PCUS abbiano incontrato difficoltà anche rilevanti − come si vide nelle votazioni all'ONU sulla questione afgana − con vari paesi, e partiti, del Terzo Mondo. In Asia, in Africa e nell'America latina il quadro stava del resto mutando. Da una parte si allentavano i rapporti fra il PCUS e gran parte dei partiti al governo nei paesi non allineati (ai quali si era guardato in passato come agli ''alleati naturali''), dall'altra in vari paesi, come Etiopia, Mozambico, Angola, Yemen del Sud, a ''orientamento socialista'' secondo una nota formula, era in corso su pressione sovietica un processo di trasformazione dei partiti di governo (o meglio dei vari ''fronti'' che spesso su basi pluralistiche avevano guidato le lotte di liberazione e le rivolte antifeudali) in partiti marxisti-leninisti. Obiettivo dell'URSS era quello di dar vita in Africa a un blocco di paesi costruiti sul modello sovietico, e questa linea venne perseguita anche con misure di aiuto e di presenza militare. A fianco dei Sovietici si schierarono i Cubani, presenti anche militarmente nell'Angola minacciata da forze sostenute dal regime della Repubblica sudafricana. Così facendo i Cubani, che accentuavano in Asia i rapporti preferenziali con la Corea del Nord e nell'America Centrale il loro appoggio al governo sandinista del Nicaragua, si muovevano come ala avanzata di uno schieramento ''antimperialistico'' che agiva di fatto anche come strumento di pressione sull'URSS. Il Partito comunista vietnamita a sua volta avviava iniziative internazionali per trovare sostegno alla sua politica nei confronti della Cambogia e della Cina.
Per far fronte a una situazione caratterizzata dalla presenza di spinte tanto diverse, vennero promosse dall'URSS varie conferenze a livello regionale. Le più significative, oltre a quelle di Berlino Est del marzo 1979 e poi di Parigi, disertata dagli eurocomunisti (dell'aprile 1980), hanno avuto luogo nel luglio 1984 e nel giugno 1987 per i partiti dell'America latina; nel dicembre 1981 e nel gennaio 1985 per i paesi del Mediterraneo orientale, del Medio Oriente e del bacino del mar Rosso; nell'aprile-maggio 1981, nel giugno 1983 e nel febbraio 1985 per i partiti dei paesi arabi. Conferenze ''teoriche'' alle quali la presenza di dirigenti sovietici attribuiva un chiaro carattere politico vennero organizzate per iniziativa della rivista Problemi della pace e del socialismo, nata a Praga nel 1958 come strumento di scambio d'informazione e di dibattito dopo lo scioglimento del Cominform. (Il PCF e il PCI hanno poi ritirato i loro rappresentanti dalla rivista).
Un ruolo particolare hanno avuto nello stesso periodo le conferenze dei segretari dei partiti dei paesi del Patto di Varsavia. Attraverso queste riunioni i Sovietici sono indubbiamente riusciti in quel periodo a garantire per l'essenziale l'unità del blocco. Quel che però venne alla luce fu la crescente difficoltà che essi incontravano nel far approvare posizioni comuni ai partiti di governo dei paesi alleati su una serie di questioni riguardanti sia la politica estera che le relazioni interne al Patto di Varsavia e al Comecon. Una certa ampiezza ha assunto in quel periodo in particolare la dissidenza rumena che ha investito questioni (dall'atteggiamento nei confronti della Cina e dell'eurocomunismo, alla crisi del Medio Oriente, a quelle relative alle modalità e ai tempi del processo d'integrazione del Comecon) non certo secondarie. Il segretario del PCR, N. Ceauçsescu, alle prese con gravi problemi di legittimazione, ha evidentemente giocato la carta del nazionalismo e dell'autonomia per far fronte a una situazione difficile. Di segno diverso, ma altrettanto indicative di processi in atto, le spinte all'autonomia presenti nella Polonia, come si vide durante le crisi del 1980-81, e nella RDT (che puntava su accordi preferenziali con la Germania occidentale anche per sostenere la linea del rifiuto di ogni ipotesi di democratizzazione del sistema) e nell'Ungheria (impegnata al contrario in un complesso processo di riforme). Su alcuni temi si assisteva anche al formarsi di schieramenti del tutto nuovi. Per quel che riguarda per es. l'atteggiamento da tenere nei confronti della Cina del ''dopo Mao'' va segnalato che i Partiti comunisti spagnolo, francese, inglese e italiano avevano ripreso in quel periodo le relazioni col Partito comunista cinese. Nello stesso periodo, e in connessione col nuovo atteggiamento dei comunisti cinesi, si veniva accentuando il processo di crisi e poi di vero e proprio disfacimento dei partiti ''maoisti'' che erano sorti un po' ovunque nel decennio precedente. D'altro canto, nonostante la forte ripresa della polemica pubblica fra Sovietici e Cinesi sui temi dell'Afghānistān e della Cambogia (occupata dai Vietnamiti), incominciava a profilarsi (discorso di Taskent di Brežnev, marzo 1982) la possibilità di un miglioramento delle relazioni fra i due paesi.
Dopo la morte di Brežnev (11 novembre 1982) e l'ascesa di J.V. Andropov (12 novembre 1982) questi segnali s'infittirono. Novità si profilarono anche negli altri aspetti della politica internazionale dell'URSS. Dopo il breve periodo della gestione Andropov, l'ascesa di K.U. Černenko (13 dicembre 1984) portò a un brusco ritorno al passato. Di nuovo si tornò a proporre − questa volta per iniziativa dei Partiti bulgaro, cecoslovacco, austriaco, argentino − una conferenza internazionale. Il rifiuto esplicito dei comunisti italiani (che al 17° Congresso del marzo 1986, ribadendo con A. Natta la loro estraneità all'idea stessa di movimento comunista internazionale, si erano definiti ''parte integrante della sinistra europea'' e che portavano avanti rapporti sempre più stretti con vari partiti socialisti e socialdemocratici e in particolare con la SPD della Germania occidentale) nonché dei Partiti iugoslavo, giapponese e anche ungherese, impedì però che l'iniziativa prendesse forma.
Mutamenti importanti nell'atteggiamento sovietico sono poi intervenuti con M.S. Gorbačëv (divenuto segretario generale del PCUS nel marzo 1985, dopo la morte di Černenko). Nel rapporto al 27° Congresso del PCUS (febbraio-marzo 1986) e poi, e soprattutto, nei documenti della perestrojka, anche se ancora ci si riferiva al movimento comunista internazionale come a un dato reale e permanente, si prendeva però atto del fatto che le diversità non solo nelle scelte politiche e nelle collocazioni internazionali, ma nelle referenze ideali e nelle concezioni del socialismo che esse sottintendevano, presenti nei partiti comunisti, rappresentavano qualcosa da cui non si poteva prescindere. Così si ribadiva il rifiuto del ''modello'' e del ''centro'' unico e il principio della piena indipendenza di ciascun partito, e inoltre si affermava che non solo quello comunista bensì l'intero movimento operaio aveva bisogno di rinnovarsi perché "mentre tutto cambia nel mondo anche le espressioni politiche del movimento dei lavoratori devono avere un volto corrispondente a questi cambiamenti" (Gorbačëv, febbraio 1989). Preoccupazione principale era così quella di andare col dialogo e le iniziative al di là del quadro dei partiti comunisti. Di fronte ai problemi che stanno di fronte all'umanità sulla soglia del 2000 (la pace e la guerra nell'era nucleare, la crisi ecologica, la crisi energetica, la ''bomba'' demografica) e proprio perché occorre passare (Gorbačëv all'ONU, dicembre 1988) dalla politica del confronto a quella della cooperazione, s'impone l'esigenza − si affermava − di un rapporto nuovo fra tutte le componenti storiche del movimento operaio (comunisti, socialisti, socialdemocratici) e al di là di esse, fra tutte le forze politiche, culturali e religiose. Su nuove basi e con significative dichiarazioni autocritiche riguardanti le scelte del passato, il PCUS stabiliva così relazioni di nuovo tipo con i partiti comunisti (il Partito comunista cinese, la Lega dei comunisti iugoslavi, il Partito comunista italiano che con A. Occhetto al 28° Congresso del marzo 1989 confermava la sua collocazione nella sinistra europea occidentale) che operavano al di là dei vecchi confini del movimento comunista internazionale, nonché con vari partiti socialisti e socialdemocratici e con la stessa Internazionale socialista.
L'aggravarsi della crisi da cui la perestrojka era sorta e la politica di Gorbačëv, con le spinte e le resistenze che alimentava all'interno sia dei partiti comunisti che delle società soprattutto nei paesi dell'Europa centrale e orientale, determinavano però nuove differenziazioni e articolazioni. Così, mentre alcuni partiti si schieravano, sia pure con cautela, per la perestrojka sino ad avviare prime timide riforme del sistema politico basate sul riconoscimento del pluralismo (Ungheria, Polonia), altri rimanevano sostanzialmente fermi sulle vecchie posizioni (Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Romania).
Nelle riunioni di governo (e in particolare delle strutture dirigenti del Patto di Varsavia e del Comecon) così come nelle non numerose conferenze di partito (a Berlino Est nel giugno 1989 sulle implicazioni derivanti dall'introduzione delle nuove tecnologie e nel settembre 1989 sulle questioni ideologiche; all'Avana nel luglio 1989 sui problemi organizzativi, a Varna, in Bulgaria, nel settembre 1989 sulle questioni internazionali) si manifestarono differenziazioni e contrasti. Da parte sovietica (e soprattutto di Gorbačëv nel corso dei viaggi compiuti a Varsavia, Praga, Berlino Est, Budapest, Sofia, Bucarest, L'Avana) − sia pure sostenendo, con formulazioni all'inizio incerte, ma che a poco a poco diventeranno esplicito rigetto della teoria brezneviana della ''sovranità limitata'', che in ogni caso dovevano essere i singoli partiti e i singoli popoli a decidere al di fuori di ogni ingerenza esterna − si presentava la perestrojka come una via senza alternative per uscire dalla crisi che aveva ormai investito con l'URSS l'intero sistema internazionale del socialismo sovietico. In quella fase anche a Mosca si guardava ancora ai mutamenti in corso come a una ''rivoluzione democratica'' diretta non già a colpire, ma a difendere e a salvaguardare il socialismo.
Per quel che riguardava poi i vari partiti comunisti, essi, per mantenere nelle loro mani, nella mutata situazione, il ruolo di ''forza guida'', avrebbero dovuto − si sosteneva − non già difendere le vecchie strutture e le regole consolidate dell'autoritarismo, ma proporsi come protagonisti della battaglia per la democratizzazione del sistema. L'accento veniva messo così sulla necessità di porre alla base dell'edificazione del socialismo l'accettazione del metodo democratico e la ricerca, attraverso l'analisi critica del passato e in particolare la critica radicale dello stalinismo, di un nuovo e diverso modello di socialismo.
I vari interventi pronunciati su queste questioni da Gorbačëv e dai suoi più stretti collaboratori (A. Jakovlev, V. Medvedev) e anche i numerosi scritti apparsi sulla rivista Problemi della pace e del socialismo che, con una rinnovata direzione sovietica, continuerà a uscire a Praga sino alla primavera del 1990, testimoniano gli sforzi compiuti per dare una base comune almeno a un gruppo di partiti comunisti.
Sintomo dell'esistenza di orientamenti nuovi da parte sovietica era anche la cessazione del sostegno prestato ai partiti e ai gruppi ''prosovietici'' formatisi − come si è visto − in vari paesi anche attraverso scissioni, negli anni di Brežnev. Si operò anzi per facilitare processi di unificazione, per cui per es. in Finlandia, in Grecia e in Spagna venne ricomposta l'antica unità organizzativa.
In quello stesso periodo la normalizzazione dei rapporti a livello di stato intervenuta fra Cina e Unione Sovietica portò, con il viaggio a Pechino di Gorbačëv nel maggio 1989, alla normalizzazione delle relazioni fra il Partito comunista cinese e quello sovietico. In precedenza, durante i viaggi di Gorbačëv a Belgrado nel marzo del 1988, il Partito comunista sovietico e la Lega dei comunisti iugoslavi avevano sottoscritto un documento nel quale non soltanto i principi dell'autonomia e dell'indipendenza di tutti i partiti comunisti erano stati ribaditi con formulazioni assai decise, ma si era stabilito che alla base delle relazioni fra i partiti doveva esservi il "rispetto reciproco delle diverse vie di costruzione del socialismo" attuate o proposte.
Seppure alcune fra le più clamorose rotture del passato poterono così essere superate, in nessun caso − anche perché altri erano gli obiettivi e le visioni della politica internazionale e del disegno internazionalistico dell'URSS di Gorbačëv − il processo assunse però l'aspetto di una iniziativa volta a rifondare, sia pure sulla base del nuovo corso gorbacioviano, il movimento comunista internazionale o parte di esso. Il PCUS per primo da una parte operava con il proposito di contribuire a rimuovere gli steccati che avevano nel passato diviso il movimento operaio, dall'altra, in connessione con la nuova politica estera, poneva alla base del suo internazionalismo i temi della ''deideologizzazione'' delle relazioni internazionali, e della ricerca di forme nuove di cooperazione.
Per quanto riguarda gli altri partiti comunisti, va segnalato che al rifiuto opposto dal PCI dopo le elezioni per il Parlamento europeo del giugno 1989 di dar vita, come nel passato, a un gruppo parlamentare comune comprendente gli eletti nelle liste comuniste dei vari paesi, faceva seguito il fallimento del tentativo del partito spagnolo di fare da ponte fra i vari partiti comunisti dell'Europa occidentale, e in particolare fra il PCI da una parte e il partito francese e quello portoghese dall'altra. Di fatto ormai non esistevano più aggregazioni neppure a livello regionale e l'unico partito che ancora parlava del movimento comunista internazionale come di una realtà da rafforzare dando vita a "forme appropriate di coordinamento" era rimasto quello portoghese.
Nel corso del 1989 la rapida disgregazione del sistema internazionale dei regimi dell'Europa centrale e orientale (attraverso il susseguirsi di imponenti manifestazioni popolari e di convulse iniziative per dare vita a governi provvisori risultanti dall'accordo fra i vecchi partiti comunisti già in via di trasformazione e i gruppi dell'opposizione e del dissenso) portò nel giro di poche settimane a una situazione del tutto nuova. Per quel che riguarda i partiti comunisti, soltanto in due casi, e cioè in Bulgaria e in Mongolia, essi, presentatisi come protagonisti della svolta con uomini e programmi nuovi, sono riusciti a conseguire nelle prime relativamente libere elezioni i voti necessari per rimanere forza di governo. In tutti gli altri casi − in Cecoslovacchia (ove però i protagonisti della ''Primavera di Praga'' si presentarono alle elezioni all'interno del nuovo Forum democratico che doveva conquistare la maggioranza), in Polonia (ove in una prima fase la transizione fu caratterizzata dalla permanenza del generale W. Jaruzelski, comunista, alla presidenza della Repubblica, e di T. Mazowiecki di Solidarnosc alla testa del governo, sulla base dell'accordo raggiunto prima delle elezioni con la ''tavola rotonda'' dell'aprile 1989), nella RDT (ove subito dopo il crollo del muro di Berlino del 9 novembre 1989 si aprì un processo che a ritmi incalzanti doveva portare all'unificazione della Germania) e in Ungheria − i partiti comunisti ed ex comunisti, nettamente battuti nelle consultazioni elettorali, non solo dovettero cedere le posizioni di potere, ma in più di un caso rassegnarsi a ricoprire ruoli di forze marginali. In Romania, infine, la sollevazione popolare del 21 dicembre 1989 contro la tirannia di N. Ceauçsescu travolse nel modo più totale, insieme al regime, il partito comunista, anche se alla testa del Fronte di salvezza nazionale formatosi in quelle drammatiche ore si vennero a trovare in primo luogo alcuni comunisti in precedenza emarginati da Ceauçsescu. Il Fronte ottenne una schiacciante maggioranza nelle elezioni politiche del maggio 1990.
Attraverso una serie di congressi straordinari svoltisi fra l'ottobre 1989 e il gennaio 1990 tutti i partiti alla testa dei paesi dell'Est europeo pervennero a modificare nettamente i gruppi dirigenti, i programmi e, in più di un caso, anche il nome, spezzando così i vecchi legami con il PCUS e rompendo con la tradizione e con l'ideologia comunista.
In Ungheria, dopo che nel maggio del 1988 K. Grosz aveva sostituito J. Kádár alla testa del partito e del paese, attraverso una serie di lotte interne svoltesi fra il giugno e l'ottobre 1989 il Partito operaio socialista ungherese (POSU) si trasformò nel Partito socialista ungherese (PSU; la vecchia sigla ha tuttavia continuato a essere utilizzata da un gruppo di minoranza diretto da Grosz). In Polonia il POUP decideva all'11° Congresso di chiamarsi Partito socialdemocratico della Repubblica di Polonia, mentre un gruppo di militanti su posizioni più radicali fondava l'Unione socialista democratica. Nella RDT E. Honecker veniva sostituito con E. Kreuz nell'ottobre del 1989 alla testa della SED, che diventava poi Partito del socialismo democratico diretto da G. Gysi. In Cecoslovacchia i dirigenti imposti nel 1968 con l'intervento sovietico, e principalmente G. Husak e V. Bilak, venivano esautorati nel dicembre 1989, mentre erano in corso grandi manifestazioni popolari, e sostituiti con nuovi dirigenti. In Bulgaria T. Živkov, che dirigeva il partito e il paese da 35 anni, veniva deposto il 18 novembre 1989 e sostituito da P. Mladenov. Qualche mese dopo anche il vecchio Partito comunista bulgaro muterà il suo nome in Partito socialista. Già si è detto della Romania. Si deve aggiungere che un processo per molti aspetti analogo, seppure caratterizzato principalmente dalla rottura fra le organizzazioni delle varie repubbliche (soprattutto della Slovenia e della Croazia) e la direzione centrale dominata dai Serbi, si è sviluppato nello stesso periodo in Iugoslavia.
Per quel che concerne i partiti comunisti dell'Europa occidentale, il più significativo fatto nuovo riguarda il PCI che al 19° Congresso (marzo 1990), sotto la spinta degli avvenimenti internazionali, decideva a maggioranza di dar vita a una ''fase costituente'' per la creazione di una formazione politica non più comunista e avviava le trattative per entrare nell'Internazionale socialista. Il 20° Congresso svoltosi nel febbraio 1991 sanciva la nascita del Partito Democratico della Sinistra (PDS) a prezzo della scissione da parte di una minoranza, che dava vita a una nuova formazione politica di ispirazione comunista (Rifondazione comunista). La linea politica del nuovo partito era basata sull'abbandono esplicito di tradizionali tematiche di ispirazione marxista, e si esprimeva, per es., nella sostituzione della contraddizione capitale-lavoro con quella tra sviluppo e ambiente, quella tra i sessi, quella tra tempo di lavoro e tempo di vita. A livello internazionale l'enfasi veniva invece posta sull'Europa e sul suo ruolo in relazione ai paesi del Terzo Mondo, nel tentativo di costruire un ''asse di cooperazione'' tra Europa e Sud del Mondo.
Al di là dell'Europa, e mentre la perestrojka raggiungeva la Mongolia e, seppure in misura diversa, il Vietnam, anche da parte della Cina, sconvolta da una crisi politica ed economica che ha avuto il suo momento culminante nel massacro di piazza Tien An Men del 4 giugno 1989 e nella sostituzione del segretario del Partito comunista Zhao Ziyang con Yang Zemin, non vi è più stata una iniziativa diretta ad aggregare forze comuniste a livello internazionale (se si esclude il sostegno accordato ai Khmer rossi prima per contenere e poi per sostituire la presenza vietnamita in Cambogia).
Al di là delle aree tradizionali della presenza di partiti comunisti, il processo di fuoriuscita dal modello sovietico investiva intanto, dall'Algeria all'Angola, al Mozambico, all'Etiopia, allo Yemen del Sud, seppure in diversa misura, i vari partiti unici di stato sorti sul modello sovietico in vari paesi del Terzo Mondo.
All'inizio del 1990 si poteva parlare così di dimensione internazionale del c. solo in riferimento ai paesi − Cuba, Corea del Nord, Albania − che avevano respinto il nuovo corso di Gorbačëv, nonché ad alcuni partiti comunisti (quali quello francese e quello portoghese in Europa) e a un gruppo di piccole formazioni sparse nell'America latina, in Asia e in Africa, che avevano scelto di reagire alla crisi chiudendosi in se stessi. Del resto al 28° Congresso del PCUS (luglio 1990) non soltanto non si parlava più dell'esperienza del c. sovietico come di qualcosa che avesse un valore universale e del movimento comunista internazionale come di una forza sempre viva seppure alle prese con problemi difficili, ma si affermava che la stessa battaglia per i valori socialisti per essere portata a buon fine doveva ormai essere condotta al di là dei confini dell'esperienza sovietica e delle dottrine che l'avevano ispirata. Il processo di scissione aveva già investito del resto, prima ancora del congresso, lo stesso PCUS con il formarsi al suo interno nelle varie repubbliche di partiti comunisti nazionali sempre più autonomi e di gruppi − tra cui principalmente quelli sorti a sostegno della ''Piattaforma democratica'' di B. Eltzin.
A metà del 1990 anche in Albania, sotto la spinta di imponenti manifestazioni di piazza, il regime comunista entrava in crisi ed era costretto a indire elezioni libere, che, tenutesi nel marzo 1991, registravano una netta affermazione del partito comunista (Partito del lavoro).
Nel 1991 in Unione Sovietica un colpo di stato, organizzato dall'ala conservatrice del PCUS (18-19 agosto), tentava di esautorare Gorbačëv e di interrompere il processo di rinnovamento. La mobilitazione popolare (insieme al mancato coinvolgimento di gran parte delle forze armate) faceva rapidamente fallire questo progetto (21 agosto). Ne seguiva un radicale cambiamento della situazione politica che portava alle dimissioni (24 agosto) da segretario generale del PCUS di Gorbačëv (egli conservava tuttavia la carica di capo dello Stato). L'invito di Gorbačëv allo scioglimento degli organi dirigenti del PCUS, la sospensione dell'attività del partito accompagnata dall'abbattimento di molti simboli pubblici del regime sono apparsi segnare il crollo del c. sovietico.
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