Conoscenza
Il termine indica l'atto del conoscere e, in particolare, il possesso o la presenza nella mente di un sapere già acquisito; è dal latino tardo cognoscentia, derivato di cognoscere, "acquisire con l'intelletto, conoscere, sapere". A differenza di 'teoria', indica una forma di sapere non distaccato, direttamente connesso all'oggetto, al suo possesso; nello stesso tempo, però, si distingue da forme immediate, o più immediate, di sapere, come la sensazione o la percezione, in quanto indica un sapere non occasionale, che tende a costituirsi appunto come un corpo di conoscenze. Per quanto riguarda il modo di intendere l'origine, i compiti e i limiti della conoscenza, intesa come facoltà del conoscere, diverse e spesso contrastanti sono le soluzioni via via proposte nell'ambito della cultura occidentale, schematizzabili nelle due soluzioni estreme dell'innatismo e dell'empirismo; così come diversamente è stato inteso di volta in volta il rapporto tra la conoscenza e la corporeità e i suoi organi. Il termine conoscenza rispecchia l'ampia gamma di significati compresi nel corrispondente termine greco γιγνώσκω, il quale anzitutto significa "apprendo, osservo, discerno, capisco, so, riconosco", e in secondo luogo "penso, stimo, giudico, decido". Un terzo significato indica invece il visitare, l'ispezionare e infine l'avere una relazione carnale (per es. conoscere una donna e averne un figlio). Pertanto la conoscenza implica al tempo stesso sia un rapporto concreto con persone, cose e situazioni, sia la capacità intelligente di elaborare tale rapporto in vista di scopi deliberatamente assunti. La conoscenza comporta così esperienza e sapienza pratica e poi, sulla base di queste, un discernimento astrattivo e giudicativo che solleva il termine alla sapienza teorica e infine alla scienza. Questo passaggio della conoscenza dal suo uso generico a quello più raffinato e specifico accade in filosofia con il celebre appello socratico al motto "conosci te stesso". Attribuito ai Sette sapienti dell'antica Grecia e riprodotto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, il motto alludeva a una norma di saggezza che esorta l'uomo a conoscere e a rispettare i propri limiti, senza cadere in quella tracotanza che è fonte immancabile di sciagura e di divina punizione: l'uomo non deve misurarsi con il dio e in generale con ciò che per natura lo sopravanza. Socrate ne fece il punto di partenza della sua indagine, al tempo stesso morale e psicologica, relativa alle credenze e all'umano sapere. Con il suo interrogare 'ironico', posto sotto la protezione del detto profetico di Apollo, Socrate inaugurava in realtà una delle più profonde rivoluzioni dello spirito umano, di portata nettamente antitradizionalistica e antisacrale (il che venne ben inteso dai contemporanei che lo accusarono di empietà): rivoluzione che avrebbe prodotto, come si espresse F. Nietzsche, l'"uomo della conoscenza", ovvero, per dirla con E. Husserl, l'"uomo della teoria".
Sebbene sia lecito dubitare che la domanda socratica mirasse a elaborare una teoria della conoscenza (come mostrò di intendere Platone e poi ancora Aristotele), è però un fatto che Socrate determinò, quanto meno in campo morale, quella distinzione tra anima e corpo (voce virtuosa della coscienza e passioni sensuali del corpo) che è uno dei fondamenti imprescindibili per comprendere il decorso della cultura occidentale. La distinzione assunse un rilievo espressamente conoscitivo nella celebre duplicazione platonica tra vedere sensibile e vedere intelligibile. La conoscenza non può ridursi alla mera sensazione corporea (così come l'azione volontaria non può dipendere dai muscoli e dalle ossa). Conoscere significa essenzialmente riconoscere qualcosa di permanente, una forma o idea, entro il mutevole divenire delle affezioni corporee. Si ha conoscenza, dirà platonicamente A.N. Whitehead nel 20° secolo, solo quando si può dire "Eccolo di nuovo", riconoscendo la presenza nel sensibile di un 'oggetto eterno'. Salvo che tali forme od oggetti non possono essere contenuti materiali ed empirici di una visione fisiologica. La loro natura universale (per cui non vedo mai il rosso, o l'uomo, ma una sfumatura di rosso o un uomo determinato) postula un vedere spirituale, con gli occhi della mente; per altro verso, la teoria platonica dell'anima e la conseguente psichicizzazione della conoscenza non sono che una costruzione metafisica per spiegare il fatto conoscitivo altrimenti incomprensibile. Come dirà Husserl, non si dà percezione di un colore (questo rosso) senza la contemporanea percezione del colore. Questa visibilità essenziale immediata, precedente ogni teoria categoriale della conoscenza, la quale neppure potrebbe immaginarsi senza quella, mostra la contemporanea e originaria presenza, in ogni esperienza o atto conoscitivo, di un intuire sensibile e ultrasensibile, la cui natura e intreccio pongono da sempre problemi e paradossi alla filosofia. Questo carattere ambiguamente ultrasensibile della conoscenza ha occasionato, nel corso della storia della filosofia, due opposte maniere di spiegazione: una definibile a priori e un'altra a posteriori. Della prima è capostipite l'impostazione platonica, che recupera antiche concezioni religiose, come l'orfismo e la metempsicosi pitagorica. Essa spiega la conoscenza con la dottrina della reminiscenza: l'uomo è un composto di corpo (mortale) e anima (immortale). Prima di incarnarsi in un corpo, l'anima ha soggiornato nel 'mondo delle idee', ove sono gli archetipi o modelli eterni di tutte le cose sensibili. Di ciò essa conserva sulla Terra un oscuro ricordo, che si ravviva e ridiventa attuale in occasione delle sensazioni corporee. In tal modo, percependo un albero o un cavallo, l'anima riconosce in essi il modello e ciò le consente di astrarne la pura forma in quell'immagine mentale che è il concetto. Questa concezione venne fatta propria da gran parte della filosofia cristiana del Medioevo, da Agostino a Bonaventura.
Il Medioevo, però, conobbe e sviluppò anche la più raffinata e articolata concezione della conoscenza elaborata da Aristotele che, contro l'idealismo platonico, diede ampio spazio a una fisiologia della conoscenza radicata nel corpo. Da Aristotele i pensatori medievali trassero il noto principio secondo il quale "niente è nell'intelletto che non sia prima nei sensi" (poi ripreso dall'empirismo), sicché il conoscere è dapprima un patire l'impressione della cosa esterna, quindi un conservarne traccia nella memoria e infine un elaborarne l'immagine generale che raccoglie ciò che è comune a più impressioni o sensazioni. Lo stesso Aristotele tuttavia dovette ammettere che l'universalità del concetto non può semplicemente derivare dall'associazione psichica di esperienze in sé individuali e contingenti. Queste ultime spiegano i contenuti materiali e mentali dell''intelletto passivo', ma non spiegano l''intelletto attivo', cioè la capacità razionale di astrarre la forma per sé stessa (il puro concetto), ravvisandone la presenza in ogni contenuto particolare così da stabilire aree di somiglianza tra le sensazioni. Per questa funzione Aristotele ricorse all'illuminazione che l'intelletto divino, di per sé attivo e luogo di tutte le forme (come già il mondo delle idee di Platone), esercita sull'intelletto passivo dell'uomo, rendendolo a sua volta attivo. Ciò determinò nel Medioevo, oltre alla questione teologica dell'immortalità o meno dell'intelletto, ovvero dell'anima dell'uomo, la grande disputa degli 'universali' (ovvero i concetti): sono essi qualcosa di reale in sé (per es. in Dio, o come forme reali delle cose individuali: realismo), oppure sono solo immagini mentali, segni convenzionali e puri nomi (nominalismo) usati per comunicare? La polemica si ripeté, in forma moderna, alla fine dell'Ottocento tra gli psicologisti (come F. Brentano), i quali, al modo dei nominalisti, consideravano i concetti come il prodotto dell'associazione psichica, e i concettualisti (come G. Frege) che ne sostenevano, al modo dei realisti, il carattere irriducibile ai fenomeni della psiche: il numero tre resta quello che è sia che me lo rappresenti o no, perché esso è un concetto, non un fenomeno o contenuto psichico. Nel Medioevo Tommaso d'Aquino risolse il problema ammettendo sia la realtà degli universali in Dio e poi nelle cose (per via della creazione), sia il loro carattere mentale e convenzionale per opera dell'intelletto umano illuminato da quello divino. Di qui la concezione medievale della verità del conoscere, che è "adeguazione dell'intelletto alla cosa", sulla base della loro comune natura che riposa in Dio. Sta di fatto che l'aristotelismo, per la compresenza in esso di elementi a priori e a posteriori, influì su entrambe le vie battute dal pensiero per spiegare la conoscenza.
Al platonismo si ricollegò modernamente l'innatismo: l'anima contiene in sé alcune conoscenze o principi conoscitivi che precedono l'esperienza sensibile, non ne dipendono e anzi la fondano. Tale è per es. l'idea di perfezione in R. Descartes (idea che l'uomo, in quanto essere finito e imperfetto, non potrebbe formulare né a partire da sé, né a partire dalle cose di cui ha esperienza, essendo anch'esse finite e imperfette); oppure l'idea dell'essere necessario in A. Rosmini (essendo l'uomo un ente contingente tra enti contingenti). L'innatismo caratterizza in generale le varie forme di spiritualismo, da quelle più radicali di N. Malebranche, G. Berkeley o G.W. Leibniz (nelle quali la realtà materiale del corpo e del mondo sfuma in immagine psichica osservata dall'anima direttamente in Dio), alle posizioni più moderate di Marsilio Ficino, H. di Cherbury o F.-P. Maine de Biran.La spiegazione a posteriori della conoscenza ha invece il suo capostipite nell'atomismo di Democrito e di Epicuro, ripreso nel De rerum natura di Lucrezio, che fu fonte di ispirazione per tutte le concezioni materialistiche (T. Hobbes), sensistiche (É. Bonnot de Condillac), meccanicistiche (C.-A. Helvétius, P.H.D. d'Holbach, J. Offray de La Mettrie) dell'età moderna. L'intento comune è quello di non ricorrere ad alcun principio di ordine soprannaturale, ma di mostrare invece la derivazione della conoscenza dalla conformazione del corpo e dalle sue capacità percettive e introspettive. Un esempio emblematico di tale atteggiamento fu l'esperimento mentale o immaginario della statua di Condillac, progressivamente animata con l'introduzione successiva dei cinque sensi, donde si generano idee psichiche le quali, tradotte nei segni convenzionali del linguaggio, assumono carattere universale e rendono possibile il pensiero autocosciente. Filosoficamente la concezione a posteriori della conoscenza ebbe la sua espressione più alta nell'empirismo, da J. Locke ai nostri giorni, il cui principio generale è che ogni conoscenza deriva dall'esperienza, sicché l'anima alla nascita non possiede alcuna idea innata, è come un 'foglio bianco', pur essendo dotata della capacità psichica della memoria, dell'associazione, della riflessione, dell'astrazione. Contro l'innatismo Locke, D. Hume e poi la corrente dell'utilitarismo e dell'associazionismo dell'Ottocento inglese (J. Bentham, J. e J.S. Mill, A. Bain) ricondussero l'intera conoscenza ai fenomeni fisiologici del corpo (pensati in analogia alla combinazione chimica degli elementi) e del cervello, svolgendo il problema in accordo col metodo naturalistico e gettando di fatto le basi della psicologia scientifica (sviluppata poi in Germania da E. Mach, R. Avenarius e altri e in America da W. James). Queste premesse si affermarono nel positivismo: sia nel materialismo radicale di filosofi e scienziati come L. Büchner, E. Haeckel, J. Moleschott e K. Vogt, sia nel più raffinato evoluzionismo biologico (C. Darwin) e psicosociale (H. Spencer). Quest'ultimo propose anzi una soluzione scientifica della vecchia contesa tra a priori e a posteriori: ciò che appare a priori nell'individuo, come sue innate capacità, è stato a posteriori per la specie, cioè frutto di esperienze che si sono selezionate evolutivamente e si sono trasmesse come dote ereditaria in fasi evolutive più avanzate.In effetti l'evoluzionismo non è che un aspetto, fortemente influenzato dal progresso delle scienze, di quella trasformazione del concetto di conoscenza che, a partire da I. Kant, ha sottolineato soprattutto i caratteri funzionali e dinamici del conoscere. Abbandonando sia il sostanzialismo metafisico dell'anima (per es. di Descartes), sia l'ingenuo associazionismo empiristico (contraddetto sul piano scientifico nel nostro secolo dalle scoperte della psicologia della forma: la percezione non è un aggregato di impressioni puntuali, ma una forma olistica che struttura sin dall'inizio il contenuto fisiologico della sensazione), Kant ha rivelato l'apporto attivo e spontaneo del soggetto nell'atto di conoscenza.
Conoscere non è recepire passivamente l'impronta dell'oggetto; l'oggettività del conoscere è il risultato sintetico di una relazione tra le forme trascendentali (costitutive) del sentire e del pensare che sono proprie del soggetto e la fonte esterna a esse, che Kant chiamò 'cosa in sé' e considerò per sé stessa inconoscibile. L'idealismo postkantiano, da J.G. Fichte a G.W.F. Hegel, recuperò al conoscere anche la cosa in sé: la conoscenza è un processo storico-metafisico in cui la realtà stessa è coinvolta, è interna al movimento spirituale del conoscere, non esterna a esso. In tal modo i tradizionali dualismi anima-corpo e spirito-natura vengono superati, anche sulla base del ricorso al pensiero di B. Spinoza che già nel Seicento aveva criticato il dualismo cartesiano tra pensiero ed estensione alla luce di una concezione monistica della realtà e dell'uomo.L'eredità dell'idealismo, in particolare hegeliano, venne elaborata da K. Marx in una concezione del conoscere interamente improntata alla filosofia della prassi. La conoscenza è una funzione del lavoro sociale che scandisce le fasi storiche del divenire dell'umanità (per questa via Marx e F. Engels fecero propri i risultati dell'evoluzionismo darwiniano); la conoscenza è pertanto il riflesso, a livello cosciente, delle trasformazioni che l'operare umano introduce nell'ambiente naturale; i prodotti spirituali di tale operare hanno la loro radice e realtà ultima nel carattere dialettico-materiale della natura (Engels). L'esito naturalistico di questo pensiero si trova così non lontano dalle conclusioni del pragmatismo di J. Dewey, la cui prima ispirazione si trova in C.S. Peirce, secondo il quale la conoscenza è un abito di risposta, un'azione interpretativa che trasforma contemporaneamente il soggetto e l'oggetto. Questa interazione tra uomo e natura venne elaborata nei primi del Novecento da Dewey in riferimento sia all'eredità hegeliana e darwiniana, sia in relazione agli esiti della psicologia funzionalistica nel suo studio dell'organismo intelligente come risposta all'ambiente.Tra le più importanti acquisizioni filosofiche del 20° secolo relative al conoscere vanno ricordate quelle della scuola fenomenologica di E. Husserl, per la quale il corpo acquista una centralità decisiva e strutturante. È il corpo vivente (Leib) dell'uomo il punto di partenza dinamico del processo conoscitivo. Sono le operazioni 'precategoriali' del fare umano la premessa di ogni successiva categorizzazione intellettuale. La stessa scienza ne dipende, in quanto lo scienziato è anzitutto partecipe del 'mondo della vita' che è comune a tutti e a esso deve sempre ritornare per verificare e controllare con il suo corpo percipiente i processi e gli esiti strumentali e astrattivi del conoscere scientifico. Il corpo è così la soglia osmotica in cui il mondo si fa gesto intelligente, conoscenza e parola; ma questi sono a loro volta radicati nella 'carne del mondo' (M. Merleau-Ponty). L'esistenzialismo di M. Heidegger sviluppò ulteriormente queste premesse sia sottolineando il carattere emozionale e pratico, ovvero la 'cura', che sta alla base dell'originario rapporto uomo-mondo, sia denunciando il pericolo che la scienza, tradottasi in procedimento tecnico di acquisizione e trasformazione di ogni risorsa naturale, pervenga infine a una nichilistica riduzione a mera 'cosalità', manipolabile e utilizzabile, dell'uomo, del suo corpo e del suo mondo-ambiente.Per altra via anche il pensiero epistemologico contemporaneo si sta facendo carico di questi problemi. La filosofia della scienza del Novecento fu dapprima contrassegnata dal progetto neopositivistico (M. Schlick, O. Neurath, H. Reichenbach, R. Carnap) di restringere l'ambito della conoscenza valida agli enunciati 'analitici' e a quelli 'sintetici' rinvianti a fatti scientificamente osservabili (secondo il modello della fisica), con l'esclusione di ogni concetto metafisico. L'emergere di difficoltà e paradossi mise in crisi il fisicalismo neopositivistico e, nel contempo, K. Popper mostrò che i fatti sperimentali non sono indipendenti dalla teoria scientifica che li seleziona e li osserva (critica che venne condotta a esiti di radicale anarchismo metodologico da P.K. Feyerabend). L'impresa della scienza, poi, non venne più concepita come un accumulo rettilineo e progressivo di conoscenze, ma come segnata da condizionamenti storico-sociali e da rivoluzioni e fratture che impongono via via modelli e paradigmi di validità tra loro difficilmente paragonabili (T. Kuhn, I. Lakatos), nessuno dei quali può aspirare a una oggettività assoluta. Questa consapevolezza storica dell'epistemologia si affianca oggi alle tendenze decostruzionistiche ed ermeneutiche (J. Derrida, H.G. Gadamer, P. Ricoeur) e alla sociologia e semiologia della conoscenza (J. Habermas, K.O. Apel) nel ripensare l'origine e i fondamenti dell''uomo occidentale della conoscenza', aprendosi, in accordo con il lavoro delle scienze umane, a un dialogo costruttivo con altre fonti e altri significati culturali dell'umano conoscere.
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