Contrattualismo
L'idea di contratto o accordo ha avuto un ruolo centrale nel pensiero politico occidentale in due importanti momenti storici e in relazione a due questioni fondamentali. Il primo momento è identificabile con gli inizi della moderna riflessione giusnaturalistica, quando l'idea di un contratto fu utilizzata come strumento intellettuale primario per analizzare i fondamenti, l'ambito e i limiti dell'obbligazione politica, ossia del dovere da parte dei sudditi di obbedire alle autorità costituite della comunità politica alla quale essi appartengono. Nel secondo periodo, nella filosofia politica americana degli ultimi tre decenni, la nozione di contratto è stata invece utilizzata soprattutto per analizzare secondo quale modello di giustizia fossero distribuiti i costi e i benefici derivanti dall'appartenenza alla società. Il ponte, sia pur precario, tra queste due preoccupazioni è stato costruito nel XVIII secolo dal filosofo tedesco Immanuel Kant.
Sullo sfondo del primo di questi due momenti storici vi era l'eredità sociale e culturale dell'Europa medievale. La componente sociale di questa eredità era rappresentata dalle relazioni gerarchiche presenti nel feudalesimo europeo, fondate su una profonda dipendenza dall'impegno reciproco (il giuramento di fedeltà personale) e sull'accentuata importanza attribuita alla virtù sociale della fedeltà (fides). I fattori culturali di questa eredità erano decisamente più complessi, ma riflettevano almeno due istanze profonde: la fiducia, di origine greca, nel potere critico della ragione umana, e la convinzione cristiana dell'importanza dell'intenzione e della coscienza umane e dell'eguaglianza delle singole anime. Nel corso degli ultimi sette secoli la costante pressione intellettuale di questi fattori culturali ha eroso in misura sempre maggiore la saldezza gerarchica del contesto sociale molto diverso nel quale tali fattori cominciarono a far sentire congiuntamente il proprio influsso. La spinta egualitaria del cristianesimo e del razionalismo critico ha minato i fondamenti ideologici della gerarchia feudale e ha lasciato ai moderni beneficiari delle ineguaglianze sociali, economiche e politiche il compito di giustificare i loro poteri e privilegi attraverso una gamma di argomentazioni strumentali sempre più ambigue e sempre meno plausibili (v. Unger, 1987). Nel corso dell'ultimo secolo l'influsso di tale spinta egualitaria si è esteso molto al di là dei limiti territoriali all'interno dei quali il cristianesimo si era affermato di fatto come dottrina religiosa predominante. Nella maggior parte dei paesi del globo il criterio formale dell'eguaglianza politica, per quanto disatteso nella pratica, non viene al giorno d'oggi più messo apertamente in discussione (v. Dunn, 1979, cap. 1). Ma il criterio concreto dell'eguaglianza economica non può essere riconosciuto in maniera puramente formale, e l'ineguaglianza economica si è rivelata pertanto un antagonista ideologico decisamente più forte. Un ordinamento costituzionale che garantisca le libertà civili e un governo rappresentativo scelto sulla base del suffragio universale costituisce un'interpretazione convincente (sebbene insufficiente) dei requisiti necessari per sottomettere il potere politico alla volontà e alla ragione individuali. Ma quella forma molto attenuata di egualitarismo economico propria dello Stato assistenziale occidentale o dei regimi comunisti rappresenta un'interpretazione assai meno valida dei requisiti necessari per sottoporre la distribuzione economica al medesimo criterio; e, comunque, la compatibilità di entrambi i sistemi con le condizioni di un effettivo sviluppo economico è tuttora posta seriamente in discussione in tutto il mondo, sia nella teoria sia nella pratica (v. Dunn, 1990). Non esiste alcun metodo moderno convincente per stabilire fino a che punto il processo economico può in linea di principio essere sottomesso al volere o alla scelta umani: esistono invece numerose esperienze pratiche che dimostrano come esso opponga un'ostinata resistenza a tale sottomissione.
L'idea di sottomettere l'autorità politica e l'allocazione delle risorse economiche al criterio normativo rappresentato da un contratto o da un accordo è un progetto ambizioso e storicamente importante, che ha assunto una notevole varietà di forme e ha avuto un successo intellettuale e un'influenza politica assai diversi. Dopo un lungo intervallo, tale progetto è recentemente riapparso al centro del dibattito teorico sul significato della politica moderna ed è probabile che nel futuro conservi tale centralità ancora per un certo tempo. Non è possibile giungere a una coerente comprensione o a un'accurata valutazione di tale fenomeno senza prestare la dovuta attenzione alla sua variegata e intricata storia.
La nozione di contratto o accordo è stata applicata alla società e alla politica in due modi ampiamente diversi: in forma categoriale (o storica, come si dice talvolta) e in forma ipotetica. L'applicazione categoriale è stata utilizzata al fine di fornire una spiegazione storica dell'esistenza stessa delle relazioni sociali umane e per analizzare il carattere essenziale di queste relazioni. Perché mai esistono le società umane? Perché l'uomo è un animale sociale? Che cosa spinge gli esseri umani a vivere in associazione con altri esseri umani e, nella maggior parte dei casi, a vivere come membri di gruppi sociali più ampi di quello della famiglia nucleare? Come devono essere interpretate le relazioni tra gli esseri umani e questi gruppi sociali più ampi all'interno dei quali gli uomini trascorrono la loro esistenza? Nella classica teoria giusnaturalistica del contratto sociale, erano proprio queste strutture di ampia cooperazione a venir considerate come il vero contratto sociale (pactum societatis). Ma la nozione di contratto o accordo è stata anche utilizzata categorialmente per fornire una spiegazione storica dell'esistenza del governo e per chiarire, in base a questa spiegazione, i doveri e i diritti politici delle persone sottoposte alla sua autorità. Perché mai esistono i governi? Perché l'uomo è un animale politico? Che cosa spinge gli esseri umani a sottomettersi (o fa sì che si trovino sottomessi) all'autorità organizzata di sovrani o di governi? Come devono essere interpretate in ultima analisi le relazioni tra gli esseri umani e coloro che li governano? Nella dottrina giusnaturalistica classica questa seconda applicazione della nozione di accordo (talvolta del tutto distinta dalla prima) veniva definita patto di sottomissione politica (pactum subjectionis). In maniera meno ambiziosa, la nozione di contratto o accordo è stata inoltre applicata ampiamente nella storia dell'Europa cristiana e post-cristiana alle relazioni di diritti e doveri tra particolari governi e i loro sudditi, solitamente con l'intenzione esplicita di ridurre la sfera di arbitrarietà del potere governativo e di renderlo in certa misura responsabile rispetto ai governati.
Nella sua forma ipotetica l'idea di contratto è ovviamente assai meno adatta a fornire una spiegazione causale o storica dell'esistenza delle società o dei sistemi politici umani. Diversamente da quanto avviene nell'uso categoriale o storico di questa nozione, tuttavia, i contratti ipotetici non traggono la propria forza dall'accettazione di una struttura legislativa universalmente valida antecedente a qualunque pratica o progetto umano particolare, né si fondano su rivendicazioni concernenti il passato, controverse e spesso altamente improbabili. Questo tipo di contratto è pertanto decisamente più facile da conciliare con i canoni della moderna scienza storica o con le ipotesi scientistiche delle moderne scienze sociali, quali la sociologia, l'economia o la scienza politica. Di conseguenza, nella recente rinascita della dottrina contrattualista, la nozione di contratto è stata interpretata quasi unicamente in via ipotetica, ossia non come un fatto storico bensì, per usare l'espressione di Kant, come "un'idea della ragione". Questo assunto di base ha inoltre spinto i suoi fautori ad energici (e talvolta illuminanti) sforzi tesi a fornire una nuova interpretazione dei grandi teorici contrattualisti del XVII secolo, quali Ugo Grozio, Thomas Hobbes e John Locke, come se essi stessi avessero una visione puramente ipotetica della natura e dello status dei contratti che propugnavano. Il contratto sociale nella sua forma ipotetica ha come scopo precipuo di ricercare quali siano i tipi di assetto sociale, economico e politico accettabili con valide ragioni dagli esseri umani. Fondandosi su valutazioni di questo genere, la dottrina contrattualista ha fino ad oggi fornito motivi per criticare e rifiutare oppure per giustificare e difendere pressoché qualunque ordinamento che l'uomo sia riuscito ad attuare.
Sia l'utilizzazione categoriale sia quella ipotetica della nozione di contratto o accordo si sono nel tempo dimostrate straordinariamente elastiche per quanto concerne le implicazioni sociali e politiche, e non è difficile comprenderne la ragione. Si potrebbe infatti ragionevolmente pensare che (a parità delle altre condizioni) un accordo o un contratto storico rendano legittimo qualunque ordinamento umano che i membri di una specifica società si trovino a credere abbia avuto origine o sia stato successivamente ratificato da un accordo di tal tipo. D'altro canto, si potrebbe ragionevolmente pensare che un accordo o un contratto ipotetico (a parità delle altre condizioni) rendano legittimo qualunque ordinamento umano sul quale i membri di una specifica società ritengano che avrebbero potuto liberamente convenire in circostanze appropriate. Dal momento che i giudizi sulla plausibilità storica o sulla validità morale sono raramente unanimi in qualunque società in cui la legittimità di una specifica pratica sociale o politica sia stata messa in discussione, risulta difficile utilizzare l'interpretazione storica o quella ipotetica del contratto sociale per qualsiasi seria discussione, capace di portare a risultati conclusivi. Sia la chiarezza e la determinatezza del fatto storico, sia l'universalità e la forza teorica dell'"idea della ragione" si devono adattare, quanto meglio possono, alle stravaganze delle credenze umane riscontrabili nell'ampia gamma di società di cui siamo ora a conoscenza. Il problema più importante riguardo alla nozione di contratto o accordo nell'intendimento politico moderno è se questa nozione possa di per sé ratificare o confutare lo status normativo di qualunque ordinamento umano la cui validità non sia già autonomamente riconoscibile. La nozione di contratto o accordo è semplicemente uno strumento non essenziale per stabilire dei concetti di valore indipendenti da tale nozione? Oppure rappresenta effettivamente un mezzo preciso di valutazione o un criterio autonomo di giudizio critico?
La maggior parte delle comunità umane attribuisce una certa importanza al fatto che i propri membri condividano un insieme di valori comuni. È tuttavia in Europa, a partire dall'antica Grecia, che l'idea secondo cui l'accordo fra gli esseri umani ha un'importanza centrale per la comprensione, la spiegazione o la giustificazione della società o del governo è stata analizzata in modo articolato e penetrante. La vita politica della polis greca, in particolare nella sua forma democratica, dipendeva direttamente dalla discussione pubblica nell'assunzione delle decisioni politiche più importanti. Ciò portò a straordinari sviluppi intellettuali in molti e diversi campi: la matematica, la scienza naturale, la logica e l'analisi dell'argomentazione (v. Lloyd, 1979). Ne furono, inoltre, favorite una sistematica indagine critica sulla natura dei valori umani e quella che alcuni storici hanno indicato come l'invenzione della politica stessa (v. Finley, 1983). I pensatori greci dibatterono a fondo la questione della misura in cui la società, la legge e il governo umani fossero prodotti di scelte e convenzioni umane (νόμοϚ) piuttosto che una necessità naturale (σύδιϚ). Scopo principale della filosofia morale e politica di Platone era quello di difendere la validità razionale dei valori morali contro il convenzionalismo e lo scetticismo morale di sofisti come Glaucone e Trasimaco. Tuttavia nel suo allievo Aristotele troviamo una visione meno sprezzante del significato politico dell'accordo tra gli esseri umani. Secondo Aristotele, ciò che rende unica la posizione dell'uomo tra gli animali è la sua percezione del bene e del male, della giustizia e dell'ingiustizia e la sua capacità di esprimere e approfondire questa percezione attraverso la parola (Aristotele, Pol., 1253a). È l'esperienza condivisa di questi valori quel che fa della polis ciò che essa è. Al di fuori di queste esperienze ed impegni comuni un essere umano risulta drammaticamente monco nella sua natura e nel suo significato, come una mano mozzata o una pedina al di fuori della scacchiera nel gioco della dama (ibid.). Gli esseri umani non sono per natura spinti a vivere in una polis. Forme di associazione precedenti e più primitive, di tipo sessuale, familiare o monarchico, hanno tutte origine dalla natura e dal bisogno umano (ibid., 1252a-b). Solamente nella polis però gli uomini possono realizzare pienamente le proprie caratteristiche più tipicamente e mirabilmente umane: è questo il motivo per cui l'uomo è per natura un animale politico. Per Aristotele l'associazione politica è il risultato trionfale dell'intelligenza umana: essa ha origini puramente convenzionali, ma risponde a molte delle necessità più profonde della natura umana. L'Etica Nicomachea e la Politica di Aristotele offrirono l'analisi più approfondita dell'esperienza politica greca.
La più significativa interpretazione data dal mondo greco della rilevanza politica dell'accordo tra gli uomini si trova tuttavia in un breve dialogo di Platone, il Critone. In quest'opera il maestro di Platone, Socrate, espone le ragioni per le quali egli deve accettare la condanna a morte inflittagli dai giudici della sua città natale, Atene, sebbene consideri assolutamente ingiuste le motivazioni del verdetto. Le sue argomentazioni costituiscono l'espressione a tutt'oggi più semplice ed eloquente della tesi secondo cui il dovere di obbedire all'autorità di una libera comunità è assoluto. L'obbligazione politica - egli sosteneva - è innanzitutto un obbligo di gratitudine per i benefici ricevuti; vi sono tuttavia due ulteriori motivi per cui i cittadini ateniesi hanno il dovere di obbedire alle leggi. Il primo è rappresentato dal diritto, di natura essenzialmente pratica, di ciascun cittadino di lasciare la città portando con sé tutte le sue proprietà. Chiunque scelga di rimanere ad Atene "ha, per il fatto stesso di rimanere, accettato" le leggi qualunque cosa esse gli richiedano di fare (Platone, Crit., 51d-e). Atene, in quanto comunità libera e democratica, dava ad ogni cittadino la possibilità di convincere la comunità stessa a modificare qualunque legge ritenuta erronea (ibid., 51e-52a). Socrate stesso aveva scelto con particolare determinazione di essere un cittadino ateniese, decidendo di vivere nel modo in cui era vissuto e formando una famiglia all'interno della città. Sarebbe stato vergognoso abbandonarla ora.
La convinzione che l'obbligo dei membri verso la comunità di appartenenza fosse più profondo e più sacro perfino dei doveri verso i genitori ed i parenti era assai comune nell'antica Grecia, così come in molte altre civiltà. Altrettanto diffusa era l'interpretazione di quest'obbligo come dovere di gratitudine per i benefici ricevuti. Un moderno filosofo inglese del diritto, Herbert Hart (v., 1955), ha ripreso questa interpretazione nella forma meno 'devota' e più stringente di un dovere di lealtà verso gli altri membri della comunità. Tuttavia l'efficacia della concezione dell'obbligazione politica esposta nel Critone non dipende tanto dalla descrizione dell'atteggiamento di Socrate verso i doveri della vita morale, quanto da due precondizioni cruciali che consentono di considerare il suo rapporto con le leggi di Atene come una consapevole accettazione: innanzitutto il fatto che Socrate aveva avuto effettivamente nell'arco di molti decenni ogni possibilità di lasciare Atene con tutto ciò che possedeva e di ricominciare una vita altrove; e in secondo luogo, il fatto che le istituzioni politiche di Atene concedevano ai cittadini (di sesso maschile, ovviamente) la piena facoltà di sostenere le proprie tesi nell'Assemblea sovrana al fine di mutare qualunque legge essi disapprovassero. È quantomeno dubbio, a dir poco, che queste possibilità siano offerte in qualsiasi Stato moderno alla maggioranza della popolazione adulta.
Il cuore della società feudale europea nella sua forma classica era costituito da un unico tipo di relazione: il legame personale di subordinazione feudale del vassallo verso il proprio signore. Con l'atto di omaggio il vassallo si impegnava a fornire aiuto e servigio al proprio signore in cambio di protezione da parte di quest'ultimo, suggellando il proprio impegno fisicamente "con la mano e con la bocca" e consacrando con un giuramento il dovere di fedeltà che ne conseguiva (v. Bloch, 1939-1940). Si trattava di uno scambio sub condicione di obbedienza da una parte e protezione dall'altra, garantito da una promessa vincolante: un vero e proprio contratto bilaterale, annullato dall'inadempienza di una delle due parti contraenti. Come ha osservato il grande storico dell'età feudale Marc Bloch (ibid.), era inevitabile che questa concezione con l'andar del tempo venisse trasferita nella sfera politica e che la sua influenza in questa sfera risultasse immensa.
Qui essa confluì con un insieme composito di concezioni di diversa origine che sottolineavano come l'importanza dell'accordo tra gli uomini fosse essenziale per una valida comprensione dell'autorità politica. Alcune di queste concezioni provenivano direttamente da autori dell'antichità classica: l'affermazione di Cicerone, secondo cui un autentico ordine politico (civitas) è essenzialmente un'associazione di uomini basata sulla legge, è riecheggiata nel De civitate Dei di Agostino, mentre la Politica di Aristotele esercita un influsso sulle opere di Tommaso d'Aquino. Altre concezioni traevano origine dall'eredità del diritto romano, secondo l'interpretazione datane dai giuristi medievali civilisti e canonisti. Il principale testo di diritto civile era costituito dalla presunta Lex regia, in base alla quale si riteneva che il popolo di Roma, trasferendo liberamente all'imperatore il proprio diritto a governare, gli avesse conferito tutto il potere e l'autorità di cui godeva (v. Gierke, 1880). Già nel XII secolo era divenuto un luogo comune nel diritto civile europeo la tesi secondo cui questo atto di alienazione costituiva ancora il fondamento dell'autorità della legge dell'Impero. Se ne ricavava l'ovvia deduzione che qualunque rivendicazione di autorità politica per essere valida dovesse essere in ultima analisi riconducibile, in qualunque luogo, al consenso dei governati. La pretesa da parte del papato di derivare la propria autorità sulla Chiesa da Dio stesso senza mediazioni rappresentava uno dei maggiori ostacoli alla possibilità di considerare la Chiesa semplicemente come un'associazione volontaria di individui, che traeva la propria autorità sui singoli membri dalla loro sottomissione volontaria. Ma il complesso e delicato equilibrio tra potere ecclesiastico e potere civile nelle società medievali e la varietà e complessità delle istituzioni ecclesiastiche stesse sollecitarono approfondite indagini riguardo ai principî di organizzazione legittima anche all'interno della Chiesa (v. Tierney, 1982). Nel corso di queste indagini i canonisti trasformarono i più minuti tecnicismi del diritto privato romano in principî di legittimità politica di ampio respiro. La massima quod omnes tangit ab omnibus approbetur (ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti), una norma del diritto privato concernente la co-tutela, già agli albori del XIII secolo era stata trasformata dai decretisti in una giustificazione dell'autorità dei concili generali della Chiesa sul papa stesso. Nel corso del secolo successivo essa servì a motivare la convocazione di corpi rappresentativi civili nei vari regni, dalla Sicilia all'Inghilterra (ibid., pp. 24-25). Nel tardo Medioevo essa fu ancora utilizzata come principio manifestamente valido dell'ordine politico da pensatori in verità assai differenti l'uno dall'altro, come Guglielmo di Ockham, Marsilio da Padova e Nicolò Cusano.
Già nel 1085 il monaco alsaziano Manegoldo di Lautenbach, scrivendo in difesa di papa Gregorio VII contro i sostenitori dell'imperatore che avevano saccheggiato il suo monastero, sostenne con veemenza che un governante tirannico merita di essere deposto e che "il suo popolo si affranca dal suo dominio e dalla sua signoria quando risulta evidente che il governante per primo ha rotto il patto (pactum) in virtù del quale era stato designato". In queste condizioni, come avrebbe affermato John Locke seicento anni dopo (v. Locke, 1960, II, pp. 226-227), è il governante, non i suoi sudditi, a non aver tenuto fede al patto. Deporre un tale monarca è una cosa del tutto appropriata, giusta e ragionevole, esattamente come lo sarebbe per un datore di lavoro rimproverare e licenziare un guardiano di porci che avesse rubato o trascurato i maiali a lui affidati, senza neppure dargli la sua mercede (v. Lewis, 1954, vol. I, pp. 164-165; v. Gierke, 1880).
Manegoldo era impegnato a difendere l'autorità del papa contro l'imperatore negli aspri conflitti della lotta per le investiture. Ma l'importanza politica del consenso come fondamento dell'autorità del governo fu ben presto sostenuta da autori di tendenze decisamente più secolari. Il grande civilista bolognese Azzone tra il XII e il XIII secolo interpretò la Lex regia non semplicemente come l'espressione formale di un'autorità popolare permanentemente alienata all'imperatore, bensì come la prova che i diritti politici erano sempre prerogativa del popolo. Il popolo - affermò Azzone - "non ha mai trasferito questo potere se non in maniera tale da essere in grado nello stesso tempo di mantenerne il possesso" (v. Skinner, 1988, p. 393). Solo in quanto singoli individui le persone che costituiscono il popolo hanno rinunciato al proprio potere legislativo: esse tuttavia, come un tutto corporato (una universitas), conservano questo potere anche nei confronti dell'imperatore stesso (ibid., p. 394). Azzone elaborò apertamente questa teoria come giustificazione dell'autorità politica autonoma di regni d'Europa quali l'Inghilterra o la Francia e dell'indipendenza politica dei Comuni italiani. Alcuni commentatori posteriori della Lex regia, quali Bartolo di Sassoferrato nel XIV secolo (v. Skinner, 1978, vol. I, pp. 62-65) e il patrizio romano Mario Salamonio all'inizio del Cinquecento (ibid., vol. I, pp. 148-152 e vol. II, pp. 131-134), ribadirono, sviluppandola, la medesima conclusione. Secondo Bartolo i cittadini di un Comune indipendente "eleggono il proprio princeps" e qualunque potere giurisdizionale esercitato dai loro governanti o magistrati "viene loro soltanto delegato (concessum)" (ibid., vol. I, p. 62). E affinché la delega sia assolutamente valida, la giurisdizione "deve sempre essere trasferita volontariamente" (ibid., p. 63).
Allorché nel Cinquecento la Riforma frammentò la Chiesa d'Occidente in numerosi pretendenti all'ortodossia religiosa in competizione tra loro, queste concezioni medievali e rinascimentali della sovranità popolare furono applicate in maniera decisa alla pratica politica. Nelle guerre di religione del XVI secolo il dovere (e poi, a tempo debito, il diritto) di opporre resistenza ad autorità politiche ingiuste in nome di profonde convinzioni religiose divenne una questione di primaria importanza, in particolare in Germania, Francia, Scozia e Paesi Bassi. È fra i consiglieri legali dei due principali Elettori luterani, Filippo d'Assia e Giovanni di Sassonia, che le teorie costituzionaliste dei commentatori del diritto civile furono utilizzate per la prima volta al fine di giustificare la resistenza dei principi protestanti nei confronti di un imperatore cattolico che essi ritenevano aver violato i doveri del proprio incarico e essersi pertanto ridotto al livello di privato cittadino (v. Skinner, 1978, vol. II, pp. 194-206). Lo stesso Lutero, sebbene avesse inizialmente insistito sul dovere dell'obbedienza passiva, decise di sostenere la norma di diritto privato che autorizzava a respingere la forza con la forza, e Filippo Melantone e Martino Bucero ripresero tale teoria, elaborandola ulteriormente.
I teologi calvinisti in prima istanza trovarono più difficile ripudiare il dovere dell'obbedienza passiva che essi, al pari dei luterani, avevano dedotto dalla Lettera ai Romani di San Paolo: "I poteri che esistono sono istituiti da Dio" (Rom. 13, 1). Ma la situazione disperata degli ugonotti francesi di fronte alla forza repressiva di una monarchia ortodossa e sempre più assolutista ben presto stimolò anche un'indagine più approfondita sulle potenziali giustificazioni della ribellione. Furono i principali teorizzatori ugonotti della resistenza, i famosi monarcomachi François Hotman, Philippe Duplessis-Mornay e Theodore Beza, che scrivevano negli anni settanta del XVI secolo, nel periodo immediatamente successivo al massacro della notte di San Bartolomeo, a trasformare per primi una concezione contrattualista dell'origine dell'obbligazione politica in una compiuta dottrina del diritto di resistenza contro governanti ingiusti (v. Skinner, 1978, vol. II, pp. 323-337).
La Franco-Gallia di Hotman, pubblicata nel 1573, asseriva la totale sottomissione della Corona francese, in ultima istanza, alla volontà politica del popolo, espressa dalle decisioni investite d'autorità dei tre stati (ibid., pp. 312-313). Con l'ampolloso stile 'storico' in uso tra i giuristi francesi, Hotman sviluppò la propria tesi sotto forma di una storia della nazione francese dalle sue origini franche in poi, e affermò che, poiché gli stati e il popolo avevano originariamente conferito la corona, essi conservavano il pieno potere non solo di trasferirla ma anche di chiederla in restituzione quando lo ritenessero opportuno (ibid., p. 312; v. Hotman, 1972, pp. 234-252). Nell'opera di Theodoro di Beza Il diritto dei magistrati sopra i sudditi (1574) e nelle famose Vindiciae contra tyrannos (1579) di Philippe Duplessis-Mornay troviamo la versione più compiuta della dottrina calvinista della resistenza. Il diritto di resistenza da parte del popolo trae origine, secondo la loro concezione, da due fonti assai differenti. Deriva in primo luogo dai doveri imposti dal patto o giuramento sacro (foedus) che i sudditi e i propri governanti hanno stretto, indipendentemente gli uni dagli altri, con Dio stesso (v. Skinner, 1978, vol. II, pp. 325-326 e 331-332). Il dovere da parte del popolo di tenere fede a questo patto di fronte a violazioni dei governanti era già stato indicato come giustificazione di un'azione rivoluzionaria dal calvinista inglese Christopher Goodman e dal leader dei calvinisti scozzesi John Knox. Nell'opinione di Beza e di Duplessis-Mornay, tuttavia, il diritto di resistenza da parte del popolo trae anche origine dal contratto (pactum) con il quale il popolo instaura un ordine politico appropriatamente costituito e conferisce il potere regio al proprio monarca. I termini di questo contratto stabiliscono i doveri del re in quanto ministro dell'ordine politico (servus reipublicae: ibid., p. 333) e subordinano la sua autorità a quella degli altri magistrati, di livello inferiore, i quali analogamente traggono la propria autorità dal vero detentore di essa, il popolo stesso, e hanno fatto anch'essi un solenne giuramento impegnandosi a proteggere e difendere il popolo contro la tirannide e l'oppressione, sia interna sia straniera (ibid., p. 335). Considerati come singoli individui, il popolo e i suoi magistrati rimangono certo subordinati al proprio monarca legittimo; ma considerati collettivamente essi gli sono in maniera altrettanto incontestabile giuridicamente superiori.Una rivendicazione ancora più decisa del diritto del popolo di opporre resistenza a governanti ingiusti fu elaborata dall'umanista scozzese George Buchanan nella sua opera De jure regni apud Scotos, pubblicata nel 1579. La peculiarità di Buchanan consiste nel fatto che egli ignora il patto religioso e interpreta il contratto che dà vita all'autorità governativa in termini assai più individualistici dei suoi correligionari francesi. Gli esseri umani, prima di instaurare il governo, vivevano una vita solitaria ed errabonda. L'atto di instaurazione del governo fu un semplice contratto stretto tra il governante prescelto e il popolo nel suo insieme. Pertanto, il popolo nel suo insieme (e non soltanto i magistrati inferiori che agivano in suo nome) aveva il diritto di "scrollarsi di dosso" l'autorità di un governo ogniqualvolta lo ritenesse opportuno. Di conseguenza, il diritto di uccidere o deporre un tiranno spetta in tutte le occasioni "non soltanto all'intero corpo del popolo" ma "anche a ciascun singolo cittadino considerato individualmente" (ibid., p. 343). Due decenni più tardi, la medesima teoria radicalmente individualistica sull'origine della società politica fu sostenuta dal cattolico spagnolo Juan de Mariana nella sua opera De rege et regis institutione. Al pari di Buchanan, Mariana trasse da questa dottrina la conseguenza che anche la singola persona privata (cuicumque privato) aveva ogni diritto di punire un tiranno in nome dei suoi concittadini lesi.
Fu tuttavia nel Seicento che la tesi secondo la quale il fondamento dell'autorità politica va inteso nei termini di un contratto o accordo fu elaborata nella maniera più completa e significativa. Numerosi pensatori politici, i tedeschi Giovanni Altusio e Samuel von Pufendorf, l'olandese Ugo Grozio e il suo compatriota ebreo Benedetto Spinoza, gli inglesi John Selden, Thomas Hobbes e John Locke, incentrarono le proprie interpretazioni della politica sull'idea di un trasferimento volontario del potere e della libertà dai singoli membri di una società all'autorità sovrana. Le teorie che essi edificarono su questa base comune assunsero forme nettamente diverse e portarono a conclusioni politiche decisamente contrastanti. Alcuni autori, come Selden e Hobbes, sostennero che la libertà e l'eguaglianza naturali presenti inizialmente tra gli uomini venivano alienate totalmente e permanentemente con l'instaurazione della società politica. Altri autori, come Altusio e Locke, negarono che gli uomini avessero mai posseduto il diritto di alienare incondizionatamente la propria libertà ed eguaglianza, e affermarono che essi non potevano mai avere avuto una motivazione sufficiente a indurli a compiere una tale alienazione e che non era lecito pertanto ipotizzare che lo avessero fatto. Altri ancora, come Spinoza, conclusero che l'idea stessa di un contratto costituisse in ultima analisi un elemento superfluo e apportatore di confusione nella struttura delle loro teorie. Tuttavia, anche Spinoza mantenne ferma la nozione di un trasferimento volontario del potere naturale da parte dei singoli individui come fondamento pratico dell'autorità politica, e il modello di una "unione di spiriti" (animorum unio) come caratteristica centrale di uno Stato.
L'elemento innovativo di maggior rilievo apportato dalle dottrine del XVII secolo alla comprensione della legge di natura riguardava il carattere dei diritti che gli uomini posseggono in virtù di quella legge: i loro diritti naturali (v. Tuck, 1979). Grozio, Selden, Hobbes, Spinoza, Pufendorf, Locke elaborarono dottrine che fondavano l'autorità politica sulla cessione di una parte variabile di questi diritti, in determinate condizioni anch'esse variabili, come mezzo per mantenere la quantità di diritti più ampia possibile. Essi non interpretarono questi diritti in senso oggettivo (come azioni o stati di cose intrinsecamente leciti) bensì in senso soggettivo (come facoltà morali e libertà pratiche di cui i singoli individui godono per agire in determinati modi, e in particolare il potere che ciascun essere umano adulto ha di escludere altri da ciò che è veramente suo, dal proprio suum; v. Haakonssen, 1985). Interpretata in questo modo attraverso la categoria del diritto soggettivo, questa nuova versione della legge naturale continuò a ipotizzare un ordine naturale ideale, sebbene in termini sempre più minimali. Essa ricevette impulso principalmente da una combinazione di disagio intellettuale e preoccupazione politica. Il disagio intellettuale fu causato inizialmente da un pressante scetticismo morale, che affondava le proprie radici nella sempre maggiore consapevolezza della relatività culturale espressa nelle opere di autori quali Charron o Montaigne; ma fu rafforzato dallo scetticismo di natura più strettamente epistemologica dei grandi interpreti filosofici delle implicazioni della rivoluzione scientifica, fra i quali David Hume. La preoccupazione politica era originata dalla terribile esperienza di un secolo di fanatiche lotte religiose tra gli Stati europei e al loro interno. Essa culminò in due difese divenute classiche dell'imprescindibilità della pace per gli uomini, dal punto di vista internazionale nel De jure belli ac pacis (1625) di Grozio e dal punto di vista civile nel Leviatano (1651) di Hobbes.
Le due principali questioni teoriche che divisero i pensatori contrattualisti del XVII secolo furono il carattere delle facoltà e dei diritti naturali dei singoli esseri umani e la natura dell'entità politica creata attraverso il trasferimento sub condicione o l'abdicazione assoluta a queste facoltà o a questi diritti. Alcuni autori, in particolare Hobbes e Spinoza, identificarono i diritti individuali con le capacità fisiche individuali. Sulla base di questa identificazione essi trassero la conclusione che le relazioni naturali tra esseri umani fossero necessariamente di inimicizia e che la condizione dell'umanità in mancanza di un governo fosse uno stato di guerra. La necessità di un potere sovrano era pertanto drammaticamente urgente e i diritti dei governanti sui propri sudditi erano altrettanto assoluti. Altri autori, in particolare Locke, affermarono che la natura era governata dalla legge sovrana del suo divino Creatore, e che tutti i diritti di cui gli esseri umani godevano provenivano da quella stessa legge ed erano vincolati dalle sue prescrizioni e in particolare dal dovere di avere pacifici rapporti reciproci. La necessità di un governo tra gli uomini dipendeva dalle circostanze della loro associazione, e in ogni comunità economicamente sviluppata doveva necessariamente essere assai acuta. Ma anche nelle situazioni in cui i governi erano evidentemente indispensabili, i diritti del governante sui propri sudditi rimanevano fortemente limitati dalla legge di natura. Le nuove teorie giusnaturalistiche costituirono uno strumento efficace per analizzare la natura dell'autorità dei governi. Già nel Cinquecento Jean Bodin aveva formulato una rigorosa dottrina del potere sovrano per sancire le rivendicazioni assolutistiche della monarchia francese di fronte alla guerra civile di religione. All'inizio del XVII secolo il teologo domenicano spagnolo Francisco Suarez rispose alle teorie radicali della resistenza del secolo precedente con una dottrina egualmente drastica del trasferimento dei diritti dagli individui al governante (non est delegatio sed quasi alienatio: v. Skinner, 1978, vol. II, p. 183). Secondo Suarez, una comunità politica che agisse in difesa della propria integrità conservava tutti i diritti di resistere anche al proprio governante, poiché il diritto all'autoconservazione non poteva essere alienato volontariamente (ibid., pp. 177-178). Essa tuttavia conservava questo potere ultimo solo in quanto comunità politica costituita e poteva esercitarlo unicamente per difendere la propria integrità, mentre il governante, attraverso il contratto che instaurava inizialmente la sua autorità, acquisiva "un potere assoluto, che egli stesso ed i propri agenti potevano usare in qualunque maniera ritenessero opportuno", un potere non limitato da sanzioni legali (ibid., pp. 183-184). Inoltre, Suarez unì a questa vigorosa difesa del potere assoluto una sottile analisi di quelle caratteristiche peculiari degli agenti umani che li mettono in grado di creare in prima istanza un'autentica comunità politica. Uomini liberi e razionali capaci di dominare le proprie facoltà non costituiscono una mera aggregazione fortuita; essi rappresentano anche potenzialmente "un unico corpo mistico" capace, attraverso le proprie facoltà morali, di esercitare un "volere speciale o una volizione comune" e di accordarsi per formare "una singola totalità unificata" (ibid., p. 165).
La più energica difesa dell'autorità dello Stato intesa come un'unica volontà artificiale, creata dai singoli cittadini attraverso un'alienazione contrattuale del proprio diritto di giudizio, fu formulata da Thomas Hobbes. Nelle sue due opere principali, il De cive (1642) e il Leviatano (1651), Hobbes attaccò quelle che considerava le due maggiori fonti di faziosa dissidenza che minacciavano la stabilità politica dello Stato britannico. La prima era la nozione di libertà del cittadino concepito come agente politico libero e indipendente, ereditata dalla Grecia classica e da Roma. La seconda era l'insistenza con cui i protestanti sostenevano il diritto da parte di ciascun credente di interpretare in modo autonomo i doveri religiosi imposti dalle Sacre Scritture. Per Hobbes ciascuna di queste due potenti ideologie accentuava enormemente la già formidabile pericolosità dell'uomo per il proprio simile, insita nelle caratteristiche più fondamentali e ineliminabili della natura umana.Gli uomini perseguono la propria visione del bene e rifuggono quello che essi concepiscono come male. E soprattutto essi rifuggono quel sommo male che è la morte e sono costretti ad agire così in ogni situazione "per un certo impulso di natura, non minore di quello per cui una pietra cade verso il basso" (v. Hobbes, 1983, p. 47). A causa di questi irresistibili impulsi tutti gli uomini posseggono il diritto naturale di fare qualunque cosa ritengano possa proteggere nel migliore dei modi le loro vite, ed il conseguente diritto naturale ad ogni cosa che essi ritengano necessaria a tale scopo (ibid., I, 10, p. 47), perfino "il corpo di un altro uomo" (v. Hobbes, 1946, I, 14, p. 85). Poiché gli uomini sono spesso in conflitto riguardo all'oggetto dei propri desideri (beni materiali, onore, potere), e poiché non possono mai avere la certezza di realizzare tali desideri nel futuro, le relazioni naturali tra di loro sono profondamente ostili. Lo stato di natura è uno stato di guerra e in questo stato la vita umana non è solamente priva degli agi della civiltà, ma è anche dominata da un perenne timore e pericolo di morte violenta: essa è "solitaria, misera, sgradevole, brutale e di breve durata" (ibid., I, 13, p. 82). Hobbes ammette che questa situazione potrebbe non essere mai stata comune a tutti "in tutto il mondo"; essa rimaneva tuttavia tale nella maggior parte dell'America e tutti i sovrani indipendenti continuavano a fronteggiarsi in questa maniera (ibid., p. 83).
Al fine di fuggire questi pericoli gli uomini hanno bisogno della pace e per avere la pace necessitano di un governo. Essi posseggono un'unica risorsa fondamentale per instaurare un governo: possono obbligarsi volontariamente e razionalmente ad alienare la propria volontà ed il proprio giudizio individuali a favore di una singola volontà e di un singolo giudizio unificati, ossia a favore della ragione artificiale dello Stato, il Leviatano. Le società civili non sono mere associazioni: sono vincoli (v. Hobbes, 1983, I, 2, p. 44) fondati su contratti e sul mantenimento della parola data. Un contratto è una promessa reciprocamente vincolante di agire in futuro in una determinata maniera. La capacità di stipulare contratti è una facoltà naturale dell'uomo ed il dovere di onorarli (quando sono vincolanti) è un dovere naturale dell'uomo. Tuttavia i contratti sono vincolanti solo quando le singole parti contraenti ritengano che essi non pregiudichino la loro incolumità fisica. Le necessità proprie della natura umana svincolano gli individui da ogni obbligo sancito per contratto di subire la morte o lesioni fisiche (ibid., II, 18, p. 58). In assenza della pace e dell'efficace costrizione che la pace richiede, le passioni naturali faranno degli uomini parti contraenti totalmente inaffidabili. I patti "senza la spada sono soltanto parole, e non hanno assolutamente la forza di proteggere un uomo" (v. Hobbes, 1946, II, 17, p. 109).
Uno Stato è "una persona, la cui volontà, per l'accordo di molti uomini, deve essere accettata come volontà di tutti" (v. Hobbes, 1983, V, 9, p. 89). È soltanto attraverso il proprio potere sovrano (l'anima dello Stato) che questo possiede una volontà. Il sovrano è pertanto autorizzato ad esercitare la propria volontà e a giudicare in nome di ciascuno dei propri sudditi, e questi non hanno alcun diritto di discutere o di opporsi al suo giudizio su nessuna questione (nemmeno sui problemi più scottanti di interpretazione religiosa). Soltanto nel caso che rivolga un'immediata minaccia fisica a determinati individui, viene meno l'obbligo da parte di questi di obbedirgli e di sostenerlo. L'unione dei diritti naturali degli uomini è indispensabile per sostenere il potere coercitivo del sovrano; è tuttavia l'alienazione del proprio giudizio individuale la condizione più importante e gravosa per la creazione della società civile. Il patto che instaura il potere sovrano rappresenta un impegno reciproco che i suoi sudditi prendono di rinunciare ai propri diritti al giudizio individuale. Essi designano un'unica autorità che "sostenga la parte della loro persona": che li rappresenti esercitando la propria volontà e giudicando in nome loro. Essi autorizzano tutti gli atti successivi compiuti da questa autorità come fossero atti compiuti da loro stessi. Questo è qualcosa di più del "consenso o della concordia; è un'unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona" (v. Hobbes, 1946, II, 17, p. 112). Tale unità può nascere da un accordo volontario; ma può sorgere anche, in maniera ugualmente valida, attraverso la "forza naturale", con la conquista e la sottomissione dei popoli conquistati in cambio della possibilità per questi ultimi di avere salva la vita. Agli occhi di Hobbes non esiste la minima incongruenza tra paura e libertà. La pace è la necessità suprema dell'uomo. Soltanto il governo può soddisfare tale necessità, ed ogni governo effettivo ha pertanto il pieno diritto all'obbedienza dei propri sudditi. Il Leviatano evidenzia "la mutua relazione di protezione e obbedienza, di cui la condizione della natura umana e le leggi divine, sia naturali sia positive, richiedono un'inviolabile osservanza" (v. Hobbes, 1946, pp. 467-468).
Secondo Hobbes, quindi, in base a questa teoria tutti i sudditi sono pienamente obbligati ad obbedire in tutte le circostanze agli ordini di un'autorità politica effettiva, con l'unica eccezione del caso in cui vi sia una minaccia alla loro incolumità fisica. In questo caso l'obbligazione sancita dal contratto sul quale si fonda l'autorità politica vien meno, esattamente come in guerra può venire meno la forza coercitiva delle leggi di natura. È questo il motivo per cui nella dottrina di Hobbes, diversamente da quanto avviene in Grozio (v. Tuck, 1988, pp. 261-262), la paura fisica esime il criminale dall'obbligo di subire anche la più giusta delle punizioni. In ultima istanza, l'autorità politica umana è una risposta razionale all'irresistibile forza di motivazione della paura; essa si fonda di fatto su di una sistematizzazione del sentimento della paura, e la maniera migliore per comprendere il fine e i limiti di tale autorità consiste nel considerarli come le basi razionali di quel sentimento.Gli interpreti moderni di Hobbes hanno espresso opinioni estremamente divergenti sulla natura della sua teoria dell'obbligazione politica. Alcuni autori hanno visto in essa una classica teoria giusnaturalistica, secondo la quale le leggi di natura obbligano in senso deontologico gli esseri umani, in quanto sono autentiche leggi morali e forse perfino leggi del Dio della natura (v. Warrender, 1957). Altri autori hanno visto in essa una dottrina prudenziale meramente secolare, nella quale si sostiene il perseguimento degli interessi egoistici individuali e si cerca nel contempo di spiegare nella maniera più chiara possibile in che cosa consista tale interesse personale (v. Brown, 1965). Tuttavia, di recente, gli interpreti più interessanti hanno mostrato come il tentativo singolarmente deciso di Hobbes di affrontare le sfide dello scetticismo morale ed epistemologico abbia prodotto una teoria che non rientra in modo preciso in nessuno di questi due modelli (v. Tuck, 1988). La moderna scienza morale hobbesiana accoglie un elenco minimo di diritti e doveri universali identificabili in maniera sicura dalla ragione umana, profondamente radicati nelle passioni dell'uomo, ma in grado d'indirizzare tali passioni verso la pace, che costituisce l'esigenza più profonda degli uomini. L'obbligo di obbedire al sovrano, come tutte le relazioni vincolanti tra esseri umani, poggia su un impegno della volontà. Questa è però una verità logica concernente la natura dell'obbligazione, non una rivendicazione di natura storica riguardo alle origini dell'autorità governativa. Le leggi di natura obbligano gli uomini ad obbedire a governi instauratisi attraverso la conquista in maniera non meno chiara e precisa di quanto obblighino ad obbedire a governi nati dalle più attente e spassionate scelte umane. Il dovere categorico dell'obbedienza fa scomparire di fatto, per lo meno per quanto concerne i sudditi, qualsiasi altro valore o preferenza politica. Non sorprende quindi che gli interpreti posteriori abbiano trovato non del tutto convincenti le tesi di Hobbes (v. Hampton, 1986).
Hobbes riteneva essenziale che gli uomini alienassero completamente la propria volontà e il proprio giudizio a favore del sovrano, con l'unica eccezione dell'autoconservazione, ovvero del diritto alla vita. Ma nel XVII secolo altri autori contrattualisti dubitarono fortemente di potere o di dovere sostenere una posizione di questo genere. Gli autori che dubitarono di poter sostenere tale posizione (come Spinoza, la cui psicologia è sotto questo aspetto più coerente di quella di Hobbes) non consideravano necessariamente gli uomini come una minaccia naturale per i loro simili, a differenza di quanto avveniva nella visione hobbesiana. Gli autori invece che, come John Locke, ritennero di non dovere assumere quella posizione, erano chiaramente assai meno inclini ad attribuire soltanto al terrore esercitato dalla spada del magistrato la capacità degli uomini di coesistere pacificamente con i propri simili.
A differenza di Hobbes, Locke sviluppò l'idea di un contratto come fondamento dell'autorità statale non al fine di spiegare il fatto che gli uomini riuscissero a convivere pacificamente, bensì al fine di stabilire limiti chiari e precisi al grado di legittima sottomissione a qualunque governante umano. Le sue due opere fondamentali, i Due trattati sul governo e l'Epistola sulla tolleranza (pubblicate entrambe per la prima volta nel 1690) contengono la più efficace esposizione che sia dato trovare nel Seicento dei limiti dell'autorità che i governanti possono legittimamente esercitare sui diritti religiosi e secolari dei propri sudditi. Queste limitazioni sono imposte dalla legge divina del Creatore dell'universo e dalle particolari prescrizioni religiose della rivelazione cristiana. Secondo la legge di natura gli uomini hanno non solamente il diritto reciproco di fare il possibile per proteggere se stessi, ma hanno anche il dovere verso il proprio Creatore di agire in tal modo e di proteggersi vicendevolmente quanto meglio possono, nella misura in cui ciò non sia pregiudizievole della loro incolumità. La rivelazione cristiana impone loro il dovere ancora più alto e pressante di adorare il proprio Creatore così come essi ritengono che Egli desidererebbe, al fine di salvare le proprie anime dalla dannazione eterna. Dal momento che tale devozione richiede l'assoluta convinzione da parte del fedele, nessuna pratica religiosa imposta può salvare l'anima di un individuo; e nessun potere umano può mai avere il diritto di sancire quale debba essere il contenuto sostanziale della fede o del culto.Locke riteneva che il fondamento contrattuale dell'autorità politica fosse essenziale per una perfetta comprensione di queste due limitazioni. Sulla scia di Aristotele e del teologo anglicano Richard Hooker (e di san Pietro stesso, I Pet., 2, 13) Locke considerava l'autorità politica un'invenzione umana (ἀνθϱωπίνη ϰτίσιϚ), non un dato di fatto dell'ordine naturale del Creato (v. Locke, 1768⁷, p. 423). Nei suoi Due trattati sul governo egli non difende questa posizione contro Hobbes (che la condivideva in pieno), bensì contro l'assolutismo propugnato nel Patriarcha di sir Robert Filmer (che avversava recisamente tale impostazione). Secondo Locke, né l'autorità politica né la proprietà privata traevano origine dal dono dell'universo fatto da Dio ad Adamo, come ipotizzava Filmer, bensì dagli sforzi dei singoli uomini e donne per far fronte alle difficoltà insite in quel mondo che egli aveva donato agli esseri umani perché ne godessero in comune. Filmer aveva infatti accettato le conclusioni assolutistiche di Hobbes, sebbene avesse rigettato fermamente le motivazioni su cui Hobbes le aveva fondate. Egli aveva inoltre criticato l'uso da parte di Grozio della nozione di consenso universale dell'umanità per spiegare il diritto alla proprietà privata, presentandola come una finzione ridicola e incoerente. Come tutta risposta Locke si accinse a confutare le conclusioni politiche assolutistiche di Filmer, combinando questa confutazione con una spiegazione autonoma e più solida del diritto alla proprietà privata.Locke riteneva che la proprietà traesse origine dal lavoro umano - dall'impatto dell'intelligenza e degli sforzi dell'uomo sul mondo naturale. Nel tempo, con l'invenzione della moneta come mezzo di scambio, con la creazione di autorità politiche distinte e con la stabile suddivisione del mondo tra tali autorità, i diritti di proprietà erano mutati nel carattere e nella complessità strutturale. Tuttavia, come nel caso di altri diritti degli esseri umani all'interno dell'ordine naturale del creato, l'origine del diritto alla proprietà rimaneva indipendente dall'autorità politica e tale diritto non poteva mai essere semplicemente revocato a piacimento da quest'ultima.
Lo stato di natura non era per Locke, come lo era stato per Hobbes, una raffigurazione drammatica della vera natura degli esseri umani: era piuttosto un modello delle relazioni di diritto che vigono tra gli uomini sotto la legge di natura. Nella visione di Locke il carattere effettivo delle relazioni tra esseri umani al di fuori di un'autorità politica legittima poteva essere estremamente vario. Egli era ben lungi dal ritenere che tale carattere potesse essere desunto dalla nozione di stato di natura. Da tale nozione era possibile dedurre unicamente la natura e l'ambito dei diritti umani. A causa della loro parzialità, gli esseri umani possono certamente disputare, in qualunque momento della loro storia, sull'interpretazione dei propri diritti e doveri reciproci. Tali occasioni di contrasto aumentano tuttavia sorprendentemente con il passaggio da un'economia basata sulla caccia e la raccolta a un'economia fondata sull'agricoltura, su un artigianato raffinato e su un commercio internazionale basato sulla moneta. La moneta è un'invenzione umana, e il suo valore poggia unicamente su una convenzione. Grazie alla sua durevolezza e al fatto che può fungere da riserva permanente di valore, la moneta ha fornito l'elemento dinamico per la creazione di un sistema di produzione e di scambio completamente nuovo, aumentando straordinariamente la produttività della natura ma determinando nel contempo un massiccio incremento nell'appropriazione da parte dei privati dei beni naturali e in particolare della terra stessa, e accrescendo enormemente le diseguaglianze economiche e sociali tra le popolazioni e all'interno di esse. Questa appropriazione fu compatibile con i diritti naturali di ciascun individuo finché mantenne immutati i diritti derivanti dal lavoro dell'uomo e preservò lo scambio volontario dei prodotti, e finché non mise in discussione il diritto alla vita di alcun essere umano. Tale appropriazione rese tuttavia più acuta la minaccia della parzialità dell'uomo al punto di rendere una legittima autorità politica (ossia un insieme di leggi vigenti conosciute ed un potere preposto in maniera affidabile alla loro amministrazione e applicazione imparziale) non più un'istituzione utile in certe circostanze, bensì una necessità permanente. L'autorità politica in sé può essere fondata sul diritto oppure essere una mera questione di forza, e nella maggior parte delle nazioni questo secondo caso è il più frequente. Tuttavia, dove tale autorità ha avuto origine dal consenso di un gruppo di esseri umani e ha continuato ad agire in conformità agli scopi in vista dei quali era stata inizialmente instaurata, gli individui hanno verso di essa un preciso dovere di ubbidienza. I governi legittimi si distinguono da quelli illegittimi in quanto traggono origine dal consenso popolare; anche nei governi legittimi, tuttavia, l'obbligazione dei sudditi continua a poggiare sul consenso individuale alla loro autorità. Locke incontrò notevoli difficoltà nello spiegare come venisse di fatto espresso questo consenso, se per esplicita manifestazione o con una condotta deliberata che a buon diritto potesse apparire come una accettazione degli obblighi che ne derivano (v. Dunn, 1980, cap. 3). Ma risiedere nell'Inghilterra del XVII secolo per la maggior parte della popolazione era di certo un indice d'impegno assai meno convincente di quanto lo fosse per un cittadino dell'Atene di Socrate.
Le comunità politiche legittime (che Locke chiama "società civili") traggono la propria autorità dai loro sudditi e riconoscono a questi ultimi un incondizionato diritto di scelta e di azione politica. I governi che si rifiutano di riconoscere questi diritti non possono per definizione essere società civili. Tuttavia, anche la comunità politica più legittima, come la stessa Inghilterra, può perdere la propria legittimità qualora minacci tali diritti. L'insieme del popolo può allora decidere che il governo ha abusato del suo consenso e che i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e alla proprietà personale sono in pericolo. In questo caso tutto il popolo, ma anche singole persone che agiscano in suo nome possono riappropriarsi il diritto di attuare la legge del Dio della natura e proteggere se stessi e i propri concittadini quanto meglio possono dalla minaccia posta in essere dai governanti.
La teoria radicalmente whig di Locke può essere considerata la classica rivendicazione, di tipo contrattualista, del diritto di resistenza al potere ingiusto. Questa teoria fu sviluppata in maniera memorabile dai libellisti delle colonie d'America a sostegno della lotta per l'indipendenza americana. Tuttavia, nel secolo che seguì la morte di Locke, avvenuta nel 1704, il fatto che tale teoria fosse fondata su una concezione teocentrica della legge naturale, la rese sempre più vulnerabile agli attacchi di critici più attenti e meno radicali. Nel suo pungente saggio Sul contratto originario David Hume (v., 1985, pp. 465-487) mise alla berlina l'assurdità insita nella pretesa di dare un fondamento all'obbligo dei sudditi, riconosciuto in ogni paese civile, di obbedire al governo, obbligo che nessuno al mondo, ad eccezione di chi resti vittima di dottrine filosofiche alla moda, aveva mai pensato di ricondurre ad una promessa, ad impegni della cui esistenza nessuno era assolutamente a conoscenza. Nell'opinione di Hume, il fatto che un povero contadino o un artigiano continuassero a vivere nel paese in cui erano nati non costituiva un segno di libera scelta, allo stesso modo in cui la decisione di non gettarsi in mare ed annegare immediatamente da parte di una persona portata a bordo di una nave durante il sonno non provava la sua libera accettazione dell'autorità del capitano (ibid., p. 475). Già verso la metà del secolo Hume riteneva il contrattualismo whig di Locke una dottrina assurdamente angusta oltre che potenzialmente sovversiva. A suo parere l'obbligazione politica doveva invece essere stabilmente fondata sull'utilità. Di fronte agli eventi della Rivoluzione francese, Edmund Burke e Georg Wilhelm Friedrich Hegel sottolinearono in maniera ancora più incisiva quanto fosse arbitraria la pretesa di fondare l'autorità politica sulla volontà e sul giudizio individuali e ne evidenziarono le implicazioni politiche disgreganti e perfino delittuose.
È opportuno rilevare, tuttavia, che i due maggiori pensatori contrattualisti del Settecento, Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant, avevano già tentato di affrontare quanto meglio potevano queste potenziali debolezze teoriche. Entrambi consideravano la libera adesione della volontà individuale come il fondamento indispensabile, sebbene insufficiente, di un'autorità politica legittima. Rousseau si domandò infatti "quale fondamento più sicuro può avere l'obbligazione tra uomini del libero assenso di colui che obbliga se stesso?" (v. Rousseau, 1962, vol. II, p. 200).
Tuttavia, nel suo Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini Rousseau descrisse l'accettazione volontaria dapprima della proprietà privata e in seguito dell'autorità politica come una fonte di grave danno, in quanto "distruggeva irrimediabilmente la libertà naturale, fissava per sempre la legge che sanciva la proprietà e l'ineguaglianza, di un'abile usurpazione faceva un diritto irrevocabile e, a vantaggio di pochi uomini ambiziosi, costringeva da allora in poi l'intero genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria" (ibid., vol. I, p. 181). Egli era pertanto ancora meno incline di Locke a considerare legittima nella maggior parte dei casi l'autorità politica. Nel Contratto sociale (1762) si sforzò di risolvere il problema di ciò che può rendere legittima tale autorità. Egli affermò che la pattuizione costituiva sicuramente il fondamento dell'autorità politica, e che il contrasto tra interessi privati rendeva necessaria l'instaurazione delle società. Una società poteva però essere governata giustamente soltanto se vi era una comunanza di interessi, e soltanto in una società governata giustamente l'autorità politica poteva essere veramente legittima. In una società di questo genere, e solo in questa società, "ciascuno, mentre si unisce a tutti, può continuare ad obbedire soltanto a se stesso, e rimane libero come prima". Ciascun cittadino sottomette completamente la propria volontà alla volontà generale (che è semplicemente la volontà dei singoli quando essi vogliono il bene comune); e i cittadini esercitano assieme la propria sovranità collettiva, interpretando il contenuto di questa volontà generale. Quando questo contenuto entra in contrasto con le volontà particolari dei singoli cittadini, questi devono riconoscere di aver compiuto un errore effettivo nel valutare i fini dei propri concittadini. Lo Stato è una persona ficta morale, ma ogni cittadino che speri di godere dei propri diritti civili senza adempiere ai propri doveri di suddito nei confronti di questa persona morale deve essere obbligato ad obbedirle: deve essere costretto ad essere libero. La creazione di una comunità di questo tipo rappresenta una conquista politica straordinariamente complessa e richiede condizioni iniziali propizie, un'abile architettura istituzionale ed un'attenzione incessante verso la formazione culturale dei cittadini. Rousseau stesso era comprensibilmente pessimista riguardo alla possibilità di realizzare una siffatta comunità nella raffinata, e interamente dedita al commercio, Europa del suo tempo.Rousseau pertanto non mise in discussione la classica ipotesi contrattualista secondo cui il governo aveva storicamente avuto origine da un accordo tra gli uomini; ed anch'egli sostenne che l'autorità politica legittima richiedeva che i sudditi mantenessero il diritto e la possibilità di consentire a obbligarsi. Egli però dubitò anche fortemente della effettiva legittimità della maggior parte delle autorità politiche e stabilì criteri severissimi per ottenere e mantenere un'autentica legittimità politica. Poiché egli riteneva che il progresso economico e le istituzioni sociali che lo garantivano avessero spesso conseguenze nefaste per l'uomo, si pose in aspro contrasto con Hume e Adam Smith (e anche con Burke) rifiutandosi di fondare praticamente l'autorità politica sulla sua capacità dimostrata nel tempo di migliorare le condizioni economiche della grande maggioranza di una data popolazione (v. Hont e Ignatieff, 1983). Secondo Rousseau, pertanto, il vero contratto sociale che dava fondamento alla legittimità politica era non soltanto fortemente ipotetico, ma anche assai difficilmente riscontrabile nella pratica. In netto contrasto con Rousseau, Immanuel Kant negò recisamente che i sudditi di un qualsiasi Stato avessero mai il diritto di resistere al loro legittimo sovrano (v. Kant, 1965²), sebbene, a differenza di Hobbes, egli affermasse che il popolo aveva diritti inalienabili nei confronti del sovrano, sottolineasse la necessità di uno "spirito di libertà" in ogni comunità politica e proclamasse risolutamente che "la libertà della penna è la sola salvaguardia dei diritti del popolo".
Per Kant il contratto originario che dà fondamento alla legittimità politica "necessita di libertà, uguaglianza e unità delle volontà di tutti i membri". Tutti gli uomini sono liberi di perseguire la propria felicità nella maniera che ritengono più opportuna e con un'unica limitazione: riconoscere la libertà degli altri di agire nello stesso modo. Tutti gli individui sono egualmente soggetti all'autorità del sovrano: essi fondono assieme i propri diritti di coercizione per sostenere la sua autorità e nei suoi confronti rinunciano in maniera totale a tali diritti. Questa eguaglianza nei diritti è perfettamente compatibile con diseguaglianze estreme nella proprietà, ma non con privilegi ereditari per quel che riguarda la posizione sociale o le opportunità economiche. Anche nel caso dei diritti di cittadinanza la libertà ed eguaglianza di tutti gli uomini "necessita della volontà dell'intero popolo senza eccezioni (perché tutti decidono per tutti e ciascuno decide per sé)". Tuttavia, l'eguaglianza dei cittadini per quanto riguarda l'indipendenza, che è una condizione necessaria della legittimità politica, non si estende al processo legislativo dello Stato. In questo ambito solo i maschi adulti padroni delle proprie facoltà (sui juris) e proprietari di beni hanno i requisiti per essere cittadini; e la storia reale dei diritti di proprietà (in particolare per quanto concerne la proprietà fondiaria) è spesso in doloroso contrasto con le esigenze del diritto. Questo contratto originario non costituisce un effettivo evento storico che possa essere accertato indagando testimonianze storiche o documenti legali; si tratta di una "mera idea della ragione, che ha tuttavia un'indubbia realtà pratica", in quanto costringe ogni legislatore a "stendere le proprie leggi come se esse potessero aver avuto origine dalla volontà unita di un'intera nazione", e inoltre fornisce "il criterio di legittimità di qualsiasi diritto pubblico".
Questo appare del tutto evidente quando l'idea di contratto è utilizzata come metro di giudizio in negativo: "Se la legge risulta concepita in modo tale che sarebbe impossibile che tutto un popolo desse ad essa il suo consenso [...] è ingiusta". Come criterio positivo, tuttavia, risulta più difficile separarla in maniera convincente dalle idiosincrasie di Kant riguardo alla priorità del diritto sul bene e all'universalità dell'imperativo della sottomissione politica: "Se appare quanto meno possibile che un popolo consenta a tale legge, è nostro dovere considerarla giusta, anche qualora il popolo si trovi nelle circostanze attuali in una condizione o in uno stato d'animo tali che probabilmente negherebbe il proprio assenso se fosse interpellato". Kant riteneva che basare le scelte politiche dei sovrani o dei sudditi sulla ricerca della felicità fosse un modo per generare il caos nella morale e nella vita pratica. In questo modo infatti i sovrani perdono di vista "l'infallibile criterio a priori" rappresentato dal contratto originario e sono lasciati al capriccio del proprio personale giudizio sulla prudenza o meno delle misure politiche. Così essi possono inoltre assai facilmente degenerare in despoti, inclini a cercare di rendere felice il popolo secondo la propria personale visione della felicità, mentre il popolo da parte sua si attiene all'universale desiderio umano di ricercare la felicità alla propria maniera e si considera pertanto autorizzato (del tutto senza motivo, nell'opinione di Kant) a resistere al proprio sovrano. La nozione di contratto originario costituisce l'asse portante di una "teoria del diritto pubblico alla quale la pratica deve conformarsi per poter essere considerata valida". Tale idea si trova in totale conflitto con i "precetti concernenti la maniera di essere felici", i quali possono avere una certa forza prescrittiva ma "non possono dettare leggi al libero arbitrio" e pertanto lasciano gli uomini sempre liberi di scegliere ciò che ritengono migliore e di affrontare poi le conseguenze del proprio comportamento.
Sotto alcuni aspetti si può affermare che la teoria politica kantiana rappresenti il culmine della tradizione contrattualista (v. Riley, 1982, cap. 5). Nessun pensatore precedente aveva mai posto altrettanta enfasi sulla peculiare dignità della volontà umana, vedendo nella capacità di dettare leggi a se stessi il fondamento di ogni valore umano nell'universo: è tale capacità infatti che fa di ciascun individuo un fine in se stesso. Il contratto originario, nell'opinione di Kant, costituisce l'unico criterio possibile del diritto per la vita pubblica di esseri umani che rappresentano fini in se stessi. Esso stabilisce la libertà, eguaglianza e indipendenza di ogni singolo individuo sotto leggi pubbliche coattive che garantiscono a ciascuno ciò che gli è dovuto, lo proteggono da violazioni da parte di altri e limitano la sua libertà solo quanto è necessario per renderla compatibile con quella degli altri individui (v. Kant, 1965²). E fu proprio la memorabile proclamazione pubblica di questo criterio del diritto che indusse Kant a reagire con tanto entusiasmo alla Rivoluzione francese e lo portò a sperare che si potesse giungere infine ad estendere a tutta l'umanità senza eccezioni quelle costituzioni che incarnavano effettivamente tale criterio e promettevano di dare inizio ad una nuova era di pace tra le nazioni.
Il contratto tuttavia, così come era concepito da Kant, rimaneva una nozione puramente ipotetica. Non soltanto non costituiva un fatto storico, ma Kant ammetteva anche il suo legame alquanto vago con le realtà politiche della sua epoca. Ancora più importante è il fatto che Kant stesso (diversamente da Locke, Rousseau e in ultima analisi in contrasto anche con Hobbes) sottolineava come il contratto non offrisse ai soggetti politici alcun titolo per resistere anche ai più gravi abusi commessi dai governanti. Il dovere della soggezione politica costituisce il primo dovere di ogni essere umano che riconosca il concetto di diritto. Questo non impedisce che vi possano essere critiche esplicite all'autorità pubblica, ma non giustifica o scusa in alcun modo il benché minimo tentativo di forzare tale autorità o di difendere il giudizio autonomo di un privato cittadino contro il giudizio pubblico coercitivo del magistrato. La determinazione con cui Kant affermò che l'eguaglianza degli uomini costituiva il criterio universale del diritto pubblico e la vaghezza e fragilità delle sue argomentazioni riguardo ai mezzi per realizzare nella pratica politica tale criterio, emersero con particolare evidenza nelle ambiguità della sua reazione alla Rivoluzione francese (v. Beck, 1978, cap. 10). Considerate assieme, queste due caratteristiche mostrano sia l'utilità dal punto di vista teorico di concepire un ipotetico contratto come strumento per analizzare i valori umani, sia la capacità estremamente limitata di fornire indicazioni chiare e convincenti per l'azione politica.
Nelle sue classiche versioni seicentesche il contrattualismo fu una facile vittima, nei due secoli successivi, di una serie di formidabili avversari teorici: il realismo utilitarista di Hume, Smith e Jeremy Bentham in Gran Bretagna, la filosofia idealistica e la critica storicistica della pseudo-storia razionalistica in Germania, e il materialismo storico di Karl Marx e dei suoi successori in gran parte del mondo. Negli ultimi venticinque anni, tuttavia, le teorie contrattualiste hanno goduto di un rinnovato interesse da parte degli studiosi, in particolare negli Stati Uniti. Ma oggigiorno tali teorie sono assai poco o per nulla interessate ai problemi dell'obbligazione politica: il loro interesse precipuo è rivolto invece a questioni di giustizia distributiva, e in particolare all'allocazione di beni economici.
I contrattualisti seicenteschi ambivano a mostrare ai loro lettori in quali circostanze e per quali motivi essi dovevano obbedire ai governi ai quali si trovavano direttamente sottoposti. I loro eredi del ventesimo secolo, invece, vorrebbero mostrare quali caratteristiche dovrebbe possedere un insieme di istituzioni sociali umane per rispondere ai criteri di giustizia. Invece di fare riferimento in maniera rigorosa alle circostanze storiche determinate in cui si effettuano le scelte politiche, essi ci offrono una fantasticheria debole e di carattere essenzialmente accademico riguardo alle contraddizioni interne presenti nelle concezioni della giustizia sociale forniteci dalla storia moderna, e suggeriscono come (e in che misura) queste concezioni eterogenee possono essere ancora condotte in una posizione di 'equilibrio riflessivo'. Il principale esponente di questa rinascita del contrattualismo è il filosofo di Harvard John Rawls, il quale modella esplicitamente il proprio approccio teorico alla morale e alla politica su quello di Kant.
La più elaborata esposizione dell'interpretazione rawlsiana del contratto sociale si trova nella sua opera Una teoria della giustizia (v. Rawls, 1971). Come la maggior parte degli altri pensatori contrattualisti contemporanei, Rawls non considera il contratto come un evento storico, bensì come una nozione puramente ipotetica. Una relazione volontaria tra le volontà ed i giudizi degli individui non costituisce l'origine delle relazioni sociali e politiche tra gli esseri umani; essa rappresenta piuttosto un modello al quale queste relazioni dovrebbero tentare di adeguarsi (Rawls in effetti è assai poco incline, al pari dei suoi critici marxisti, ad attribuire ai singoli agenti umani una piena responsabilità causale riguardo ai propri 'risultati', in quanto ritiene che i titoli di merito nella distribuzione economica siano nella maggior parte dei casi manifestamente ideologici). Il contratto che definisce il contenuto della giustizia è un ipotetico accordo tra i membri di una società specifica stretto in circostanze attentamente definite, ossia in quella condizione che Rawls chiama "posizione originaria". In questa situazione gli agenti umani sono privi di ogni conoscenza specifica riguardo alla propria condizione sociale e alle proprie inclinazioni, capacità e gusti personali. Essi pertanto non dispongono della maggior parte degli elementi di cui qualunque essere umano reale si avvale nell'effettuare una scelta e sono di fatto identici per ogni scopo pratico. Rawls rende identici i suoi ipotetici agenti in questo modo, del tutto deliberatamente, per un duplice ordine di motivi. Egli ritiene innanzitutto che l'incapacità di contrattare in favore di interessi particolari costituisca una condizione necessaria per avere uguaglianza di potere tra coloro che scelgono e che tale uguaglianza di potere tra coloro che scelgono sia di per sé un indispensabile principio di equità. Rawls ritiene in secondo luogo che solo impedendo drasticamente l'accesso alle informazioni pertinenti si riesca a garantire che coloro che scelgono pervengano ad un risultato preciso. (Non sorprende il fatto che i suoi critici abbiano visto nella prima di queste motivazioni un circolo vizioso e abbiano evidenziato come la seconda imponga una costrizione evidentemente inappropriata al contenuto della giustizia).
Nella posizione originaria di Rawls, i sottoscrittori del contratto accettano due saldi principî di ordine sociale: ossia, per esprimerci in termini generali, che ciascuno dovrebbe avere tanta libertà civile e politica individuale compatibile con un'identica libertà di tutti gli altri, e che le diseguaglianze di reddito, di ricchezza, di potere e nelle altre risorse dovrebbero essere accettate soltanto quando vanno direttamente a favore dei membri più svantaggiati della società (il famoso principio del 'maximin'). I critici si sono domandati se sarebbe in effetti razionale per le persone che si trovano nella posizione originaria scegliere l'uno o l'altro di questi due principî, e hanno affermato in particolare che il secondo implica un'estrema e arbitraria avversione per il rischio e che la prima opzione è meno attraente rispetto alla scelta di massimizzare la propria utilità individuale media.
Tuttavia il dubbio principale in relazione alla teoria di Rawls non riguarda l'eventuale risultato delle decisioni prese nella posizione originaria, bensì la reale efficacia che esse possono avere per esseri umani che si trovino a vivere in condizioni differenti. L'idea cardine del contrattualismo classico era costituita dalla capacità posseduta dai singoli esseri umani di vincolare, attraverso una promessa, il proprio corso di azioni futuro. La singolare forza della fedeltà, il dovere di mantenere la parola data, traeva origine dal fatto che essa era autoimposta. Era questo il motivo per cui la sua forza prescrittiva poteva essere, e di fatto era, come affermò John Locke (v., 1960, II, 14, p. 295), del tutto indipendente dalle regole di qualunque società particolare: "La sincerità e il mantenere la parola data sono caratteristiche proprie degli uomini in quanto uomini e non in quanto membri della società". Tuttavia, come ha sottolineato Ronald Dworkin (v., 1977, p. 151), i contratti ipotetici non possono allo stesso modo "fornire una base argomentativa autonoma per sostenere che far rispettare i loro termini sia una cosa equa. Un contratto ipotetico non costituisce semplicemente una forma sbiadita di un contratto reale, bensì non è affatto un contratto". In questo senso il contratto di Rawls risulta doppiamente ipotetico. Innanzitutto esso rappresenta un tentativo di determinare non ciò su cui ciascuno ha di fatto concordato, bensì ciò su cui gli esseri umani in una circostanza assai particolare concorderebbero. E, cosa ancora più importante, è privo di implicazioni categoriche che investano tutti gli agenti, ma dipende per la propria forza prescrittiva dalla previa accettazione da parte di singoli individui del criterio di un accordo volontario antecedente come modello adeguato a regolare tutte le istituzioni umane. Rawls stesso sottolinea ora tale dipendenza (v. Rawls, 1985) non soltanto perché la priorità della libertà personale rispetto al miglioramento economico è un privilegio di società relativamente prospere, ma anche perché l'enfasi posta sulla antecedente accettabilità volontaria è caratteristica di alcune culture politiche e non di altre (tale caratteristica è, ad esempio, chiaramente assente dalla tradizione politica giapponese del periodo pre-Meiji). In una cultura politica come quella statunitense, incentrata sui diritti individuali, la teoria di Rawls offre un metodo per individuare un criterio pubblico di giustizia sociale. Tale criterio contrasta decisamente, nelle sue implicazioni, con l'ideologia vagamente utilitaristica dell'espansione economica, incentrata sulla proprietà e sull'appropriazione privata, ostacolate in misura minima dalla redistribuzione fiscale, che rappresenta un'altra caratteristica egualmente rilevante della cultura politica americana. Pertanto, anche all'interno del suo ambiente relativamente circoscritto, tale teoria ha nel presente un'efficacia politica piuttosto ridotta. In un contesto politico in cui i diritti di proprietà capitalistici siano messi maggiormente in discussione, essa può tuttavia fornire una base teorica più promettente per chiarire quali siano i diritti dei cittadini in un moderno Stato pluralista (v. Veca, 1982).
Come pura teoria politica, l'importanza maggiore della teoria di Rawls risiede principalmente nell'aver messo in discussione l'adeguatezza della concezione utilitaristica della natura dei valori umani. Secondo Rawls l'utilitarismo non riesce a riconoscere la caratteristica più fondamentale degli esseri umani, ossia che essi sono creature profondamente distinte, ciascuna delle quali definisce da se stessa ciò che è la felicità. Ma la teoria di Rawls è stata a sua volta attaccata da Robert Nozick, proprio perché anch'essa non rispetta tale distinzione delle persone in quanto vuole redistribuire i vantaggi economici (e di altra natura) derivanti da capacità fisiche e mentali a favore degli individui meno generosamente dotati dalla natura. La teoria di Rawls è stata inoltre attaccata da moderni seguaci di Hegel (v. Sandel, 1982) in quanto essa concepisce la coscienza e le preferenze individuali come l'unica fonte e sede dei valori umani e non riconosce i legami di dipendenza degli individui rispetto alle società e alle culture che li formano.
Le due principali obiezioni che la teoria rawlsiana deve fronteggiare potrebbero tuttavia essere mosse a qualunque altra interpretazione contemporanea del contrattualismo, e forse anche a qualunque altra teoria normativa che oggi ambisse a dirigere il potere politico. La prima obiezione è di natura prettamente filosofica. Quando, nel passato, il contrattualismo ha avuto un ruolo filosoficamente trascinante ha sempre tratto la propria forza da una solida e completa teoria della ragion pratica, ossia di ciò che gli esseri umani hanno buoni motivi di fare nella pratica. A causa della peculiare distinzione fra gli esseri umani - in quanto tutte le persone capaci di agire esperiscono, giudicano e scelgono per sé - i conflitti tra i loro giudizi e le loro scelte costituiscono un problema fondamentale della politica non meno della loro manifesta dipendenza reciproca. La filosofia occidentale moderna non offre alcunché di analogo alle ricche e precise teorie della ragion pratica avanzate da Aristotele o dai primi pensatori giusnaturalisti moderni. Ma, in mancanza di una struttura capace di ciò, qualsiasi teoria normativa entra nel regno della politica semplicemente su un piano di parità rispetto ai giudizi e alle scelte di tutti coloro che effettivamente partecipano alla vita politica. Non sorprende che in queste circostanze tali teorie incontrino le maggiori difficoltà nel costituire un solido punto d'appoggio politico.
Questo fatto assume una particolare importanza oggi, in quanto ci troviamo in presenza di almeno una influenza straordinariamente potente sui governi moderni e sugli attori politici, che è particolarmente refrattaria a scelte normative. Le molto sentite esigenze di espansione economica dominano gli interessi politici di ogni Stato moderno che sia governato con la minima pretesa di competenza. Si può dire che i soggetti moderni diano il proprio assenso alle attività dei loro governi solo in un senso assolutamente vago e marginale. Ma ben pochi di essi possono ragionevolmente prendere in considerazione l'ipotesi di fare a meno dei servizi profondamente ambigui di un qualche tipo di governo. Il contratto più radicalmente ipotetico della storia moderna è costituito dall'adesione da parte della maggioranza della popolazione mondiale ai ritmi imperscrutabili dell'economia mondiale. Dal momento che operano attraverso la politica interna di ogni Stato moderno, questi ritmi impongono le più rigide limitazioni pratiche non soltanto alla teoria della giustizia di Rawls ma a tutta la tradizione del pensiero politico occidentale (v. Dunn, 1990). (V. anche Costituzionalismo; Diritti dell'uomo; Giusnaturalismo e giuspositivismo).
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