CONFESSIONE
Nel suo significato etimologico e più comprensivo (lat. confessio, da confiteor "dichiaro apertamente") è un esplicito riconoscimento relativo a un fatto o a un'idea del confidente. Più particolarmente, confessione è la dichiarazione fatta di una colpa commessa in materia morale (confessione dei peccati) o civile (confessione civile).
Il significato primitivo della parola "confessore" (v), di colui cioè che faceva esplicita dichiarazione della propria fede cristiana davanti ai tribunali pagani, ha fatto sì che "confessioni" siano state dette anche le solenni professioni di fede fatte da circoscritti gruppi di cristiani, in opposizione al resto della cristianità, e i documenti relativi (per es., la confessione di Augusta, contenente gli articoli fondamentali della dottrina luterana). Da ciò deriva l'uso di qualificare confessione una particolare setta o chiesa cristiana acattolica.
Confessione è anche quella parte della chiesa ove è deposta la spoglia del confessore (v.) della fede.
Confessione dei peccati.
La confessione nella Chiesa cattolica fa parte del sacramento della penitenza; ma con quella parola s'indica il sacramento stesso (v. penitenza). In senso e modo diversi si pratica in quasi tutte le religioni, a cominciare da quelle dei cosiddetti primitivi.
Primitivi. - In base a ricerche recenti si è potuto constatare la presenza di una specie di confessione dei peccati, sotto forme diverse, presso popolazioni primitive dell'Africa: Kpelle e altri Negri della Liberia, Dágari, Ewe, Fan, Yoruba, Bavili, Bashilange, Boloki, Bechuana, Thonga, Vachopi, Mashona, Anyanja, Avembà, Konde, Wakulwe, Bapimbwe, Baganda, Basoga, Bagesu, Kikuyu, Kambe, Shilluk, Antambahoaka (Madagascar); dell'Asia: Yuraki (Samojedi), Pigmei e Pigmoidi (Semang e Sakai) della penisola di Malacca; dell'Oceania: Sumatra (Batak) e N. Brettagna (Sulka); dell'America settentrionale: Eschimesi (Terra di Baffin, Iglulik, Penisola Melville, Groenlandia Orientale), Dene (Kawkodinne, Carriers), Californiani (Hupa, Yurok, Luiseño, Juaneño), Algonchini settentrionali e Ojibway del Lago superiore, Ojibwa e Cree, e altri Indiani delle Praterie che hanno una specie di confessione incorporata nella loro cosiddetta "danza del sole" (Blackfeet, Cheyenne, Sarsi, Crow, Dakota, Arikara), Irochesi (Onondaga), Huichol; e dell'America meridionale: Kagaba e Ijca, Brasiliani. Presso questi popoli primitivi la confessione compare in una forma elementare: non è segreta, essendo fatta generalmente al fattucchiere in presenza di altre persone; non è accompagnata da speciali sentimenti di pentimento e contrizione, ed è soprattutto destinata a liberare chi la fa da un male concepito come conseguenza del peccato commesso, che è, quasi esclusivamente, il peccato sessuale. È assolutamente da escludere che la confessione quale si riscontra presso le varie popolazioni primitive d'Africa, America, ecc. sia derivata da quella cristiana introdotta dalle missioni. Essa è molto spesso accompagnata da pratiche eliminatorie (abluzione, aspersione, strofinamento, gettito e dispersione, combustione, suffumigio, sputo, vomito, estrazione del sangue), le quali servono ad allontanare materialmente il peccato, o il male che è conseguenza del peccato. A questo processo di eliminazione la confessione concorre in quanto essa, evocando il peccato per virtù magica della parola, lo "esprime" cioè lo estrae, rendendolo così eliminabile. Si confessano anche peccati commessi involontariamente e inconsapevolmente, ricorrendo talvolta alla recitazione di un elenco globale che teoricamente comprende tutti i peccati possibili.
Di mano in mano che si passa ad ambienti religiosi e culturali più progrediti, s'incontra una confessione di tipo più evoluto, in armonia con gli sviluppi generali della religiosità: tuttavia il tipo della confessione primitiva sopravvive in taluni dei suoi aspetti ed elementi caratteristici anche in seno alle religioni più elevate.
America antica: Messico. - La confessione era fatta ai sacerdoti della dea Tlaçolteotl, dea della vegetazione, nonché della maternità e degli amori, anche illeciti e peccaminosi. Infatti i peccati che si confessavano erano i peccati carnali (oltre a questi, soltanto l'ubriachezza). Per una volta tanto la confessione, che era segreta, assicurava l'impunità (gli adulteri erano puniti con la lapidazione). La penitenza assegnata dal confessore consisteva in un'estrazione di sangue che il penitente si praticava attraverso la lingua o l'orecchio, passandovi poi una quantità di pagliuzze, per tenerlo aperto e farlo sanguinare. I Mixteki adoravano Tlaolteotl e confessavano i loro peccati in caso di malattia. I Totonaki adoravano una dea della vegetazione, Centeotl o Tonacayohua, al cui culto erano adibiti due "monaci" che verosimilmente confessavano coloro che ricorrevano a loro in caso di malattia o altra disgrazia. Un gruppo di Zapoteki fu sorpreso ancora nel 1652 a praticare un rito di penitenza e confessione che aveva luogo una volta all'anno, ed era accompagnato da un'estrazione di sangue dalla lingua e dalle orecchie.
America centrale. - La confessione era praticata del pari presso le popolazioni maya del Chiapas, Yucatán e Guatemala, specialmente in caso di malattia o di altro pericolo mortale, come pure in occasione di un matrimonio (Chiapas) e di un parto difficile (Guatemala), nonché in un antico rito yucateco detto caputzihil ("rinascita"). I peccati che si confessavano erano in primo luogo, sebbene non esclusivamente, i peccati carnali. La confessione era in uso nel Nicaragua, per lo meno presso la popolazione di lingua nahuatl e di origine messicana.
Perù. - Nell'antico Perù la confessione si praticava in casi di malattia, e in preparazione a feste religiose.
Il penitente enunciava all'ichuri (il confessore: fattucchiere indovino) i suoi peccati (d'ogni genere), poi col soffio disperdeva certa polvere di mais e di conchiglie di vario colore presentatagli dall'ichuri; indi l'ichuri gli strofinava la testa con una pietra; poi aveva luogo un'abluzione o addirittura immersione del penitente in un corso d'acqua, preferibilmente alla confluenza di due ruscelli. Seguiva la verifica della confessione. L'Inca e il gran sacerdote dichiaravano di solito i loro peccati rispettivamente al Sole e all'Essere Supremo (Viracocha) tenendo in mano un mazzo di erba e di fiori, su cui poi sputavano, dopo di che l'Inca lo gettava nell'acqua corrente, il gran sacerdote nel fuoco (e le ceneri nell'acqua corrente). Abluzione, abbruciamento, asportazione nell'acqua corrente sono, al pari dell'estrazione del sangue nell'antico Messico (e nell'America Centrale), altrettante operazioni eliminamrie con cui la confessione concorreva all'allontanamento del male-peccato. Da non segreta quale fu verosimilmente in epoca pre-incasica, la confessione diventò segreta, al Perù, in seguito forse a una riorganizzazione dovuta alla complessa opera riformatrice degl'Inca.
Giappone. - L'antica festa Shintoistica Oho-harahi ("grande purificazione"), che si celebra l'ultimo giorno del 6° e l'ultimo del 12° mese, è una festa di eliminazione dei peccati della comunità: si recita un testo liturgico e si presentano offerte agli dei, le quali poi sono gettate in un corso d'acqua perché i peccati siano eliminati.
Il testo (Florenz, in Transactions of the Asiatic Society of Japan, 1899,1), contiene un elenco di peccati distinti in peccati celesti (azioni varie in danno della coltivazione dei campi di riso, scorticare un animale vivo a cominciare dalla coda, lordare con escrementi) e peccati terrestri (ammazzare, toccare cadaveri, incesto, bestialità, devastazione causata da vermi o da fenomeni meteorici o da uccelli, distruzione di animali, stregonerie). Come si vede, sono compresi tra i peccati dei semplici accadimenti (dannosi), indipendenti dalla volontà dell'uomo, e da lui semplicemente subiti. Nel testo è detto che i peccati debbono essere eliminati tanto se siano stati commessi deliberatamente quanto involontariamente.
Cina. - Nel confucianismo alcuni testi classici hanno conservato traccia di un'antica confessione praticata, a quanto pare, dal sovrano. Nel taoismo monastico, il monaco di primo grado doveva, per 100 giorni, recitare ogni giorno la preghiera per il perdono dei peccati commessi prima dell'ordinazione. Se in seguito cadeva in qualche peccato, doveva, per la prima volta, recitare le preghiere per il perdono dei peccati, offrire una tazza d'acqua pura e leggere un brano di uno scritto del patriarca Ch'iu, indi restare per un mese in meditazione; se peccava un seconda volta, doveva ripetere gli stessi atti; se una terza volta, doveva recitare altri due testi, sacrificare tre tazze d'acqua pura e vivere tre mesi in contemplazione. Se ancora recidivo nello stesso peccato, era escluso da ogni ulteriore penitenza.
Le origini del taoismo extraconventuale (I-II sec. d. C.) sono connesse col movimento dei cosiddetti turbanti gialli. Essi avevano un capo che, tra l'altro, operava guarigioni miracolose mercé l'acqua consacrata. Il paziente era tenuto a fare un esame di coscienza e confessare i suoi peccati: la confessione era scritta in tre esemplari, uno dei quali era portato sopra una montagna, l'altro sepolto in una fossa, il terzo gettato in fondo a un fiume, ritenendosi che in tal guisa la confessione pervenisse agli spiriti del cielo, della terra e dell'acqua.
Brahmanesimo. - La concezione primitiva del peccato (enas, āgas) come forza-sostanza malefica, appare tuttora viva nei Veda, sebbene vi si accompagni con la concezione più moderna del peccato come offesa fatta a quella o a questa divinità. Corrispondentemente il peccato, che può essere commesso anche inconsapevolmente (per es., in sogno: Rig- Veda, 10,164,3) e che può anche trasmettersi di padre in figlio, si elimina con invocazioni e sacrifizî fatti alle divinità, ma anche - nello stesso modo come si elimina un'impurità, una malia, una malattia comunque contratta - mercé l'azione del fuoco (avajay), o dell'acqua (lavando oppure gettando nella corrente), oltre che con formule magiche, somministrazione di erbe salutari, ecc. Anche una specie di confessione (di peccati sessuali) è conosciuta nel brahmanesimo: nella celebrazione della festa Varuṇapraghāsa, in onore di Varuṇa e dei Marut, la moglie del sacrificante doveva dichiarare quanti e quali amanti aveva avuti. Dopo di ciò essa prendeva certe paste, e le gettava nel fuoco pronunciando una formula appropriata; con ciò i peccati erano eliminati. Nei Sūtra è attestata la confessione pubblica come elemento della prassi penitenziale prescritta per peccati di natura sessuale.
Giainismo. - La concezione primitiva (ancor viva nei Veda, v. sopra) del peccato come forza-sostanza malefica e della penitenza come operazione eliminatoria non è forse senza rapporto con gli antichi concetti religiosi indiani di karman e di tapas. Tale rapporto interessa in particolar modo il giainismo, che anche sotto altri rispetti appare più vicino alle concezioni di un mondo religioso arcaico. Il tapas secondo i Giaina è esterno e interno: il tapas interno comprende, fra l'altro, l'espiazione dei peccati, la quale a sua volta consta di varî atti, tra cui la penitenza e la confessione. Queste varie pratiche di espiazione concorrono, come tutto il tapas, a impedire la formazione di nuovo karman e il suo aflusso all'anima, e alla distruzione del karman già esistente. La prassi penitenziale giainica non si limita a queste pratiche, ma esige anche pentimento, contrizione e rimorso. Essa diede luogo altresì alla formazione di un vero e proprio sistema disciplinare per i monaci.
Buddhismo: India. - In rapporto con la svalutazione delle pratiche ascetiche (tapas) ai fini della liberazione (nirvāṇa) sta nel buddhismo un'accentuata importanza del momento interiore del pentimento, che si estrinseca in un riconoscimento della propria colpa. Ciò diede luogo a una specie di confessione palese e reciproca fra i monaci (bhikkhu) che aveva luogo nelle riunioni quindicinali della comunità. In esse si recitava il pātimokkha. Questo testo contiene un registro di colpe o mancanze ripartite in 8 sezioni in ordine di gravità decrescente. Nel Vinaya è prescritto che soltanto i puri possono partecipare alla recitazione del formulario di confessione; la confessione e penitenza deve farsi prima; e se un monaco si ricorda di un peccato durante la recitazione, deve confidarlo provvisoriamente al suo vicino, salvo a farne poi la penitenza.
Fuori dell'India. - Nell'imbarbarimento del buddhismo presso le popolazioni dei paesi meno progrediti dove esso si diffuse, anche la prassi penitenziale andó degenerando, specialmente in ambiente laico e popolare. Nel Giappone vennero in uso le ruote di preghiera, le quali si girano per ottenere la cancellazione dei peccati, e con ciò l'abbreviamento del ciclo delle esistenze. La ruota o cilindro da preghiere è di uso anche più generale nel buddhismo tibetano (lamaismo). In esso anche la confessione è praticata come mezzo usuale di cancellare i peccati a preferenza di altre pratiche più o meno complicate o gravose, come l'abluzione (tuisol), l'astinenza (nyungne), che si celebrano solo dai Lama poche volte all'anno.
Parsismo. - La teoria dei peccati e della loro espiazione secondo il Parsismo è contenuta nel Vendidād dell'Avesta (v.). Ci sono peccati inespiabili e peccati espiabili. Nella letteratura teologica del parsismo (età sassanidica e post-sassanidica) s'incontra il concetto che i peccati possono essere cancellati mercé la semplice confessione. Il patēt ("espiazione") implica che il peccatore si penta della sua colpa e ne faccia confessione dinnanzi a un dastur; dopo di che egli dovrò eseguire la penitenza (riparazioni, elemosine) che il confessore gli avrà imposta. Il termine patēt designò poi anche un'orazione cui si attribuì la virtù di cancellare i peccati: era recitata in varie occasioni, specie al capezzale di un moribondo. In punto di morte era ammessa la recitazione dell'ashem vühu (Yaèt, fr. 21,14-15), assai più breve. Il patēt poteva essere anche recitato a suffragio di altri.
Egitto. - Il c. 125 del Libro dei Morti contiene un testo da recitarsi dal defunto in occasione del suo giudizio ultraterreno dinnanzi al tribunale di Osiride, per far risultare la sua innocenza ed essere "giustificato". In questo testo è compresa la cosiddetta confessione negativa, cioè un elenco di peccati che il defunto dichiara di non avere commmesso (accanto ad azioni meritorie che dichiara di avere commesse). Dichiarazioni analoghe (positive e negative), in forma più breve, si trovano già fra i testi dei sarcofagi e fra i testi delle piramidi. In tutto ciò è in gioco, a quanto pare, l'antica credenza nella virtù magica della parola, onde, a quel modo che l'enunciazione di un peccato commesso vale a rievocarlo, così la negazione del peccato commesso vale ad annullarlo. Sopra alcune stele tebane della XIX-XX dinastia (1300-1100 a. C.) il dedicante si accusa e si duole alla divinità (Ptah, Thot, la dea designata come "cima della montagna d'occidente") di aver peccato, specificando talvolta la colpa commessa; anche qni però il motivo dominante è quello di stornare il male da cui il dedicante è stato colpito per castigo divino.
Babilonia. - Preoccupazioni eudemonistiche prevalgono anche in taluni testi babilonesi (III millennio a. C.), nei quali vibra tuttavia un così profondo accento di passione religiosa che essi poterono essere qualificati come "salmi penitenziali". Il male è concepito anche qui come la deprecanda conseguenza del peccato (ḫiṭu). Ma alla concezione primitiva dell'emanazione immediata e diretta ne è subentrata un'altra secondo la quale il male, la disgrazia, è opera di demoni malefici cui il peccatore è lasciato in balia dalla divinità rimasta offesa dal peccato commesso. La prassi penitenziale è quindi rivolta, in primo luogo, a riconquistare (sia con sacrifizî, sia con il riconoscimento e la dichiarazione del proprio peccato, ecc.) il favore del dio (specialmente Ea, Marduk, Istar), e quindi il suo intervento per l'espulsione dei demoni.
Le tracce della concezione primitiva sono tuttavia evidenti. La recitazione del "salmo penitenziale" (èegū) da parte del penitente (o del sacerdote in vece sua) si accompagna di solito, nell'insieme della cerimonia, alla recitazione di una formula (ôiptu) da parte del sacerdote (aèipu) esorcizzotore, e, almeno in origine, a un lavacro o aspersione con acqua (la cerimonia era sovente eseguita presso un corso d'acqua come nel Perù e nel Giappone). Altre volte era usato come mezzo eliminatorio il fuoco. Le stesse operazioni e le stesse formule servivano per cacciare tanto il peccato quanto la malattia, l'incantesimo, ecc. Notevole, come residuo d'idee primitive, è la preoccupazione per peccati eventualmente commessi senza saperlo.
Arabia Meridionale. - Alcune iserizivni sabee (Corpus inscriptionum Semiticarum IV, nn. 523, 532, 533) sono dedicate da un peccatore e da una peccatrice, che dichiara di avere confessato e fatta penitenza di certi suoi peccati al dio Dhu Samawi (Signore del cielo). I peccati confessati sono sessuali. La confessione si estende anche a peccati commessi inconsapevolmente.
Giudaismo. - Tracce di un'arcaica concezione obiettiva del piccato (ḥt', prtipriamente "mancanza", nei LXX άμαρτία) e delle sue eonseguenze calamitose (Genesi, XLII, 21) non mancano in Israele. Basti ricordare l'espulsione dei peccati nel "giorno dell'espiazione" (Kippur) mercé la cerimonia del capro espiatorio (v.): la confessione dei peccati di tutto il popolo, che il gran sacerdote faceva tenendo le mani sulla testa del capro (Levitico, XVI, 21), era un'evocazione dei peccati, i quali soltanto dopo essere stati così evocati diventavano trasmissibili nel corpo del capro e quindi eliminabili mercé il suo allontanamento.
Nei Profeti la nozione del peccato si svolge in senso etico: la voce del rimorso e del pentimento interiore risuona specialmente nei Salmi. Dopo l'esilio si accentua l'uso liturgico della confessione collettiva come elemento del culto, cui tutti dunque partecipano - come membri del popolo peccatore -, anche se non si trovino personalmente in peccato (Neemia, IX, 2). Nel culto della sinagoga si vennero fissando, in processo di tempo, anche le formule penitenziali, nonché le preghiere confessionali e litanie di peccati (alcune in ordine alfabetico) da recitarsi specialmente nel giorno di espiazione. Non senza contrasto si fece strada nel giudaismo postbiblico l'uso della confessione specifica dei peccati individuali. Tardo è anche l'uso di confessare i peccati in punto di morte.
Ellenismo. - Una confessione dei peccati nel mondo classico è attestata soltanto in epoca elleinstica, generalmente in rapporto con culti di divinità orientali.
A Samotracia si praticava, a quanto pare, una specie di confessione in un rito catartico per la purificazione degli omicidi. Di una confessione penitenziale si ha traccia nel culto d' Iside, in quello della dea Syria e in quello della Magna Mater (cfr. Reitzenstein, Die hellenistischen Mystrrienreligionen, 3ª ed., Lipsia 1927, p. 137 e segg.). In Egitto la pratica della confessione è menzionata in un testo di Ermete Trimegisto (sec. II-I a. C.) tramandato in una tarda opera astrologica. In Alessandria ai condannati a morte era, poco prima del supplizio, data facoltà di fare per iscritto la dichiarazione della loro colpa alla dea Artemis Agathé (Artemide buona). L'idea che i defunti dovranno confessare fra le pene e i tormenti dell'inferno le colpe taciute in vita si trova in Virgilio, Eneide, VI, 567 segg.; e in Plutarco, De sera num. vind., 22. Alla fonte di Zeus Asbamaio presso Tiana in Cappadocia si praticava una specie di ordalia per cui gli spergiuri, costretti dalle sofferenze corporali loro cagionate dall'acqua, finivano per confessare il loro falso giuramento (Philostr., Vita Apoll., I, 6). Di particolare importanza è un gruppo di iscrizioni di Lidia e Frigia del sec. II-III d. C., su stele, dove il dedicante confessa (ἐξομολοψοῦμεν, ὀμολογῶ, ἐξαγορεύων, ecc.), specificandolo, un peccato commesso (anche involontariamente), che gli ha attirato la punizione di una divinità (Apollo Lairbeno, Zeus Sabazio, Men, Anāhitā), consistente per lo più in una malattia, dichiara di aver fatto riparazione e di essere guarito, loda il dio e ammonisce gli altri di far tesoro del suo esempio (F. Steinleitner, Die Beicht im Zusammenhonge mit der sakralen Rechtspflege in der Antike, Lipsia 1913).
Mandeismo. - Il carattere spiccatamente legalistico della religione dei Mandei si rivela anche in ciò che riguarda il peccato e la penitenza. Il peccatore deve essere corretto una prima, una seconda, e una terza volta, ottenendo col semplice pentimento il perdono della colpa e la remissione della pena relativa; dopo di ciò soltanto le buone opere (elemosine, liberazione di prigionieri, far copiare libri religiosi a proprie spese) sono utili ai fini dell'espiazione. Se il peccatore ripetutamente ammonito non si pente, resta condannato alle pene dei malvagi (Ginzā Destro, 22-23; cfr. 43-44).
Il riconoscimento e la dichiarazione di colpevolezza ebbero parte cospicua anche nella liturgia; e si espressero altresí in vere e proprie litanie penitenziali (Ginzā Destro, 61-64). Il perdono dei peccati con la relativa remissione delle pene è concepito come concesso direttamente da Manda d'Haiye. Di una confessione vera e propria davanti a un sacerdote si ha traccia, se mai, solo nel mandeismo moderno, e più precisamente presso i Mandei di Persia.
Manicheismo. - A differenza degli electi (dintar) della chiesa manichea, i laici o auditores (nigoèag) erano tenuti a far penitenza dei loro peccati settimanalmente "ogni giorno sacro alla luna":, e, a quanto pare, annualmente per tutti i peccati dell'anno (Khuastuanift, 13,14). Dal trattato manicheo in cinese trovato a Tuenhuang (Chavannes e Pelliot, in Journal Asiatique, 1911) si rileva che la penitenza comprendeva anche una specie di confessione la quale aveva luogo nell'assemblea dei fedeli. Il Khuastuanift è appunto un formulario di confessione a uso degli auditores, redatto in turco uigurico; esso comprende, oltre il preambolo e una chiusa, 15 sezioni, ciascuna delle quali contempla una determinata categoria di peccati e termina con la clausola "perdona i miei peccati".
Bibl.: R. Pettazzoni, La confessione dei peccati, I: Primitivi, America antica, Giappone, Cina, Brahmanesimo, Giainismo, Buddhismo, Bologna 1929 (traduzione franc., Parigi 1931 segg.); id., La confessione dei peccati nelle antiche religioni americane, in Atti del XXII Congresso Internazionale degli Americanisti, II, Roma 1928, p. 277 segg.; id., art. Busswesen, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, I, Lipsia 1927, coll. 1388-1393; id., Recherches sur la confession des péchés, in Congrès d'histoire du Christianisme, I, Parigi 1928, p. 96 segg.; id., La confessione dei peccati presso gli Indiani delle Praterie, in Studi e materiali di storia delle religioni, V (1929), pp. 258-280; id., La confessione dei peccati presso popolazioni africane, ibidem, VI (1930), pp. 64-85; id., Confession of sins in Zoroastrian Religion, in Modi Memorial Volume, Bombay 1930, p. 437 segg.; id., Confession of sins in primitive Religion, in Papers and Transactions of the Jubilee Congress of the Folk-Lore Society, Londra 1930, p. 176 segg.; id., Confession of sins in Africa, in Africa, IV (1931).
La confessione civile.
La confessione civile consiste in una dichiarazione che una parte (o un suo procuratore munito di speciale mandato) fa in modo contrario ai proprî interessi. Una tale dichiarazione, se emessa dinanzi al giudice (confessione giudiziale) fa piena prova contro chi l'ha fatta, vincola, cioè, il giudice a porre a base della sentenza i fatti così come sono stati confessati, senza possibilità di prova in contrario, tranne che si riesca a dimostrare che la confessione fu conseguenza di un errore di fatto. Uguale efficacia ha la confessione, resa fuori del giudizio (confessione stragiudiziale), se vien fatta alla parte o a chi la rappresenta. Se la confessione stragiudiziale è fatta invece a un terzo, ha il valore d'un semplice indizio. La confessione, sia giudiziale sia stragiudiziale, non può essere divisa in danno di chi l'ha fatta; non può, cioè, darsi valore solo ad alcuni elementi di essa (v. articoli 1355-1361 cod. civ. it.).
ll codice civile italiano tratta della confessione giudiziale a proposito della prova delle obbligazioni e di quella della loro estinzione, e molti scrittori, seguendo la lettera della legge, la considerano come un mezzo di prova legale, il cui valore, cioè, è prestabilito dalla legge. Ciò porta all'inconveniente che nel caso singolo la sentenza può venire a basarsi, invece che sulla verità materiale, sulla cosiddetta verità legale o convenzionale. È questo un risultato che la legge subirebbe in vista della maggiore certezza, che in compenso acquisterebbero le relazioni giuridiche. Contro la teorica, che fa della confessione giudiziale una prova, è antica però l'obiezione che la confessione, più che prova, è la sua antitesi, è, cioè, relevatio ab onere probandi. Infatti, pur consistendo in una semplice affermazione, è superiore alle prove, a cui s'impone; non può quindi essere prova, perché predetermina rispetto alla sentenza la rilevanza del fatto confessato, e impone al giudice il modo della decisione giudiziale. Conseguenza di questo modo di vedere è che la confessione giudiziale non sarebbe dichiarazione di scienza, ma dichiarazione di volontà con carattere dispositivo e negoziale. La disposizione (che non è contrattuale, ma unilaterale, non abbisognando la confessione giudiziale di essere accettata dalla parte avversa) non cade sul rapporto di diritto materiale, che forma oggetto della lite, bensì sul contenuto della sentenza, ossia sul materiale istruttorio, in quanto si predetermina in modo immutabile un elemento del giudizio. Il fondamento poi del potere concesso alle parti di disporre sul materiale processuale sarebbe da ricercare nel principio di autoresponsabilità e d'iniziativa delle parti, nonché nel principio dell'economia dei giudizî. Ne deriva che la confessione giudiziale avrebbe carattere di surrogato di prova e natura di negozio giuridico processuale. In favore di questa teorica (propugnata da Giuseppe Messina) vi sono sicuri argomenti, quali la capacità di obbligarsi, espressamente richiesta per la confessione dall'art. 1361 cod. civ., e la circostanza che l'art. 1360 dello stesso codice parla d' irrevocabilità (come regola) della confessione giudiziale, invece che di divieto di controprova.
Per alcuni (Hölder) la confessione giudiziale rientrerebbe in una categoria di dichiarazioni di volontà giuridicamente rilevanti, ma non già in quella dei negozî giuridici in senso proprio, e ciò perché solo al giudice spetta stabilire quale peso essa debba avere nella sentenza, ovvero perché il negozio giuridico di confessione difetterebbe di autonomia, ecc. Non ha valore però la prima obiezione, perché, come osserva il Messina, a causa della confessione si verifica una modificazione dei diritti processuali in ordine all'onere della prova, e vi è quindi l'elemento essenziale del negozio giuridico; non la seconda, perché la mancanza di autonomia v'è al massimo rispetto al diritto privato, che forma oggetto del processo, non già nell'ambito stesso processuale, perché la confessione, come tale, è individuabile anche prima del giudicato. Per altri (Betti) la confessione giudiziale non sarebbe disposizione del materiale di cognizione, e quindi negozio processuale, ma rientrerebbe in una speciale categoria di atti processuali: valutazioni di verità con effetto normaitvo, che starebbero di mezzo fra le affermazioni di conoscenza e le dichiarazioni dispositive di volontà. È questa una teoria eclettica, che tende ad armonizzare le due opposte teorie fondamentali, che abbiamo esposte di sopra. Merita anche cenno un ingegnoso tentativo di conciliazione delle due opposte teorie del Carnelutti, secondo cui la confessione giudiziale, pur conducendo a una fissazione formale, non cesserebbe di essere un mezzo di prova, perché una fissazione formale, in misura maggiore o minore, si riscontrerebbe in tutti i mezzi di prova, non esclusa la prova testimoniale, e non nella sola confessione. L'essere poi la confessione giudiziale un mezzo di prova, non sarebbe incompatibile con la sua natura di negozio giuridico processuale. Se è mezzo di prova ogni mezzo di fissazione formale, potrebbe essere mezzo di prova un negozio giuridico, che ha per effetto appunto la fissazione formale. Il Carnelutti esclude però il diritto della parte (verso il giudice) sulla formazione del materiale di cognizione, e vede l'elemento del negozio giuridico della confessione giudiziale in ciò che la volontà della parte concorre alla formazione del presupposto dell'obbligo del giudice (verso la legge, non verso le parti) di rispettare la confessione delle parti.
In quanto alla confessione stragiudiziale, fatta alla parte (che deve, cioè, essere accettata dalla parte avversa, sia pure in modo non espresso), e che non segue necessariamente in vista di una lite, si deve ritenere ch'essa abbia il carattere di una convenzione, e ciò per il diritto italiano è comprovato dall'art. 1359 cod. civ., secondo cui la confessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni, qualora si tratti di domanda per cui la legge non ammette la prova testimoniale. Se la confessione stragiudiziale, fatta alla parte, ha per oggetto rapporti giuridici, la convenzione cade sul diritto materiale, sebbene l'art. 1358 cod. civ. dica impropriamente, come per la confessione giudiziale, che la confessione stragiudiziale, fatta alla parte,faccia piena prova, il che è detto figuratamente, nel senso che mercé essa nasce un atto obbligatorio. La confessione stragiudiziale è invero per sé fondamento d'azione, né esplica effetti solo nella procedura probatoria. Diversamente opinando, si dovrebbe ammettere l'esistenza di un contratto di prova, che, mentre per un lato si palesa illecito, dovrebbe, d'altro lato, normalmente essere soggetto all'impugnativa per controprova, il che non è permesso dalla legge. Mercé la confessione stragiudiziale di rapporti giuridici, si assume sotto forma ricognitiva un nuovo obbligo, che per il Messina ha carattere astratto o formale, ha, cioè, efficacia senza che occorra risalire al rapporto precedente, e, se questo non esiste, si crea addirittura l'effetto giuridico riconosciuto, in quanto ciò è possibile nella forma in cui è resa la confessione. Se la confessione stragiudiziale, fatta alla parte, ha per oggetto fatti singoli, invece che rapporti giuridici, essa è negozio extraprocessuale con effetti processuali diretti, e occupa un posto intermedio tra i negozî formali civilistici e quelli processuali, avvicinandosi però di più ai primi.
Bibl.: G. Messina, in Foro Sardo, 1902; A. Diana, La confessione giudiziale nel processo civile, Torino 1901; E. Betti, in Rivista di diritto processuale civile, 1928, parte 1ª, pp. 106-24; O. Bülov, Das Geständnissrecht, Lipsia 1899; Wach, in Archiv. für die civ. Praxis, LXIV; Hölder, in Zeitschr. für den C. P., XXVIII, pp. 389-413; A. Pollak, in Civilprozesse, Berlino 1893; G. Chiovenda, Principi di dir. proc. civ., 3ª ed., Napoli 1921, pp. 816-819; C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, I, Firenze 1914, p. 521 segg.; F. Carnelutti, La prova civile, Roma 1925, pp. 34-64; id., Lezioni di diritto processuale civile, III, Padova 1923, p. 260 segg.; L. Mattirolo, Trattato di diritto giud. civile, 4ª ed., II, Torino 1894, pp. 567-598.
Architettura.
È il luogo ove è deposta la spoglia del confessore della fede cristiana. La reliquia può essere anche esigua e consistere financo in fazzoletti o brandea messi a contatto del corpo venerato. Per la consuetudine dell'antica liturgia queste reliquie erano deposte entro o sotto l'altare (v.) e l'arca si poteva vedere attraverso un'apertura in basso detta fenestella confessionis.
Nelle basiliche cemeteriali vi è una sorta di comunicazione a pozzetto (bilicum, cataracta) fra l'altare e la sottostante cella ove riposa il martire. Da un'apertura consimile i fedeli potevan calare i brandea ovvero efflagitare i loro desiderî. Così nell'antica basilica di S. Pietro. Anche la basilica di S. Nicola in Bari, del tardo Medioevo, imita questa disposizione. Nelle chiese medievali sta sotto l'altare una cripta che a volte è una vera sottochiesa (v. cripta).