Contatto culturale
Si parla di 'contatto culturale' quando individui appartenenti a due (o più) gruppi con differenti culture si incontrano e interagiscono, innescando processi di mutamento culturale. Tale contatto può portare all'appropriazione e all'adozione di elementi di una cultura da parte dell'altra, all'introduzione di idee che stimolano sviluppi endogeni nella cultura ricevente, o ad altre forme di risposta che provocano mutamenti in una delle due culture o in entrambe.I fenomeni cui il termine 'contatto culturale' si riferisce rivestono un'importanza centrale per la storia della cultura e per lo studio dei mutamenti culturali; d'altra parte, sul piano più strettamente teorico il termine ha avuto un'importanza variabile e, a volte, piuttosto marginale nella storia dell'antropologia, ed è stato periodicamente sostituito con altri termini, come 'diffusione' e 'acculturazione'.
Questo articolo passerà in rassegna le diverse prospettive antropologiche sui fenomeni complessivamente indicati col termine 'contatto culturale'.In senso stretto questo termine ha assunto un'importanza teorica centrale solo intorno al 1930, nella letteratura dell'antropologia sociale inglese, mentre nella letteratura nordamericana dello stesso periodo veniva usato, con significato analogo, il termine 'acculturazione'. Dei due termini 'contatto culturale' è forse preferibile, in quanto pone l'accento sulle precondizioni del mutamento culturale e si riferisce, senza ambiguità, a un fenomeno condiviso e collettivo, mentre il termine 'acculturazione' potrebbe essere frainteso, poiché sembra indicare a priori solo un particolare tipo di mutamento culturale (come se il mutamento culturale consistesse necessariamente in un processo di appropriazione, adozione e, infine, di assimilazione) e sembra confondere i due livelli dell'acquisizione culturale individuale (spesso indicata col termine specifico 'inculturazione') e dell'acquisizione collettiva di nuovi elementi in una cultura.
Il vasto tema del contatto culturale è stato fatto oggetto di riflessione teorica da parte dell'antropologia fin dalla nascita di questa disciplina. Nel XIX secolo sono stati condotti studi eruditi sulle variazioni e sui mutamenti culturali. Questi studi, dedicati all'evoluzione culturale e alla storia della cultura, erano variamente concepiti: o come tentativi di ricostruire e spiegare l'ascesa dell'uomo verso la civilizzazione, o come tentativi di tracciare e spiegare la distribuzione geografica delle differenze culturali. I primi 'evoluzionisti' miravano soprattutto a formulare una spiegazione generale dell'ascesa culturale dell'uomo, basandosi su descrizioni di usi e costumi di popolazioni primitive e su una tipologia che rifletteva la logica del passaggio dal semplice al complesso. Essi attribuivano la presenza, in questa evoluzione, di stadi condivisi da più culture soprattutto all' 'unità psichica' dell'uomo, ma riconoscevano anche l'importanza del collegamento storico fra culture (v. Lowie, 1938, pp. 74 ss.; v. Tylor, 1871), cioè del contatto culturale, nel modellare il corso dello sviluppo in una particolare regione del mondo.
Nella seconda metà del XIX secolo gli archeologi europei incominciarono a rinvenire, in Scandinavia, reperti che dimostravano la diffusione di stimoli culturali provenienti dall'Europa meridionale e dal Vicino Oriente lungo tutto il corso della storia della cultura scandinava. Queste scoperte rilanciarono il ruolo del contatto culturale, evidenziandone l'importanza. Il paradigma evoluzionista dello sviluppo culturale, allora prevalente, fu criticato, in quanto implicava l'idea di 'generazione spontanea', e, in alternativa, fu proposto il 'diffusionismo': la ricostruzione di un periodo 'preistorico' di migrazioni, influssi e mutuazioni, cui far risalire le peculiarità della distribuzione culturale riscontrata nel mondo contemporaneo. In altre parole, con l'avvento del diffusionismo il contatto culturale fu definito argomento di importanza centrale, ma continuò a essere concepito in funzione della stessa domanda fondamentale posta dagli evoluzionisti: "In che modo le culture hanno acquisito le loro caratteristiche attuali?"
La prospettiva diffusionista fu sviluppata dagli antropologi tedeschi e austriaci, specialmente da Fritz Gräbner (v., 1911), e continuò a essere la scuola predominante a Vienna fino agli anni cinquanta, sotto la guida di Wilhelm Schmidt. Elaborata come una Kulturkreislehre, tale prospettiva si dimostrò incline a fossilizzarsi entro un angusto dogmatismo procedendo alla ricostruzione di complessi culturali primari, vagamente localizzati in Asia, e postulando una serie di presunte migrazioni e influenze, che avrebbero prodotto ampie somiglianze e mescolanze. I diffusionisti inglesi, d'altra parte, furono in larga misura attratti da un altro scenario: l'antico Egitto, considerato la prima civiltà-guida e quindi la fonte di tutte le innovazioni. Sulla base di questa premessa essi formularono una ricostruzione della storia della cultura del tutto diversa, ipotizzando gruppi di stimoli irradiati a più riprese da quest'unico centro.
Nelle mani degli antropologi americani l'idea si dimostrò più feconda. I loro metodi erano sostanzialmente gli stessi: l'accurata descrizione della tecnologia, degli utensili, dei modelli decorativi, delle norme e dei costumi sociali, e la dettagliata rappresentazione cartografica della loro distribuzione geografica. Gli antropologi americani, tuttavia, si astennero dal formulare un giudizio prematuro sul corso complessivo della storia della cultura che intendevano ricostruire. A partire dal ricco repertorio di tratti culturali accumulato, essi svilupparono un abbozzo di classificazione di aree culturali, da cui poi desunsero una spiegazione plausibile della diffusione di tratti e stimoli fra le culture indigene del Nordamerica.
Così, dal lavoro di Franz Boas e di altri insigni antropologi americani, da lui direttamente o indirettamente influenzati, si è sviluppata quella che è stata chiamata 'la scuola storica'. In confronto alle fantasiose costruzioni dei diffusionisti tedeschi e inglesi, il lavoro di questa scuola, la cui summa è probabilmente rappresentata dalla monumentale sintesi di Alfred Kroeber (v., 1939), si è rivelato molto più valido e durevole.
Tuttavia il concetto di 'cultura' emerso dalle ricerche della scuola storica americana risultò inevitabilmente influenzato dalla forma dei dati: ogni cultura tribale veniva ridotta a una lista di tratti caratteristici, che costituivano gli elementi minimali della composizione culturale e non potevano essere valutati in termini differenziali; potevano essere classificati in base a una qualsiasi tassonomia scelta a piacere e non erano collegati fra loro se non da una eventuale compresenza nelle liste di tratti di molte tribù. Una qualsiasi cultura locale, in un particolare momento storico, poteva essere vista soltanto come un vortice temporaneo nel mare magnum della cultura umana. Il contatto culturale, inteso come diffusione, era considerato il principale fattore del mutamento culturale: "Questo fattore, pur non creando alcunché, riveste tuttavia un ruolo talmente preponderante nel processo di crescita complessiva della civiltà umana, che, al suo confronto, tutti gli altri fattori svaniscono" (v. Lowie, 1920, p. 434). Ogni cultura particolare, infine, poteva essere risolta in un mosaico di tessere provenienti da molte fonti, "un abito fatto di pezze e ritagli", per dirla con l'espressione provocatoria di Lowie.Una rilevante conseguenza di questa concezione fu l'incapacità di studiare il processo del contatto culturale in sé: il fenomeno, anziché essere assunto come oggetto di indagine diretta, continuò a essere considerato come una spiegazione a posteriori delle distribuzioni cui si supponeva avesse dato luogo.
La principale critica mossa al concetto di cultura della scuola storica americana riguardava, tuttavia, un altro difetto: la sua indifferenza per la struttura e la coerenza. Col moltiplicarsi degli studi antropologici sul campo, l'unità della cultura come sistema di vita fu sempre più riconosciuta. Nacque così la concezione 'funzionalista', secondo cui le culture sono unità funzionali e, quindi, l'analisi antropologica deve concentrarsi su tali unità globali e non sui loro tratti costitutivi. Il funzionalismo si basava su un presupposto olistico - tutte le parti di una cultura sono collegate attraverso le rispettive funzioni - e privilegiava l'aspetto sincronico - i collegamenti devono essere scoperti hic et nunc chiedendosi come funzioni la cultura viva, non chiedendosi come sia diventata quella che è ed elaborando ricostruzioni congetturali del passato.
Gli antropologi sociali inglesi, guidati da Bronislaw Malinowski e da Alfred R. Radcliffe-Brown, diedero inizio a questo mutamento di paradigma sviluppando una metodologia per l'osservazione in vivo delle culture e cercando nuovi fondamenti teorici nella scuola sociologica francese di Émile Durkheim. Questo cambio di prospettiva, associato anche a una vigorosa polemica contro le spiegazioni storiche congetturali e a favore delle spiegazioni in termini strutturali, esercitò una grande influenza.
Di conseguenza i ricercatori concentrarono la propria attenzione sulle società e sulle culture indigene, in quanto sistemi intatti; in tal modo, paradossalmente, continuarono a privilegiare le caratteristiche culturali tradizionali, trascurando, inavvertitamente, i mutamenti recenti indotti dal contatto culturale attraverso l'amministrazione coloniale, l'attività missionaria, i rapporti di lavoro all'interno di imprese occidentali, ecc. Malgrado ciò gli antropologi, realizzando l'intenso programma di ricerche sul campo associato al funzionalismo, si resero gradualmente conto anche di questi aspetti di vita contemporanea. La loro attenzione si concentrò così esplicitamente sul 'contatto culturale', nell'intento di studiare la tendenza complessiva del crescente influsso culturale esercitato dall'Occidente. Questa nuova impostazione fu chiamata da Malinowski, con espressione programmatica, "antropologia dell'indigeno che cambia" (v. Malinowski, 1929).
Il programma di Malinowski ispirò ai suoi allievi diversi studi, fra cui spicca Reaction to conquest, di Monica Hunter (v., 1936). I risultati teorici - o, per esser sinceri, i vicoli ciechi - cui tale programma portò sono rivelati in una raccolta rappresentativa di saggi (v. AA.VV., 1938). In questa sede Malinowski fu costretto a concludere che nel contesto dell'Africa degli anni trenta "abbiamo a che fare non con una cultura sola, ma con due culture e con un tertium quid" (ibid., p. xxxvi): la cultura europea in Africa, la cultura africana tradizionale e il nuovo fenomeno culturale creato dal contatto. Sempre secondo Malinowski, non è lecito attendersi un'integrazione funzionale di questi tre sistemi. In qual modo il 'contatto culturale' così concepito può essere analizzato? A questo proposito i coautori del volume esprimono pareri clamorosamente contrastanti. Alcuni vorrebbero ritornare a una prospettiva storica e dedicarsi alla cronistoria dei mutamenti; altri vogliono mantenere i presupposti unitari del semplice funzionalismo e "analizzare il missionario, l'amministratore, il commerciante e il reclutatore di manodopera [...] come fattori attivi nella vita della tribù alla stessa stregua del capotribù e dello stregone" (ibid., p. xiii). Una terza strategia consiste nell'individuare un 'punto-zero', un momento precedente i mutamenti, e nell'analizzare i mutamenti verificatisi a partire da quel momento. Dieci anni di sforzi continui lungo queste linee di ricerca non hanno portato ad alcun modello teorico fecondo; i difetti di questi programmi sono stati acutamente esposti da Max Gluckman (v., 1949) nei suoi saggi critici. Gluckman sostiene, in modo convincente, che una spiegazione in termini di unità 'culturali' multiple maschera l'unità e i decisivi rapporti di potere di una specifica società coloniale. Altrove Gluckman (v., 1958) ha tentato di analizzare l'interazione nella società coloniale e i suoi effetti sulla cultura, ma nel far ciò ha effettuato un'analisi del conflitto culturale endogeno piuttosto che del contatto culturale tra due sistemi concettualmente differenziati. Tuttavia, pur in contrasto con le ricerche sul 'contatto culturale', è stata proprio l'impostazione di Gluckman che si è rivelata fertile nello studio delle società africane contemporanee, come dimostrano i risultati conseguiti dal Rhodes-Livingstone Institute e dalla Manchester University negli anni successivi.
Le corrispondenti correnti di ricerca seguite negli Stati Uniti si svilupparono più organicamente a partire dal lavoro svolto dalla precedente scuola storica. In un primo momento ci si limitò ad aggiungere alcune caratteristiche della vita moderna alle liste di tratti relative alle culture indiane contemporanee (v. Mead, 1932). Si pose l'accento sull' 'acculturazione' in modo da trattare congiuntamente il meccanismo del trasferimento e il corso del mutamento culturale. Per favorire un ampio studio comparativo dell'acculturazione fu predisposto un accurato schema di riferimento entro cui ordinare il materiale raccolto (v. Redfield e altri, 1936). Le fasi del processo di acculturazione furono dette: 'determinazione' (la presentazione di tratti da parte del gruppo donatore nella situazione di contatto culturale), 'selezione' e 'integrazione' (nel gruppo ricevente); quest'ultima fase fu anche chiamata 'accettazione', 'adattamento' e 'reazione'. L'intento era quello di rendere l'apparato concettuale esauriente e applicabile non soltanto all'influenza occidentale contemporanea, ma a tutte le situazioni di contatto culturale verificatesi nel corso della storia. In pratica quasi tutti gli studi riguardarono l'impatto della cultura europea sulle tribù indiane americane confinate nelle riserve e sulle popolazioni soggette a colonizzazione, per quel che concerneva l'epoca contemporanea, e sulle popolazioni dell'America Latina per quel che concerneva il passato. Si presumeva che da questi studi si sarebbero potute derivare generalizzazioni induttive e formulazioni teoriche; da questo punto di vista il raccolto fu magro, per quanto, forse, più abbondante di quello prodotto dagli studi sul 'contatto culturale' di Malinowski. Si prestò particolare attenzione all'ampia diffusione dei cosiddetti 'movimenti nativistici' o 'movimenti di rivitalizzazione' (v. Linton, 1940; v. Wallace, 1956), sorti in risposta al contatto culturale. Melville Herskovits continuò le sue ricerche sulle culture nere americane, individuandovi elementi di continuità con le tradizioni africane e un vasto sincretismo. Il punto di vista sostenuto da Herskovits si è, più tardi, rivelato importante sia per l'insegnamento che per l'ideologia, negli Stati Uniti, anche se forse più per ragioni sociali e politiche che per ragioni puramente intellettuali.
Più produttivo dal punto di vista teorico fu il progressivo superamento del sistema di riferimento concettuale attinente all'acculturazione da parte di Robert Redfield. Concettualizzando processi culturali regionali, dapprima in un 'continuum popolare-urbano' (v. Redfield, 1941), la prospettiva sul contatto culturale maturò nel suo lavoro fino a sfociare in un'ampia, dotta analisi dei processi di riproduzione culturale nelle grandi civiltà (v. Redfield, 1956).
Questa storia di idee contiene importanti lezioni di metodo e di teoria. Malgrado le varie dichiarazioni programmatiche con cui si annunciarono i principali paradigmi e malgrado i dotti studi eseguiti in conformità a essi, non si è giunti a elaborare una teoria antropologica del contatto culturale sufficientemente generale. Si è raccolta una ricca documentazione sulle variazioni e sulle distribuzioni culturali, e attraverso questa documentazione si sono ottenute molteplici prove indirette dell'importanza del contatto culturale per lo sviluppo culturale, ma a livello di concettualizzazione i risultati sono stati più che modesti. Le generalizzazioni che sono state tentate miravano a render conto delle forme esteriori del mutamento, piuttosto che delle forze che le avevano causate o guidate. Soltanto con la metodologia dell'acculturazione si è fatto un serio tentativo di studiare proprio il processo. Ma in questo caso il processo non era rappresentato da un modello dei meccanismi in atto in una situazione di contatto culturale, bensì da una serie di fasi definite logicamente, attraverso cui si postulava avvenisse l'adozione di un tratto culturale. Di conseguenza anche gli studi sull'acculturazione, come quelli ispirati ad altri paradigmi, non portarono a una valida teoria del contatto culturale.
Dopo la seconda guerra mondiale le implicazioni del fallimento della teoria del contatto culturale divennero molto gravi. L'intensità del contatto tra culture stava raggiungendo, in tutto il mondo, livelli senza precedenti, grazie alle iniziative, coordinate a livello internazionale, volte a migliorare la qualità della vita nei paesi meno industrializzati, attraverso l'assistenza tecnica e altri programmi di trasferimento culturale. In altre parole, la necessità pratica di comprendere i processi di contatto culturale era molto sentita e c'era la volontà politica di applicare le conoscenze delle scienze sociali; a tale scopo furono istituite anche apposite organizzazioni. Ma in mancanza di una teoria coerente l'antropologia svolgeva un ruolo del tutto marginale, tanto che persino le conoscenze da essa acquisite furono ignorate. Le altre scienze sociali erano scarsamente consapevoli della portata e delle implicazioni delle differenze sociali e culturali su scala mondiale, e avevano una cognizione piuttosto vaga del grado di interdipendenza che si instaura fra attività e concezioni di un popolo - un fenomeno che gli antropologi avevano imparato a descrivere, per quanto imperfettamente, come integrazione culturale.
Fece la sua comparsa una letteratura semplicistica sotto il profilo teorico, che usava i concetti di 'modernizzazione' e 'sviluppo' per descrivere le tendenze su scala mondiale, limitatamente alle loro manifestazioni esteriori (v., per es., Lerner, 1958, e Myrdal, 1956). I processi interni venivano confusi con le influenze esterne e il ruolo del contatto culturale, cui alludevano certe generiche locuzioni impiegate, quali 'l'esempio occidentale' e 'aspettative crescenti', non era adeguatamente riconosciuto. Le organizzazioni impegnate nell'assistenza tecnica, o, come si disse in seguito, nello sviluppo, tendevano a lasciarsi guidare dalla macroeconomia, per la sua evidente sottigliezza teorica e per l'utilità pratica di cui aveva dato prova nella ricostruzione delle società postbelliche. Ma la teoria macroeconomica presupponeva l'esistenza delle istituzioni delle società e delle culture occidentali e si dimostrò insensibile alle differenze transculturali e agli speciali problemi del contatto culturale. Gli stessi errori pratici dovuti a queste carenze teoriche furono ripetuti più volte. Gli antropologi si lasciarono trascinare in questo lavoro applicato solo con molta riluttanza, contribuendovi con le loro conoscenze su particolari società e culture straniere e con le loro tecniche di osservazione sul campo, ma non furono in grado di esercitare alcuna influenza sulle concezioni in voga riguardanti il mutamento sociale e culturale nelle società non occidentali.
Questo fallimento, non ancora superato, va imputato a nostro parere all'incapacità dell'antropologia di sviluppare una teoria per l'analisi del contatto culturale. Perché l'antropologia si è dimostrata così poco creativa sotto questo aspetto? Forse perché condizionata dai presupposti fondamentali che hanno ispirato il pensiero antropologico. La concezione funzionalista della completa coerenza nell'ambito di ciascuna cultura locale si dimostrò straordinariamente feconda ed è stata perpetuata in varie concezioni strutturaliste della cultura e della società, nonché in altri approcci semiotici all'analisi e al significato culturali, orientati al contesto. Ma una tale concezione è inutilizzabile quando si tratta di descrivere gli effetti che una cultura, concepita come un tutto organico, esercita su un'altra in una situazione di contatto culturale. Per far questo si dovrebbe: a) rivolgere l'attenzione contemporaneamente a due culture, A e B, ciascuna vista sincronicamente come un tutto e dall'interno; b) descrivere almeno una delle due culture come un oggetto che cambia forma entro un certo periodo di tempo; c) identificare gli elementi che escono da un certo contesto in A ed entrano in un nuovo contesto in B; d) costruire un'ipotesi che spieghi come tali elementi, nel loro nuovo contesto, provochino mutamenti in B. Un'analisi di questo tipo non è mai stata alla portata di alcuna scienza sociale; è significativo il fatto che le poche analisi di mutamenti indotti da un contatto culturale coronate da successo siano state quelle realizzate evitando, in qualche modo, di concentrarsi contemporaneamente su due culture distinte. Così i movimenti nativistici sono stati considerati fenomeni endogeni manifestatisi all'interno di gruppi di minoranza (v. Wallace, 1956); oppure un flusso di impulsi culturali è stato descritto come un processo di trasmissione fra una 'grande' e una 'piccola' tradizione all'interno di una stessa civiltà (v. Redfield, 1956).
Eppure il fenomeno della trasmissione da una cultura a un'altra non scompare solo perché risulta non trattabile teoricamente sulla base delle premesse attuali. Il termine 'trasmissione culturale' si riferisce chiaramente a un fenomeno importante e diffuso su scala mondiale. La società occidentale, durante gli ultimi secoli, ha inghiottito e trasformato le culture tribali e le civiltà del mondo non occidentale. Nel corso della storia della cultura si sono verificati scambi culturali anche fra popolazioni limitrofe, simili dal punto di vista delle dimensioni e delle capacità tecnologiche, e tali scambi hanno lentamente 'rimodellato' le popolazioni coinvolte. Inoltre, in più occasioni, popolazioni dotate di culture meno avanzate sono state dominate, sfruttate e trasformate dal contatto con Stati preindustriali. La letteratura passata in rassegna ha dimostrato che non esiste una sola cultura nota alla storia o all'antropologia che non abbia mutuato da altre culture almeno il 90% dei suoi elementi costitutivi (v. Murdock, 1960², p. 254).
Qual è il modo migliore per studiare questi fenomeni? Le lezioni del passato indicano che sono necessarie una chiara concettualizzazione e un'accurata individuazione di meccanismi e processi, piuttosto che una descrizione sintetica. In primo luogo dobbiamo riconoscere che il 'contatto culturale' non è una situazione eccezionale: al contrario ha interessato ovunque quasi tutte le culture in quasi tutte le epoche della storia dell'umanità. Il vero problema è piuttosto quello di spiegare perché un tale contatto non abbia portato a una completa fusione culturale su scala mondiale. A posteriori gran parte del lavoro di Alfred Kroeber può essere letta come un incessante sforzo di applicare questa prospettiva. Da una parte, infatti, egli ha analizzato le condizioni fondamentali per la formazione di aree culturali, non in termini di determinismo geografico o di materialismo culturale, ma cercando i fattori naturali che incanalano e limitano il trasferimento di tratti culturali; dall'altra ha studiato le sequenze culturali: i cicli stilistici regolari e i principali schemi sequenziali della fioritura di tradizioni culturali. In tal modo egli ha cercato di descrivere i fattori che si oppongono a una diffusione omogenea e di spiegare le diversità riscontrabili su scala mondiale a livello etnografico.
Attualmente il compito di sviluppare una teoria generale per l'analisi del contatto culturale non è considerato prioritario nelle scienze sociali. Tuttavia esistono oggi delle linee di ricerca che possono fornire spunti utili a questo riguardo. Tutti questi studi riguardano l'interfaccia fra cultura e organizzazione sociale, piuttosto che i paradigmi per l'analisi della cultura in sé. I filoni di ricerca che appaiono più promettenti sono quattro: a) gli studi sui sistemi-mondo e sulla diversità di scala nell'organizzazione sociale; b) lo studio dell'etnicità; c) le ricerche riguardanti gli effetti dell'imprenditorialità sul mutamento culturale; d) l'analisi del genocidio.
Un importante e fecondo mutamento di prospettiva si ha col superamento del presupposto secondo cui le società sarebbero oggetti distinti l'uno dall'altro, ciascuno con una propria cultura. A questo riguardo il concetto di 'sistema-mondo', elaborato da Immanuel Wallerstein (v., 1976), ha esercitato una grande influenza sulle scienze sociali. Anziché concentrarsi sulla storia delle nazioni, la teoria dei sistemi-mondo considera un mondo 'connesso', dove esiste una divisione regionale del lavoro, in base alla quale aree centrali, economicamente e politicamente dominanti, ricevono materie prime da aree periferiche, e dove lo sviluppo sociale e politico delle società centrali e di quelle periferiche dipende strettamente dai ruoli che esse svolgono nell'ambito del sistema. La teoria è decisamente incentrata sui fattori economici e sulle loro conseguenze, ma fornisce uno schema di riferimento concettuale per analizzare i mutamenti delle istituzioni e delle concezioni di un'area prodotti dagli influssi esercitati da un'altra area, e, quindi, per analizzare proprio gli effetti del contatto culturale.
Un modello per lo studio del contatto culturale, ispirato a questa concezione, può essere elaborato identificando le aree centrali sotto il profilo del contatto culturale e i vincoli che condizionano il flusso di stimoli e di impulsi diretti verso le culture periferiche (v. Hannerz, 1982). Questo modello dovrebbe rivelare, in particolare, il ruolo della moderna comunicazione di massa come mezzo tramite il quale si istituisce oggi il contatto culturale, e l'importanza del sistema di produzione industriale per la moderna cultura di massa. Può essere più difficile identificare, nell'ambito culturale, i rapporti di sfruttamento e di dominio, cui è assegnato un ruolo essenziale nel paradigma dei sistemi-mondo. Ma questa impostazione si rivelerà veramente feconda se metterà progressivamente in luce, nell'ambito della produzione culturale, l'azione di dinamiche diverse da quelle cui sono soggetti il commercio e l'industria, e saprà scoprire fonti di innovazione culturale diverse dall'influenza economica e politica. In tal modo potrà contribuire a spiegare alcuni paradossi attuali, come la velocità di propagazione e la forza di penetrazione, a livello mondiale, di controculture, culture giovanili, ecc.
In alternativa si può concepire un sistema meno monolitico, pur superando il modello delle società 'a tenuta stagna'. Si possono analizzare i vari domini o campi sociali di una regione e caratterizzarli separatamente in funzione delle differenze di scala fra le rispettive organizzazioni sociali (v. Grønhaug, 1978). Così entro una comunità ristretta, in un ambito in cui valgono la parentela, la reputazione e l'influenza personale, le attività possono essere dominate da circostanze che si verificano su scala locale, mentre un sistema scolastico su scala nazionale dirige il flusso di stimoli in un altro campo di attività, e la partecipazione al sistema-mondo attraverso la produzione agricola per il mercato può caratterizzare un terzo campo di attività. Attraverso la partecipazione a differenti attività un individuo viene immesso in campi di scala molto diversa e diventa il destinatario di stimoli provenienti dalle fonti più disparate. In questo modo, inoltre, si può dimostrare che la particolare gamma di impulsi culturali che raggiunge i diversi soggetti è in larga misura determinata dalla loro organizzazione sociale. Ma il compito di decidere se accogliere o rifiutare i vari, e spesso contrastanti, stimoli in arrivo spetta al singolo individuo, che farà le sue scelte in base ai valori vigenti e alle circostanze specifiche che caratterizzano la cultura locale. Dovrebbe così essere possibile costruire un modello sia dei diversi stimoli che raggiungono una comunità particolare, sia dei fattori che ne determinano l'adozione o il rifiuto.
L'etnicità costituisce un altro fattore di origine sociale, del tutto diverso, che opera in situazioni di contatto culturale (v. Barth, 1969). Essa nasce quando certe caratteristiche culturali, a prescindere dalle altre funzioni che svolgono, costituiscono anche degli indicatori di identità e di confine per determinati gruppi sociali. Si tratta di un fenomeno caratteristico del contatto culturale, che ha profonde conseguenze sullo sviluppo delle culture che in tal modo entrano in contatto. In poche parole, quando gruppi con culture diverse interagiscono, imparano progressivamente a conoscersi e finiscono per costruire degli stereotipi, cioè complessi di caratteristiche impiegati come segnali di identità e come indicatori di tratti, rispettivamente apprezzati e disprezzati, della propria e dell'altrui cultura. Le differenze così codificate non solo servono per distinguere i gruppi l'uno dall'altro, ma possono anche costituire la base dei loro rapporti in varie forme di divisione del lavoro. In tal modo i gruppi etnici entrano a far parte di una struttura come elementi che svolgono ruoli standardizzati interdipendenti, e tutti insieme costituiscono società complesse e multirazziali come quelle che si sono sviluppate in Medio Oriente, in Asia e altrove. Oltre a collegare gruppi diversi in base alle loro differenze reciproche, l'etnicità innalza anche barriere contro l'adozione di caratteri culturali esogeni: in un sistema sociale del genere, un arabo non può adottare tratti culturali distintivi di un copto o di un ebreo (e viceversa) senza mettere a repentaglio la propria identità e la propria posizione sociale all'interno del gruppo cui appartiene.
Nelle situazioni in cui la lotta fra gruppi etnici per il controllo delle risorse o per il potere politico prevale sui loro rapporti nell'ambito della divisione del lavoro, emergono altri aspetti dell'etnicità. L'appartenenza a un gruppo etnico può costituire la base comune per mobilitarsi come gruppo di interesse. Questo fenomeno è particolarmente evidente nelle moderne società occidentali, benché sia presente quasi sempre, come tendenza latente, anche in altre società multirazziali. Ciò che conta, nella competizione fra gruppi etnici, è il valore emblematico delle differenze culturali, non le proprietà intrinseche di ciascuna cultura; perciò lo scambio di idee tra culture diverse può essere molto più attivo se vengono mantenuti i loro peculiari indicatori di identità. Sicché, paradossalmente, le situazioni di contatto culturale dominate dalla competizione tendono a produrre un crescente isomorfismo fra le opposte culture, attraverso processi di 'dicotomizzazione' e di 'complementarizzazione' (v. Eidheim, 1971): le varie componenti di ciascuna cultura vengono modellate in modo da risultare distinguibili ma analoghe, un po' come due eserciti nemici, che tendono a diventare sempre più simili per quel che riguarda le armi, i servizi e le tattiche, mentre mantengono uniformi diverse e restano irriducibilmente ostili l'uno all'altro.L'etnicità, quindi, rappresenta un insieme di meccanismi che influenza, secondo una sua specifica dinamica, i rapporti e il corso dei mutamenti in una situazione di contatto culturale. Negli ultimi vent'anni gli studi su questo e su vari altri aspetti dell'etnicità si sono moltiplicati (v. Cohen, 1978).
Lo studio dell'imprenditorialità offre un terzo apparato teorico con cui analizzare il contatto culturale. In questo caso l'attenzione è rivolta al microlivello a cui operano i protagonisti della situazione presa in esame, piuttosto che al macrolivello degli aggregati e dei processi. Un imprenditore può essere definito come un individuo che: a) è coinvolto nella conduzione di un'impresa; b) agisce in maniera innovativa; c) cerca di ricavare un profitto. Le conseguenze di un'attività imprenditoriale coronata da successo saranno, quindi, mutamenti sociali e culturali di un certo tipo: nuove forme organizzative o nuove tecniche, nuove forme di transazione, nuove scale di valori e nuove usanze. Nelle situazioni di contatto culturale la base di un'attività imprenditoriale è costituita, generalmente, dai beni e dalle idee appartenenti a una cultura o a una società, che possono essere sfruttati nell'altra cultura, oppure dalla presenza di un divario fra settori dello scambio e dei valori, che l'imprenditore può colmare impiegando mezzi transculturali (v. Barth, 1963 e 1966). In tali situazioni, quindi, gli imprenditori fungono da intermediari e da mediatori (v. Paine, 1971), trasmettendo impulsi culturali da una cultura all'altra. L'attività imprenditoriale, in sé, non persegue un tale scopo né è guidata dalla prospettiva di produrre questi effetti di trasmissione culturale: la forma e le dimensioni dell'impresa sono determinate dalla sua capacità di procurare un profitto all'imprenditore, non dai suoi effetti cumulativi su una cultura di gruppo. Un'analisi dell'imprenditorialità in situazioni di contatto culturale può contribuire a mettere in luce gli agenti che, nel processo di trasmissione culturale, operano al microlivello, l'organizzazione dei fattori di trasmissione e i particolari mutamenti che in tal modo vengono indotti in una cultura.
Se è vero che il contatto culturale può costituire la normale condizione di vita nella maggior parte delle società e delle popolazioni umane, esistono tuttavia tragiche situazioni ricorrenti, che possono condurre alla distruzione di intere culture e al genocidio. Talvolta nelle zone periferiche delle antiche civiltà e spesso all'epoca delle esplorazioni e dell'espansione in tutto il mondo delle potenze occidentali, grandi popolazioni organizzate in Stati si sono scontrate con popolazioni meno numerose e più frammentate politicamente, contendendo loro un territorio. Ciò ha portato alla conquista e alla colonizzazione di vastissime aree in Nordamerica, in Australia, in Siberia, accompagnate dalla distruzione sistematica e indiscriminata di culture e società indigene e, spesso, dal genocidio. Processi del genere si verificano ancora oggi in alcuni paesi, per esempio quando le giungle che costituiscono l'habitat delle popolazioni indie della zona tropicale del Sudamerica diventano oggetto di sfruttamento da parte di altre popolazioni.
Altre volte sembra che società pluralistiche fondate sulla coesistenza relativamente pacifica di culture diverse vengano sconvolte dal sorgere di conflittualità e da un progressivo deterioramento dei rapporti tra le varie componenti - etniche, religiose o locali - che possono culminare in massacri interni e in genocidi. Leo Kuper ha cercato di chiarire la logica del 'meccanismo infernale' che sta alla base di tali processi di radicalizzazione, esaminando in dettaglio alcuni casi recenti e ben documentati (v. Kuper, 1977), in modo da giungere a una formulazione generale della loro dinamica e mettere a punto sistemi di intervento (v. Kuper, 1984). Diverse organizzazioni interessate a questi fenomeni, come l'International Work Group for Indigenous Affairs, il Survival International, il Minority Rights Group, ecc., si dedicano direttamente all'intervento pratico nei vari casi particolari, accumulando in tal modo esperienza e conoscenze. Nessuna trattazione del contatto culturale può considerarsi completa se non mette in evidenza questo potenziale di conflittualità che, in casi estremi, può degenerare in manifestazioni di violenza incontrollata e catastrofica, e se non sottolinea l'urgenza di mettere a punto un sistema di controllo e di intervento basato su una maggiore comprensione della dinamica di questi fenomeni. (V. anche Aree culturali; Cultura; Etnici, gruppi; Evoluzione culturale umana, processi della).
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