Confucio e il confucianesimo
L'insegnamento morale che per secoli è stato alla base della società cinese
Confucio, vissuto in Cina fra il 6° e il 5° secolo a.C., andò per tutta la vita in cerca di un sovrano cui insegnare i principi morali indispensabili per regnare saggiamente e unificare la Cina. I discepoli continuarono a diffondere il suo insegnamento; ma il confucianesimo riuscì a prevalere solo nel 10° secolo d.C., quando divenne il punto di riferimento essenziale per la cultura e la società cinesi: per diventare funzionari di Stato era necessario superare un esame e dimostrare la conoscenza dei testi confuciani. Questa situazione è durata fino all'inizio del 20° secolo; ma ancora oggi, i valori affermati da Confucio godono di grande considerazione
Confucio nacque in Cina, nel piccolo stato di Lu, intorno al 551 a.C. e morì nel marzo del 479 a.C. Il nome con cui lo conosciamo è in realtà derivato dal latino: così fu chiamato dai missionari cristiani europei che giunsero in Cina nel Seicento. In realtà, egli aveva per cognome Kong, e per nome Qiu.
All'epoca in cui visse Confucio, la Cina non era ancora unificata. Esistevano numerosi Stati feudali, in continua guerra tra loro.
Nella prima parte della sua vita, Confucio fu un piccolo funzionario, impiegato alla corte del suo paese; poi, decise di cambiare vita. Cominciò a vagabondare per la Cina, alla ricerca di un principe saggio, a cui insegnare i principi morali per governare con giustizia il popolo.
Confucio si era reso conto di vivere in un'epoca di grandi cambiamenti. Erano apparse numerose scuole di pensiero: ognuna intendeva fornire una nuova filosofia di vita, spesso con l'obiettivo di giungere all'unificazione della Cina.
Nonostante fosse accolto in tutte le corti feudali con grande e unanime rispetto per la sua saggezza e la sua virtù, in realtà Confucio non riuscì mai a vedere applicate le sue idee. Tuttavia, egli attrasse un gran numero di discepoli: secondo la tradizione, dei suoi tremila studenti ben cinquecento assunsero nella loro vita incarichi di governo.
Non si deve pensare che Confucio, come i nostri filosofi, abbia scritto libri per esporre la sua dottrina; ciò che resta delle sue parole venne raccolto da alcuni discepoli in un libro, noto come i Dialoghi, che è composto di brevi parabole che chiariscono il pensiero del Maestro.
Secondo Confucio, la società del suo tempo era piena di aspetti negativi: in particolare, egli rimproverava agli uomini la mancanza di moralità. Il centro del suo insegnamento è l'importanza della virtù, che deve essere alla base sia della famiglia sia dello Stato.
Confucio affermò di non aver inventato una filosofia originale: voleva solo riproporre gli ideali del passato. Una sua famosa frase recita: "Io trasmetto, non creo". Il modello ideale per Confucio era l'antica epoca in cui regnavano i sovrani delle leggende. In quel tempo remoto, lo Stato non si reggeva su una legge spietata, inventata da uomini senza morale; il sovrano non governava con l'aiuto della forza e di leggi severe, ma guidato dalla virtù.
Confucio riteneva che la presenza della virtù può rendere chiunque un "uomo superiore": il principe ideale deve possedere questa qualità in massimo grado. Dunque, per lui la differenza fra gli uomini non stava tanto nella diversità di classe sociale o di ricchezza, quanto nel grado di virtù posseduto.
Ma cos'è questa virtù? Confucio la chiamò ren: è una parola cinese che possiamo tradurre come "umanità, benevolenza" e indica un atteggiamento di disponibilità verso gli altri che ci fa sentire tutti simili, proprio perché uomini.
Dunque Confucio è da un lato quasi un rivoluzionario, perché per lui il nascere nobili o ricchi non è di per sé una garanzia dell'essere virtuosi; ma, dall'altro, egli è anche un conservatore, poiché difende il concetto della gerarchia, cioè della necessità che nella società vi sia chi comanda e chi ubbidisce. Ma chi comanda, secondo Confucio, deve trovarsi in questa condizione non per nascita ma perché è più virtuoso di altri.
Il principio della virtù è pertanto fondamentale sia al fine di formare una famiglia felice, sia per guidare uno Stato ordinato. Gli elementi essenziali per ottenere una famiglia e uno Stato virtuosi sono per Confucio la carità, la giustizia, lo studio, la sincerità e i riti.
La carità e la giustizia fanno parte del rapporto virtuoso che deve instaurarsi fra gli uomini; lo studio è l'attività con la quale ognuno può trovare la virtù nel proprio cuore; la sincerità è il risultato della pratica della virtù e dello studio. I riti, invece, sono importanti per un altro motivo. Non sono vuote leggi da rispettare ciecamente: sono norme stabilite dagli antichi sovrani per regolare in modo ideale la società e i rapporti tra i suoi diversi componenti.
Questa filosofia è esposta nei Dialoghi, e anche in tre opere che in realtà furono scritte da discepoli di Confucio: La pietà filiale, Il grande studio e L'invariabile mezzo.
La filosofia di Confucio non ebbe molto successo finché egli fu in vita. Nei secoli successivi, la rivalità e il perenne conflitto tra i vari Stati feudali si accrebbero: proprio in questo periodo visse Mencio (nato nel 372 a.C. e morto nel 289), che fu il più grande pensatore confuciano ed ebbe come merito principale quello di sviluppare le teorie del Maestro.
In particolare, Mencio si concentrò sulla natura umana, che egli riteneva buona nella sua essenza: "La natura umana ‒ affermava ‒ tende al bene come l'acqua segue il pendio. Non v'è uomo che non sia (originariamente) buono, non v'è acqua che non fluisca verso il basso". Tuttavia, determinate circostanze o influenze possono indurre l'uomo alla malvagità. Per ritrovare questa bontà innata, l'uomo deve guardare nel centro del suo essere: il cuore. Per Mencio il cuore non è solo un organo corporeo, è anche la sede di quei principi ideali che sono il fondamento della virtù. Questi principi, detti in cinese li, sono stati paragonati alle "idee" del filosofo greco Platone. Per Mencio, la fonte dei principi morali che rendono l'uomo buono è il Cielo. Non bisogna tuttavia pensare a un concetto come quello del nostro Dio: per Mencio, come già per Confucio, il Cielo è una entità impersonale, non una divinità personale.
Con Mencio nasceva così quella scuola di pensiero che in Occidente chiamiamo confucianesimo; tuttavia, in Cina essa era nota come Rujia, cioè la "Scuola dei letterati". Infatti, molto spesso i funzionari delle corti feudali, che avevano un ruolo indispensabile perché sapevano leggere e scrivere, seguivano i principi della filosofia confuciana.
Nel 221 a.C. la Cina veniva finalmente unificata per opera del sovrano dello Stato feudale di Qin. Egli prese il nome di Primo imperatore, ma non si servì del confucianesimo come filosofia del nuovo impero. Anzi, viene ricordato per aver ordinato di seppellire vivi centinaia di letterati confuciani!
Solo con la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), il confucianesimo venne a ricoprire un ruolo alla corte degli imperatori. Tuttavia, il pensiero confuciano non era già più quello degli inizi. Confucio aveva espressamente dichiarato di non volersi interessare di demoni e spiriti: la sua filosofia era rivolta all'uomo e alla sua vita su questa Terra.
Durante la dinastia Han, si diffuse un grande interesse per le pratiche magiche e la divinazione (la previsione degli eventi futuri). I letterati confuciani, spesso funzionari di corte, si opposero alla diffusione di queste tecniche oscure; ma, inevitabilmente, ne furono influenzati. Fu così che, a differenza di Confucio, i confuciani Han ammisero nel loro pensiero una serie di elementi esterni: il più importante fu la convinzione della corrispondenza fra Cielo e uomo. Per loro esistevano cioè delle connessioni tra gli eventi che accadevano sulla Terra e il mondo celeste; comprenderle significava riuscire a interpretare il mondo e quindi a governarlo.
Ma c'era comunque una differenza con gli esperti di magia della corte Han: mentre questi sfruttavano tali conoscenze solo per sé stessi, i letterati confuciani avevano sempre come obiettivo finale servire la società e il sovrano che ne era a capo.
Con il crollo della dinastia Han (220 d.C.), la Cina entrò in un lungo periodo di divisione, chiamato da alcuni il Medioevo cinese, e il confucianesimo entrò in crisi. Il pensiero confuciano, che tanta importanza aveva dato allo studio della tradizione dei Classici (i testi antichi) e al rispetto dei riti, fu travolto dalla fine dell'Impero: esso non svolse più quella funzione di collante sociale, che teneva insieme governanti e governati. Anche presso le corti, sia del Nord che del Sud, i potenti gli preferirono per lo più il buddismo: molti sovrani abbracciarono la religione di origine straniera, che andava ormai rapidamente 'sinizzandosi', acquistando cioè caratteristiche cinesi.
Ma il confucianesimo rischiò veramente di scomparire per sempre? In realtà, molti letterati, pur legati al buddismo (e anche al taoismo, una tradizione filosofico-religiosa cinese antica quanto il confucianesimo) nella vita privata, continuarono a essere confuciani nella vita pubblica.
Nel 589 la Cina tornava a essere unificata sotto la dinastia dei Sui. Sotto di essa, e poi con la potente dinastia Tang (618-907), i funzionari che formavano l'enorme e complesso sistema amministrativo che teneva in piedi l'Impero cinese erano per lo più membri delle casate aristocratiche. Con la successiva dinastia Song, invece, cominciò a farsi strada l'idea che per diventare funzionario fosse necessaria principalmente una solida cultura radicata nei classici confuciani.
Questo mutamento, in apparenza secondario, portò a una totale trasformazione della struttura dello Stato. I letterati furono obbligati a sottoporsi a una serie di esami per entrare a far parte della struttura direttiva dell'Impero e, per riuscire a superare gli esami pubblici, era fondamentale la conoscenza della tradizione confuciana.
Nasceva così uno Stato nuovo, in cui la cultura e il potere erano strettamente uniti. Il loro legame era d'altra parte già stato sottolineato nei Dialoghi di Confucio; qui il saggio aveva definito i quattro campi in cui l'uomo di cultura deve eccellere, e che sono: la condotta morale, l'oratoria, gli affari di governo e lo studio della cultura tradizionale.
Ma i lunghi secoli di divisione politica e di crisi non erano passati senza conseguenze: il pensiero di questi letterati presentava aspetti nuovi, rispetto alla tradizione precedente. Ecco il motivo per cui si parla di neoconfucianesimo.
Nel pensiero dei filosofi del periodo Song (960-1279) assunse un'importanza fondamentale il concetto di li, il principio celeste (o ideale) che è al di là delle forme sensibili. Il filosofo più importante fu Zhu Xi (1130-1200), il fondatore della Scuola del li: egli è l'autore di quello sviluppo del pensiero confuciano che chiamiamo neoconfucianesimo.
Nella dottrina di Zhu Xi il li rappresenta in un certo senso il tessuto connettivo e nascosto su cui è costruito l'Universo. Tuttavia, tali principi celesti non sono esterni all'Universo: essi sono, al tempo stesso, ciò che c'è di più vicino a noi, poiché è possibile per l'uomo virtuoso ritrovarli nel centro del suo essere: il cuore. Zhu Xi riprese così l'insegnamento di Mencio, affermando: "Il cuore è l'intelligenza spirituale, con la quale l'uomo contiene tutti i principi ed è in corrispondenza con tutte le cose".
Egli centrò l'attenzione in particolare sugli insegnamenti contenuti in quattro opere: i Dialoghi; l'opera di Mencio, detta dal suo nome in cinese Mengzi; Il grande studio e L'invariabile mezzo.
L'interpretazione dei Classici confuciani data da Zhu Xi fu accettata soltanto diverso tempo dopo la sua morte; essa divenne la dottrina ufficiale nel 1313, quando in Cina dominavano gli invasori Mongoli, che avevano fondato la dinastia Yuan. Come spesso accade, il pensiero di Zhu Xi, rivoluzionario nella sua epoca, divenne col tempo un pesante impedimento per un ulteriore sviluppo del pensiero cinese. I "Quattro libri" da lui elogiati diventarono materia obbligatoria di esame per i letterati che desideravano accedere alla carriera di funzionario. Inoltre, l'interpretazione di queste opere data dalla scuola di Zhu Xi divenne l'unica accettata, con conseguenze disastrose sulla libertà di critica personale.
È pur vero che nel tempo apparvero anche filosofi confuciani con posizioni distinte: fra essi, Wang Yangming, vissuto tra il 15° e il 16° secolo, e Li Zhi (16° secolo). Con la salita al potere dell'ultima dinastia dei Qing nel 1644, tuttavia, il forte controllo imperiale sui letterati impedì l'emergere di figure nuove. Nello stesso tempo, iniziava il lento declino della società tradizionale cinese, che avrebbe portato alla fine dell'Impero nel 1911.
Il pensiero neoconfuciano garantì alla civiltà cinese un'eccezionale continuità e non impedì, almeno in una prima fase, lo sviluppo della tecnica: fino al 15° secolo, la Cina fu molto più avanzata dell'Europa in svariati campi del sapere. È dalla Cina che nei secoli giunsero importanti innovazioni tecniche: la carta, la bussola, la polvere da sparo, la stampa a caratteri mobili.
Il grande peso della tradizione, del rispetto per i grandi pensatori del passato e per le loro opere, fu però la causa principale che impedì quel processo che da noi portò al Rinascimento e alla nascita della scienza moderna. L'incontro con le potenze occidentali, soprattutto a partire dall'Ottocento, fu fatale per la Cina confuciana e per l'Impero: solo nel Novecento si sarebbe fatta strada la consapevolezza che bisognava imparare dai 'diavoli' occidentali per far rinascere la Cina.
Oggi il confucianesimo si può considerare morto? La risposta più giusta è: sì e no. Sì, se si considera il pensiero confuciano nella sua forma tradizionale: essa appartiene a una fase storica ormai finita. Ma elementi importanti del confucianesimo, come il rispetto della gerarchia, degli anziani, la maggiore importanza data alla società nel suo insieme più che al singolo individuo, restano vivi ancora oggi nella società cinese, che pure è caratterizzata da aspetti di grande modernità.
In questo senso, sembra che il confucianesimo possa convivere più che bene con l'era dei computer e di Internet! Il banco di prova sarà verificare se questi elementi potranno in futuro integrarsi con il concetto di democrazia, come lo intendiamo in Occidente.
Ecco due testimonianze del pensiero di Confucio:
"Confucio disse: "Al mondo ci sono cinque rapporti universali: tra principe e suddito, tra padre e figlio, tra marito e moglie, tra fratello maggiore e fratello minore, tra amico e amico […]. Alcuni conoscono questi rapporti dalla nascita, altri li conoscono con lo studio, altri ancora li conoscono nelle angustie, ma alla fine la conoscenza è unica […]. Tutti coloro che governano l'Impero, lo Stato e la famiglia hanno nove norme: perfezionare la propria persona, onorare i virtuosi, amare i parenti, rispettare i grandi ministri, formare un sol corpo con i funzionari, trattare il popolo come figlio, attirare gli artigiani, essere ospitali con gli stranieri, ricevere graziosamente i feudatari"".
"Confucio disse: "Colui che ama i suoi genitori non osa odiare gli altri, colui che venera i suoi genitori non osa mancare di rispetto verso gli altri. Quando l'amore e la venerazione sono attuati fino in fondo nel servire i genitori, allora si darà virtù ed educazione al popolo e si darà un modello per il mondo. Questa è la pietà filiale del Figlio del Cielo [il sovrano]"".
(I due brani sono tratti da Confucio, Opere, 1989).