Abstract
Il contratto di lavoro si caratterizza per la posizione di supremazia del datore di lavoro e per la corrispondente posizione di soggezione del lavoratore.
Detta supremazia è sancita giuridicamente dalla stessa struttura del rapporto di lavoro subordinato, in cui il lavoratore, operando alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, deve osservare le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del lavoro impartitegli.
Nella sua qualità di creditore di lavoro subordinato, il datore di lavoro esercita nei confronti del lavoratore, oltre il potere direttivo ed il potere disciplinare, anche il potere di controllo volto a verificare l’esatto adempimento degli obblighi del dipendente.
Tale potere di controllo non è assoluto, ma è soggetto a vincoli tesi a garantire il rispetto del diritto dei lavoratori alla propria dignità e riservatezza.
La rigidità di tali vincoli ha spesso indotto la giurisprudenza a stemperarne la portata con riferimento sia alle modalità di effettuazione del controllo che alle finalità dello stesso.
Il potere di controllo costituisce uno dei tre poteri (insieme a quello direttivo e disciplinare) tradizionalmente attribuiti al datore di lavoro, mediante il quale lo stesso può verificare l’esatto adempimento da parte del dipendente degli obblighi sullo stesso gravanti in ragione del rapporto di lavoro.
In particolare, il datore di lavoro ha il potere di controllare che il lavoratore, nell’esecuzione della prestazione lavorativa, usi la diligenza dovuta (art. 2104, co. 1, c.c.), osservi le disposizioni impartitegli (art. 2104, co. 2, c.c.), rispetti gli obblighi di fedeltà sullo stesso gravanti (art. 2105 c.c.), anche al fine di poter esercitare l’eventuale azione disciplinare nel caso in cui rilevi l’inosservanza di tali obblighi (art. 2106 c.c., art. 7 dello Statuto dei lavoratori).
Tale potere non è, tuttavia, assoluto, ma incontra come limite la necessità che esso sia esercitato in modo tale da non ledere diritti fondamentali del lavoratore, come la dignità e la riservatezza.
Avendo presente tale necessità, lo Statuto dei lavoratori (l. 20.5.1970, n. 300) ha circoscritto con precisione i limiti, soggettivi ed oggettivi, entro i quali il datore di lavoro può esercitare il proprio potere di controllo, individuando, da un lato, i soggetti abilitati al controllo e, dall’altro, distinguendo due forme mediante le quali lo stesso può essere esercitato: il controllo a distanza ed il controllo diretto.
Con la diffusione dell’informatizzazione sui luoghi di lavoro ed il conseguente utilizzo di posta elettronica ed internet, le forme di controllo da parte del datore di lavoro sulle modalità di utilizzo di tali strumenti aziendali vanno, inoltre, contemperate con il diritto alla Privacy dei lavoratori, tutelata dal D.lgs. 30.6.2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali).
Nell’ottica di tutelare la libertà e la dignità dei lavoratori, gli artt. 2 e 3 individuano specifici limiti in ordine ai soggetti abilitati ad esercitare il potere di controllo sugli stessi.
Oltre al datore di lavoro ed ai superiori gerarchici, i quali per definizione sono chiamati ad esercitare il potere in esame, il controllo può essere esercitato anche da altri dipendenti, purché il loro nominativo e le loro specifiche mansioni siano preventivamente comunicati ai lavoratori interessati.
Il controllo occulto, effettuato cioè da persone non identificate dal lavoratore come controllori, è dunque vietato in quanto ritenuto lesivo della personalità del lavoratore.
Il personale addetto alla vigilanza non può controllare i comportamenti del lavoratore estranei allo svolgimento della prestazione lavorativa e non può accedere in locali frequentati dai lavoratori per scopi diversi dallo svolgimento della prestazione lavorativa (ad esempio, gli spogliatoi).
L’art. 2, co. 3, st. lav. vieta, inoltre, al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull’attività lavorativa le guardie particolari giurate di cui agli artt. 133 ss. R.d. 18.6.1931, n. 773 (art. 2 st. lav.).
Tali guardie giurate, le quali sono dotate ai sensi del R.d. n. 773 del 1931 (art. 133) di particolari privilegi connessi alla loro funzione - come il diritto di portare armi o il potere di redigere verbali che fanno fede in giudizio fino a prova contraria - possono, infatti, essere impiegate esclusivamente per scopi di tutela del patrimonio aziendale.
Ne consegue l’impossibilità, per tali soggetti, di contestare ai dipendenti azioni o fatti che attengono all’attività lavorativa.
Per questo motivo, le guardie giurate non possono accedere nei locali ove si svolge la prestazione lavorativa, se non per specifiche e motivate esigenze attinenti i compiti di tutela del patrimonio aziendale.
L’eventuale utilizzo delle guardie giurate fuori dai predetti limiti è sanzionato sia penalmente (art. 38 st. lav.), sia in via amministrativa con la sospensione o la revoca della licenza alla guardia; a queste sanzioni si aggiunge, ovviamente, la possibilità per il lavoratore di invocare la tutela giurisdizionale.
Posto che gli artt. 2 e 3 st. lav. ammettono rispettivamente il controllo sul patrimonio aziendale effettuato dalle guardie giurate ed il controllo sull’attività lavorativa posto in essere dal “personale di vigilanza”, ci si è chiesto se tali forme di controllo possano essere esercitate anche da soggetti diversi.
Al riguardo, la giurisprudenza si è orientata nel senso di ritenere che, in mancanza di espliciti divieti ed in considerazione della libertà della difesa privata, la vigilanza sul patrimonio aziendale e sull’attività lavorativa possa essere svolta anche da soggetti diversi da quelli indicati dagli artt. 2 e 3 st. lav., come ad esempio gli investigatori privati (Cass., 24.3.1983, n. 2042; Cass., 3.4.1984 n. 2697; Cass., 3.5.1984, n. 2697; Cass., 10.5.1985, n. 2933; Cass., 19.7.1985, n. 4271; Cass., 9.6.1989 n. 2813; Cass., 17.10.1998, n. 10313; Cass., 13.4.2007, n. 8910).
Anche il divieto di ogni forma di controllo occulto sancito dall’art. 3 st. lav. ha subito delle attenuazioni ad opera della giurisprudenza, la quale ha ritenuto che tale divieto non debba trovare applicazione nelle ipotesi di realizzazione, da parte del lavoratore, di comportamenti illeciti esulanti dalla normale attività lavorativa, pur se commessi nel corso di essa.
In tal caso, il controllo è ritenuto ammissibile perché gli atti ed i comportamenti posti in essere dal lavoratore sono configurabili come fonte di responsabilità extracontrattuale nei confronti del datore di lavoro.
Ne consegue che il controllo occulto effettuato, ad esempio, da un investigatore privato non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera - essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, sottratta alla suddetta vigilanza - ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore che non siano riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione (come, ad esempio, l’appropriazione indebita di denaro riscosso per il datore di lavoro e sottratto alla contabilizzazione).
In giurisprudenza si è, altresì, ritenuto che il controllo occulto non viola né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui all’art. 4 st. lav., riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza, non applicabile analogicamente in quanto penalmente rilevante (Cass., 18.9.1995, n. 9836; Cass., 23.8.1996, n. 7776; Cass., 18.2.1997, n. 1455; Cass., 3.11.1997, n. 10761; Cass., 12.8.1998, n. 7933; Cass., 17.10.1998, n. 10313; Cass., 3.11.2000, n. 14383; Cass., 3.7.2001, n. 8998; Cass., 14.7.2001, n. 9576; Cass., 2.3.2002, n. 3039; Cass., 12.6.2002, n. 8388; Cass., 7.6.2003, n. 9167; Cass., 9.7.2008, n. 18821; Cass., 10.7.2009, n. 1619; Cass., 18.11.2010, n. 23303).
Infine, perché il controllo occulto sia legittimo non è necessario che l’illecito sia stato compiuto e che occorra verificarne solo il contenuto, ma è sufficiente il solo sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (Cass., 7.6.2003, n. 9167; Cass., 9.7.2008, n. 18821; Cass., 14.2.2011, n. 3590).
Il confine tra controlli occulti leciti e illeciti può rivelarsi incerto in quanto si contrappongono, da un lato, un principio ispiratore generale di ripudio dei controlli occulti sui lavoratori e, dall’altro, la constatazione che i controlli svolti ad insaputa del lavoratore possano essere sovente l’unica maniera efficace per la tutela del patrimonio aziendale minacciato da comportamenti illeciti dei dipendenti.
La dottrina ha osservato come i controlli occulti sui lavoratori devono comunque rivestire carattere occasionale e non sistematico e costituire una estrema ratio in quanto tecnicamente indispensabili e non sostituibili con altri tipi di indagine.
È, infine, da sottolineare come le circostanze ed i fatti eventualmente acquisiti dal datore di lavoro tramite controlli illeciti non possano essere utilizzati quali fonte di conoscenza per la prova giudiziale.
Per quanto riguarda le modalità del controllo, l’art. 4 st. lav. vieta espressamente l’utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività lavorativa.
Tale divieto trova la propria ratio nella potenzialità lesiva di tale forma di controllo della dignità e della riservatezza del lavoratore a causa della sua tendenziale continuità e pervasività.
Nel divieto è ricompresa qualsiasi forma di controllo a distanza che sottragga al lavoratore, nello svolgimento delle sue mansioni, ogni margine di spazio e di tempo nel quale egli possa essere ragionevolmente certo di non essere osservato, ascoltato o comunque “seguito” nei propri movimenti.
Il co. 2 del medesimo art. 4 consente espressamente l’utilizzo di apparecchiature quando, pur comportando indirettamente un controllo sull’attività lavorativa dei dipendenti, esso sia richiesto da esigenze organizzative, produttive ovvero di sicurezza del lavoro.
Il controllo, in questo caso, non è l’obiettivo primario del datore di lavoro che installa l’apparecchiatura, ma costituisce un’inevitabile conseguenza dell’utilizzo dell’apparecchiatura medesima.
In questa prospettiva, il controllo è legittimo solo se “preterintenzionale”, e cioè se costituisce la conseguenza non voluta e non prevista dell’utilizzo dell’apparecchiatura.
In ogni caso, ai fini della legittimità del controllo, è necessario che l’utilizzo delle apparecchiature idonee al controllo sia oggetto di uno specifico accordo con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.
La particolare chiarezza della disposizione lascia poco spazio ad interpretazioni estensive. Ne consegue, pertanto, che: a) forme di controllo a distanza sull'attività lavorativa sono sempre interdette; b) è possibile l'installazione di impianti di controllo a distanza – da cui possa derivare anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori – solo per finalità legate alla tutela dei beni aziendali e, comunque, previo accordo con i sindacati o provvedimento della Direzione Territoriale del lavoro (Dtl).
Occorre avere presente che l’art. 4 st. lav. è stato elaborato ed è entrato in vigore nel 1970.
Esso va, pertanto, letto ed interpretato avendo presente il contesto tecnologico dell’epoca.
La norma fa, infatti, espresso riferimento agli impianti audiovisivi e, più genericamente alle «altre apparecchiature di controllo».
A tale ultima espressione è da attribuirsi una funzione residuale, essendo sufficientemente generica da potervi ricomprendere tutti gli strumenti idonei al controllo, tra cui anche i programmi informatici che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi ad internet.
La rigidità del divieto posto dall’art. 4 st. lav. ha indotto la giurisprudenza ad elaborare orientamenti tesi a stemperarne la portata sia con riferimento alle modalità di effettuazione del controllo a distanza sia con riferimento alle finalità legittimanti il controllo.
Per ciò che concerne le modalità di effettuazione del controllo, una parte della giurisprudenza si è orientata nel senso di ritenere legittimo l’utilizzo, anche non autorizzato dalle rappresentanze sindacali o dalla Dtl, di impianti audiovisivi laddove vi fosse consapevolezza da parte del lavoratore in ordine al controllo medesimo (Cass., 11.6.2012, n. 22611).
In particolare, è stato considerato legittimo il controllo sulla posta elettronica nei casi in cui il lavoratore fosse a conoscenza della possibilità di tale controllo, come nell’ipotesi in cui l'indirizzo fosse riferibile all'azienda, con ciò escludendone il carattere privato, oppure il lavoratore avesse comunicato al datore di lavoro la propria password di accesso alla casella di posta.
Sempre con riferimento all’utilizzabilità di apparecchiature di controllo a distanza, anche senza le autorizzazioni previste dalla norma in questione, un ulteriore orientamento giurisprudenziale, teso ad ammorbidire la disposizione normativa, riguarda le finalità che legittimano i controlli a distanza.
In particolare, è stato considerato inapplicabile il divieto posto dall'art. 4 st. lav. ai casi di controllo a scopo difensivo, quei tipi di controllo volti, cioè, a rilevare qualsiasi condotta illecita dei lavoratori diretta a ledere il patrimonio aziendale a condizione che le stesse condotte illecite non riguardino, né direttamente né indirettamente, l'attività lavorativa (Cass., 3.4.2002 n. 4746; Cass., 17.7.2007, n. 15892; Cass., 23.2.2010, n. 4375; Cass., 1.10.2012, n. 16622).
Considerato che il divieto di controllo a distanza mira a tutelare la riservatezza e dignità del lavoratore nello svolgimento dell’attività lavorativa, possono essere considerati legittimi gli accertamenti operati dal datore di lavoro attraverso riproduzioni filmate dirette a tutelare il proprio patrimonio aziendale, al di fuori dell’orario di lavoro e contro possibili atti penalmente illegittimi messi in atto da terzi e, quindi, anche dai propri dipendenti, che possono essere considerati terzi allorquando agiscano fuori dell’orario di lavoro (Cass., 3.7.2001, n. 8998; Cass., 28.1.2011, n. 2117).
Se un controllo difensivo legittimo è immaginabile nell’ipotesi in cui sia effettuato mediante un apparecchio di videosorveglianza – che ben può essere installato in luoghi non accessibili ai dipendenti o essere reso funzionante al di fuori dell’orario di lavoro – più difficilmente se ne può affermare la legittimità nel caso in cui sia effettuato sulla posta elettronica o sui siti web oggetto di navigazione.
In tal caso, infatti, il comportamento lesivo posto in essere dal lavoratore necessariamente è attuato durante lo svolgimento della prestazione lavorativa, con la conseguenza che il controllo sulle modalità di utilizzo dei suddetti strumenti necessariamente si traduce in un controllo indiretto sull’attività dei lavoratori.
In questo senso si è pronunciata la Cassazione con la sentenza del 23.11.2010, n. 4375, la quale – richiamando i principi già espressi nelle sopracitate sentenze n. 4746/2002 e 15892/2007 – ha confermato che «i programmi informatici che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi internet sono necessariamente apparecchiature di controllo nel momento in cui, in ragione delle loro caratteristiche, consentono al datore di lavoro di controllare a distanza e in via continuativa durante la prestazione l’attività lavorativa e se la stessa sia svolta in termini di diligenza e di corretto adempimento».
Ciò necessariamente comporta che i dati relativi alle navigazioni in internet e alla posta elettronica sono inutilizzabili se ricavati da controlli avvenuti in violazione dell’art. 4, co. 2, che – come sopra rilevato – ammette i controlli a distanza “preterintenzionali”, funzionali ad esigenze organizzative, produttive o di sicurezza, solo laddove le possibili conseguenze del controllo siano state condivise con le Rsa.
In senso contrario, si è più recentemente, pronunciata la Suprema Corte, la quale ha ritenuto necessario il rispetto delle garanzie procedurali di cui all’art. 4 st. lav. nel caso di controlli difensivi tesi ad accertare le condotte illecite dei lavoratori quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non, invece, quando il datore abbia posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale (Cass., 23.2.2012, n. 2722 ha, in particolare, ritenuto legittimo il controllo sulla posta elettronica del dipendente accusato di avere divulgato notizie riservate concernenti un cliente e di avere posto in essere, grazie a tali informazioni, operazioni finanziarie da cui aveva tratto vantaggi propri).
L’eventuale accesso da parte del datore di lavoro al computer, alla posta elettronica o ai siti web oggetto di navigazione da parte del dipendente rileva anche dal punto di vista della violazione dell’art. 8 st. lav. che, come noto, vieta al datore di lavoro il compimento di indagini sulle opinioni dei lavoratori.
È innegabile, infatti, che nell’ambito dello spazio personale del computer potrebbero essere reperiti documenti relativi a simpatie politiche, religiose, sessuali, sindacali.
Il d.lgs. n. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali) – cd. Codice Privacy – si propone di tutelare il diritto alla riservatezza di tutti coloro i cui dati personali siano passibili di comunicazione e/o diffusione a terzi e, a tal fine, pone a carico del titolare del trattamento l’obbligo di effettuare determinati adempimenti, primo tra tutti l’informativa ai soggetti interessati.
L’art. 13 Codice Privacy stabilisce, infatti, che siano comunicate agli interessati, e cioè ai soggetti i cui dati sono oggetto di trattamento, tutte le informazioni sulle modalità e finalità del trattamento, la natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati, le conseguenza di un eventuale rifiuto di rispondere, il titolare ed i responsabili/incaricati del trattamento, nonché sui diritti dell’interessato in ordine al trattamento medesimo.
Con specifico riferimento all’utilizzo della posta elettronica e di internet da parte dei dipendenti, il Garante per la Privacy ha chiarito che tali attività debbano essere qualificate come trattamento dei dati personali, rilevanti ai sensi del Codice Privacy.
La questione, di particolare interesse per i datori di lavoro ed i lavoratori in considerazione dell’ormai diffuso utilizzo di posta elettronica ed internet sul luogo di lavoro, è stata successivamente oggetto di uno specifico provvedimento del Garante che, con deliberazione n. 13 del 1.3.2007, ha dettato specifiche linee guida per posta elettronica ed internet.
Posto che già nel Codice della Privacy il Garante promuove la sottoscrizione di un codice di deontologia e di buona condotta per i soggetti interessati al trattamento dei dati personali effettuato per la gestione del rapporto di lavoro (v. art. 111 Codice Privacy), le suddette linee guida ribadiscono l’opportunità di adottare un disciplinare interno da cui emerga chiaramente quali siano le corrette modalità di utilizzo degli strumenti messi a disposizione e se, in che misura e con quali modalità siano effettuati controlli, tenendo conto della disciplina applicabile, sopra descritta, in tema di informazione, concertazione e consultazione delle organizzazioni sindacali.
Il Garante ribadisce, inoltre, il diritto del datore di lavoro di controllare l’effettivo adempimento della prestazione lavorativa e, se necessario, il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro, purché tale controllo sia effettuato in modo da non ledere la libertà e la dignità del lavoratore mediante l’utilizzo di strumenti finalizzati al controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, tra cui sono «certamente comprese strumentazioni hardware e software mirate al controllo dell’utente di un sistema di comunicazione elettronica».
È, pertanto, da considerarsi vietato il trattamento effettuato mediante sistemi hardware e software finalizzati al controllo a distanza.
Nell’attuazione dei controlli preterintenzionali effettuati nel rispetto dell’art. 4 st. lav., il datore di lavoro è tenuto a prevenire il rischio di utilizzi impropri ed a minimizzare l’uso di dati riferibili ai lavoratori.
Secondo il Garante, il datore di lavoro ha altresì l’onere di adottare misure tecnologiche volte a minimizzare il rischio di un loro impiego abusivo, differenziate a seconda che la tecnologia impiegata sia la posta elettronica o la navigazione in Internet.
La diffusione della policy interna non solleva il datore di lavoro dall’obbligo, previsto dall’art. 13 del Codice Privacy, di informare i lavoratori circa le finalità e le modalità con cui i loro dati saranno trattati.
Ciò in quanto i due adempimenti hanno natura e finalità diverse; il primo (il Codice) serve a chiarire che la posta aziendale ed Internet possono essere utilizzati solo come strumenti di lavoro, il secondo costituisce una condizione di legittimità per poter raccogliere e trattare i dati personali che si raccolgono mediante gli strumenti telematici.
Per ciò che concerne il consenso, questo può non essere richiesto in caso di trattamento di dati comuni per effetto della deliberazione del 1.3.2007 n. 13 in virtù del legittimo interesse del datore di lavoro alla tutela dei beni aziendali.
Una volta compiuti questi adempimenti, il datore di lavoro potrà effettuare controlli sulle e-mail aziendali e sull’uso di internet, con le modalità indicate dal Garante.
Ai sensi dell’art. 5 st. lav., sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente.
Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda.
Il datore di lavoro ha la facoltà di far controllare l'idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico.
Il datore di lavoro non può, dunque, compiere direttamente gli accertamenti sull’assenza del lavoratore per malattia e infortunio, ma deve ricorrere al controllo imparziale di medici del servizio sanitario pubblico.
La visita di controllo è attivata con specifica richiesta inoltrata in via telematica all’INPS.
A seguito del controllo, il medico della Asl può confermare la prognosi, ridurre la prognosi o accertare la capacità lavorativa ed in tal caso, se il lavoratore non contesta il controllo, può essere avviato il giorno dopo anche se non lavorativo. La contestazione del lavoratore deve essere contestuale ed in questo caso è invitato a visita ambulatoriale il primo giorno successivo.
L’assenza del lavoratore dalla propria abitazione durante la malattia, benché possa dar luogo a sanzioni, quali la perdita del trattamento economico, comminate per violazione dell’obbligo di reperibilità facente carico sul lavoratore medesimo durante le cd. fasce orarie, non integra di per sé un inadempimento sanzionabile con il licenziamento, laddove la cautela della permanenza in casa – benché prescritta dal medico – non sia necessaria ai fini della guarigione e della conseguente ripresa dell’attività lavorativa (Cass., 6.7.1988, n. 4448).
Diversamente è irrogabile la sanzione espulsiva laddove il comportamento del lavoratore sia in grado di far presumere l’inesistenza della malattia e, dunque, la violazione da parte del lavoratore degli obblighi generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.
Al riguardo la Cassazione ha in particolare rilevato che «è legittimo il licenziamento del dipendente, assente per malattia, che svolga altra attività lavorativa, quando l’attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, ma anche nell’ipotesi in cui la medesima attività, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio» (Cass., 6.62005, n. 11747; Cass., 24.4.2008, n. 10706).
In applicazione di tale principio, la giurisprudenza di legittimità ha ad esempio, considerato legittimo il licenziamento di un dipendente sorpreso a lavorare nel proprio fondo agricolo durante un periodo di prolungata assenza dal servizio per lombalgia (Cass., 3.12.2002, n. 17128).
Le visite sulla persona del lavoratore sono ammesse solo laddove indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti (art. 6 st. lav.).
Al di fuori della tutela del patrimonio aziendale, le visite di controllo sui lavoratori sono, dunque, vietate. Il divieto riguarda unicamente le ispezioni corporali, ma non anche quelle sulle cose del lavoratore, atteso che la norma prevede solo la «visita personale» che, nell’ordinamento processuale sia civile che penale, è tenuta distinta dall’ispezione di cose e luoghi (Cass., 10.2.1988, n. 1461).
Il carattere di indispensabilità per la tutela del patrimonio aziendale deve essere valutata con attenta considerazione sia dei diversi mezzi di controllo tecnicamente e legalmente attuabili in via alternativa, sia dell’intrinseca qualità delle cose da tutelare, sia della possibilità per il datore di lavoro di prevenire eventuali ammanchi mediante adeguate registrazioni dei movimenti delle merci nonché mediante l’adozione di misure atte a disincentivare gli ammanchi stessi e a favorire, invece, la condotta diligente e fedele dei dipendenti (Cass., 19.11.1984, n. 5902).
In ogni caso, anche quando siano assolutamente indispensabili, le visite personali di controllo sul lavoratore non possono essere tali da valicare i limiti della riservatezza personale e cioè del riserbo e dell’intimità dell’individuo, il cui superamento è consentito agli organi pubblici in relazione ad imprescindibili esigenze di sicurezza e di attuazione dell’ordinamento giuridico positivo. Non sono, pertanto, ammissibili, quelle visite personali che si risolvono in un’ingerenza nell’intimità anche fisica del soggetto, come forme di perquisizione o d’ispezione tali da poter creare nel dipendente un senso di particolare disagio, se non anche di degradazione psicologica. Ne consegue che il rifiuto del lavoratore di sottoporsi a visite che superano i limiti anzidetti non legittima l’applicazione di sanzioni disciplinari nei suoi confronti (Cass., 19.11.1984, n. 5902).
Al fine di tutelare la dignità e la riservatezza del lavoratore tali visite possono essere effettuate solo all’uscita dei luoghi di lavoro e con l’applicazione di sistemi di selezione automatica, al fine di evitare discriminazioni.
Le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personale, nonché le relative modalità, devono essere concordate dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In mancanza di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro.
Contro i provvedimenti della Direzione regionale del lavoro, il datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna oppure i sindacati, possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministero del lavoro.
L’art. 8 st. lav. espressamente vieta al datore di lavoro di compiere indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.
Con quest’ultima espressione, il divieto di indagine da parte del datore è esteso, in generale, su qualsiasi fatto privato del lavoratore.
Un’eccezione a tale regola riguarda le indagini sulla sieropositività nel caso in cui questa sia rilevante per l’idoneità professionale del lavoratore in considerazione del rischio di contagio connesso al tipo di mansioni (in tal senso, si è espressa la C. cost., 2.6.1994, n. 1994).
Il divieto di cui alla norma in esame non esclude che il datore di lavoro possa valutare, ai fini della ravvisabilità della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, fatti e comportamenti privati del dipendente (come ad esempio, il compimento di una rapina) che siano tali da incidere sull’elemento fiduciario del rapporto (Cass., 3.4.1990, n. 2683)
L’eventuale licenziamento del lavoratore determinato da una delle situazioni contemplate dall’art. 8 è qualificato come discriminatorio e comporta la reintegrazione del lavoratore, anche se dirigente, nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro (art. 18 st. lav.).
Artt. 2, 3, 4, 5, 6, 8 l. 20.5.1970, n. 300; d.lgs. 30.6. 2003 n. 196; deliberazione Garante privacy, 1.3.2007 n. 13.
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