Abstract
Il contratto di inserimento, nato nel 2003 dalle ceneri del contratto di formazione e lavoro, può essere interpretato come il principale tentativo di razionalizzare il quadro degli incentivi a sostegno dell’inserimento al lavoro di soggetti svantaggiati. Il presente contributo, prendendo avvio dalle ragioni che hanno indotto il legislatore a tipizzare questo nuovo contratto di lavoro, ne illustra la disciplina, indaga sulla natura dello stesso e pone in evidenza le principali questioni interpretative; dà conto, infine, dell’abrogazione della relativa disciplina ad opera delle l. 28.6.2012, n. 92.
Il contratto di inserimento rientra nel novero dei contratti di lavoro disciplinati dal d.lgs. 10.9.2003, n. 276 (v. artt. 54-59 bis). Esso non è stato però solo il frutto della strategia di ampliamento della gamma dei contratti di lavoro tipizzati (strategia che certamente ha caratterizzato tale provvedimento); la sua introduzione nel nostro ordinamento va collocata nel più ampio disegno di razionalizzazione dei contratti aventi finalità formative e delle misure a sostegno dell’assunzione di soggetti svantaggiati. Già nel 1997 il legislatore aveva delegato il Governo ad emanare «norme regolamentari [….] in materia di speciali rapporti di lavoro con contenuti formativi, quali l’apprendistato ed il contratto di formazione e lavoro, allo scopo di pervenire ad una disciplina organica della materia secondo criteri di valorizzazione dei contenuti formativi, con efficiente utilizzo delle risorse vigenti, di ottimizzazione ai fini della creazione di occasioni di impiego delle specifiche tipologie contrattuali, nonché di semplificazione, razionalizzazione e delegificazione, con abrogazione delle norme vigenti» (v. art. 16, co. 5, l. 24.6.1997, n. 196).
La delega non è stata esercitata ma l’avvertita necessità di rivisitare la disciplina della materia è divenuta improcrastinabile a seguito della Decisione della Commissione europea dell’11.5.1999 (Decisione 2000/128/CE) e della successiva Sentenza della Corte di giustizia (v. C. giust., 7.3.2002, C-310/99 Repubblica italiana c. Commissione europea) che hanno portato all’epilogo del “contratto di formazione e lavoro” per l’acclarata incompatibilità rispetto alla normativa comunitaria delle agevolazioni contributive connesse a tale contratto (Tiraboschi, M., Aiuti di Stato e contratti di formazione e lavoro nella decisione della Corte di giustizia del 7 marzo 2002: sentenza annunciata, risultato giusto, in Riv. it. dir. lav., 2002, 3, II, 435 e ss.; Varesi, P.A., I contratti di lavoro con finalità formative, Milano, 2001, 241 e ss.). Prendendo atto della Sentenza sopra citata, le disposizioni contenute nel Titolo VI del d.lgs. n. 276/2003 hanno operato in due direzioni: da un lato, hanno posto le premesse per il superamento del contratto di formazione e lavoro (confinato nel settore pubblico); dall’altro lato, hanno perseguito la specializzazione funzionale dell’apprendistato (chiamato principalmente a sostenere la formazione dei giovani, v. artt. 47-53) e di un nuovo tipo contrattuale, denominato contratto di inserimento, volto a favorire l’assunzione di soggetti in difficoltà occupazionale (Loi, P., Il contratto di inserimento, in Magnani, M.-Varesi, P.A., a cura di, Organizzazione del mercato del lavoro e tipologie contrattuali, Torino, 2005, 508 e ss.). In altri termini, l’“eutanasia” del contratto di formazione e lavoro è stata accompagnata dalla profonda rivisitazione dell’apprendistato e dalla configurazione di un nuovo strumento di politica attiva del lavoro, rappresentato, per l’appunto, dal contratto di inserimento.
In questa sede è opportuno ricordare che, già in precedenza, la legislazione italiana aveva sostenuto, mediante specifiche misure di incentivazione economica e normativa, l’assunzione di soggetti “svantaggiati”; basti pensare, oltre alla promozione dell’occupazione giovanile ad opera del citato contratto di formazione e lavoro, al “contratto di reinserimento” di cui all’art. 20 della l. 23.7.1991, n. 223, volto a favorire l’assunzione di lavoratori disoccupati beneficiari del trattamento speciale di disoccupazione da almeno un anno ovvero di lavoratori sospesi dal lavoro e beneficiari, per lo stesso periodo di tempo, del trattamento straordinario di integrazione salariale o, ancora, alle agevolazioni contributive concesse per favorire la ricollocazione dei lavoratori in mobilità, ai sensi dell’art. 8 della stessa l. n. 223/1991.
Il contratto di inserimento, come disciplinato dal d.lgs. n. 276/2003, mutua da questi provvedimenti sia le finalità (sostegno all’assunzione di soggetti in condizione di svantaggio) che la tecnica (concessione di incentivi); persegue, però, obiettivi più ambiziosi. Come sottolineato dalla dottrina, il legislatore, nel cimentarsi con un importante strumento di politica attiva del lavoro (gli incentivi), adotta una più razionale ed organica tecnica legislativa: individua le categorie sociali meritevoli di aiuto e stabilisce e modula gli incentivi connessi all’assunzione di soggetti appartenenti a tali categorie. A tal fine disciplina uno specifico contratto di lavoro. Quest’ultimo aspetto supera l’approccio tradizionale al tema degli incentivi alle assunzioni: ne deriva, infatti, che non si collegano benefici (economici e/o normativi) «alla stipulazione di un qualsiasi contratto di lavoro…»; si promuove l’occupazione del lavoratore svantaggiato «attraverso un percorso professionalizzante sul lavoro, a tal fine tipizzando un apposito contratto» (Bellocchi, P., Contratto di inserimento, in AA.VV., Il nuovo mercato del lavoro, Bologna, 2004, 616 e ss.).
La delicatezza di questo approccio al tema, sia sotto il profilo economico (per le ricadute sulla spesa pubblica), sia sotto il profilo giuridico, è emersa immediatamente. Lo testimoniano, come si dirà meglio nelle pagine che seguono, i ripensamenti del legislatore sull’applicazione di alcuni incentivi normativi (v. la soppressione del sottoinquadramento di due livelli per le donne in possesso dei requisiti richiesti dall’art. 54, co. 1, lett. e, d.lgs. n. 276/2003) e le modifiche restrittive intervenute al fine di assicurare il necessario coordinamento della normativa nazionale con quella comunitaria in materia di aiuti di Stato (che ha richiesto, in particolare, l’introduzione, nel 2011, del requisito di disoccupazione da almeno sei mesi per le donne di cui all’art. 54, co. 1, lett. e).
Il contratto di lavoro in esame è rimasto in vigore per circa un decennio, invero senza effetti di particolare rilievo sul mercato del lavoro. Si può dunque affermare che il tentativo del legislatore di riordinare le politiche di incentivazione delle assunzioni di soggetti svantaggiati mediante l’introduzione di un nuovo tipo di contratto di lavoro subordinato non ha avuto successo. In parte a causa del rafforzarsi, nel frattempo, della “concorrenza” di altre tipologie contrattuali disciplinate dallo stesso d.lgs. n. 276/2003 (v., in primo luogo, il contratto a progetto), tendenza alimentata da un fenomeno che lo stesso legislatore, qualche anno dopo, ha definito come «uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali» (art. 1, co. 1, lett. c, l. 28.6.2012, n. 92). Per altro verso, se si pone attenzione alle valutazioni prevalentemente critiche della dottrina in merito al contratto di inserimento, il legislatore delegato non sembra essere stato in grado di promuovere l’occupazione di soggetti svantaggiati individuando un convincente punto di equilibrio tra gli interessi in gioco ed in particolare tra i consistenti incentivi economici (di cui si fa carico lo Stato), l’effettiva realizzazione di efficaci processi di inclusione (che richiedono necessariamente al datore di lavoro alcuni sacrifici temporanei nell’organizzazione del processo produttivo) e l’imposizione ai lavoratori svantaggiati della riduzione di diritti – v. il sottoinquadramento – rispetto ai lavoratori assunti con altri contratti di lavoro subordinato.
Non meraviglia dunque che, nel 2007, sia stata approvata una legge che delegava il Governo a «ridefinire la disciplina del contratto di inserimento» (delega peraltro non esercitata), né che, nell’ambito di un ulteriore processo di revisione delle tipologie contrattuali, l’art. 1, co. 14, l. n. 92/2012 abbia abrogato le norme citate in apertura (gli artt. 54-59 bis del d.lgs. n. 276/2003). Quest’ultima scelta è stata ricondotta dalla dottrina ad una pluralità di motivazioni tra cui emergono l’intento di favorire il lavoro subordinato a tempo indeterminato, la volontà di valorizzare l’apprendistato come modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e la previsione da parte della stessa l. n. 92/2012 (art. 4, co. 8-11) di altre forme di incentivazione per categorie sociali svantaggiate (Minervini, A., Il vecchio contratto di inserimento e i nuovi incentivi alle assunzioni, in M. Brollo, Il mercato del lavoro, Padova, 2012, 1189 e ss.).
L’art. 54 del d.lgs. n. 276/2003 indica, in primo luogo, le finalità del contratto di inserimento: è un contratto di lavoro diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro di soggetti appartenenti a sei ampie categorie in condizione di svantaggio occupazionale. È dunque volto alla promozione dell’occupazione delle fasce deboli del mercato del lavoro ed alla lotta all’esclusione socio-lavorativa (Agliata, M., I tirocini formativi e di orientamento ed il contratto di inserimento, in Ciocca, G., a cura di, Le trasformazioni del mercato del lavoro, Edizioni Università di Macerata, 2011, 301 e ss.).
È in questo quadro che va valutata la norma (art. 55) che richiede, come condizione per l’assunzione mediante contratto di inserimento, la definizione in forma scritta, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento; tale progetto traccia il percorso di accompagnamento del lavoratore all’inserimento in uno specifico contesto lavorativo. In esso sono contenute le misure che si ritengono utili affinché il lavoratore svantaggiato possa superare il divario che lo separa dai lavoratori non rientranti nelle categorie svantaggiate, esprimendo al meglio le competenze già acquisite ed entrando in possesso delle competenze mancanti.
Da quanto detto, emerge con evidenza il rilievo che assume il progetto per il buon esito dell’inserimento; sorprende, quindi, che il legislatore non abbia disciplinato più puntualmente il tema e si sia limitato, invece, a delegare sul punto alla contrattazione collettiva (Menghini, L., Il contratto di inserimento, in Ghezzi, G., a cura di, Il lavoro tra progresso e mercificazione, Napoli, 2004, 298 e ss). L’applicazione del contratto di inserimento è subordinata, infatti, alla determinazione ad opera dei contratti collettivi di lavoro (nazionali, territoriali, aziendali) delle modalità di definizione dei progetti individuali di inserimento, con particolare riferimento alla realizzazione del progetto. In proposito, va segnalato che, in data 11.2.2004, è stato sottoscritto dalle Parti sociali un Accordo interconfederale «per definire gli elementi essenziali per consentire ai datori di lavoro di assumere, in tutti i comparti produttivi, mediante l’utilizzo del contratto di inserimento»; tale Accordo prevede che il progetto di reinserimento debba indicare la qualificazione da conseguire e la formazione da impartire per adeguare le capacità professionali del lavoratore (da attuarsi assicurando un minimo di 16 ore teoriche, all’interno delle quali devono essere impartite, tra l’altro, nozioni di antinfortunistica e di disciplina del rapporto di lavoro). Successivamente, in molti settori produttivi, in occasione dei rinnovi dei contratti collettivi nazionali di categoria sono state concordate disposizioni volte a disciplinare la materia, riprendendo in larga parte i contenuti dell’Accordo interconfederale succitato. Innovazioni interessanti, tendenti a valorizzare il progetto di inserimento, sono rinvenibili, invece, in contratti di secondo livello (Minervini, A., op. cit., 1189 e ss.).
L’importanza assegnata al progetto di inserimento è confermata anche dalla previsione di sanzioni in caso di gravi inadempienze nell’attuazione del progetto stesso imputabili esclusivamente al datore di lavoro. Qualora tali inadempienze fossero accertate, il decreto legislativo in esame dispone che il datore di lavoro sia tenuto a versare la differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di inserimento, maggiorata del 100 per cento (art. 55, co. 5). Inoltre, in dottrina vi è chi ha ritenuto applicabile, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, la trasformazione del contratto in contratto a tempo indeterminato (Romagnoli, U., Radiografia di una riforma, Bologna, 2003). Nulla dice il legislatore delegato in merito all’ipotesi, ancor più grave, di assenza del progetto d’inserimento. Sul punto appare convincente l’orientamento secondo cui dalla mancata predisposizione del progetto deriva la nullità del contratto di inserimento (Romagnoli, U., op. cit.; D’Onghia, M., I contratti a finalità formativa: apprendistato e contratto di inserimento, in Curzio, P., a cura di, Lavoro e diritti dopo il d.lgs. n. 276/2003, Bari, 2004, 291 e ss.).
Secondo la dottrina prevalente, il contratto di inserimento non è un contratto a causa mista (Dell’Olio, M., Il contratto di inserimento, in AA.VV., Come cambia il mercato del lavoro, Milano, 2004, 385 e ss.; Garofalo, D., Il contratto di inserimento, in Cester, C., a cura di, Il rapporto di lavoro: costituzione e svolgimento, Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, Torino, 2007, 1957 e ss.) e costituisce, invece, «una variante del contratto a termine, stipulabile per cause soggettive» (Minervini, A., op. cit., 1189 e ss.). Questo orientamento si fonda su un’interpretazione sistematica di alcune norme del decreto in esame; a questi fini si dà rilievo, in particolare: all’affermazione per cui al contratto di inserimento si applicano, salvo diversa previsione della contrattazione collettiva e per quanto compatibili, le disposizioni del d.lgs. 6.9.2001, n. 368 (art. 58, co. 1); alla fissazione di una durata minima e massima dello stesso (art. 57, co.1); infine, alla mancata indicazione di precisi obblighi formativi a carico del datore di lavoro (art. 55).
Premesso che obiettivo del contratto di inserimento non è il raggiungimento di una qualifica professionale e che, quindi, siamo certamente in presenza di attività formative con ambizioni limitate, non sembra possa escludersi, ove necessaria, la formazione dagli obblighi che ricadono sul datore di lavoro. La formazione professionale è indubbiamente uno degli strumenti (e forse il principale strumento) di «adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto produttivo»; è peraltro vero che essa è oggetto nell’art. 55 di una formulazione ambigua; al punto tale da indurre autorevoli commentatori a parlare di “formazione eventuale” (Ballestrero, M.V., I lavoratori svantaggiati tra eguaglianza e diritto diseguale, in Ballestrero, M.V.- Balandi, G.G., a cura di, Bologna, 2005, 9 e ss.). Va comunque tenuto in adeguata considerazione il secondo comma dell’art. 55, laddove il legislatore delegato afferma che, a sostegno dell’attuazione del Progetto di inserimento, possono intervenire i «Fondi interprofessionali per la formazione continua, in funzione dell’adeguamento delle capacità professionali del lavoratore». Inoltre, se il legislatore delegato non avesse preso in considerazione la formazione, non avrebbe senso il comma quarto dell’art. 55 che ne prevede la registrazione nel libretto formativo. Sul punto, va segnalato, infine, che l’Accordo interconfederale succitato di data 11.2.2004 prevede un periodo, pur breve, di formazione teorica, dimostrando che anche le parti sociali hanno colto la necessità di potenziare il percorso di inserimento/reinserimento con attività formative, teoriche e pratiche (Grieco, A., Il contratto di inserimento e le lavoratrici svantaggiate: riflessioni a margine del decreto ministeriale 13 novembre 2008, in Dir. rel. ind., 2008, 1186 e ss.).
Come per tutti i contratti non standard è richiesta la stipulazione in forma scritta. Il contratto deve contenere anche il progetto individuale di inserimento. In mancanza del requisito di forma il contratto è nullo.
In proposito si segnala che l’Accordo interconfederale sopra citato dell’11.2.2004 ha indicato gli elementi che devono essere contenuti nel contratto individuale di lavoro: durata, eventuale periodo di prova, orario di lavoro, categoria di inquadramento del lavoratore, trattamento di malattia (Malattia del lavoratore) ed infortunio non sul lavoro.
Si è accennato in precedenza alle disposizioni relative alla durata minima (non inferiore a 9 mesi) e massima (non superiore a 18 mesi, elevabile a 36 mesi per i portatori di handicap grave) del contratto di inserimento.
L’indicazione della durata minima ha un duplice obiettivo: assicurare al lavoratore svantaggiato un reddito annuo da lavoro e da prestazioni sociali (mediante l’ottenimento dell’indennità di disoccupazione a requisiti ridotti al termine del contratto) e delimitare un arco di tempo minimo entro cui possa realizzarsi il processo formativo di adattamento delle competenze professionali.
La statuizione di un limite massimo di durata deriva, in primo luogo, dalla necessità di contenimento della spesa pubblica; inoltre, essa tende a caratterizzare il contratto di inserimento come forma transitoria di impiego dei lavoratori svantaggiati presso un determinato datore di lavoro, nella speranza che ad esso segua l’occupazione stabile. In coerenza con queste scelte, il decreto legislativo non ammette il rinnovo del contratto di inserimento tra le stesse parti e le eventuali proroghe sono ammesse entro il limite massimo di durata. Per potenziare questo disegno sarebbe stato utile prevedere incentivi in caso di stabilizzazione (come accade per gli apprendisti). Stupisce che il legislatore delegato non sia intervenuto sul punto e, anche in questo caso, va riconosciuto alla contrattazione collettiva il merito di aver almeno affrontato il tema. Secondo l’Accordo interconfederale più volte citato dell’11.2.2004, in caso di trasformazione del contratto di inserimento in contratto a tempo indeterminato, il periodo svolto avrebbe dovuto essere computato nell’anzianità di servizio ai fini degli istituti previsti dalla legge e dal contratto, con esclusione dell’istituto degli aumenti periodici di anzianità o istituti economici assimilati.
Al fine di assicurare al lavoratore l’effettivo godimento delle opportunità di apprendimento previste nel progetto di inserimento, nel computo della durata massima non rilevano i periodi dedicati allo svolgimento del servizio militare e di quello civile ed i periodi di astensione per maternità. Ne consegue che il limite di durata è differito di un periodo pari a quello dell’eventuale sospensione. Il recesso prima della scadenza del termine non è espressamente regolato. In forza del rinvio, ove compatibile, alla disciplina dei contratti a tempo determinato di cui al d.lgs. n. 368/2001 (art. 58, co. 1) è da ritenere applicabile alla fattispecie in esame l’art. 2119 c.c. secondo cui il recesso anticipato è legittimo solo se intimato per giusta causa.
Si è detto che il contratto di inserimento è rivolto ad una platea di soggetti svantaggiati diversa e più ampia di quella del contratto di formazione e lavoro (che, ricordiamo, riguardava soggetti di età compresa tra i 16 ed i 32 anni); i destinatari del contratto di inserimento non sono dunque solo i giovani, ma coloro che appartengono a categorie in difficoltà nell’inserimento o reinserimento al lavoro.
L’art. 54 del citato d.lgs. individua le categorie di soggetti svantaggiati che possono essere assunti con contratto di inserimento, suddividendole in due grandi filoni.
Il primo è composto dai giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni; si noti che, innovando rispetto al contratto di formazione e lavoro, i giovani tra i 29 ed 32 anni sono presi in considerazione solo se disoccupati di lungo periodo (vedi oltre). La giovane età è considerata, in sé, un elemento che comporta difficoltà nell’inserimento nel mondo del lavoro anche se non connotata da specifiche problematiche (si pensi al giovane che si è brillantemente laureato e che risulta incasellato nella stessa categoria di chi ha precocemente abbandonato gli studi e si presenta sul mercato del lavoro solo con la licenza di scuola media inferiore). Il legislatore delegato si dimostra però consapevole dei limiti di questa impostazione; come vedremo, l’appartenenza a questa amplissima categoria sociale dà diritto solo agli incentivi di tipo normativo; gli incentivi economici finalizzati a promuovere l’assunzione dei giovani sono riconosciuti invece solo in caso di assunzione di giovani che presentano ulteriori condizioni di svantaggio (cioè quelle elencate ai punti successivi);
Il secondo filone racchiude lavoratori appartenenti ad altre categorie sociali svantaggiate sotto il profilo occupazionale. L’art. 54, co. 1, lett. da b) ad f), assumendo a riferimento i regolamenti comunitari in materia di aiuti di Stato (all’epoca il reg. della Commissione n. 2204/2002 e successivamente il reg. n. 800/2008) elenca le seguenti categorie:
1) disoccupati di lunga durata da 29 fino a 32 anni (sono giovani che hanno perso un posto di lavoro o cessato un’attività di lavoro autonomo da più di 12 mesi);
2) lavoratori con più di 50 anni, privi di un posto di lavoro;
3) lavoratori disoccupati che non abbiano lavorato da almeno 2 anni e che desiderino riprendere un’attività lavorativa;
4) donne di qualsiasi età residenti in aree geografiche caratterizzate da un divario particolarmente elevato tra i tassi di occupazione e disoccupazione femminili e maschili (il tasso di occupazione femminile deve risultare inferiore almeno del 20 per cento rispetto a quello maschile ed il tasso di disoccupazione femminile deve risultare del 10 per cento superiore a quello maschile);
5) persone riconosciute affette da grave handicap fisico, mentale o psichico.
Le uniche modifiche intervenute in questo quadro normativo hanno riguardato la categoria delle donne svantaggiate di cui al precedente punto 4 (v. l’art. 54, co. 1, lett. e) del d.lgs. n. 276/2003). L’art. 8, co. 1, lett. a), d.l. 13.5.2011, n. 70, conv. con mod. dalla l. 12.7.2011, n. 106, ha circoscritto l’area delle donne potenzialmente beneficiarie del contratto. Infatti, la disposizione citata richiede che, in aggiunta al requisito già previsto (essere residenti in aree caratterizzate da elevati divari occupazionali tra maschi e femmine), le stesse «siano prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi». L’introduzione di questo ulteriore requisito si è resa necessaria al fine di adeguare le disposizioni del citato art. 54 al reg. della Commissione n. 800/2008 del 6.8.2008 (che ha sostituito il precedente reg. n. 2204/2002).
Una seconda modifica è stata introdotta dall’art. 22, co. 3 della l. 12.11.2011, n. 183; nel riscrivere ulteriormente l’art. 54, co. 1, lett. e) d.lgs. n. 276/2003 si è voluto precisare l’atto richiesto per ufficializzare l’individuazione delle aree geografiche ad alto divario occupazionale tra maschi e femmine; si tratta di un decreto interministeriale.
Quanti ai datori di lavoro ammessi ad effettuare assunzioni mediante contratti di inserimento, va sottolineata la volontà del legislatore delegato di favorire un’ampia diffusione del contratto di inserimento; tale facoltà è concessa, infatti, a molte categorie di datori di lavoro: enti pubblici economici, imprese e loro consorzi; gruppi di imprese; associazioni professionali, socio-culturali, sportive; fondazioni; enti di ricerca, pubblici e privati; organizzazioni e associazioni di categoria.
Non mancano però disposizioni finalizzate a bilanciare, in senso restrittivo, questa impostazione. In primo luogo il legislatore delegato attribuisce alla contrattazione collettiva la facoltà di stabilire le percentuali massime dei lavoratori assumibili con contratto di inserimento sul totale della forza lavoro aziendale (art. 58, co. 2).
In secondo luogo, riallacciandosi a disposizioni già sperimentate con il contratto di formazione e lavoro, l’art. 54, co. 3, subordina la facoltà di nuove assunzioni con contratto di inserimento ad un requisito occupazionale: il datore di lavoro deve aver mantenuto in servizio almeno il 60 per cento dei lavoratori il cui contratto di inserimento sia venuto a scadere nei 18 mesi precedenti. Si rafforza in tal modo la configurazione del contratto in esame come opportunità di lavoro transitoria, auspicabilmente destinata a sfociare in un ordinario contratto di lavoro subordinato. In verità, questa disposizione è resa meno rigida di quanto possa apparire ad una prima lettura da numerose e rilevanti deroghe. Da tale computo sono (comprensibilmente) esclusi i lavoratori che si sono dimessi, quelli licenziati per giusta causa e quelli che al termine del rapporto di lavoro abbiano rifiutato la proposta di rimanere in servizio nonché i contratti risolti nel corso o al termine del periodo di prova. Il d.lgs. n. 276/2003 prevede, inoltre, una “franchigia” per un numero massimo di quattro contratti di inserimento non trasformati in contratti a tempo indeterminato. Infine, le limitazioni sopra indicate non si applicano ai datori di lavoro per i quali, nei 18 mesi precedenti, sia venuto a scadere un unico contratto di inserimento.
Per le ragioni illustrate in precedenza, nell’economia del nuovo tipo di contratto di lavoro assumono un ruolo centrale gli incentivi di ordine economico e quelli di carattere normativo.
Il terzo comma dell’art. 59 dispone, in generale, l’applicazione ai contratti di inserimento di sgravi contributivi di pari misura rispetto a quelli concessi, al momento della entrata in vigore del d.lgs. n. 276/2003, alle assunzioni con contratto di formazione e lavoro (si ricorda che nel 2003 la misura delle agevolazioni contributive risultava differenziata a seconda dell’area territoriale o del settore produttivo in cui era ubicata la sede il datore di lavoro – v. in proposito circ. INPS 16.3.2004, n. 51). Da questo regime di agevolazioni è stata esclusa, come detto, solo la categoria dei giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni (quelle di cui all’art. 54, co. 1, lett. a); ad essi si applicano, solo le altre forme di incentivazione economica e normativa illustrate di seguito, a meno che non rientrino in una delle altre categorie sopra indicate (ad es. tra i disoccupati che non abbiamo lavorato da almeno due anni e che desiderino riprendere una attività lavorativa).
Un secondo tipo di incentivo economico può essere ravvisato nel cd. salario d’ingresso o altrimenti definito sottoinquadramento. Il datore di lavoro ha la facoltà di inquadrare il lavoratore in una categoria inferiore non più di due livelli rispetto a quella spettante in applicazione del contratto collettivo nazionale, ai lavoratori addetti a mansioni o funzioni richiedenti qualificazioni corrispondenti a quelle al cui conseguimento è preordinato il progetto di inserimento oggetto del contratto.
Questo norma ha ricevuto numerose critiche dalla dottrina, in specie da coloro che non hanno ravvisato nel contratto di inserimento un contratto a causa mista; ci si è chiesti, infatti, come si possa giustificare la disparità di trattamento salariale in assenza di attività formative (Minervini, A., op. cit., 1189 e ss.; Garofalo, D., op. cit. 1957; D’Onghia, M., op. cit., 291,).
Il sottoinquadramento è stato oggetto di critiche particolarmente penetranti in riferimento alla categoria delle donne di qualsiasi età prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi e residenti in un’area geografica con alto divario tra tassi di occupazione e disoccupazione di maschi e femmine, in quanto ritenuto a rischio di censura a livello comunitario come discriminazione di genere (Minervini, A. op. cit., 1189 e ss.). In effetti, la categoria sociale qui considerata (quella di cui all’art. 54, co. 1, lett. e) è risultata, specie nella prima versione, talmente ampia da includere tutte le donne italiane. Il rischio che si è palesato è dunque quello di dare vita ad una misura con effetti prevalentemente discriminatori (più che di sostegno) nei confronti delle donne. Alla luce di queste considerazioni, nel 2005 le donne sono state escluse dal sottoinquadramento, salvo diversa previsione dei contratti collettivi nazionali o territoriali (art. 59, co. 1, modificato dall’art. 1 bis del d.l. 14.3.2005, n. 35 conv. con mod. dalla l. 14.5.2005, n. 80); va peraltro segnalato che questa modifica non è apparsa sufficiente, tanto è vero che il Parlamento, in una legge delega del 2007 (peraltro non esercitata), ha delegato il Governo a ridefinire la disciplina del contratto di inserimento nel rispetto dei divieti di discriminazione per ragione di sesso e di età (v. art. 1, co. 32, lett. c), l. 24.12.2007, n. 247).
Per quanto riguarda i vantaggi di carattere normativo, va ricordato che secondo il decreto legislativo in esame, gli assunti con contratto di inserimento, fatte salve specifiche previsioni di contratto collettivo, non sono computabili ai fini del superamento di eventuali limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative ed istituti.
Inoltre, è opportuno tenere in considerazione che, al tempo dei provvedimenti qui esaminati, anche la durata prefissata del contratto poteva rappresentare un incentivo visto che, al momento di entrata in vigore del d.lgs. in esame, il d.lgs. n. 368/2001 circoscriveva la facoltà di apposizione del termine al contratto di lavoro alla sussistenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.
Art. 2, l. 14.2.2003, n. 30; artt. 54-59 bis d.lgs. 10.9.2003, n. 276; artt. 12, co. 1, e 13 co. 1, d.lgs. 6.10.2004, n. 251; art. 1 bis, co. 1, lett. c), d.l. 14.3.2005, n. 35 conv. con mod. dalla l. 14.5.2005, n. 80; art. 1, co. 32, lett. c), l. 24.12.2007, n. 247; art. 8, co. 1, d.l. 13.5.2011, n. 70; art. 22, co. 3, l. 12.11.2011, n. 183; art. 1, co. 14, l. 28.6.2012, n. 92.
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