Convessità
La convessità è un concetto della matematica elementare; le parole concavo e convesso fanno parte del linguaggio quotidiano. Eppure questo semplice concetto, unito ad altre proprietà matematiche spesso (anche se non sempre), egualmente semplici, si è dimostrato talmente importante da diventare uno strumento chiave della matematica del XX secolo.
In matematica si distingue tra problemi lineari e non lineari. Mentre i problemi lineari sono facili da descrivere e qualche volta da risolvere, non è così per quelli non lineari. Spesso però, quando i problemi non lineari sono convessi si può sperare di risolverli, o almeno di ricavare qualche loro proprietà: i matematici dicono che la convessità è l'estrema propaggine della linearità.
In uno spazio lineare X un insieme K è detto convesso se presi due punti k1 e k2 appartenenti a K il segmento che li congiunge, e cioè l'insieme dei punti {tk1+(1−t)k2 tali che t ∈ [0,1]}, è tutto contenuto in K. Per esempio nel piano sono insiemi convessi le comuni figure geometriche come triangoli, quadrati e cerchi, così come lo sono i loro analoghi in spazi di dimensione maggiore di due.
Un tema ricorrente nello sviluppo della matematica è il tentativo di ricondurre a pochi grandi principi ispiratori la molteplicità delle tecniche e delle idee usate per risolvere i diversi problemi che si pongono nella descrizione della natura. In questo procedimento, l'idea di convessità ha un ruolo rilevante.
Tale ruolo è duplice: ve ne è uno che chiameremo combinatorio, il quale permette di dimostrare proprietà importanti negli spazi a dimensione finita come il famoso teorema di punto fisso. Questo risultato straordinario viene dall'unione di due concetti elementari, la convessità di un insieme e la continuità di una funzione. Vi è poi, negli spazi a dimensione infinita come per esempio tutti gli spazi di funzioni, un ruolo di tipo topologico della convessità ugualmente importante. In questi spazi a dimensione infinita gli insiemi chiusi e limitati non sono necessariamente compatti e anzi per ottenere la compattezza, necessaria alle dimostrazioni di esistenza di soluzioni, si deve ricorrere a topologie indebolite, ovvero con meno aperti, in cui le proprietà che caratterizzano la compattezza stessa siano più facilmente verificate. L'avere meno aperti, però, significa anche avere meno chiusi ed è qui che la convessità gioca un ruolo essenziale: se un insieme convesso è chiuso in norma allora è chiuso per la topologia debole.
Quindi, nel passare dalla famiglia dei chiusi in norma a quella dei chiusi debolmente non si perdono gli insiemi convessi.
Oltre agli insiemi convessi, si parla anche di funzioni convesse. Una funzione a valori reali V definita su un sottoinsieme di uno spazio lineare X viene detta convessa se per ogni x e y nel dominio della funzione e per ogni λ con 0≤λ≤1 si ha V(λx+(1−λ)y)≤λV(x)+(1−λ)V(y).
Il legame tre i due concetti di convessità, per gli insiemi e le funzioni, può anche esprimersi dicendo che l'epigrafico di una funzione convessa (cioè l'insieme dei punti che stanno sopra il grafico) è un insieme convesso. Le funzioni convesse hanno proprietà di regolarità sorprendenti.
Uno dei temi sviluppati nel XX sec. è il tentativo di ridurre a un unico schema (applicazione di teoremi di punto fisso in spazi funzionali) i diversi metodi di dimostrazione dell'esistenza di soluzioni di equazioni differenziali o integrali.
Sia f una funzione (o, come spesso si dice, mappa o trasformazione). Si dice che un punto P è fisso (o unito) per f se f(P)=P. Un teorema di punto fisso dà delle condizioni che assicurino l'esistenza di (almeno) un punto fisso. Nel 1912 Lutzen E. J. Brouwer pubblicava nella rivista "Mathematische Annalen" il seguente teorema di punto fisso, che riguarda gli n-simplessi e cioè gli analoghi dei triangoli in dimensione n. L'immagine di un insieme viene detta omeomorfa se la trasformazione che manda un insieme nell'altro è biunivoca e sia la mappa diretta sia la sua inversa sono continue.
Teorema (Brouwer). - Sia X uno spazio a n dimensioni. Ogni mappa continua che trasformi l'immagine omeomorfa di un n-simplesso in sé ha un punto fisso.
Questo risultato ha il seguente immediato corollario.
Teorema. - Ogni mappa continua che trasformi un sottoinsieme convesso, limitato e chiuso di uno spazio lineare a dimensione finita in sé stesso ammette almeno un punto fisso.
È in questa seconda formulazione che il risultato di Brouwer ha avuto maggiore influenza sugli sviluppi dell'analisi matematica: è da notare come un teorema di tale rilevanza sia ottenuto combinando due nozioni elementari come la convessità dell'insieme che è trasformato in sé stesso e la continuità della trasformazione f.
Eppure, per poter effettivamente applicare un teorema di punto fisso al fine di dimostrare l'esistenza di soluzioni di equazioni differenziali, occorre che esso sia applicabile a spazi di funzioni, spazi astratti cioè i cui 'punti' siano delle funzioni. Così, una soluzione di un problema di Cauchy per una equazione differenziale ordinaria del tipo
[1] formula
può essere vista come un punto fisso di una trasformazione del tipo x→T(x), con T definita dalla relazione T(x)(t)=x0+∫t0(r, x(r))dr.
Lo studio degli spazi lineari a dimensione infinita, o analisi funzionale secondo la definizione proposta da Vito Volterra, è una caratteristica dello sviluppo dell'analisi matematica nel XX secolo. Già nel 1922, dieci anni dopo l'articolo di Brouwer, i matematici Garrett D. Birkhoff e Oliver D. Kellogg avevano aperto il loro articolo Invariant points in function spaces con queste parole: "I teoremi di esistenza in analisi hanno a che fare con trasformazioni funzionali. Questo suggerisce che tali teoremi di esistenza possano essere ottenuti da noti risultati sulle trasformazioni puntuali in spazi a due o tre dimensioni con generalizzazioni, prima a spazi di dimensione n, poi a spazi di funzioni con un procedimento di limite". Nell'articolo, gli autori mostrano l'applicabilità del loro procedimento facendo vedere che (espresso in linguaggio moderno) ogni sottoinsieme compatto e convesso delle sfere unitarie di C([0,1]) e di L2([0,1]) ha la proprietà del punto fisso, ovvero ogni trasformazione continua dell'insieme in sé ammette un punto fisso. Le costruzioni sono specifiche per i due casi: nel primo si approssima un insieme di funzioni equilimitate ed equicontinue per mezzo di interpolanti affini a tratti; nel secondo si approssima un insieme di funzioni a quadrato sommabile, che abbiano una fissata convergenza della serie dei quadrati dei coefficienti di Fourier, con funzioni ottenute da somme finite di Fourier. In entrambi i casi si usano specifici criteri che forniscono la (pre)compattezza di certi insiemi di funzioni per ridursi al caso di dimensione finita: la compattezza, come nozione necessaria da unire alla convessità e alla continuità per ottenere risultati simili a quello di Brouwer in dimensione infinita, fa la sua comparsa proprio nell'articolo di Birkhoff e Kellog, anche se in forma poco esplicita. La strada da percorrere per fare del teorema di punto fisso uno strumento generale era chiaramente indicata. Il matematico polacco Juliusz P. Schauder in alcuni articoli si dedicava alla dimostrazione di un teorema di punto fisso in spazi astratti. Dopo alcuni risultati parziali in cui il teorema veniva dimostrato per spazi funzionali aventi particolari proprietà, nel 1929, egli pubblicava nel nuovo giornale matematico "Studia Mathematica" fondato in quell'anno a Lwow da Stefan Banach e Hugo Steinhaus un teorema che presentava in modo astratto e generale quello che Birkhoff e Kellog avevano ottenuto in due casi speciali. In questo teorema si fa riferimento a uno spazio normato, uno spazio astratto in cui a ogni punto sia assegnata una norma che ne misura la distanza dall'origine e ha proprietà analoghe a quella del valore assoluto per i numeri reali.
Teorema (Schauder). - In uno spazio normato, una mappa continua che trasformi un convesso e compatto non vuoto in sé ha un punto fisso.
La semplicità e l'eleganza dell'enunciato di Schauder sono notevoli. Un'ultima estensione a spazi più generali restava da fare: la dimostrazione della validità del teorema di punto fisso in spazi localmente convessi è dovuta a Andrej N. Tychonov nel 1935.
Questa estensione è molto importante per le applicazioni, poiché permette l'uso di topologie deboli negli spazi normati. In questo risultato si parla di spazi localmente convessi, cioè di spazi in cui esista una base di intorni che siano convessi. Si ha il risultato:
Teorema (Tychonov). - Sia K un convesso compatto non vuoto in uno spazio localmente convesso. Ogni mappa continua f: K→K ha un punto fisso.
Le estensioni a spazi sempre più generali del teorema di punto fisso non furono le sole direzioni in cui si mosse la ricerca matematica sulle proprietà delle trasformazioni di insiemi in sé. Nel 1933, su "Fundamenta Mathematica", Karol Borsuk pubblicava un risultato in dimensione finita più forte del teorema di Brouwer. Per enunciarlo, ricordiamo che due punti x1 e x2 sono detti antipodali se x1=−x2. In ℝn, poniamo Sn-1={x tali che ∥x∥=1} (con questa definizione, Sn è un sottoinsieme di ℝn). Vale dunque il seguente teorema:
Teorema. - Ogni mappa continua f: Sn-1→ℝn manda almeno una coppia di punti antipodali nello stesso punto.
Questo risultato è equivalente a un teorema sui ricoprimenti chiusi di Sn e dimostrato in quegli stessi anni da Lazar A. Lusternik e Lev G. Schnirelman (1930). Un teorema che porta alla nozione di categoria, così importante per gli sviluppi dell'analisi non lineare nell'ultimo quarto del XX secolo.
In questo ambito, tuttavia, i risultati più noti come quelli di Schauder e Tychonov fanno riferimento a insiemi convessi. Ciò è dovuto da un lato alla semplicità della nozione di convessità (o alla difficoltà di estendere nozioni di topologia algebrica in dimensione infinita), dall'altro al forte legame che intercorre tra la convessità di un insieme e il suo essere chiuso (a maggior ragione, compatto) nelle topologie in cui questi risultati sono più spesso applicati.
Le applicazioni di un teorema di punto fisso richiedono che l'insieme che è trasformato in sé stesso e, nel caso di mappe multivoche, le immagini dei singoli punti siano dei chiusi. La topolgia debole ha meno aperti (e quindi meno chiusi) di quella della norma e non è facile mostrare che un insieme è chiuso in questa topologia; si ha però il seguente risultato, pubblicato da Stanislaw Mazur nel 1930.
Teorema. - Sia E uno spazio normato. Un sottoinsieme convesso K di E è chiuso per la topologia debole di E se e solo se è chiuso nella topologia della norma.
Questo teorema viene spesso enunciato dicendo che, data una successione che converge debolmente a un limite, esiste una successione di combinazioni convesse di punti della successione che converge in norma allo stesso limite. Così, se abbiamo una successione di punti appartenenti a un convesso chiuso in norma che converge debolmente a un limite, il punto limite apparterrà allo stesso convesso.
Un problema analogo si presenta nel calcolo delle variazioni, in cui si tratta di minimizzare funzionali del tipo
[2] formula
con opportune condizioni al bordo. Imponendo condizioni di crescita per la lagrangiana L, si ottiene l'esistenza di una successione minimizzante che converge debolmente a una funzione limite. Si vuole che il funzionale, calcolato lungo la funzione limite, abbia valore minore o eguale al limite dei valori calcolati lungo la successione minimizzante: in questo caso si dice che il funzionale è debolmente semicontinuo inferiormente. Si ha il risultato che questo è possibile se e solo se la lagrangiana L è convessa rispetto alla terza variabile.
Le funzioni convesse talvolta non sono ovunque differenziabili ma possono ammettere solo una forma debole di differenziabilità, cioè l'esistenza di un sottodifferenziale. La mappa che a un punto associa il sottodifferenziale in quel punto è a valori non nei punti stessi, ma nei sottoinsiemi (convessi) dello spazio. Questa è una delle motivazioni per lo studio delle funzioni multivoche, mappe che a un punto generico associano comme immagine non un altro punto ma un insieme. Uno dei problemi naturali riguardanti le mappe multivoche consiste nel chiedersi se esse ammettano funzioni univoche dotate di particolari proprietà (come la misurabilità o la continuità) il cui grafico sia contenuto nel grafico di una mappa multivoca data. Tali funzioni sono dette selezioni e la loro esistenza dipende dalle proprietà delle mappe multivoche stesse. Per esempio, si possono dare diverse definizioni di continuità o semicontinuità per tali mappe: la naturale generalizzazione della definizione di funzione continua, per cui le immagini inverse di aperti sono aperte, porta al concetto di semicontinuità inferiore per mappe multivoche. Per mappe semicontinue inferiormente e con immagini sottoinsiemi chiusi e convessi non vuoti di uno spazio completo, vale allora il seguente teorema di selezione, dimostrato da Ernest Michael nel 1963 (in ipotesi più generali sugli spazi X e Y).
Teorema. - Sia X uno spazio metrico, Y uno spazio normato completo (uno spazio di Banach). Sia F una mappa semicontinua inferiormente da X nei sottoinsiemi chiusi, convessi e non vuoti di Y. Allora F ammette una selezione univoca continua f: X→Y.
Una interessante estensione del teorema di Schauder al caso di mappe multivoche semicontinue superiormente veniva presentata da Shizuo Kakutani nel 1941. Per gli scopi del teorema che stiamo per enunciare, diremo che una mappa è semicontinua superiormente se il suo grafico è un sottoinsieme chiuso dello spazio prodotto (in casi più generali questa definizione andrebbe modificata). In particolare, l'immagine di ogni punto è un sottoinsieme chiuso dello spazio immagine. Diremo che P è un punto fisso per la mappa multivoca F se si ha che P∈F(P), cioè se P appartiene all'insieme di punti sua immagine attraverso F.
Teorema (Kakutani). - Sia F una mappa multivoca, a valori convessi non vuoti e semicontinua superiormente. Se F trasforma un sottoinsieme convesso chiuso e limitato S di uno spazio lineare a dimensione finita nei suoi sottoinsiemi, esiste un punto P in S tale che P∈F(P).
Le estensioni di questo risultato a spazi di Banach e a spazi localmente convessi, parallele a quelle di Schauder e Tychonoff per il teorema di Brouwer, venivano ottenute rispettivamente da H. Frederich Boheneblust e Samuel Karlin nel 1950 e indipendentemente da Irving L. Gliksberg e da Ky Fan nel 1952. Oggi queste estensioni multivoche del teorema di Brouwer sono ottenute semplicemente approssimando (in un senso opportuno) mappe multivoche semicontinue superiormente con mappe univoche continue. Per trasferire le proprietà delle mappe univoche continue alle mappe multivoche si cercherà un'approssimazione non in senso puntuale, ma solo richiedendo che il grafico della mappa univoca sia contenuto in un intorno del grafico (che potrebbe essere molto più grande) della mappa multivoca. In questo modo non solo i teoremi di punto fisso, validi per mappe univoche continue, vengono passati alle mappe multivoche, ma lo sono anche altre proprietà importanti come il grado topologico.
I risultati del tipo del teorema di Kakutani, che richiedono che le immagioni dei punti siano dei convessi, sono stati poi generalizzati a mappe le cui immagini siano insiemi più generali. Anche in questo caso però valgono le considerazioni sulla convessità fatte sopra, anzi in questo caso sono ancora più evidenti. I singoli insiemi, immagini dei punti attraverso la mappa F, devono avere proprietà di tipo geometrico, come la convessità o altre proprietà opportune, descrivibili attraverso il linguaggio della topologia algebrica. In più, questi insiemi devono risultare chiusi. Sarà però molto difficile, negli spazi funzionali, dimostrare la loro chiusura se non si è posta l'ipotesi di convessità che permette l'utilizzo del teorema di Mazur. Quindi l'applicabilità pratica di questi risultati è dovuta al duplice ruolo che la convessità vi gioca: un ruolo di tipo combinatorio che fornisce l'esistenza di punti fissi in dimensioni finita e un ruolo di tipo topologico che permette di dimostrare la chiusura di insiemi in spazi di funzioni.
L'esistenza di punti fissi è strettamente legata a quella di soluzioni di disuguaglianze variazionali. Per esempio, si consideri il punto di minimo x0 di una funzione differenziabile ϕ su di un insieme K di ℝn convesso, chiuso e limitato. Allora si ha che vale le disuguaglianza
[3] 〈∇ϕ(x0),x−x0〉 ≥ 0, per ogni x∈K.
Nell'ambito delle disuguaglianze variazionali, viene data direttamente una mappa A a valori nello spazio duale di X, l'analoga della mappa ∇ϕ, definita su un sottoinsieme K. Il problema che ci si pone, in generale, è quello di cercare se esistono soluzioni a una disuguaglianza del tipo
[4] 〈A(x0),x−x0〉 ≥ 0, per ogni x∈K.
Per esempio, nel caso del calcolo delle variazioni, in cui si minimizza un funzionale del tipo
[5] formula
con opportune condizioni al contorno, K è tutto lo spazio X e la precedente disuguaglianza si riduce a un'eguaglianza, cioè all'equazione di Euler-Lagrange:
[6] formula
per ogni u(∙) in X.
Il punto di vista delle disuguaglianze variazionali è quindi questo: non si cerca di dimostrare direttamente l'esistenza di soluzioni di un problema di minimo, come sarebbe il caso nel metodo diretto del calcolo delle variazioni, ma piuttosto si cerca di dimostrare che le condizioni necessarie associate hanno soluzioni. In spazi a dimensione finita, un primo risultato generale fu ottenuto nel 1965 da Philip Hartman e Guido Stampacchia.
Teorema. - Sia K un insieme compatto e convesso di ℝn e sia f: K→ℝn continua. Allora esiste x0 in K tale che
[7] 〈f(x0),x−x0〉≥0, per ogni x∈K.
Questo teorema usa il teorema di punto fisso di Brouwer nella dimostrazione ed è anzi a esso equivalente.
La motivazione per l'estensione dei teoremi di esistenza di soluzioni di disuguaglianze variazionali agli spazi a dimensione infinita viene per lo più da problemi alle derivate parziali. In un opportuno spazio di Sobolev W1,p(Ω), si cercano soluzioni al problema
[8] −Δu=f per x∈Ω, u=g per x∈∂Ω.
Si interpreta l'equazione precedente in forma debole, dicendo che una soluzione u0 dell'equazione soddisfa all'eguaglianza variazionale
[9] formula,
per ogni ϕ∈C0∞(Ω).
Essa esprime un caso molto particolare del seguente problema generale. Sono dati uno spazio di Hilbert H, un sottoinsieme convesso e chiuso K di H, una forma bilineare e continua a da H×H in ℝ e infine f, un elemento del duale di H. Si cerca una soluzione u0 del problema:
[10] a(u0,u−u0)≥f(u−u0), per ogni u∈K.
Nel 1964 Stampacchia otteneva il seguente risultato: il problema precedente ha soluzione se la forma a è coercitiva, nel senso che esiste una costante M>0 tale che a(u,u)≥M∥u∥2. Questo risultato permette di ottenere l'esistenza di soluzioni, per esempio, per problemi contenenti ostacoli. La minimizzazione di funzionali che sono solo convessi nella variabile gradiente di u, invece che quadratici, porta a considerare disuguaglianze variazionali con forme che non sono lineari in u ma solo monotone. Negli anni Sessanta un grande impulso all'utilizzo degli operatori monotoni per lo studio di problemi non lineari venne dai lavori di Felix Browder, George J. Minty, Eduardo H. Zarantonello oltre che dello stesso Stampacchia. Una mappa A da uno spazio X al suo duale X′ è detta monotona se, per ogni u e v nel dominio di A, (Au−Av, u−v)≥0. La mappa A è detta coercitiva su K, un sottoinsieme chiuso nel dominio di A, se esiste ϕ in K tale che
[11] formula
quando ∥u∥→∞ con u in K. Un risultato tipico è il seguente, ottenuto indipendentemente e contemporaneamente da Browder e da Hartman e Stampacchia nel 1965.
Teorema. - Sia X uno spazio di Banach riflessivo, K un sottoinsieme di X chiuso, convesso e non vuoto. Sia A una mappa monotona definita su K, continua nell'intersezione di K con ogni sottospazio a dimensione finita di X. Inoltre, ove K non sia limitato, si assuma che la mappa A sia coercitiva su K. Allora esiste una soluzione u0 delle disuguaglianza variazionale
[12] 〈Au0,u−u0〉 ≥ 0, per ogni u∈K.
Una funzione a valori reali V definita su di un sottoinsieme di uno spazio lineare X viene detta convessa se per ogni x e y nel suo dominio e per ogni λ con 0≤λ≤1 si ha
[13] V(λx+(1−λ)y) ≤ λV(x) + (1−λ)V(y).
Questa definizione implica in particolare che il dominio di una funzione convessa deve essere convesso. In ℝn le funzioni convesse sufficientemente liscie possono essere caratterizzate in termini della matrice delle derivate seconde: una funzione è convessa se e solo se la forma quadratica
14] formula
è non negativa.
Dalla seconda metà del XX sec. sono state molto usate funzioni convesse a valori estesi e cioè a valori in [−∞,+∞] (la definizione di funzione convessa ha senso anche in questo caso poiché non si incorre nella forma indeterminata +∞ −∞). In questo caso si considera la funzione come definita su tutto lo spazio e si chiama dominio effettivo l'insieme dei punti su cui prende valore finito. In ℝn si ha che una funzione convessa V è continua, addirittura, localmente lipschitziana, in ogni punto interno al suo dominio effettivo. Quindi nei punti interni al suo dominio effettivo V è differenziabile quasi ovunque, secondo il teorema di Rademacher. Però, una funzione convessa ha in più, rispetto a una generica funzione localmente lipschitziana, il fatto che anche le derivate seconde esistono quasi ovunque, come enunciato dal seguente teorema, dimostrato da Aleksander D. Aleksandrov nel 1939.
Teorema. - Sia V: ℝn→ℝ convessa. Allora per quasi ogni x in ℝn esiste la derivata seconda di V in x.
Per le funzioni convesse torna utile un altro concetto di derivabilità. Il sottodifferenziale ∂V di V in un punto x del dominio effettivo viene definito come l'insieme degli y in X′ tali che
[15] V(x+ξ)≥V(x)+〈y,ξ〉, per ogni ξ∈X.
Non ogni punto del dominio effettivo di V ammette sottodifferenziale: si mostra però che tale sottodifferenziale è non vuoto per ogni punto nell'interno relativo del dominio effettivo di V. Si mostra pure, ed è una proprietà fondamentale, che per V funzione convessa (a valori estesi) semicontinua inferiormente e propria, cioè non identicamente =+∞, il sottodifferenziale ∂V è un operatore massimale monotono.
Il grafico di una funzione convessa definita su ℝ può essere vista come un luogo di punti o come un inviluppo di tangenti. Così, l'epigrafico di una funzione convessa è l'intersezione di tutti gli iperpiani determinati dalle funzioni affini che le stanno sotto.
Questa idea geometrica porta all'introduzione di una funzione f*, la polare o coniugata di Fenchel di una data funzione convessa f. Se f è definita su X, si definisce f* su X′ come
[16] formula
così che f e la sua coniugata sono legate dalla disuguaglianza di Fenchel
[17] 〈p,x〉≤f(x)+f*(p), per ogni x∈X, p∈X′
Dalla definizione, segue che f*(p) è l'estremo superiore di un insieme di funzioni affini e, quindi, è una funzione convessa. Si mostra che f* (che può essere a valori estesi anche se f non lo è) è sempre semicontinua inferiormente e che la doppia coniugata f** è la più grande funzione convessa e semicontinua inferiormente che sia minore o eguale a f. Sia f convessa e semicontinua inferiormente, allora si ha il seguente risultato:
Teorema. - Le seguenti relazioni sono fra loro equivalenti:
a) f*(p)=〈p,x〉−f(x);
[18] b) p∈∂f(x);
c) x∈∂f*(p).
Il secondo e terzo punto del precedente teorema mostrano come il sottodifferenziale della polare inverta la mappa x→∂f(x). Per una funzione convessa e liscia, cioè differenziabile, definita sulla retta reale si vede subito che la mappa che associa a un punto il valore della derivata in quel punto è crescente, o almeno non decrescente, così da risultare invertibile in senso lato, accettando che l'inversa sia ancora una funzione crescente ma eventualmente a valori multivoci. Il teorema precedente mostra che lo stesso vale in generale e fornisce una specifica rappresentazione per l'inversa della mappa x→∂f(x), ovvero p→∂f*(p).
Il seguente teorema sul codominio di una misura vettoriale fu pubblicato da Aleksandr M. Lyapunov nel 1940. Per gli eventi bellici fu conosciuto in occidente solo più tardi e versioni più deboli furono riscoperte da K.R. Buch nel 1945 e da Paul R. Halmos nel 1947. Sia data una misura positiva μ su di una σ-algebra ∑ di uno spazio X. Un insieme E∈∑ è detto un atomo se μ(E) è positivo e ogni sottoinsieme di E in ∑ ha misura o nulla o uguale a μ(E). Quindi E è un atomo se non può essere spezzato in sottoinsiemi aventi misura propriamente minore. Una misura è non atomica se non ammette atomi. Per esempio, la consueta misura di Lebesgue è non atomica. Nel caso di una misura ν a valori reali (cioè non necessariamente positivi o nulli), ci si riferisce nella definizione di atomo alla misura variazione totale ∣ν∣. Il risultato di Lyapunov è il seguente:
Teorema. - Siano ν1,ν2,…,νn misure a valori reali non atomiche su una σ-algebra ∑. Si consideri
[19] ν(E)=(ν1(E),…,νn(E))
come una funzione con dominio ∑ e codominio in ℝn. Allora l'immagine è un sottoinsieme compatto e convesso di ℝn.
Introducendo la misura m somma delle variazioni totali di νi, per il teorema di Radon Nicodym esistono funzioni hi tali che νi(E)=∫Ehidm. Ogni funzione hi è integrabile su X per la misura m. In particolare, introducendo il vettore h le cui componenti sono hi, si ha che, per ogni λ reale compreso tra 0 e 1, esiste un Eλ tale che
[20] λ∫Xhdm=∫Eλhdm.
Ricordiamo che la precedente è un'uguaglianza tra vettori ed è in questa forma che spesso il teorema di Lyapunov viene utilizzato. Quindi il senso di questo teorema è il seguente: se si ha a che fare con integrali esiste sempre un po' di convessità, quella espressa dal teorema indipendentemente dalle ipotesi fatte sugli integrandi. Se questa convessità sia poi sufficiente o meno per gli scopi che ci si prefigge dipenderà dai casi specifici.
Un'applicazione del teorema di Lyapunov si trova nella dimostrazione dell'esistenza di un equilibrio in una economia di scambio i cui agenti formano uno spazio di misura privo di atomi (un continuo di agenti, secondo la terminologia di Robert J. Aumann). Si tratta di una terna (A,∑,ν) ove A è lo spazio degli agenti, ∑ la σ-algebra delle coalizioni e ν è una misura positiva tale che ν(A)=1. A ogni agente a di A è associata la relazioni di preferenza ≽ (che dipende da a); a essi è poi assegnata una dotazione iniziale, espressa da una funzione integrabile e(a). Si tratta di mostrare l'esistenza di un equilibrio, cioè di una allocazione x da A in ℝn (n è il numero delle merci che vengono scambiate) e di un vettore prezzi p in ℝn per cui: lo scambio sia possibile (nel senso che la domanda eguaglia la disponibilità), cioè
[21] ∫x(a)dν=∫edν;
(quasi) ogni agente a sia soddisfatto, cioè x(a) sia ottimale rispetto alle preferenze ≥ nell'insieme Bp(a)={x tali che 〈p, x〉≤〈p, e(a)〉}. Dai lavori di Aumann (1964-66) si ha l'esistenza di un equilibrio assumendo che la misura ν sia non atomica e applicando il teorema di Lyapunov, senza fare ipotesi speciali (come la convessità) sulla forma delle relazioni di preferenza, ipotesi che sarebbero di dubbia validità economica.
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