Comunismo
sommario: 1. Crisi dell'internazionalismo e ‛multipolarismo' comunista. 2. Il mondo sovietico da Breznev a Gorbačëv. 3. L'eurocomunismo. 4. La ‛demaoizzazione' in Cina e il pragmatismo di Teng Hsiao-ping. 5. Il comunismo dei paesi arretrati. □ Bibliografia.
1. Crisi dell'internazionalismo e ‛multipolarismo' comunista
Il risultato più clamoroso e anche appariscente dell'ultimo periodo di sviluppo del comunismo è certamente costituito dalla fine del tipo di internazionalismo sorto nel marzo del 1919 con la formazione della Terza Internazionale. Questo internazionalismo poggiava essenzialmente su due principî chiave: il primo era che soltanto una disciplina e un'ideologia comuni dei partiti comunisti potevano rappresentare i mezzi adeguati per la vittoria rivoluzionaria mondiale; il secondo era che il bolscevismo russo, per le sue esperienze e per i suoi successi, costituiva un modello di valore decisivo per gli altri partiti. Dopo il 1919 il comunismo, con il suo centro a Mosca, aveva bensì conosciuto crisi interne, svolte profonde e drammatiche, fratture gravi; ma l'unità di fondo non era mai venuta meno, nel senso che chi si era staccato dal corpo guidato dalla testa moscovita non era mai riuscito a dare vita ad alcun centro dotato di forza politica autonoma. Orbene, la fase più recente del comunismo (che, sotto questo profilo, deve essere calcolata ormai in più di un ventennio) è segnata dalla crisi strutturale dell'internazionalismo sorto nel 1919 e dall'emergere di un vero e proprio ‛multipolarismo' comunista: proprio ciò che i principi della Terza Internazionale avevano combattuto come un male organico.
Questa crisi dell'internazionalismo comunista di matrice terzinternazionalista è espressione di una divergenza e contrapposizione di interessi, di fini, di ideologie, da cui sono sorti più ‛poli' comunisti non soltanto diversi, ma anche in aperto conflitto tra loro.
La radice di un simile processo di mutazione ed esplosione dell'internazionalismo comunista è riconducibile principalmente a due fattori, differenti ma anche collegati tra loro: per un verso al fatto che l'espansione stessa del comunismo ha dato vita a forze interne dotate di una loro solidità e quindi di una loro possibilità di vita autonoma; per l'altro, al fatto che gli sviluppi sociali e politici hanno reso sempre meno possibile mantenere una dottrina e una strategia comuni aventi il proprio centro di elaborazione a Mosca.
L'Unione Sovietica aveva potuto mantenere il controllo in un primo tempo su tutti gli altri partiti e poi anche sugli altri Stati comunisti, fino a che questi erano rimasti in posizione di debolezza e perciò di dipendenza. La sconfitta della rivoluzione in Occidente fra le due guerre mondiali, la vittoria sovietica nella seconda guerra mondiale, la costituzione di nuovi Stati a direzione comunista nell'Europa orientale e in Cina dopo il 1945, bisognosi per la propria esistenza della protezione sovietica, erano stati elementi che per un quarantennio avevano agito ininterrottamente così da fare di Mosca il capo e il ‛padrone' del comunismo internazionale. Lo scisma iugoslavo del 1948 era stato bensì molto grave e premonitore (in quanto veniva dall'unico Stato comunista allora dotato di armi proprie e di un'autentica base popolare), ma era stato affrontato con una drastica amputazione dal corpo comune, la quale aveva preservato l'unità del comunismo internazionale e la piena autorità dell'URSS. Anche le crisi scoppiate nel 1956 prima in Polonia e poi in Ungheria, dove si ebbe la prima grande rivoluzione popolare antisovietica e anticomunista, pur segni di un malessere crescente e rivelatrici dei rapporti di violenza instaurati all'interno dei regimi dell'Est e nei rapporti fra URSS e Stati satelliti, avevano finito per essere in qualche modo riassorbite, almeno in quanto il ruolo preminente di Mosca era stato ancora una volta ribadito e riconosciuto dai partiti e dagli Stati comunisti del mondo. La situazione subì un radicale cambiamento nel corso degli anni sessanta in seguito al dispiegarsi del conflitto ideologico, politico e statale fra l'URSS da un lato e la Cina dall'altro. I Sovietici non potevano certo interferire negli affari interni cinesi come facevano in quelli dei paesi minori dell'Est europeo, e nemmeno potevano pensare a una spedizione punitiva e repressiva come quella messa in atto contro l'Ungheria nel 1956; sicché la rottura con la Cina spezzò per la prima volta e definitivamente il fronte mondiale dell'internazionalismo comunista, dando luogo al sorgere di due poli diversi e conflittuali. Mentre era in corso lo scisma cinese che, guidato dalla più grande personalità comunista vivente, Mao Tse-Tung, portò a mano a mano le due maggiori potenze comuniste a un vero e proprio stato di inimicizia, con accuse reciproche di tradimento della ‛causa proletaria' e dell'internazionalismo, nel campo controllato dai Sovietici emersero nuove tensioni e rotture, le quali mostrarono come il ruolo tradizionale di Mosca fosse anche qui sottoposto a rinnovate sfide. Dopo la crisi del 1956 la piccola Albania, rimasta di fede stalinista, aveva riaperto il fronte delle tensioni, rompendo nel dicembre del 1961 le relazioni con l'URSS e avvicinandosi a Pechino, per protesta contro la ‛destalinizzazione' e il riaccostamento sovietico alla Iugoslavia. Ma ben più serio fu il caso della Cecoslovacchia, dove nel 1967-1968 il Partito Comunista, sotto la guida di Alexandr Dubček, aveva avviato un corso politico di rinnovamento che urtava decisamente con l'esperienza sovietica e quella degli altri paesi dell'Est, tanto che nell'agosto del 1968 le truppe del Patto di Varsavia invasero il paese ponendo bruscamente fine alla ‛primavera di Praga'.
La vicenda cecoslovacca si distinse da quella ungherese per gli effetti che provocò in primo luogo sui partiti comunisti occidentali. I Partiti Comunisti Italiano, Francese e Spagnolo furono unanimi nel condannare l'invasione. L'immagine dell'URSS era bensì risultata profondamente appannata già oltre dieci anni prima dalle rivelazioni di Chruščëv su Stalin e il suo regime, ma l'unità era stata ricomposta nella speranza di un nuovo corso. Ora l'invasione militare contro una Cecoslovacchia in cui, a differenza dell'Ungheria del 1956, non vi era segno di ‛controrivoluzione' e il processo di rinnovamento era saldamente guidato dai comunisti, indusse i comunisti italiani, francesi e spagnoli a scindere le loro responsabilità da quelle sovietiche. In prima fila vi fu il PCI, che aveva sostenuto la politica di Dubček con una piena solidarietà politica e ideologica. Dal canto suo la Romania, in cui è al potere dal 1967 Ceausescu, pur senza modificare il regime interno, in politica internazionale ha assunto una sua relativa autonomia.
Il soffocamento della ‛primavera di Praga' costituì un fattore determinante nella costituzione di un nuovo polo ideologico e politico nel comunismo internazionale, dopo quello sovietico e quello cinese, vale a dire quello dell'‛eurocomunismo', che prese a svilupparsi e a darsi una sua identità fra il 1975 e il 1977, collegando comunismo italiano, francese e spagnolo (e intorno a essi anche i partiti australiano e giapponese). Alla base di questo nuovo polo, che segnava la crisi strutturale e generale dell'internazionalismo di matrice terzinternazionalista posto sotto la tutela sovietica, stavano sia la coscienza sempre più precisa che le esperienze dell'Est erano ormai improponibili nei paesi capitalistici, sia la convinzione che la fedeltà o la solidarietà sistematica con Mosca rappresentavano elementi d'impedimento per un'ulteriore espansione del comunismo occidentale. Sebbene nell'ultimo decennio l'eurocomunismo abbia seguito un cammino tutt'altro che lineare e nonostante che nel Partito Comunista Spagnolo e in quello Francese siano riemerse correnti apertamente filosovietiche e che lo slancio iniziale comune sia andato esaurendosi progressivamente, è altresì un fatto che il comunismo europeo non è più tornato all'obbedienza sovietica. Il prestigio e la capacità aggregativa dell'URSS sono stati ulteriormente deteriorati, anzitutto presso il PCI, di gran lunga il più forte partito comunista d'Occidente, dal soffocamento in Polonia nel dicembre del 1981, a opera dei militari, del movimento popolare avente il suo centro nel sindacato libero Solidarność. Quest'opera di repressione, voluta e appoggiata dall'URSS, ebbe quale significativa conseguenza d'indurre il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, a dichiarare ‛esaurita' la forza propulsiva venuta dalla Rivoluzione d'ottobre. Un altro colpo decisivo è venuto nel dicembre del 1979 dall'invasione dell'Afghanistan da parte dell'Armata Rossa a sostegno di un regime fantoccio: un colpo che ha nuovamente diviso il comunismo mondiale.
Ma il quadro della crisi strutturale dell'internazionalismo comunista deve essere completato con riferimento a un altro elemento, che in certo senso ne rappresenta la degenerazione estrema: il ricorso alla violenza armata nei rapporti fra Stati comunisti. Nel 1969 si erano avuti aspri combattimenti in regioni di confine fra truppe sovietiche e cinesi. Nel 1979 le truppe del Vietnam unificato, nell'ambito di una crescente tensione con la Cina, hanno soffocato il regime comunista estremista di Pol Pot in Cambogia, appoggiato dai Cinesi, e di conseguenza si è giunti a confronti militari, su scala limitata ma assai aspri, fra truppe vietnamite e cinesi. Questi confronti armati vanno quindi visti non soltanto nel loro significato militare, ma anche in quello direttamente politico. Cinesi e Sovietici si sono scambiati accuse di imperialismo, e così Vietnamiti, Cambogiani e Cinesi. Il dogma che l'imperialismo e la guerra fossero un prodotto capitalistico e che fra i regimi socialisti non potessero esistere se non rapporti fraterni cadeva come un castello di carte.
2.Il mondo sovietico da Brežvnev a Gorbačëv
Il comunismo sovietico postchruščëviano è stato dominato dalla personalità di Leonid I. Brežnev. Il suo potere è durato diciotto anni, dal 1964 al 1982 (nel 1966 egli era stato nominato segretario generale del PCUS). È toccato proprio a Brežnev di dover affrontare gli effetti della crisi strutturale dell'internazionalismo comunista: il di spiegarsi dell'aspro contrasto politico, statale e ideologico con la Cina maoista; la primavera di Praga; il sorgere dell'eurocomunismo; la situazione polacca, precipitata tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli ottanta.
Brežnev si era consolidato al potere avendo fra i suoi scopi principali quello di ridare stabilità alla società sovietica e ai rapporti fra l'URSS e gli altri Stati e partiti comunisti, ponendo fine al tumultuoso periodo chruščëviano. Spegnere i fermenti della ‛destalinizzazione', conferire un rinnovato prestigio al PCUS e alla società sovietica, impedire le tendenze centrifughe nel comunismo internazionale, resistere all'attacco maoista: questo il progetto. Al momento della sua morte, nel novembre 1982, il bilancio era fallimentare nel punto fondamentale: fronteggiare la crisi strutturale dell'internazionalismo comunista, dimostratasi inarrestabile. Per contro Brežnev era riuscito a impedire che il movimento della dissidenza interna sovietica, radicata nella destalinizzazione, diventasse una forza politica, e a emarginare quindi la dissidenza stessa riducendola a un problema di controllo sociale e di polizia. Egli poi, seguendo in ciò la prassi chruščëviana del 1956, aveva stroncato il ‛nuovo corso' cecoslovacco, particolarmente pericoloso in quanto centrato sul progetto di Dubček di dar vita a un tipo di potere sempre comunista, ma dai caratteri non soltanto accentuatamente antistaliniani bensì anche in contrasto con il ‛modello' sovietico. Infine, messo di fronte al vero e proprio collasso economico e politico del regime comunista in Polonia e alla sfida aperta di Solidarność (un movimento appoggiato dalla Chiesa cattolica e nato come tendenza sindacale, ma cresciuto sotto la leadership di Lech Walesa fino a diventare una forza con una possente base popolare e con scopi politici generali di mutamento istituzionale), Brežnev ha trovato nei militari polacchi, guidati dal generale Jaruzelski, gli strumenti per attuare una controrivoluzione preventiva interna (nel dicembre 1981) come alternativa a un intervento militare sovietico diretto. Ma questa azione di repressione in Cecoslovacchia e in Polonia, se ha avuto come effetto di preservare il dominio sovietico nell'Europa dell'Est, è stata d'altro canto un elemento fondamentale nel determinare il contrasto con i partiti comunisti dell'Europa occidentale e nel provocare il loro distacco dall'internazionalismo a guida sovietica.
La risposta brežneviana a una simile situazione si è politicamente e ideologicamente espressa nella dottrina del ‛socialismo reale', il cui maggiore ideologo, accanto a Brežnev stesso, è stato Michail A. Suslov. Questa dottrina, che poggia sulla difesa e sull'esaltazione della realtà politica e sociale sovietica, ha un risvolto interno e uno internazionale. Agli attacchi il socialismo brežneviano ha risposto definendo se stesso il migliore dei mondi possibili: un mondo che incarna l'unica possibile realtà del socialismo. L'URSS e i paesi a essa collegati vanno difesi solidalmente secondo una concezione per cui la diversità delle singole esperienze non può mettere in forse le leggi oggettive e generali del socialismo. Per questo la dottrina brežneviana si è espressa come una teoria per cui da un lato quello sovietico è il ‛socialismo reale' e dall'altro il dovere dei paesi socialisti di attenersi alle regole della comune edificazione fa sì che la sovranità di ciascuno di essi risulti una ‛sovranità limitata' dagli interessi comuni. Dal che deriva anche il diritto d'intervento militare in quei paesi (come disse Brežnev nel novembre 1968 dopo l'intervento in Cecoslovacchia) in cui ‟le forze interne o esterne ostili al socialismo cercano di imprimere a un paese socialista una spinta verso la restaurazione degli ordinamenti capitalistici".
Il carattere di trionfalismo conservatore del socialismo sovietico nell'età brežneviana è altresì mostrato dalla nuova costituzione entrata in vigore nell'ottobre del 1977 (la quarta dopo la prima del 1918). In essa si trova solennemente sanzionato il principio, già avanzato da Chruščëv, secondo il quale ormai lo Stato sovietico, venuta del tutto meno la base sociale e politica della lotta fra sfruttati e sfruttatori, rappresenta una raggiunta armonia fra le sue componenti, l'‟unità sociopolitica e ideale della società sovietica", in cui esiste ‟la piena e totale democrazia" sotto la guida del partito unico. In queste condizioni, che rispecchiano il socialismo pienamente sviluppato, la dittatura del proletariato ha perso le sue radici e la propria funzione e lo Stato è diventato lo ‟Stato di tutto il popolo". Una conseguenza quanto mai significativa, e necessaria, della teoria secondo cui lo Stato e la società sovietica costituiscono un insieme armonico è la tesi che l'ostilità al regime non rappresenti ormai se non l'espressione di atteggiamenti al di fuori della sfera politica e quindi semplicemente antisociali. Di qui la riduzione del persistente dissenso interno a manifestazioni essenzialmente criminali o di devianza. È però da tenere presente che, nonostante questa criminalizzazione del dissenso, Brežnev si è astenuto dall'uso di metodi terroristici del tipo staliniano per motivi sia interni che internazionali (si tenga presente che nell'agosto del 1975 l'URSS aveva firmato gli accordi di Helsinki, in base ai quali anch'essa s'impegnava a salvaguardare i diritti di libertà personale).
I diciotto anni del dominio brežneviano hanno dunque visto la crisi strutturale dell'internazionalismo comunista che ha indebolito il ruolo di guida del partito e dello Stato sovietico; ma essi hanno del pari segnato l'emergere di quest'ultimo come potenza militare dotata di una forza senza precedenti. Questo è stato un fattore determinante nei successi che l'URSS ha conseguito nella propria politica espansionistica d'influenza in Asia, in Africa e America Latina, dove la povertà e l'arretratezza hanno favorito il sorgere di tendenze rivoluzionarie antioccidentali.
Oltre al solido legame con il Vietnam unificato in funzione anzitutto anticinese, oltre alle buone relazioni con l'India, i Sovietici hanno stabilito un rapporto di diretta egemonia politica sul Congo, sulle ex colonie portoghesi dell'Angola e del Mozambico, sull'Etiopia, sul Nicaragua (divenuto un focolaio di grave tensione con gli Stati Uniti), sulla Repubblica popolare dello Yemen, sull'Afghanistan (dove è in atto un ampio intervento militare sovietico).
Senonchè la politica della potenza militare e dell'espansionismo, mentre per un verso rappresenta un elemento di forza, per l'altro è causa di crisi e debolezza. L'URSS per perseguirla deve sopportare un costo economico e finanziario enorme, del tutto sproporzionato rispetto alle sue risorse (e qui sta la differenza fondamentale rispetto agli Stati Uniti, senza paragone più ricchi e sviluppati). Il prezzo del confronto globale con gli Stati Uniti è stato tale che l'economia sovietica, nel periodo brežneviano, lungi dal perseguire i successi programmati, ha dovuto poggiare sul saccheggio sistematico delle risorse a favore degli armamenti e del finanziamento della politica espansionistica. Non solo il settore industriale impegnato a soddisfare le esigenze del consumo civile non è riuscito ad assicurare in alcun modo alla popolazione un livello di vita paragonabile a quello occidentale (nonostante l'affermazione che l'URSS sia una società a regime socialista pienamente sviluppata), ma l'agricoltura ha avuto ritmi di produzione così inadeguati che senza l'acquisto dei cereali americani e australiani i Sovietici sarebbero andati incontro a una vera e propria crisi alimentare. Un altro elemento di grave debolezza che l'URSS brežneviana non ha potuto superare è la relativa arretratezza in campo tecnologico. In questo settore le migliori risorse sono state convogliate verso gli armamenti, con profondi squilibri rispetto al sistema industriale complessivo. La bassa produttività e lo spreco nella produzione sono rimasti mali tradizionali del sistema sovietico, indebolito dal burocratismo e dall'elefantiaco centralismo nella programmazione economica.
Il 10 novembre 1982 Brežnev moriva e il 12 novembre il Plenum del Comitato Centrale del PCUS eleggeva segretario generale del partito Jurij V. Andropov, un uomo abile ed energico, nonostante l'età e la precaria salute, che era stato per lunghi anni capo del KGB, la polizia segreta sovietica. Andropov è rimasto al potere per poco tempo, poichè è morto nel febbraio del 1984. La sua guida politica è stata caratterizzata da una significativa insistenza sulla necessità di ridare vigore all'economia, di combattere l'inefficienza nella conduzione delle imprese e la rilassatezza nei luoghi di lavoro. Spia importante è stato anche il suo rigore nel combattere la corruzione, che ha assunto un rilievo crescente nell'URSS. Il momento di più acuta tensione nei rapporti sovietico-americani nel corso del periodo di Andropov è stato rappresentato nel settembre 1983 dall'abbattimento da parte dell'aviazione sovietica di un apparecchio civile sudcoreano, con 269 persone a bordo, sconfinato per oltre 600 km nello spazio aereo dell'URSS, le cui autorità hanno parlato di missione di spionaggio organizzata dagli Americani. Altro importante avvenimento è stata l'invasione da parte americana dell'isola caraibica di Grenada, nell'ottobre dello stesso anno. L'azione degli Stati Uniti, giustificata in base all'argomento che l'isola stava diventando una base militare cubana con la complicità del governo locale, si è però risolta, almeno in parte, in un successo sovietico per la condanna espressa dall'ONU e dalla maggior parte degli alleati americani. Dopo la morte di Andropov, la cui azione fustigatrice doveva aver toccato in modo sgradito molti interessi, suo successore è stato eletto Konstantin Černenko, un altro vecchio la cui nomina stava a indicare chiaramente uno stato d'incertezza all'interno del gruppo dirigente sovietico. Eletto nel febbraio 1984, Černenko è morto nel marzo 1985.
Il suo successore, Michail Gorbačëv, può essere senz'altro definito un ‛uomo nuovo' in vari sensi. In primo luogo egli è, dati gli standard della dirigenza sovietica, molto giovane, in quanto è salito alla carica di segretario generale a 54 anni. La scelta di un uomo di quell'età sta a indicare che i suoi protettori politici (tra i quali figurano lo stesso Andropov e Gromiko) hanno ritenuto necessario dare al paese una leadership stabile e duratura. Ma Gorbačëv è un personaggio notevole anzitutto per le sue caratteristiche personali. Di famiglia contadina, dopo aver lavorato come operaio in giovane età, ha studiato prima legge e poi economia agraria. Nel corso della sua rapida ascesa politica, culminata negli anni del potere di Andropov, ha mostrato grandi capacità di dirigente e di organizzatore. Gromiko ne ha fatto l'elogio descrivendolo come un pragmatico ostile al dogmatismo, pur nella salda fedeltà ai principi del comunismo. Essendo nato nel 1931, Gorbačëv è il primo capo dell'URSS che sia giunto al potere senza aver iniziato la sua ascesa nell'era staliniana. Nel corso della visita compiuta in Gran Bretagna nel dicembre 1984 aveva riscosso un grande successo, colpendo l'opinione pubblica per le sue qualità personali. Nei primi mesi del suo potere, ricollegandosi all'impostazione di Andropov, ha ripreso con energia la lotta per la disciplina del lavoro, contro la corruzione, per il rinnovamento economico. Egli sembra anche favorevole a un certo grado di riformismo teso a rivitalizzare la responsabilità e l'autonomia delle imprese.
Fin dall'inizio del suo potere, Gorbačëv ha agito con determinazione al fine di svecchiare il gruppo dirigente sovietico, portando alla ribalta ‛uomini nuovi' come lui, sensibili a un progetto di ‛riformismo dall'alto' d'impronta tecnocratica. Gorbačëv appare quindi più che mai consapevole della contraddizione fortemente negativa che attanaglia la società sovietica, vale a dire che il prezzo della potenza militare sovietica è un'economia spremuta fino all'osso e che quindi tale potenza poggia su uno stato di pericolosa debolezza generale. Il suo piano sembra essere quello di portare l'URSS a divenire oltre che una superpotenza militare anche una superpotenza economica. Obiettivo che sembra altresì implicare, come condizione necessaria, il rilancio di un processo distensivo che consenta all'URSS di non esaurirsi ulteriormente con la rincorsa dietro al riarmo della superpotenza, militare ed economica insieme, americana.
Gorbačëv ha posto la propria azione sotto la direttiva generale della ‛trasparenza' (glasnost′). Questa direttiva ha avuto effetti significativi anche nel modo in cui è stato affrontato il gravissimo incidente nucleare scoppiato nell'aprile del 1986 a Černobyl. Al fine di migliorare l'immagine esterna del regime e rafforzare il consenso interno, Gorbačëv ha allentato la repressione nei confronti dei dissidenti, al punto da procedere alla reintegrazione di Andrej Sacharov nel dicembre 1986. Egli ha avviato anche un processo di revisione della storia sovietica, riabilitando alcuni dirigenti eliminati da Stalin (in primo luogo Bucharin). In politica estera, egli ha manifestato nell'incontro con Reagan svoltosi a Reykjavik nel 1986 e poi in quello svoltosi nel 1987 a Washington (in cui è stato siglato un importante accordo per lo smantellamento dei missili in Europa) la volontà distensiva del suo paese.
3. L'eurocomunismo
Il termine ‛eurocomunismo' non è di origine comunista: è stato coniato dal giornalista Frane Barbieri nel giugno 1975, ma è stato poi accolto dai comunisti italiani, francesi e spagnoli. Esso indica una fase nuova del comunismo europeo e occidentale, caratterizzata da questi elementi fondamentali: in primo luogo l'abbandono dell'idea che la dittatura del proletariato rappresenti una tappa necessaria della trasformazione in senso socialista nei paesi a democrazia politica; in secondo luogo la critica del modello sovietico e la conseguente affermazione dell'autonomia dei partiti comunisti di nuovo indirizzo come premessa della loro strategia. L'eurocomunismo significa quindi una revisione e un distacco dall'ortodossia politica e ideologica leninista, con un limite però essenziale: il mantenimento del ‛centralismo democratico' quale regola di vita e di organizzazione interna.
Il corso eurocomunista, che si è affermato fra il 1975 e il 1977, in senso storico generale è stato condizionato dalla crisi crescente della concezione rivoluzionaria di matrice bolscevica. Una crisi radicata sia negli effetti provocati dal consolidamento del capitalismo e della democrazia politica in Europa (che ha posto di fronte a crescenti contraddizioni partiti in possesso di un'ideologia rivoluzionaria, i quali si sono però trovati ad agire in una situazione non rivoluzionaria), sia negli effetti connessi alla crescente perdita di prestigio dell'Unione Sovietica e degli altri paesi in cui il comunismo è andato al potere. Di fronte all'esaltazione dogmatica che il comunismo sovietico in primo luogo ha fatto di se stesso e della propria politica con la dottrina del ‛socialismo reale', il comunismo occidentale, constatando l'infecondità della difesa a oltranza di una simile immagine e ritenendo perciò ormai politicamente improduttiva la tradizionale solidarietà con la ‛guida' sovietica, ha risposto dando vita a un nuovo polo del comunismo internazionale. Questo polo non ha dato origine a un centro organizzato, ma per aspetti sostanziali si è dato un'identità comune sotto il profilo ideologico-politico, pur con tensioni e irrisolti problemi interni. Nel corso di un decennio le difficoltà si sono fatte sempre più evidenti, anche se non può dirsi che si sia determinato un rovesciamento delle posizioni iniziali. La mancata risoluzione di questi problemi è dovuta in parte alle diverse caratteristiche e strategie dei partiti eurocomunisti e in parte al fatto che tale indirizzo non è riuscito a dare uno sbocco strategico al proprio impulso originario. L'eurocomunismo ha avuto la sua più radicale espressione teorica nel libro del segretario del Partito Comunista Spagnolo, Santiago Carrillo, L'eurocomunismo e lo Stato, pubblicato nel 1977, e le sue espressioni politiche decisive negli incontri avvenuti fra i segretari del PCI, PCF, PCE e nelle loro dichiarazioni ufficiali nel 1975-1976. Ma è da tener conto che esso ha avuto la sua forza politica di maggior peso nel Partito Comunista Italiano, di cui occorre quindi ricostruire sommariamente le posizioni in relazione al sorgere della tendenza eurocomunista nel suo complesso.
Se si tiene conto dell'importanza che nella caratterizzazione dell'eurocomunismo ha avuto la questione dell'autonomia dall'URSS, si può comprendere il significato della netta critica espressa dal PCI nei confronti dell'invasione della Cecoslovacchia nel 1968. Il segretario del partito Luigi Longo, dopo il soffocamento della politica di Dubček, sostenne apertamente che quest'ultima corrispondeva pienamente alla linea del comunismo italiano e all'eredità che esso aveva ricevuto da Gramsci e Togliatti; sostenne altresì che la tragedia cecoslovacca metteva in luce i nodi non sciolti della ‛democrazia socialista' nei paesi di tipo sovietico e concluse che obiettivo del Partito Comunista Italiano era un socialismo non burocratizzato, rispettoso del pluralismo, contrario al potere di un partito unico Una linea questa che, in rappresentanza del PCI, Enrico Berlinguer ribadì nel giugno del 1969 alla Conferenza dei partiti comunisti e operai di Mosca. Questi accenti apertamente critici non giungevano però ancora a mettere in discussione né la funzione guida dell'URSS né la solidarietà globale con il comunismo sovietico e la sua politica internazionale. Il PCI continuava a ribadire la sua fedeltà al leninismo; ma nel farlo sostituiva significativamente al concetto di dittatura quello, caro al suo maestro Gramsci, di ‛egemonia', inteso come tale da affermare un ruolo di guida, non violento e persino gradualista, del partito nel corso della rivoluzione socialista. Si trattava di un uso politico assai strumentale del pensiero di Gramsci, ma di grande rilevanza politica.
Un altro passo importante, dopo quello determinato dalla reazione ai fatti della Cecoslovacchia, fu compiuto nel 1973 da Berlinguer, che era divenuto segretario del partito l'anno precedente. In relazione al colpo di Stato avvenuto in Cile, Berlinguer affermò che la controrivoluzione in quel paese aveva trovato un presupposto favorevole nella ristrettezza della base sociale e politica del potere di Allende. Quindi egli delineò la necessità per il PCI, sull'onda della ‛lezione' cilena, di mettere in atto in Italia una strategia di ‛compromesso storico' capace di evitare la contrapposizione frontale fra la sinistra e le altre forze politiche e sociali e di legare alla trasformazione sociale anche le forze democratiche d'ispirazione cattolica e non cattolica. Quel che importa qui soprattutto sottolineare è che la linea del compromesso storico indicava ormai una grammatica ideologica sempre più lontana dalla metodologia leninista della presa del potere. Nel dicembre del 1974 Berlinguer fece un passo ulteriore di grande importanza: affermò che, per ragioni di equilibrio internazionale, il PCI non poneva più in maniera pregiudiziale il problema dell'uscita dell'Italia dal Patto Atlantico, pur conservando la convinzione che i paesi socialisti, per loro natura, rappresentassero i naturali difensori della pace nel mondo. Come il Congresso del PCI del marzo 1975 mise ancora in evidenza, il comunismo italiano persisteva nel difendere l'idea di un comune internazionalismo comunista, esprimeva ancora la sua solidarietà con gli Stati di tipo sovietico, proclamati, in virtù delle loro trasformazioni ‛strutturali', paesi di più alta civiltà rispetto ai paesi capitalistici; ma questa affermazione di solidarietà acquistava ormai una natura sempre più generica e sfumata, poiché in concreto si colpiva un punto cruciale dei sistemi di tipo sovietico attraverso la critica del dominio totalitario del partito sullo Stato e sulla società (anche se il PCI respingeva il termine ‛totalitarismo' per caratterizzare la natura del potere sovietico). Tanto che Berlinguer, in quel congresso, ebbe a dire che lo Stato socialista vagheggiato dai comunisti italiani era uno Stato ‛laico', che non poggiava sull'identificazione con un partito o un'ideologia, e pluralista.
Il nodo centrale che un simile tipo di evoluzione richiedeva venisse ormai sciolto era quello della posizione dei comunisti occidentali di fronte alla pratica e ai valori della democrazia politica occidentale di matrice liberale, a cui il comunismo aveva tradizionalmente contrapposto modelli di democrazia fondati sul potere proletario. L'ipotesi di una crisi organica del capitalismo appariva a quel punto del tutto priva di fondamento, e quindi i comunisti europei si trovarono ad affrontare il problema di delineare una strategia in paesi in cui non la rottura rivoluzionaria ma il gradualismo nel rispetto della democrazia politica poteva rendere plausibile il concetto di trasformazione socialista.
Nel luglio del 1975 si incontrarono a Roma il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, e quello del PCE, Santiago Carrillo. Il comunismo spagnolo aveva di fronte a sé una prospettiva di superamento ravvicinato del franchismo e di restaurazione del regime parlamentare e della democrazia politica, e fece la scelta di darsi una veste adeguata al nuovo ruolo storico, in grado di fare del comunismo una forza inserita nel quadro della futura democrazia spagnola. Il documento che uscì dall'incontro può essere considerato il primo grande atto pubblico dell'eurocomunismo. In esso infatti si parlava tanto di un'indispensabile riflessione sulla storia del movimento operaio internazionale, quanto della necessità di porre al centro dell'impostazione strategica la prospettiva di un' ‟avanzata democratica al socialismo, nella pace e nella libertà", in relazione alle condizioni specifiche dell' Europa occidentale. Questa dichiarazione, sostanziata di indicazioni in campo economico e sociale, segnava la rottura evidente con il presupposto di matrice terzinternazionalista secondo cui le leggi della trasformazione socialista debbono avere un fondamento comune indipendentemente dalle specificità di ciascun paese. Pochi mesi dopo, nel novembre dello stesso anno, di nuovo a Roma, si ebbe l'incontro tra i comunisti italiani e francesi, i quali dichiararono che i loro partiti accettavano ‟il diritto all'esistenza e all'attività dei partiti di opposizione" e il principio dell'alternanza democratica delle maggioranze e delle minoranze.
Nel febbraio del 1976 il segretario del PCF, Georges Marchais, dichiarò al XXII Congresso che il partito riteneva che la prospettiva della dittatura del proletariato non rispecchiasse più le esigenze di trasformazione sociale in una società come quella francese. Al XXV Congresso del PCUS (febbraio-marzo 1976), di fronte a Breznev che mise in guardia i partiti comunisti occidentali dal peccato di opportunismo politico, Berlinguer, in assenza di Marchais e Carrillo, spiegò e difese i principi generali dell'eurocomunismo.
Quest'ultimo, per precisare la propria fisionomia, doveva chiarire se i suoi principi di adesione ai valori della democrazia politica di matrice liberale (senza revisione però dei principi organizzativi interni ispirati al ‛centralismo democratico' di matrice leniniana) implicassero o meno uno spostamento verso le posizioni gradualistiche e riformistiche della socialdemocrazia. Berlinguer affermò nel maggio del 1976 che i comunisti italiani nel loro cammino eurocomunista intendevano perseguire una ‛terza via' fra quella sovietica, incapace di risolvere i problemi della democrazia, e quella socialdemocratica, incapace di risolvere i problemi della trasformazione socialista e ancorata a un riformismo interno all'ordine capitalistico. In giugno egli affermò che il PCI non solo accettava la NATO, ma riteneva anche quest'ultima una salvaguardia della stessa autonomia del PCI dall'URSS. In quello stesso mese i tre partiti eurocomunisti diedero espressione al loro comune ‛credo' alla Conferenza dei partiti comunisti europei, svoltasi a Berlino Est. Se dunque il PCI aveva assunto un indubbio ruolo di avanguardia politica nella formazione dell'eurocomunismo, se il PCF era stato il primo a proclamare l'inservibilità e la dannosità del concetto di dittatura del proletariato (il PCI aveva preferito lasciarlo cadere senza sanzioni ‛notarili'), fu il PCE che, tramite la penna del suo segretario generale, diede l'unico testo teorico organico all'eurocomunismo, con il già citato saggio del 1977 L'eurocomunismo e lo Stato.
In questo libro venivano affrontate le ragioni storiche e politiche che avevano portato i comunisti occidentali a una concezione del comunismo che, mentre induceva a far propri i valori della democrazia politica un tempo respinti, rendeva necessaria una critica serrata della politica sia interna che internazionale sovietica. Quello che un tempo era stato considerato come il modello sovietico, ora veniva sottoposto a un'analisi spietata che ne denunciava la natura burocratico-dittatoriale. Su questo punto gli accenti di Carrillo erano tali da superare di molto quelli di Berlinguer. Carrillo, e questo era un tratto quanto mai notevole del suo discorso, conduceva un'aperta revisione della storia del comunismo internazionale, e faceva valere politicamente questa revisione per concludere che l'eurocomunismo poteva persino arrivare a una strategia rivolta a superare le scissioni che avevano spaccato il movimento operaio nel primo dopoguerra, a condizione però che la socialdemocrazia volgesse a sua volta le spalle a un riformismo schiacciato entro i confini del capitalismo per darsi una linea diretta a superare quegli stessi confini. Un blocco socialista democratico avanzato in Europa avrebbe allora potuto porre seriamente in campo internazionale l'obiettivo di un'Europa indipendente sia dall'URSS, sia dagli Stati Uniti.
Sorto come tendenza nel 1975, l'eurocomunismo, sebbene non lo si possa definire esaurito, appare dieci anni dopo come una forza confusa, piegatasi anzitutto di fronte alle difficoltà insorte nelle specifiche situazioni nazionali, tanto che la cooperazione internazionale fra PCI, PCF e PCE è ormai priva di ogni peso. Questa crisi è evidente soprattutto nel comunismo spagnolo e in quello francese. Le ragioni della impasse quanto mai seria del cammino eurocomunista sono anzitutto legate al fatto che i tre maggiori partiti comunisti occidentali, dopo essersi dati una identità ‛negativa', dopo aver chiarito cioè quel che non volevano più essere, non sono riusciti a darsi un'adeguata identità ‛positiva', vale a dire a nutrire di sostanza strategica l'idea della ‛terza via'. Essi escludevano che l'eurocomunismo potesse essere concepito quale tappa intermedia in vista di un ritorno organico entro il seno del socialismo occidentale. Senonché il progetto di fare del ‛nuovo corso' il presupposto di un maggiore radicamento nel tessuto politico nazionale è andato incontro a uno scacco grave anzitutto in Spagna e in Francia.
In Spagna il PCE aveva ritenuto che l'indirizzo eurocomunista potesse preparare, in un momento di trapasso dal franchismo alla democrazia, una sua forte espansione. Ma il ristabilimento della democrazia in Spagna ha giocato in misura crescente a favore del Partito Socialista, che nel giugno del 1977 ha ottenuto il 28,7% dei suffragi e nell'ottobre del 1982 addirittura il 48,4% e la maggioranza dei seggi in Parlamento, portando al potere il socialista Felipe Gonzàlez. Il Partito Comunista è passato invece rispettivamente dal 9,2 (nel 1979 aveva avuto un certo incremento con il 10,8) al 3,9%: un esito elettorale catastrofico, che ha determinato il ritiro di Carrillo dalla carica di segretario generale. Nel corso di questi anni il comunismo spagnolo ha poi dovuto subire una scissione ed è andato incontro a un periodo di confusione interna. Non solo si è diviso fra eurocomunisti e filosovietici, fra quanti erano decisi a superare l'eredità leninista e quanti vi si opponevano, ma gli stessi eurocomunisti hanno conosciuto tensioni ingovernabili, in una situazione interna caratterizzata da accuse e controaccuse. Quasi simbolico di questa crisi del comunismo spagnolo è che Carrillo si sia fatto aspro sostenitore del ‛centralismo democratico' per epurare i suoi avversari, e da ultimo sia tornato a posizioni di filosovietismo del tutto in contrasto con le tesi sostenute nel suo libro del 1977.
Anche in Francia il dato più appariscente dello scacco subito dal comunismo è la sua perdita d'influenza elettorale di fronte al successo del Partito Socialista, secondo una tendenza analoga a quella in atto in Spagna. Il Partito Socialista, che nelle elezioni del marzo del 1978 aveva avuto il 28,46%, nel 1981 è passato al 37,5%, per cadere però al 20,8% nelle elezioni europee del 1984. Il Partito Comunista da parte sua è andato incontro a un inesorabile declino elettorale che lo ha portato dal 18,8% nel 1978 al 16,2% nel 1981, all'11,2% nel 1984, fino al 9,8% nel 1986.
Le chiavi delle contraddizioni del PCF (che nel 1976 aveva preso l'iniziativa di proclamare la necessità di abbandonare il concetto di ‛dittatura del proletariato' nel quadro dello slancio eurocomunista, nel 1979 faceva sparire del tutto la parola ‛eurocomunismo' dai suoi documenti e appoggiava l'invasione sovietica dell'Afghanistan, in contrasto con il PCE e il PCI, e negli anni seguenti ritornava a posizioni di aperto filosovietismo espellendo dalle sue file numerosi esponenti del nuovo corso) sono da rintracciarsi anzitutto nei rapporti con il Partito Socialista e nella politica internazionale. Nel 1972 il PCF aveva sottoscritto il ‛programma comune' con i socialisti nella convinzione di poter diventare la forza guida della sinistra francese. Senonché la marcia delle sinistre verso il potere, conclusasi nel maggio 1981 con l'elezione a presidente della Repubblica di Mitterrand e con la vittoria elettorale socialista, deludeva in pieno le attese. Il PCF entrò al governo in posizione di debolezza. E dopo di allora cercò di ritrovare una propria identità smorzando le posizioni eurocomuniste, individuate come responsabili della perdita elettorale e della drastica diminuzione degli iscritti. Attualmente il PCF si è riattestato su posizioni filosovietiche e sulla lotta al ‛frazionismo' interno, cercando di vanificare le perdenti lusinghe della socialdemocratizzazione. Partito che aveva fornito alcuni ministri, si è detto partito ‛al governo' ma non ‛di governo', a sottolineare le distanze da Mitterrand. Nel 1984, infine, Mitterrand ha formato un nuovo governo senza la partecipazione del PCF, caduto all'11% dell'elettorato. Bisogna inoltre sottolineare, quale altro motivo determinante che ha frenato e deviato il nuovo corso dei tre maggiori partiti eurocomunisti, la profonda differenziazione esistente fra PCF e PCI di fronte alla NATO e alla Comunità Europea. Mentre il comunismo italiano ha espresso formalmente l'accettazione della NATO e della politica d'integrazione europea, il comunismo francese è rimasto ancorato alla difesa anche particolaristica degli interessi nazionali francesi, sia economici sia nel campo della difesa, secondo un'ispirazione non aliena dall'agitare persino i secolari contrasti fra la Francia e la Germania. In conclusione, la stagione eurocomunista del PCF ha conosciuto un precoce tramonto all'ombra di un ‛gallocomunismo' nazionalista in politica estera e in politica interna, e di una concezione del partito come ‛controsocietà' che ha sempre più il carattere di un'autoghettizzazione.
Al contrario del PCE e del PCF, il PCI ha mantenuto nel decennio successivo alla nascita dell'eurocomunismo una sostanziale continuità d'ispirazione rispetto ai principi proclamati nel 1975. Anzitutto è da sottolineare che, a differenza degli altri due partiti, esso ha conservato, seppure con oscillazioni, un solido radicamento elettorale, che non soltanto lo ha mantenuto nella posizione di più forte partito comunista occidentale, ma lo ha portato nelle elezioni europee del giugno 1984 a diventare il più forte partito italiano (una posizione perduta però nelle elezioni amministrative del 1985). Nel 1976 il PCI ha ottenuto il 34,4% dei voti con un forte balzo in avanti; nel 1979 il 30,4; nel 1983 il 29,9; nelle elezioni europee del 1984 il 33,3% (di fronte al 33% della DC).
Il disegno strategico del PCI (esplicitato nella linea del ‛compromesso storico') di portare i comunisti a un governo di coalizione, oltre che con il PSI, con la DC, non ha però avuto successo. Nel 1976 il governo monocolore presieduto dal democristiano Giulio Andreotti, in un clima gravemente turbato dall'infierire del terrorismo, aveva potuto godere dell'appoggio parlamentare del PCI in base alla formula della ‛solidarietà nazionale', che parve essere, anche per il sostegno dato dal leader democristiano Aldo Moro, preludio all'ingresso dei comunisti al governo. Senonché l'assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse nel maggio del 1978 privò il PCI del suo più autorevole interlocutore all'interno della DC, la quale, dopo la fine nel 1979 del governo Andreotti, nel suo Congresso del febbraio 1980 ha opposto un netto rifiuto alla prospettiva della partecipazione del PCI al governo. In una simile situazione Berlinguer ha posto fine alla linea del compromesso storico, lanciando nel novembre del 1980 quella dell'‛alternativa democratica' alla DC, che è rimasta in seguito, nonostante le oscillazioni, la linea del partito anche dopo la morte di Berlinguer, nel giugno del 1984, e l'ascesa alla segreteria del partito di Alessandro Natta.
Un fattore determinante dell'insuccesso strategico del PCI è stato altresì l'atteggiamento del Partito Socialista sotto la leadership di Bettino Craxi, che ne era divenuto segretario nel 1976. I socialisti italiani nel periodo della ‛solidarietà nazionale', temendo che la realizzazione del compromesso storico potesse schiacciare il PSI riducendolo a un ruolo marginale, hanno opposto la linea di un'‛alternativa socialista' al potere democristiano; quindi, dopo la caduta del governo Andreotti nel 1979, sono tornati al governo con la DC e i partiti laici minori. In seguito alle elezioni del 1983, che hanno visto una perdita della DC del 5,4% e un incremento socialista dell'1,6%, Craxi ha assunto la presidenza del Consiglio.
La leadership di Craxi nel PSI ha avuto un effetto determinante per le sorti politiche dei comunisti. In una situazione rovesciata rispetto a quelle francese e spagnola, che hanno visto i socialisti forti elettoralmente e i comunisti deboli, Craxi ha teso a utilizzare la posizione del PSI come ‛ago della bilancia' nel sistema politico e parlamentare italiano per dare al partito quel peso che non gli aveva dato l'elettorato. Ha quindi evitato ogni accordo con un PCI troppo forte, vanificando con ciò qualsiasi prospettiva di successo della strategia di ‛alternativa democratica' avanzata dai comunisti. Alla tensione fra i due partiti della sinistra italiana ha contribuito altresì il contrasto ideologico. A partire dal 1976 il PSI ha contrapposto la propria natura di partito socialista occidentale alle persistenti ambiguità del PCI, accusato di perseguire una ‛terza via' dai connotati incerti, di non aver condotto ancora una critica sufficientemente organica del sistema totalitario di tipo sovietico, di far gravare sulla sua adesione alla NATO un'intima vocazione neutralistica, di aver accolto i valori della democrazia politica in relazione ai problemi dello Stato senza però mettere in discussione i principi del centralismo democratico di matrice leninista all'interno del partito. In conseguenza, tra il 1975 e il 1985 i rapporti fra i due partiti sono stati improntati a una costante ostilità.
È comunque un fatto che il PCI è l'unico partito del ‛nuovo corso' il quale da un lato-come si è visto-abbia assunto posizioni di autonomia dall'URSS (che si sono progressivamente consolidate e sono giunte a sostanziare questa stessa autonomia con critiche sia alla mancanza di democrazia sia alla ‟politica di potenza" - questa l'espressione di Berlinguer - del colosso sovietico, manifestatasi in Cecoslovacchia, Afghanistan e Polonia) e dall'altro lato abbia accettato come prospettiva positiva l'integrazione europea. È infine da notare che nella sua vita interna il PCI ha realizzato un'apertura e un confronto politico e ideologico sempre maggiori, respingendo nell'affrontare i contrasti interni (e in primo luogo nei confronti dell'esigua minoranza filosovietica, esigua almeno a livello della dirigenza) la prassi dell'intolleranza e delle epurazioni che hanno invece continuato a segnare la vita del comunismo francese e spagnolo. Il dibattito, per lo più assai confuso, condotto dal PCI verso la seconda metà degli anni ottanta sul significato di ‛riforme' e ‛rivoluzione', ‛terza via', dello stesso ‛centralismo democratico', e sui rapporti tra comunismo e socialdemocrazia, ha trovato una sua conclusione al XVII Congresso (aprile 1986), dove i comunisti italiani si sono definiti ‟parte della sinistra europea" e hanno ulteriormente accentuato il proprio carattere riformatore (lasciando cadere il concetto di ‛terza via' e il principio del ‛centralismo democratico' come criterio di organizzazione interna). In tal modo la crisi di identità ‛comunista' del partito si è fatta ancora più evidente. Questa crisi si è ulteriormente acutizzata dopo i risultati elettorali del 14 giugno 1987, in seguito ai quali il PCI ha subito un notevole calo, passando dal 29,9% del 1983 al 26,6 (laddove il PSI è passato dall'11,4 al 14,3). Nelle discussioni seguite a questo scacco sono emerse nette e aperte divisioni all'interno del partito, tali da coinvolgere, appunto, il senso dell'identità ‛comunista' e far emergere strategie assai diverse.
4. La ‛demaoizzazione' in Cina e il pragmatismo di Teng Hsiao-ping
L'ultimo decennio di storia del comunismo cinese può essere diviso in due fasi: liquidazione dell'eredità della ‛rivoluzione culturale' e ascesa e consolidamento al potere dell'ala moderata, razionalista e riformatrice di Teng Hsiao-ping. Questo ha significato un processo di progressiva ‛demaoizzazione', sebbene quest'ultima non abbia finora avuto alcun carattere formale e radicale, poiché il pensiero di Mao è stato conservato come base ideologica ufficiale del partito e dello Stato. Quel che Teng ha colpito è stata la politica concreta di Mao e dei suoi seguaci nel periodo della rivoluzione culturale. È evidente che Teng non ha voluto un XX Congresso cinese e una pubblica denuncia dei ‛misfatti' di Mao, quale quella fatta da Chruščëv nel 1956 nei confronti di Stalin, per non correre eccessivi rischi di destabilizzazione. Ma la demaoizzazione ha assunto in effetti un carattere aperto e anche simbolico inequivocabile con la riabilitazione pubblica, nel febbraio del 1980, di Liu Shao-chi, denunciato come il grande traditore dagli uomini della rivoluzione culturale. Gli ultimi anni di vita di Mao avevano già mostrato un'inversione di rotta rispetto alla fase radicale della rivoluzione culturale, che aveva sconquassato il paese. Chou En-lai nell'agosto del 1973 aveva denunciato Lin Piao, morto misteriosamente nel 1971, come un traditore capo di una ‛cricca antipartito', venduto contemporaneamente agli Americani e ai Sovietici. Obiettivo di Chou En-lai era di ridare autorità al partito e di creare i presupposti per un ritorno alla normalità, tanto necessaria alla ripresa produttiva. Quanto mai significativo che nel 1973 fosse stato riabilitato Teng Hsiao-ping, un eminente protetto di Chou, epurato durante la rivoluzione culturale. Ma la situazione interna al partito e al gruppo dirigente restava estremamente incerta. La morte, nel 1976, prima di Chou in gennaio e poi di Mao in settembre, portò a un confronto sempre più serrato fra radicali eredi della rivoluzione culturale in declino politico e moderati in netta ripresa dopo i disastri provocati dalla rivoluzione stessa. Subito dopo la morte di Chou, Teng venne nuovamente colpito; ma la morte di Mao portò ancora una volta alla sua riabilitazione a opera del nuovo presidente del partito, Hua Kuo-feng, il quale procedette a ‛smascherare' i misfatti della ‛banda dei quattro' (fra i quali vi era la vedova di Mao), capi dell'ala radicale e ora accusati di avere deformato il pensiero di Mao, tradito il paese e di essere stati fautori di una dittatura fascista.
Questi avvenimenti, svoltisi tra il 1977 e il 1978, segnarono la vittoria politica di Teng, tanto che nel 1978 vennero riabilitate le vittime della rivoluzione culturale.
Nel 1978 Teng ha provveduto a dare una prospettiva alla nuova fase politica lanciando la linea delle ‛quattro modernizzazioni' (agricoltura, industria, scienza e tecnologia, difesa nazionale). Per attuare la modernizzazione della Cina, Teng, divenuto il leader incontestato del paese (Hua Kuo-feng nel 1980-1981 ha anche formalmente perduto la sua posizione di preminenza), ha insistito sempre più sulla necessità di allargare i contatti con il mondo occidentale, di intensificare i rapporti economici internazionali, di conferire una maggiore autonomia alle imprese, di dare efficacia a un vero e proprio ‛mercato socialista'. Nel 1982 è stato formalmente approvato un piano quinquennale (1981-1985) destinato a funzionare secondo i nuovi criteri. Teng ha altresì proceduto a riformare il partito, dopo che nel 1978 era stata approvata una nuova costituzione del paese. Nel settembre del 1982 il XII Congresso del PCC ha approvato uno statuto in base al quale sono state abolite le cariche a vita e si è eliminata quella della presidenza del partito, con l'intento evidente d'impedire le eccessive concentrazioni e cristallizzazioni di potere. Teng ha poi provveduto, con un processo intensificatosi nel settembre del 1985, a creare un'élite dirigente rinnovata ideologicamente e generazionalmente, in grado di assicurare la continuità della sua politica. Sono state anche prese misure per epurare l'esercito nei comandi fedeli al vecchio maoismo. Ma è significativo che Teng, la cui politica rappresenta un chiaro spostamento a ‛destra', abbia a più riprese rivolto attacchi pesanti al ‛liberalismo borghese' in nome della fedeltà al socialismo, come a mettere al riparo la propria strategia da contraccolpi di ‛sinistra'.
In politica estera la Cina del nuovo corso moderato ha capovolto in maniera sempre più accelerata l'isolazionismo teorizzato da Lin Piao, ma già drasticamente incrinato con la visita di Nixon in Cina nel febbraio del 1972. Il maggiore successo è stato il riconoscimento ufficiale della Cina comunista da parte degli Stati Uniti nel gennaio del 1979, che ha aperto una fase d'intensi rapporti diplomatici, culturali ed economici fra i due paesi. Un punto di tensione aperto particolarmente significativo è però legato al destino di Taiwan. Teng ha ripetutamente sottolineato che la Repubblica Popolare Cinese mira alla riunificazione nazionale con quest'ultima e che è disposta a riconosceme il particolare status economico e politico, ma ha chiesto agli Stati Uniti di riconoscere una sola Cina e di limitare i rifornimenti di armi a Taiwan.
Una notevole importanza ha assunto anche l'intensificazione dei rapporti economici con il Giappone, che però non ha risposto finora pienamente alle attese cinesi. Nel quadro della politica di riunificazione nazionale, Teng ha avviato trattative con la Gran Bretagna aventi per oggetto Hong Kong, trattative che si sono concluse positivamente nel dicembre del 1984 con l'impegno britannico a consegnare Hong Kong nel 1997 alla Cina, la quale si è impegnata a sua volta a rispettarne l'autonomia.
Un capitolo centrale della politica estera cinese è naturalmente rappresentato, nell'ultimo decennio, anche dalle relazioni con l'Unione Sovietica. I due paesi hanno ripreso periodiche trattative in un clima di miglioramento dei rapporti, seppure contrassegnato da molte oscillazioni, clima che ha aperto una nuova fase dopo lo scontro ideologico frontale seguente l'inizio degli anni sessanta. Come Teng ha ripetutamente messo in rilievo, questo miglioramento ha dei limiti precisi in tre aspetti della politica sovietica che urtano direttamente contro gli interessi cinesi: l'intervento dell'Armata Rossa in Afghanistan, l'appoggio all'occupazione vietnamita in Cambogia (e il consistente aiuto militare al Vietnam), la presenza militare sovietica nella Mongolia esterna.
In generale la Cina in politica estera è orientata a considerare il potere mondiale di entrambe le due superpotenze come una minaccia; ma è un fatto che essa ha messo sempre più in primo piano il pericolo dell'‛egemonismo sovietico' rispetto a quello costituito dall'‛imperialismo americano', anche perché ormai è il primo e non il secondo a urtare direttamente contro gli interessi nazionali e statali della Cina.
La Cina attuale è quindi ormai profondamente ‛demaoizzata' e si è data una linea di riformismo pragmatico, la quale, nonostante l'omaggio sempre tributato al pensiero del fondatore della Cina comunista, ha trovato il proprio leader in un dirigente come Teng, deciso a invertire la rotta rispetto al radicalismo irrazionalistico e volontaristico culminato nella rivoluzione culturale. È un segno eloquente di questa tendenza il fatto che nel luglio del 1981 siano state pubblicate le Opere scelte di Teng Hsiao-ping, un vecchio che ha fatto del ringiovanimento della leadership cinese un aspetto sostanziale del suo testamento politico.
5. Il comunismo dei paesi arretrati
I regimi che nei paesi arretrati dell'America Latina, dell'Africa e dell'Asia si sono costituiti richiamandosi al comunismo, nel corso dell'ultimo decennio, rappresentano un prodotto del tutto anomalo dal punto di vista del marxismo classico. Sono figli non delle contraddizioni del capitalismo, ma della mancanza di sviluppo sociale e civile moderno. In questo senso, essi portano all'estremo la tendenza aperta prima dalla Rivoluzione russa e poi da quella cinese. Le élites rivoluzionarie giunte al potere in questi paesi hanno abbracciato l'ideologia antimperialistica del leninismo e la concezione del partito unico centralizzato come strumenti di direzione e mobilitazione autoritaria delle masse dall'alto, in vista di obiettivi di modernizzazione secondo modelli antioccidentali. Sprovvisti di ogni possibilità di autonomia nelle relazioni internazionali e bisognosi di aiuti economici e militari dall'esterno, essi dipendono strettamente dall'URSS.
Un'attenzione particolare meritano le vicende del comunismo indocinese. Il Vietnam, unificatosi in conseguenza della conclusione vittoriosa nel 1975 della guerra del Nord comunista contro il regime del Sud e le truppe americane, ha dato vita in condizioni di grande povertà a un regime di ‛comunismo militare', che ha trovato un mezzo essenziale del proprio consolidamento interno nell'espulsione degli elementi ostili al nuovo ordine sociale e politico o nell'abbandono in massa del paese da parte della minoranza etnica cinese. Nel 1979 l'esercito vietnamita, con il consistente appoggio sovietico, ha proceduto a invadere la Cambogia governata dai ‛khmer rossi' guidati da Pol Pot e appoggiati dalla Cina. Anche il Laos è passato sotto il controllo vietnamita. In questo modo il Vietnam è diventato un'importante potenza regionale, in costante tensione nei confronti della Cina, con la quale ha sostenuto un confronto militare limitato ma violento nel 1979-1980.
L'invasione della Cambogia da parte vietnamita è stata non solo la conclusione delle tendenze espansionistiche del Vietnam e di quelle dell'URSS, per il controllo dell'Indocina, ma anche l'effetto del disastro politico e sociale provocato dal regime instaurato nel 1975 dai khmer rossi di Pol Pot, un regime che è stato l'espressione di un estremismo utopistico culminato in vera e propria criminalità politica. Tra il 1976 e il 1979 Pol Pot cercò di instaurare un comunismo fondato sulla totale ruralizzazione della vita economica e sociale, in un'ondata di odio contro ogni forma di vita urbana moderna, considerata fonte di corruzione e di degenerazione. Le città vennero forzatamente svuotate, la popolazione costretta ad andare nelle campagne, la moneta abolita, il sistema dell'istruzione demolito in nome di un sogno di ‛rigenerazione' rurale. Per creare il ‛mondo nuovo' e rompere del tutto con il passato, milioni di persone furono uccise. Questo regime di follia criminale è caduto a opera dei vietnamiti, che hanno invaso il paese nel 1979 dopo la costituzione nel 1978 di un Fronte Unito per la salvezza nazionale. Dal canto loro i khmer rossi hanno continuato, con l'appoggio cinese (e poi anche americano) in funzione antivietnamita e antisovietica, la lotta contro gli invasori, nel quadro di una difficile alleanza con le forze del principe Sihanouk. Nel settembre 1985 Pol Pot è stato dagli stessi khmer rossi posto in una posizione di secondo piano per dare una base più stabile e accettabile alla guerriglia antivietnamita condotta insieme con i nazionalisti non comunisti.
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