conversione
Si chiama conversione la formazione, ottenuta senza aggiunta di affisso derivazionale, di una parola appartenente a una parte del discorso diversa da quella della base: per es., piacere verbo → (il) piacere nome; rosso aggettivo → (il) rosso nome; forte aggettivo → forte avverbio; abbasso verbo → abbasso! interiezione. La conversione può essere quindi definita tecnicamente un «processo di transcategorizzazione» non segnalato da marche affissali.
Alcuni studiosi usano, invece di conversione, le denominazioni derivazione zero o suffissazione zero, ritenendo che la formazione del derivato sia dovuta all’aggiunta di un affisso con funzione e significato analoghi ad altri presenti nella lingua ma privo di significante (vale a dire un affisso zero), secondo un processo analogico che considera il nome arrivo derivato da arrivare, come i derivati suffissali pubblicazione, funzionamento, candidatura sono derivati dei verbi pubblicare, funzionare, candidare (Don 1993).
La formazione di una parola nuova omofona e omografa di una già esistente è un fenomeno molto comune nelle lingue del tipo isolante (inglese, cinese), che fanno uso scarso o nullo di affissi. In inglese è infatti un procedimento comune formare nomi da verbi e verbi da nomi senza affissi: hammer «martello» → to hammer «martellare», to cheat «imbrogliare» → cheat «imbroglione». In italiano, lingua di tipo flessivo (➔ flessione), il procedimento di conversione è meno frequente; inoltre la parola derivata si differenzia di solito da quella di base per gli affissi flessivi impiegati: telefon-o → telefon-a-re, spar-a-re → spar-o. Si confrontino a riprova l’inglese stop «fermata» / to stop «fermare» con i corrispondenti italiani stop / stoppare.
I più evidenti fenomeni di conversione dell’italiano riguardano la formazione di nomi a partire da verbi e viceversa, dato che hanno come conseguenza l’assegnazione a classi flessive diverse (es. valicare → valico; pascolo → pascolare) e una chiara differenziazione semantica e funzionale (➔ deverbali, nomi). La conversione di nomi a partire da aggettivi e viceversa è un fenomeno più diffuso ma meno evidente e più sfumato, dato che gli aggettivi e i nomi appartengono alle stesse classi flessive; nella conversione in nomi è comunque necessaria l’assegnazione di genere: statale → (la) statale, detergente → (il) detergente.
È particolarmente difficile porre un confine netto tra conversione e fenomeni di estensione semantica quando le due parole appartengono alla stessa parte del discorso, come nel caso di nomi di prodotti alimentari formati a partire da ➔ toponimi: Gorgonzola → gorgonzola, Marsala → marsala. In genere si riconosce l’operare del processo di conversione anche all’interno della stessa parte del discorso, laddove vi sia un cambio di classe flessiva (per es., la mela / il melo, la banana / il banano: ➔ genere) o laddove la relazione fra le due parole possa essere espressa anche da suffissi (per es., statistica «disciplina» → statistico «studioso che pratica tale disciplina»; cfr. epigrafia / epigrafista).
Anche nel caso di nomi derivati da aggettivi non è facile definire quali fenomeni rientrino nell’ambito della conversione, dato che gli aggettivi e i nomi si inquadrano nelle stesse classi flessive, e che molti passaggi categoriali possono esser spiegati come ellissi della testa del sintagma nominale: la (strada) provinciale, la (squadra) nazionale, il (genere) comico, il (territorio) cagliaritano. Tali casi andrebbero classificati come processi di natura sintattica, anche se la frequenza e la polisemia di alcuni nomi deaggettivali (per es., la prima, intesa come classe scolastica, classe in mezzi di trasporto, rappresentazione artistica, marcia di un veicolo, ecc.) ne attestano la piena natura lessicale.
In assenza di marche esplicite, il passaggio di una parola da una parte del discorso a un’altra può essere verificato in base alle proprietà distribuzionali, cioè ai contesti di occorrenza tipici della categoria di arrivo. Dal momento che, ad es., gli ➔ aggettivi qualificativi si caratterizzano per accordo in genere e numero con il nome modificato, graduabilità al comparativo e al superlativo, possibilità di formare avverbi col suffisso -mente, possibilità di occorrere in posizione pronominale, è opportuno sottoporre a questo tipo di test i nomi usati in funzione di modificatore di un altro nome. Secondo Thornton (2004a) gli aggettivi formati per conversione a partire da nomi sono ➔ etnici come argentino, toscano, svizzero e parole terminanti in -ista che indicano aderenti a movimenti di pensiero o politici (simbolista, socialista); frequente anche la conversione dai derivati in -tore e -trice. Invece parole come panna, rosa, salmone, anche se usati come modificatori di nomi per indicare colori, rispondono solo parzialmente alle caratteristiche degli aggettivi.
Applicando lo stesso criterio, possono essere attribuiti a conversione la formazione di nomi deaggettivali che descrivono proprietà salienti dal punto di vista fisico, psicologico o del comportamento sociale (un timido, uno sfacciato, un maleducato), e altri, come quelli tratti da aggettivi denotanti colori (rosso, blu), e probabilmente la formazione di nomi di qualità al maschile per l’espressione di categorie astratte, quali ridicolo, sublime, privato (Rainer 1984; Thornton 2004b; ➔ nominalizzazioni).
La formazione di verbi per conversione avviene principalmente a partire da nomi, in misura minore da aggettivi e solo marginalmente a partire da avverbi (Grossmann 2004). I verbi appartengono per lo più alla prima coniugazione (la sola produttiva), oppure, in minoranza, alla terza (➔ coniugazione verbale). I verbi formati per conversione possono esprimere gli stessi significati dei verbi derivati per suffissazione (➔ denominali e deaggettivali, verbi) e hanno tutte le caratteristiche tipiche dei verbi (es. piena coniugabilità, struttura argomentale, ecc.).
A partire da nomi animati si hanno verbi come brucare, stregare; a partire da nomi concreti non animati, verbi che esprimono il risultato indicato nel nome di base (copiare, biscottare, fruttare), indicazioni locative (cestinare, foderare, grigliare, piastrellare, salare), l’impiego di strumenti (falciare, martellare, megafonare, spazzolare, telefonare, tornire, vangare); a partire da nomi astratti, verbi come: impressionare, meravigliare, menzionare, tormentare. Fra i verbi deaggettivali segnaliamo: attivare, fissare, freddare, mozzare, scurire, stancare, ubriacare, vuotare, zittire. I pochissimi verbi deavverbiali esprimono principalmente localizzazione (attraversare, indossare).
A partire da verbi si formano principalmente nomi. La conversione è segnalata da un cambio di classe flessiva (es. arrivare → arrivo, parcheggiare → parcheggio, ricoverare → ricovero). Il maggior numero di nomi è costituito da maschili in -o, i quali di norma sono nomi di azione (➔ azione, nomi di) e le regolari estensioni semantiche tipiche di questa classe (risultato dell’azione: disegno, taglio; strumento: cambio; luogo: incrocio). I verbi appartengono quasi esclusivamente alla coniugazione in -are; fra quelli derivati prevalgono quelli con il suffisso -eggiare (conteggiare → conteggio, palleggiare → palleggio, pareggiare → pareggio).
I nomi femminili in -a sono in numero minore e, a differenza dei maschili, di produttività dubbia; anche in questo caso prevalgono i nomi di azione (conquista, ricerca, sfida, sosta) e le estensioni semantiche già viste nei nomi maschili (risultato dell’azione: traccia; strumento: frusta, molla, sveglia; luogo: stiva). Ai nomi femminili derivati dal tema del presente vanno aggiunti quelli coincidenti con il femminile del participio passato (corsa, dormita, discesa, promessa, ecc.). Secondo Thornton (2004b) i nomi femminili formati per conversione vanno distinti da altri nomi deverbali simili nella forma e nel significato, i quali derivano invece dal troncamento del suffisso deverbale (soprattutto -zione), e sono usati specialmente nel linguaggio burocratico (bonifica ~ bonificazione, qualifica ~ qualificazione, specifica ~ specificazione, determina ~ determinazione, ecc.).
Già nella denominazione, il participio manifesta il suo carattere ibrido, la capacità di ‘partecipare’, di condividere caratteristiche proprie sia dei verbi sia dei nomi (➔ participio).
Dal participio presente si possono formare per conversione lessemi usati sia come aggettivi (affascinante, deludente, interessante, obbediente, sporgente) sia come nomi (es. commerciante, stampante), e lessemi che possono essere usati con entrambe le funzioni (prioritariamente aggettivi: ricostituente; o prioritariamente nomi: insegnante). La funzione aggettivale prevale su quella nominale. Fra i nomi prevalgono quelli di agente (aspirante, cantante, combattente, credente, militante), ma sono frequenti anche quelli di strumento (lampeggiante, pulsante, stampante). A favore dell’ipotesi della conversione, e non della derivazione da verbi di nomi e aggettivi tramite il suffisso -nte, stanno: il fatto che, nelle parole formate a partire da verbi della seconda coniugazione, la vocale che precede il verbo è -e-, a differenza di quel che accade nella derivazione suffissale dove è -i- (battere / battente / battitore, intendere / intendente / intenditore); il fatto che i nomi di agente in -nte non sono soggetti alle restrizioni individuate per i derivati in -tore (Ricca 2004).
A partire dal participio passato dei verbi (specialmente quelli con valore risultativo) si possono formare aggettivi per conversione (colorato, divorziato, educato, fiorito, morto, pulito, zuccherato), i quali a loro volta possono essere sostantivati al pari degli altri aggettivi. Si segnala un piccolo numero di nomi maschili denotanti versi di animali (barrito, bramito, grugnito).
Particolarmente discusso è il caso dell’➔infinito (Skytte & Salvi 1991), che oltre alle caratteristiche tipiche dei verbi (è flesso per il tempo, regge il complemento oggetto, è modificato da un avverbio: il vedere / l’avere visto spesso la televisione), può manifestare caratteristiche tipiche dei nomi: essere preceduto da articolo o da dimostrativi, avere un complemento preceduto da di (i doveri del cittadino) (➔ sostantivato, infinito). La possibilità di essere usati al plurale, e quindi di essere flessi come nomi, è il risultato di un processo di lessicalizzazione che riguarda una ventina di lessemi tratti da verbi di altissima frequenza (es. l’essere / gli esseri, il potere / i poteri, il dovere / i doveri, il piacere / i piaceri). L’uso nominale del gerundio riguarda un ridottissimo numero di nomi (per es., crescendo).
La conversione da avverbi a nomi riguarda pochi casi non sistematici (bene → (il) bene; peggio → (il) peggio); più regolari sono il passaggio da avverbi a preposizioni (contro, dietro, sotto) e la formazione di avverbi da aggettivi (es. spesso, forte, piano; giusto, poco, tanto; lontano, vicino, sùbito). Possono essere considerati casi di conversione anche la formazione di interiezioni a partire da parole appartenenti a diverse parti del discorso (accidenti! da nome, viva! da verbo, bene! da avverbio, bravo! da aggettivo).
Mancando un incremento di corpo fonico prodotto dall’aggiunta di un affisso derivazionale, nella conversione non è facile identificare quale dei due lessemi sia la base e quale il derivato.
Il problema riguarda più la descrizione linguistica che la coscienza del parlante, anche se la direzione della derivazione può avere conseguenze sull’uso della lingua: ad es., se un nome di azione è formato per conversione da un verbo, di norma viene impedita la formazione di altri nomi deverbali suffissati (censurare → censura, e non censurazione o censuraggio); il fenomeno non ha invece luogo nel caso di verbi denominali (sale → salare → salatura).
Oltre al ricorso a indicazioni etimologiche sulla priorità di attestazione (non sempre affidabili), i criteri più usati per ricostruire la direzione della derivazione sono la generalità di significato, la frequenza d’uso e l’esistenza di costruzioni analoghe (Iacobini 2000).
Don, Jan (1993), Morphological conversion, Utrecht, LEd.
Grossmann, Maria (2004), Conversione in verbi, in Grossmann & Rainer 2004, pp. 534-546.
Grossmann, Maria & Rainer, Franz (a cura di) (2004), La formazione delle parole in italiano, Tübingen, Niemeyer.
Iacobini, Claudio (2000), Base and direction of derivation, in Morphology. An international handbook on inflection and word formation, edited by G. Booij, C. Lehmann & J. Mugdan, Berlin - New York, De Gruyter, 2 voll., vol. 1º, pp. 865-876.
Rainer, Franz (1984), Die Substantivierung ‘menschlicher’ Adjective im Italienischen, «Italienische Studien» 7, pp. 141-150.
Ricca, Davide (2004), Il suffisso -nte, in Grossmann & Rainer 2004, pp. 430-435.
Skytte, Gunver & Salvi, Giampaolo (1991), L’infinito come testa del sintagma nominale (infinito con l’articolo o altro determinante), in Grande grammatica italiana di consultazione, a cura di L. Renzi, G. Salvi & A. Cardinaletti, Bologna, il Mulino, 1988-1995, 3 voll., vol. 2º (I sintagmi verbale, aggettivale, avverbiale. La subordinazione), pp. 559-569.
Thornton, Anna M. (2004a), Conversione in aggettivi, in Grossmann & Rainer 2004, pp. 526-533.
Thornton, Anna M. (2004b), Conversione in sostantivi, in Grossmann & Rainer 2004, pp. 505-526.