Contro la democrazia: i colpi di stato del 411 e del 404
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La democrazia ateniese appare per lungo tempo solidissima, e gli aristocratici ricavano essi stessi vantaggi dall’impero. Solamente in seguito alle difficoltà seguite al rovescio in Sicilia, viene realizzato un colpo di stato oligarchico, che si esaurisce dopo pochi mesi con il pieno ripristino della democrazia. Persino il regime oligarchico dei “Trenta Tiranni”, appoggiato dagli Spartani dopo la fine della guerra del Peloponneso, ha breve vita: l’attaccamento degli Ateniesi al “loro” regime democratico si rivela ancora una volta troppo forte.
Ad eccezione di quanti vi sono costretti, in quanto colpiti da ostracismo o da altri provvedimenti decisi dal popolo ateniese, non sono molti gli aristocratici ateniesi che scelgono di allontanarsi dalla città durante il lungo periodo della democrazia radicale. Non solo gli aristocratici, in verità, ma chiunque detenga un certo censo vede nel dominio del “popolino” un tipo di governo non tanto sbagliato, quanto folle, quasi una offesa alle leggi di natura: “il governo democratico lo conosciamo bene... e io potrei non essere secondo a nessuno in questa conoscenza, per come e quanto potrei insultarlo! ma a proposito di una follia su cui c’è pieno accordo, non potremmo dire nulla di nuovo”. Queste sono le parole che Tucidide (VI 89, trad. Aldo Corcella) fa pronunciare ad Alcibiade, al suo arrivo a Sparta, di fronte agli efori e alle altre autorità. Il motivo per cui, dunque, pochi scelgono di abbandonare la patria, risiede nel fatto che i successi del governo democratico e il dominio imperiale di Atene garantiscono anche ai ricchi dei vantaggi non da poco: possono infatti godersi le loro proprietà senza dover sovvenzionare in alcun modo gli sforzi militari della polis (i proventi dell’impero sono più che sufficienti per questo), senza contare le infinite occasioni che vivere in una città così potente garantisce per incrementare la propria ricchezza. Si viene così realizzando una sorta di concordia ordinum, grazie a cui Atene non conosce, per quanto ne sappiamo, alcun tentativo di rivolta oligarchica nel primo secolo della democrazia.
Certo, non tutti i ricchi aristocratici si comportano allo stesso modo: c’è chi, pur non allontanandosi da Atene, vive in una sorta di esilio all’interno della città. È questo, per esempio, il caso di Antifonte, “un uomo che fra gli Ateniesi del suo tempo non era secondo a nessuno per statura morale, il più profondo nel concepire pensieri come nell’esprimerli; non si prestava volentieri a parlare in assemblea né in alcuna altra sede di dibattiti...” (VIII 68, trad. Mariella Cagnetta); Antifonte, dunque, nelle parole di Tucidide, evita di frequentare tutti i luoghi della politica ateniese; ma non perché sia incapace di parlare, anzi Tucidide lo definisce eccellente oratore. Ma, probabilmente, per completa sfiducia nei confronti dei meccanismi decisionali della città, in mano come sono al popolo. Antifonte si fa dunque “invisibile” ai suoi concittadini ed esercita la sua influenza all’interno delle eterie aristocratiche (dove, occasionalmente, è possibile circolassero pamphlet quali la splendida Costituzione degli Ateniesi del cosiddetto Vecchio Oligarca).
Altri, molti altri all’apparenza (ma sono, evidentemente, i più visibili, e dunque non ci dobbiamo azzardare a proporre statistiche), scelgono invece un’aperta collaborazione con il demos, cercando di orientarne le decisioni; Pericle e Alcibiade non sono che i casi più famosi. Valutarne la “buona fede” è un esercizio che porta poco lontano: la posta in palio è molto alta, poiché essere un uomo politico di grande influenza ad Atene significa ricoprire un ruolo che ha pochi o nessun eguale nel mondo di allora.
In generale, possiamo affermare (John Kenyon Davies) che gli Ateniesi mostrarono sempre una grande predisposizione ad affidare la direzione dei loro affari a cittadini ricchi, spesso molto ricchi. Non necessariamente di nobili origini (questa tendenza termina sostanzialmente con Alcibiade), ma comunque assai benestanti.
Il patto silenzioso tra classi superiori e popolo si rompe al momento in cui le vicende della guerra minacciano l’impero e quindi la rendita di posizione dei ricchi. Il disastro in Sicilia, seguito dall’occupazione della fortezza di Decelea, segna il momento della rottura. In una città impaurita, delusa, incerta sul da farsi, mentre le eterie aristocratiche si danno un gran daffare, viene improvvisamente a mancare quello che era il cemento stesso della democrazia: la fiducia reciproca dei cittadini. Tutti parlano di complotti contro la democrazia, qualche personaggio scomodo viene fatto sparire, la massa immagina che il numero dei congiurati sia molto più alto di quanto in realtà non fosse: quello che ci descrive Tucidide è il sottile instaurarsi di un vero e proprio clima di terrore. E così, in un giorno di maggio del 411 a.C., avviene qualcosa che solo tale clima può riuscire a spiegare: l’assemblea del popolo “si suicida”, riunendosi e votando all’unanimità la propria abolizione! Il potere passa a un Consiglio di soli Quattrocento uomini, scelti per cooptazione (secondo un rapido sistema, per cui cinque uomini designati ne sceglievano 100, loro compresi, e ciascuno dei 100 ne sceglieva altri tre), che cacciano il Consiglio dei Cinquecento dalla sua sede e si mettono a governare, liberandosi in maniera spiccia di un certo numero di avversari (non molti, a quanto pare). Ovviamente, non si sente più parlare di retribuzione delle cariche pubbliche, né di sorteggio.
Tra gli uomini più in vista, oltre ad Antifonte, di cui abbiamo già detto, e che forse costituisce la mente dell’operazione, ci sono Pisandro, Frinico, Teramene. Quest’ultimo – vera e propria incarnazione del politico che si barcamena, cercando di mantenere la barra più o meno al centro – lo ritroveremo come protagonista anche nelle vicende successive.
La situazione, in realtà, non è affatto chiara. Non è chiaro, per esempio, che cosa il nuovo governo intenda decidere riguardo alla guerra e ai rapporti con Sparta; non è chiaro quale regime si voglia imporre ad Atene dopo l’emergenza: si parla spesso, in quei mesi, di una costituzione che avrebbe concesso i pieni diritti a cinquemila ateniesi, un numero non esiguo, che configurerebbe, grosso modo, l’instaurarsi di una democrazia moderata, ma tale lista non sarà in effetti mai compilata; soprattutto, poi, non è chiaro quanto solida sia la posizione dei congiurati, soprattutto in relazione alla circostanza che una discreta parte della cittadinanza ateniese si trova in quel momento a Samo, là dove è stanziata la grande flotta della città, insieme a numerosi strateghi di rilievo, come Trasibulo e Trasilo: è qui che si coagula l’opposizione più decisa al colpo di stato. Infine, non è chiaro neppure il rapporto dei congiurati con il convitato di pietra di tutta la vicenda, Alcibiade, dedito a un gioco di impressionante complicatezza tra il satrapo Tissaferne, che cerca ora di trarre dalla parte ateniese, i congiurati ad Atene, che a quanto pare aveva inizialmente incitato ad agire, e la flotta a Samo, cui manda continuamente segnali per proporsi come deus ex machina al fine di ripristinare la democrazia.
La scarsa leggibilità della situazione, oltre che dai doppi e tripli giochi connaturati a personaggi come Alcibiade, nasce in realtà dal fatto che quelli che chiamiamo per brevità “congiurati” non sono affatto uniti. Al loro interno vi sono rappresentati gli “estremisti”, fautori di un governo oligarchico molto ristretto e di una pace con Sparta, che avrebbe di fatto segnato l’ingresso di Atene nell’orbita politica della rivale; ma vi sono anche i fautori di una democrazia moderata – appunto quella dei Cinquemila -, contrari a ogni accordo non paritario con Sparta e inclini in genere a evitare una contrapposizione troppo netta con il demos.
Nel giro di pochi mesi, comunque, si renderà evidente la debolezza dei congiurati. Mentre a Samo Trasibulo richiama Alcibiade, nominandolo stratego e segnando così il suo ritorno “ufficiale” tra i democratici, ed entrambi faticano a trattenere la flotta dal fare rotta verso Atene, un atto che avrebbe dato vita a una vera e propria guerra civile e avrebbe lasciato l’Egeo nelle mani della flotta spartana, ad Atene il governo dei Quattrocento cade per discordie interne dopo soli quattro mesi, nel mese di settembre: la perdita nel frattempo dell’isola di Eubea, assai grave per gli Ateniesi, non fa che affrettare la caduta. Segue un governo che potremmo chiamare “di transizione”, guidato sostanzialmente da Teramene: in corrispondenza con la vittoria nella battaglia navale di Cizico, nel marzo del 410 a.C., gli Ateniesi, ormai liberi dalle paure che li attanagliavano, restaurano la piena democrazia, lasciandosi alle spalle un periodo oscuro, la cui durata non era però stata superiore a circa dieci mesi.
Passano altri sei anni, durante i quali la città si prende il lusso di rifiutare offerte di pace da parte di Sparta e di condannare a morte strateghi brillantemente vittoriosi; nella primavera del 404 a.C., un’Atene affamata e disperata si arrende a Lisandro. Il trattato di pace non prevede esplicitamente quale costituzione avrebbe dovuto darsi la città; nondimeno l’abbandono del regime democratico è nella logica delle cose. Vengono nominati 30 cittadini, incaricati di redigere una nuova costituzione; tra di essi, troviamo di nuovo Teramene e, soprattutto, Crizia, grande intellettuale, allievo di Socrate e zio di Platone. I Trenta (che la tradizione successiva indicherà come Trenta Tiranni), al potere dalla tarda primavera del 404 a.C., si limitano a stilare una lista di tremila cittadini che avrebbero goduto dei pieni diritti civili. Tutti gli altri sono alla mercé di un governo arbitrario, violento e crudele, che nel giro di pochi mesi manda a morte, a quanto pare, ben 1500 persone, con lo scopo primario di impadronirsi dei loro beni. Di questo regime di terrore fa le spese lo stesso Teramene, che riscatta con una morte di grande eleganza una vita politica non priva di ambiguità.
Lisia
I Trenta contro i meteci
Contro Eratostene
Questo è l’inizio del drammatico racconto che Lisia, il grande oratore, recita in prima persona ai giurati, nel processo contro Eratostene, uno dei Trenta Tiranni, resosi colpevole dell’uccisione del fratello Polemarco (l’amnistia decisa al ritorno della democrazia non copriva infatti i reati commessi dai Trenta). Lisia, nell’occasione, era riuscito a salvarsi con una disperata fuga a Megara. L’orazione costituisce una delle fonti più straordinarie per ricostruire “in diretta” il clima terribile di quei mesi.
Mio padre Cefalo [ricchissimo siracusano, venne a vivere ad Atene, dove fu a contatto con i massimi esponenti della politica e della cultura; è nella sua casa che Platone ambienta il dialogo La Repubblica] fu convinto da Pericle a venire a vivere in questa terra e vi ha abitato per trent’anni, durante i quali né noi né lui abbiamo mai intentato né subito un processo, e sotto la democrazia vivevamo in modo da non far torti agli altri e da non subirne. Ma quando i Trenta, mascalzoni e sicofanti, andarono al potere, presero a dire che bisognava ripulire la città dai malfattori e indirizzare gli altri cittadini alla virtù e alla giustizia; ma, pur sbandierando tutte queste belle promesse, non intendevano certo metterle in pratica, come cercherò di richiamarvi alla mente parlando prima delle mie vicende private e poi delle vostre. Teognide e Pisone (due dei Trenta), in una riunione dei Trenta, dissero, a proposito dei meteci, che alcuni erano scontenti della nuova costituzione; quello dunque era un ottimo pretesto per fingere di punirli, ma di fatto procurarsi ricchezze: la città infatti scarseggiava in ogni senso di risorse e il governo aveva bisogno di denaro. Convinsero senza difficoltà i loro ascoltatori: era gente che considerava cosa da nulla far uccidere delle persone, ma riteneva importantissimo arricchirsi. Decisero dunque di arrestarne dieci, e tra questi due non ricchi, per poter addurre, come giustificazione di fronte all’opinione pubblica, che gli arresti non erano stati fatti per motivi di interesse, ma che si era trattato invece di un’azione a vantaggio dello Stato: come se mai avessero preso qualche altro provvedimento ispirato a princìpi così ragionevoli! Si divisero le case e vi si recarono: quanto a me, mi trovarono a casa che avevo ospiti a tavola, cacciati i quali mi consegnarono a Pisone. (trad. E. Medda)
La reazione democratica non tarda a manifestarsi. Trasibulo, che abbiamo già incontrato nel 411 a.C., proveniente da Tebe, dove si era rifugiato, occupa con 70 compagni la fortezza di File. Da lì scende fino al Pireo, ingrossando via via le fila del suo esercito improvvisato. In una battaglia avvenuta probabilmente nel dicembre dello stesso 404 a.C. (o al più, nel febbraio successivo), trova la morte lo stesso Crizia. È di fatto la fine del regime; viene nominata in tutta fretta una nuova commissione di 10 cittadini, tratti dagli oligarchi più moderati, che gestiscono una nuova fase, nella quale il ruolo più importante è rivestito, come del resto era inevitabile, da Sparta. Mentre Lisandro intende supportare ulteriormente i fautori di un regime oligarchico estremo, di cui Crizia era stato il principale rappresentante, il re Pausania giunge da Sparta con un esercito e impone un compromesso favorevole ai democratici, ai quali viene di nuovo affidata la città (settembre 403 a.C.). In cambio, essi si impegnano a rispettare una larga amnistia nei confronti di quanti si fossero resi colpevoli di reati nel corso di quei mesi terribili (vengono esclusi dall’amnistia solo i Trenta e i Dieci). Inoltre, agli oligarchi che lo desiderino è consentito rifugiarsi nella vicina Eleusi, dove per due anni resisterà una piccola repubblica indipendente.
Un momento, questo, importante, nella storia occidentale: per la prima volta, un governo costituzionale che giunge al potere dopo una dittatura si interroga su come comportarsi nei confronti dei reati compiuti nel periodo precedente; una situazione che, purtroppo, si ripresenterà infinite volte.
Perché Pausania abbia preso tali decisioni, non è del tutto evidente: ma certamente gioca un ruolo importante il sospetto, se non la palese avversione, che sta maturando nell’élite dirigente spartana nei confronti delle mire personalistiche e sempre più ambiziose di Lisandro.
Nel settembre del 403 a.C., dunque, a poco più di un anno dalla fine della guerra, Atene reinstaura il regime democratico radicale. I due tentativi di sovversione non hanno avuto alcun esito, e in tutto sono durati a stento un paio d’anni. A causa di queste esperienze (e, soprattutto, dell’ultima), nessuno, nel IV secolo, oserà più dichiararsi anti-democratico nei dibattiti politici.
Nonostante la sconfitta in una guerra tanto dura e l’appoggio spartano, i plousioi e i kaloikagathoi, i ricchi e i “gentiluomini” non riescono a fare di Atene una città “normale”, piegandola a un regime moderato, e tantomeno a farne un’“altra Sparta”, come alcuni pensano che vagheggiassero Crizia e i suoi accoliti.
Si possono cercare le cause di questo esito nelle debolezze degli aristocratici che guidarono il movimento anti-democratico: dall’ambiguo Teramene allo stesso Crizia, troppo pieno di risentimento e di odio per poter essere un buon politico. O, più fondatamente, nelle debolezze e nelle divisioni all’interno dell’élite dirigente spartana, certo non pronta a esercitare una durevole egemonia su un mondo diventato troppo grande per loro. Resta il fatto che gli Ateniesi mostrarono un eccezionale attaccamento alla “loro” democrazia, tanto da riuscire a conservarla ancora per oltre ottanta anni.